Küng è il responsabile dell’infiltrazione della cristologia eretica hegeliana nella Chiesa - Prima Parte (1/2)

 Küng è il responsabile dell’infiltrazione

della cristologia eretica hegeliana nella Chiesa[1]

 Prima Parte (1/2)

Luci e ombre 

Il 6 aprile scorso è morto il famoso teologo Hans Küng, fecondo scrittore, che fu perito del Concilio Vaticano II, ma andò soggetto a varie censure ecclesiastiche per la sua tendenza modernista, fino alla sospensione dall’insegnamento da parte della CDF a seguito della sua negazione del dogma dell’infallibilità pontificia.

Küng fu discepolo di Rahner e con lui è stato uno dei principali artefici dell’interpretazione modernista del Concilio, che suscitò per reazione il sorgere della Fraternità Sacerdotale San Pio X, anch’essa sostenitrice del carattere modernista delle dottrine del Concilio, con la differenza che mentre Küng se ne rallegrò, i lefevriani se ne dispiacciono.

La qualità del suo pensiero è data da una notevole cultura biblica, da una capacità di cogliere la concretezza delle situazioni, l’agire concreto delle persone, la fallibilità della conoscenza umana, la relatività delle opinioni, l’evoluzione delle dottrine, il variare dei climi storici, la diversità dei punti di vista, dei comportamenti e delle istituzioni nella società e nella Chiesa, nonché la diversità delle culture e delle religioni. Viva è la sua sensibilità morale con un forte bisogno di relazione umana e spirituale, che favorisca il dialogo, il confronto, i valori comuni, la collaborazione, la solidarietà fra gli uomini e il progresso umano e spirituale.

C’è il bisogno secondo Küng di una fede cristiana non avulsa dalla storia, non assente dal proprio tempo, non arretrata in vecchie posizioni, non irrigidita su cose discutibili, non conservatrice di valori superati, ma attiva ed operosa, incarnata nel presente, proiettata nel futuro, zelatrice della memoria storica, aliena dai moralismi farisaici, attenta ai bisogni attuali degli uomini, promotrice della libertà dei figli di Dio, concretamente e coraggiosamente impegnata nell’incarnare il Vangelo nella storia del proprio tempo, una fede non supina ed abitudinaria, ma criticamente vigilante, con l’occhio attento agli interessi della Chiesa, sempre aperta al nuovo, sempre pronta alla riforma ed obbediente alle iniziative dello Spirito.

Küng è indubbiamente benemerito del dialogo ecumenico con i luterani e i calvinisti, i cui frutti più cospicui furono i trattati sulla giustificazione[2], sull’Incarnazione[3] e sulla Chiesa[4]. Quello sulla giustificazione preparò il terreno alla Dichiarazione congiunta cattolico-luterana del 1999, che mostra un maggior interesse luterano per il valore delle opere, ma purtroppo manca ancora il riconoscimento da parte luterana del valore dei meriti soprannaturali.

Tuttavia il problema di fondo che fa sorgere la teologia di Küng è il concetto che egli si fa di Gesù Cristo, che è un concetto infetto dall’errore, in quanto conseguenza di un modo di pensare che rifugge dall’assumere posizioni nette ed univoche, ma che si mantiene, anche quando tratta dei temi più fondamentali dell’esistenza, della fede, del dogma, del cristianesimo, della Chiesa, in una posizione timida che lascia sempre aperta la posizione contraria. Salvo poi ad essere egli stesso contraddittoriamente intransigente in questo suo relativismo presentandolo come una certezza di principio.

I princìpi della sua teologia non sono di carattere metafisico, ma storicistico; nulla esiste di stabile ed immutabile, né sul piano della realtà né su quello del sapere. Non solo il mondo, ma Dio stesso muta. I dogmi della fede non sono immutabili, ma evolvono. Nulla esiste di definitivamente certo, ma tutto può sempre essere rimesso in discussione.

Influsso hegeliano

Questa incapacità o non volontà di esprimere un sì assoluto e un no assoluto, questo tenersi in mezzo fra il sì e il no deriva dall’assunzione dichiarata della gnoseologia hegeliana, la quale, come è noto, non ravvisa nella realtà nulla di immutabile, compreso Dio stesso. Hegel concepisce il vivente, compreso lo spirito e quindi Dio stesso, come un agente che nell’agire non mantiene la sua identità, ma muta, addirittura contraddicendo il suo essere precedente e negando se stesso nel porre il susseguente.

Küng sembra ignorare la proibizione evangelica di servire due padroni o l’obbligo fatto al cristiano di scegliere tra i due. Ora, però, l’etica cristiana è quanto di più opposto si possa immaginare dal tenere un piede su due staffe. Questo precetto si accompagna a quello di Gesù di opporre il sì al no e di non mescolarli assieme (Mt 5,37). E corrisponde al modello del Battista proposto da Cristo, in opposizione alle «canne sbattute dal vento» (Mt 11,7).

Invece, che etica viene fuori dall’impostazione storicistica di Küng? Che essa, immergendo totalmente alla maniera hegeliana il Vangelo nella storia, fa l’apologia dell’opportunismo e del trasformismo, che ora accettano, ora rifiutano il dogma a seconda delle convenienze e dei vantaggi del momento o, come egli dice, del «contesto storico».

Ma qual è la legge di questo trasformismo fatto passare per condotta del cristiano? È il fatto che l’azione vitale e spirituale, - e qui entra sempre in ballo Hegel -, è la posizione dell’antitesi da parte della tesi, antitesi che a sua volta nega se stessa per tornare tesi come sintesi di tesi-antitesi. Lo spirito, quindi, Dio compreso, non è al di sopra della contraddizione, del divenire, del mutare, del tempo, della storia e della materia, ma è contradditorio, diveniente, mutevole, temporale, storico e materiale.

Nel concetto, quindi, per Küng come per Hegel, si tratti di concepire le cose o si tratti di concepire Dio, l’identico coincide col diverso, l’essere col divenire, l’universale col singolare, l’eterno col temporale, lo spirituale col materiale. Il contenuto de conoscere non può essere un contenuto intellettuale universale astratto dal concreto, ma deve saper cogliere ed esprimere la spiritualità concreta, altrimenti non coglie la verità, non coglie la realtà. Il concetto, che di per sè è astratto e divide, col metodo della contraddizione dialettica del sì-no, diventa secondo Hegel concreto ed esso stesso diviene, così come diveniente e concreto è il reale, compreso Dio.

È interessante notare la differenza del rapporto di Küng e Rahner con Hegel. Küng non assume l’idealismo hegeliano, ma resta sostanzialmente un realista e un teista, benché gli piaccia lo storicismo. Distingue lo spirito finito dallo spirito infinto. Dio diviene e patisce, ma è distinto dall’uomo. L’uomo è deificato dalla grazia, ma è distinto da Dio. Küng si limita ad assumere lo storicismo hegeliano e quindi il divenire del concetto o la «fluidità del concetto», come dice Hegel. In Küng il dogma calcedonese resta salvo, pur con una sfumatura storicista hegeliana.

Rahner invece ha un maggior acume metafisico e quindi  è più vicino ad Hegel nel suo idealismo assoluto, e quindi sfocia nel panteismo: l’essere coincide col pensiero. Per Hegel l’Incarnazione comporta l’«unità della natura umana e della natura divina». Küng non giunge a tanto, benché sia la natura umana che quella divina siano soggette al divenire.

Rahner invece si avvicina di più ad Hegel perché per lui Dio è il vertice dell’autotrascendenza umana e l’uomo è la polarità opposta all’autoalienazione divina. Ma Rahner non va oltre in questa imitazione di Hegel. Infatti, mentre per Rahner l’Incarnazione è liberamente voluta da Dio, per Hegel è un processo logico dialettico necessario. In Rahner, come in Hegel, il dogma calcedonese non si salva, perché è negato l’atreptos (senza mutamento). Mentre però in Hegel si ha l’identità dialettica delle due nature, in Rahner l’una passa nell’altra o come innalzamento (l’uomo) o come abbassamento, kènosis (Dio).

Un concetto evoluzionista di Dio

Come Hegel, Küng teme che se si concepisce come immutabile l’essenza dello spirito, lo si veda come qualcosa di statico e di morto e si perda di vista la sua concretezza, il suo dinamismo e il suo movimento.  Per il fatto che la teologia e lo stesso dogma vanno soggetti a un progresso, Küng pensa che ciò dipenda dal fatto che Dio stesso muta[5] e progredisce. Invece egli non s’accorge che lo spirito, anche quello finito, è una sostanza immutabile ed immortale.

Ma tale immutabilità non ha nulla a che vedere con l’inerzia e la rigidità del cadavere, ma è l’espressione dell’agire della vita più alta e più perfetta. Infatti l’agire spirituale sia quello divino che quello umano, non è un agire di tipo evolutivo, che progredisca nel tempo dalla potenza all’atto, ma appunto in quanto agire immateriale, è, a differenza dell’agire fisico degli agenti materiali, un agire istantaneo e sovratemporale; ma istantaneo non nel senso che una volta posto, passa e svanisce, come l’istante temporale, ma appunto perché sovratemporale, una volta posto, sia un pensiero o un’azione morale, il suo valore resta per sempre. Küng invece non sa concepire l’eternità divina se non come un divenire eterno, alla maniera hegeliana.

Ma allora cadiamo nella concezione ciclica pagana, che ritorna in Nietzsche dell’eterno Ritorno. Ma la vera eternità divina non è affatto questo. Non è neppure un eterno sopraggiungere o aggiungersi del nuovo con la scomparsa del vecchio, perché in Dio non c’è nulla da aggiungere, nulla da rinnovare, nulla da scartare, ma tutto  è sommo, tutto è perfetto, tutto è permanente, tutto è sempre attuale. In Dio non c’è nulla da cambiare: tutto in lui va bene così com’è.

Dio non possiede delle semplici opinioni per le quali sia obbligato a cambiare idea nell’apprendere la verità. Non commette errori, così da doversi correggere. Non ha nulla da imparare, ma sa già tutto. Non ha fatto nulla di cui pentirsi, per cui debba mutare la sua volontà. Gli atti della sua volontà non attuano una semplice sua facoltà, ma coincidono col suo essere. Essendo onnipotente, Dio fa tutto quello che vuole e fa tutto da sé senza bisogno di essere aiutato da nessuno. Essendo già perfettissimo, non gli manca nulla, non deve aggiungere nulla a ciò che è o ha già.

Dio non è un semplice vivente, che moltiplica gli atti vitali, ma è la Vita sussistente, è un unico atto di vita eterna. Non è un ente che agisce, ma è Azione sussistente.  Non è una semplice persona che ama, ma è Amore sussistente. Non è una persona che conosce la verità, ma è Luce e Verità sussistenti. Non è buono, come lo potrebbe essere una persona buona, ma è la Bontà assoluta, fatta Persona.  Non è un ente che ha l’essere, ma è l’Essere sussistente. Non è causato da nessuno, così da essere l’attuazione di un possibile. Non è contingente, così da poter non esistere, ma è assolutamente necessario. Non è un qualcosa di limitato, ma è infinito, ossia è in atto tutto ciò che l’essere può essere.

Dio non è composto di atto e potenza, di essenza ed essere, ma è semplicissimo. non è composto di parti così da poter essere decomposto o corrompersi. Non c’è in lui alcuna passività[6], fragilità o vulnerabilità, per cui non può patire da parte di nessuno, nessuno può farlo soffrire, nessuno può togliergli nulla o privarlo di alcunchè, si impietosisce per chi soffre, ma senza soffrire Egli stesso. Nell’adirarsi non si altera, ma semplicemente respinge il male. Egli libera dalla sofferenza appunto perchè non soffre e, mediante la Croce di suo Figlio, sa ricavare la gioia dalla sofferenza. Libera dal peccato perché è bontà e misericordia infinita.

La questione dell’esistenza di Dio 

Questa nozione errata della natura e dell’esistenza divina dipende in Küng dal fatto che egli basa il suo pensiero sull’oscillazione fra il sì e il no riguardo all’assoluto. Ciò è consentito nel caso del dubbio ragionevole; ma non bisogna rendere sistematico questo procedimento che vale solo in quel caso. Altrimenti non si comprenderebbe l’esempio di Cristo, nel quale, come dice Paolo, c’è stato solo il sì (cf II Cor 1,19), Küng non sa o non vuole decidersi e mantiene in essere sia il sì che il no.

Per questo Küng afferma che «non c’è un fondamento evidente della ragione su cui poter costruire la fede. Il dubbio s’insinua di fronte alla problematicità dell’esistenza umana e della realtà in generale»[7]. «Le prove dell’esistenza di Dio non dicono nulla»[8]. A questo riguardo, possiamo ricordare ciò che ha notato acutamente il Fabro, e cioè che la soluzione cartesiana del dubbio non è di tipo cognitivo, come quella di Aristotele e di San Tommaso, ma è di tipo volontaristico. Il cogito, dice Fabro, in realtà è un volo.

Invece per Küng io sciolgo il dubbio non perché mi appare la verità, ma perché lo voglio io. Infatti egli non accetta che Dio esiste perchè è obbligato dal ragionamento, ma perché, come egli stesso dice, ha «fiducia»[9] che Dio esista. Diciamo con semplicità: perché gli piace che sia così. Egli quindi non afferma che Dio esiste perchè lo sa, ma perché lo vuole, lo decide lui, gli va bene così. Per lui infatti la ragione non ci può dare una certezza oggettiva, assoluta e definitiva o un sicuro ed evidente punto di partenza, per costruire il sapere filosofico e quindi per edificare una teologia razionale o naturale, ma tutto per lui può sempre essere rimesso in discussione.

La semplice ragione non ci dà modo di decidere nelle questioni di fondo da che parte sta la verità. Posso sempre temere di sbagliarmi. Secondo lui la ragione non obbliga ad ammettere l’esistenza di Dio, perché essa di per sé potrebbe portare tanto al teismo quanto all’ateismo.  Per questo per lui non si può dire che il teista ha ragione e l’ateo ha torto. Qui la ragione non c’entra, ma sola scelta personale.

Essere ateo per lui non è una scelta sbagliata e biasimevole, ma legittima e semplicemente diversa, rispettabile esattamente come quella del teista. Küng non sarebbe d’accordo con la Scrittura quando dice che l’ateo è uno «stolto» (Sal 53,2). Ed evidentemente è in contrasto con l’insegnamento del Concilio Vaticano I, quando, citando San Paolo (Rm 1,20), insegna che la ragione può dimostrare l’esistenza di Dio partendo dagli effetti creati.

Per Küng, dunque, la ragione non ci dà modo di decidere, non ci obbliga a decidere. Essa apre un’oscillazione infinita, senza alcuna conclusione e senza sbocco, un’oscillazione fra il sì e il no, che possiamo fermare solo noi con una libera scelta o per Dio o contro Dio. Non è la ragione che ci obbliga a fermarci all’affermazione dell’esistenza di Dio come causa prima, come sosteneva Aristotele col suo famoso anànke stenai, ossia bisogna fermarsi. Ciò che ci fa affermare che Dio esiste è la nostra sola volontà.

La ragione non può dimostrare l’esistenza di un primo e di un ultimo, di un massimo e di un minimo, di un inizio e di una fine. La distinzione fra contingente e necessario, fra relativo e assoluto, fra effetto e causa, fra mezzo e fine, fra temporale ed eterno, fra finito e infinito non servono, non portano a nulla, perché queste coppie rimandano ad altre coppie e così all’infinito.

Gli avverbi «sempre», e «mai» non possono mai essere usati con certezza ed incondizionatamente. Il principio di causalità vale solo nell’ambito dei fenomeni, ma non dell’essere. Ogni nostra affermazione deve supporre la possibilità del suo contrario - fosse pure un dogma cattolico -. È questa la dialettica hegeliana, che Küng fa propria, pur senza accettarla nella sua necessità logica, perché Küng vuol concedere spazio alla prassi, all’amore e alla libera scelta.

Tuttavia egli non accoglie il comando del Salmo: «fermatevi e sappiate che io sono Dio» (Sal 46,11). Küng tira fuori il pretesto che nel cercare non bisogna fermarsi mai, ma evidentemente confonde il processo all’infinito (processus ad nfinitum), che comporta il dissolvimento del pensiero nell’insensatezza e nel nulla col progresso del sapere, che è un preciso dovere e piacere della ragione speculativa e scientifica e sorgente di continui progressi nella virtù e nella tecnica.

Ma appunto tale progresso sarebbe impossibile o fasullo, se non partisse da una base razionale solida ed inconcussa e se la ragion pratica non si prefiggesse una meta somma, ultima ed indiscutibile. Ma perché in Küng questo rifiuto di un sì assoluto a Dio razionalmente motivato? Perché per Küng, come per Hegel, la verità cambia col mutare del tempo. Essa quindi non va oltre l’apparenza, la sembianza, l’opinione.

Il principio modernista della mutabilità della verità

Si tratta del principio modernista della mutabilità della verità, il quale significa che oggi è vero quello che ieri era falso e domani sarà falso ciò che oggi è vero. Quindi non esiste nulla di definitivamente vero o di assolutamente certo, perchè tutto, a causa di nuove scoperte, può essere falsificato o messo in discussione. È chiaro peraltro che se l’oggetto del sapere muta, il giudizio su di lui, proprio per essere vero, dovrà mutare seguendo il mutare dell’oggetto.

Ma il guaio è che Küng non si ferma qui, ma propugna un mutamento di giudizio o di concetti anche in rapporto alle realtà immutabili della fede. Ma questo come mai? Perché Küng non riesce a vedere questa immutabilità, ma, immerso com’è nella visione hegeliana dell’essere come divenire storico, non riesce a vedere niente che sia al di sopra della storia e del tempo, per cui riduce quelle realtà trascendenti ed eterne alle realtà di questo mondo.

Egli crede che il pensiero umano non conservi sempre delle nozioni basilari universali ed originarie, le nozioni prime della ragione, oggetto della metafisica, ma che la mente umana sia in continua evoluzione, in modo tale che gli stessi concetti basilari della ragione dall’antichità ad oggi sono andati soggetti a mutazioni radicali con un passaggio da una primitiva visione astratta, propria della metafisica dualista greca a quella moderna, secondo lui di origine cristiana, che risolve la concezione di Dio nella storia grazie al fatto dell’Incarnazione. Dal Dio trascendente al Dio immanente, dal Dio del cielo al Dio della terra, dal sacro al profano, dalla metafisica alla storia, dal religioso al secolare. San Paolo direbbe con una punta di sarcasmo: dallo spirituale al carnale. È la stessa visione di Hegel.

Il metodo di Küng è quello stesso della dialettica hegeliana: il vero è sintesi di tesi ed antitesi, di sì e di no. Per questo, secondo lui, in ogni nostra affermazione anche la più impegnativa come l’affermazione dogmatica, non dobbiamo mai essere categorici, non dobbiamo mai dare nulla per scontato, ma essere sempre pronti ad abbandonare le nostre certezze. Diversamente, cadremmo in un imprudente e miope dogmatismo. Dobbiamo invece sempre lasciare una porta aperta ad una tesi contraria. L’unica certezza che abbiamo è il dovere di mantenere questa saggia duplicità ed apertura alla tesi opposta.

Incomprensione del valore del dogma 

In Küng l’affermazione sistematica e simultanea del sì e del no come metodo della  ragione,  conforme alla dialettica hegeliana, denota una gnoseologia che rende impossibile e ingiustificata l’adesione definitiva ed irremovibile ad una verità oggettiva ed assoluta, porta come logica conseguenza la sua dottrina modernistica della mutabilità e relatività del dogma e di conseguenza la negazione dell’infallibilità dottrinale del Sommo Pontefice nel definire il contenuto del dogma, perché ciò supporrebbe la possibilità della ragione e quindi della fede di fissarsi assolutamente sul sì escludendo assolutamente il no, cosa che Küng non ammette.

In Küng, dunque, negazione dell’affermazione assoluta del vero, negazione dell’immutabilità del dogma e negazione dell’infallibilità pontificia sono tre punti inscindibili e logicamente collegati, l’uno conseguenza dell’altro.

Da notare che neppure Lutero giunse ad una simile aberrazione e disonestà nei confronti del metodo del sapere, qual è quello dei modernisti, che si rifanno ad Hegel. Lutero ebbe sì le sue astuzie e sapeva come togliersi d’impaccio quando lo mettevano alle strette; si ricordava anche lui, all’occorrenza, delle parole del Salmo: «ci difendiamo con le nostre labbra: chi sarà nostro padrone?». Tuttavia, egli era in fondo un animo franco e schietto, anche se piuttosto orgoglioso, impulsivo ed irascibile; ma odiava la doppiezza calcolata farisaica del barcamenarsi fra il sì e il no, soprattutto in materia di dogma.

Proprio così! Chi lo direbbe? Occorre infatti tener presente che Lutero accettava fermamente i dogmi cristologici e trinitari dei primi Concili, anche se è vero - e qui Küng è certamente luterano – che egli sosteneva che ogni tanto il Papa può sbagliare. Ma era aliena dalla sua mente l’idea modernistico-hegeliana della contraddizione dialettica del pensiero. Ne avrebbe provato orrore. E in ciò Lutero era un sincero realista, fedele al «sì, sì, no, no» di Cristo.

Da quanto detto su Küng, dobbiamo trarre la conseguenza pertanto, che egli non capisce quanto è prezioso il dogma per la vita del cristiano. Impigliato nel suo stolto, amaro e saccente criticismo, gli è negata la gioia, propria anche del fanciullo credente, di gustare la bellezza della verità di fede. Küng sembra essere tra quei «sapienti e intelligenti» (Mt 11,25), ai quali il Padre ha nascosto i suoi misteri per rivelarli ai piccoli e ai semplici, per i quali sì è sì e no è no.

Il dogma infatti indica mediante i concetti quel «tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33; cf Sap 7,14); è la «parola del Signore, stabile come il cielo» (Sal 119,89). Indica quella «corona incorruttibile» che attende il buon atleta di Cristo» (I Cor 9,25). Sono le parole di Cristo, che non passeranno, mentre cielo e terra passerà (Mt 24,35). Sono i «comandi del Signore, stabili ed immutabili nei secoli, per sempre (cf Sal 111, 7).

L’incomprensione del valore del dogma in Küng è logicamente connessa con una profonda incomprensione dell’importanza decisiva della missione dottrinale della Chiesa, «colonna e sostegno della verità» (I Tm 3,5). L’ecclesiologia di Küng è bene rappresentata dalle immagini del corpo organico, della pianta, della vigna o del gregge, insomma da entità viventi, composite, diversificate e in crescita, dinamiche ed attive; ma non trova riscontro nell’immagine dell’edificio o della casa, fondata sulla roccia, che dice stabilità, robustezza, fondatezza, ordine delle parti, riparo, resistenza agli agenti atmosferici, continuità e durata. L’elemento vitalistico, spontaneistico, pluralistico, comunionale ed organizzativo sono molto sentiti: difetta l’istanza veritativa, la sensibilità giuridica ed istituzionale, l’apprezzamento dottrinale, la visione strutturale.

E se Cristo edifica la sua Chiesa su Pietro (Mt 16,18), e la affida alla sua guida pastorale (Gv 21, 15-17) come a suo vicario in terra, vuol dire che l’insegnamento di Pietro dà forma intellegibile all’identità, alla natura, alla struttura e alla missione della Chiesa, sicché essa è e permane immutabilmente se stessa resistendo contro le forze degli inferi, che vorrebbero deformarla e distruggerla.

Così il Papa è l’unico cattolico in tutta la Chiesa, la cui fede non può venir meno (Lc 22,32). Può commettere qualunque peccato, ma non può peccare contro la fede, né quindi cadere nell’eresia e neppure perderla. Chi ascolta Pietro, ascolta Cristo, la cui Parola è «verità che dura in eterno» (veritas Domini manet in aeternum, Sal 116,2).

L’accettazione del dogma cattolico infallibilmente definito, custodito ed insegnato dal Romano Pontefice, qualifica dal punto di vista intellettuale l’essere cattolico, membro della Chiesa cattolica. La negazione dell’infallibilità pontificia conduce quindi logicamente Küng ad un falso concetto dell’essere cattolico e delle condizioni per appartenere alla Chiesa cattolica.

Tale concezione infatti lo avvicina alle posizioni di Lutero, il quale, dopo l’abiura alla fede cattolica, diceva che egli era disposto ad assoggettarsi al Papa, purchè avesse accettato le sue dottrine, che a suo dire correggevano le eresie del Papa alla luce del vero insegnamento di Cristo, che egli affermava di aver ripristinato.

Infatti l’infallibilità pontificia qualifica l’essenza e il potere specifici del Papato in modo tale che se viene negata, è negato il Papato, anche se si ammettesse il Papa come Vescovo di Roma, Successore di Pietro e Vicario di Cristo in terra. Di fatti Küng ammette questi titoli e lo stesso Lutero non aveva difficoltà ad ammetterli; ma, negando l’infallibilità pontificia, è chiaro che distruggeva il Papato dalle fondamenta.

Küng, infatti, non considera l’essere cattolico come la perfezione dell’essere cristiano[10] al di sopra del luteranesimo e correttivo del luteranesimo, ma semplicemente come un modo di essere cristiano diverso, alla pari di quello, e questo perché? Appunto per il fatto che Küng non considera i dogmi come verità assolute, obbligatori per tutti i cristiani, ma relativi ai tempi e ai luoghi. E questa negazione è accentuata dal fatto che egli, come Lutero, non crede al fatto che il Papa possa garantire sempre della verità di un dogma, perché in ciò si può sbagliare.

Fine Prima Parte (1/2)

P.Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 10 aprile 2021         


 Immagine da internet                                                                      


[1] Ho svolto un esame critico della cristologia di Küng nel mio libro Il mistero della Redenzione, Edizioni ESD, Bologna 2004, pp.306-318.

[2] La giustificazione, Queriniana, Brescia 1966.

[3] L’Incarnazione di Dio, Queriniana, Brescia 1972.

[4] La Chiesa, Queriniana, Brescia 1967.

[5] Cf il mio studio LA QUESTIONE DELL’IMMUTABILITA’ DIVINA, in Rivista Teologica di Lugano, n.1, marzo 2011, pp.71-93.

[6] Cf il mio studio IL MISTERO DELL’IMPASSIBILITA’ DIVINA, Divinitas, 2, 1995, pp.111-167.

[7] Dio Esiste? Edizioni Mondadori, Milano 1979, p.594.

[8] Ibid., p.595.

[9] Ibid,. p.635.

[10] Cf il suo libro Essere cristiano, Edizioni Rizzoli, Milano 2012.,

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