Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 4 (1/2)

  Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 4 (Parte 1/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 14 (A-B)

Bologna, 17 febbraio 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

Adesso riprendiamo i nostri lavori nella faticosa metà dell’Anno Accademico. L’altra volta ci siamo lasciati con il trattato sull’atto umano. Ne studieremo purtroppo soltanto alcune parti, non potremo studiare tutto quello che S. Tommaso scrive nella I-II, Primae Secundae. Lo raccomando tuttavia alla vostra benevola attenzione, si capisce, Quindi ne potremo fare solo alcune parti più significative.

Ho scelto anzitutto la questione 13, che tratta della scelta, per poi passare alla questione 16 e 17 che trattano rispettivamente dell’uso e dell’imperium, del comando della ragion pratica. Perchè ho fatto questa electio, questa scelta? Ebbene, proprio perchè nella scelta, nell’atto della scelta si verifica, come voi ben sapete, quel fenomeno straordinario, fondante tutto l’ordine morale, che si chiama libertà. È nella scelta che appare appunto la libertà del nostro volere.  

Bisogna che ovviamente tutto questo presupponga che abbiate in mente bene lo schema dell’atto umano. Vi ricordate come lo sistemò il Padre Gardeil. Ossia c’è anzitutto l’ordo intentionis, ve lo ricordo per summa capita. Avete sempre gli atti della ragione, si intende della ragion pratica, perchè si tratta di arrivare all’agire, la ragione pratica e l’appetito intellettivo, ossia la volontà.

Il primo atto della ragione pratica è la simplex apprehensio boni, ovviamente del bene. Si tratta di apprendere, di rendersi conto di un bene. Questa simplex apprehensio boni è seguita dalla simplex volitio, da un semplice volere il bene. Non è un volere ancora molto realistico, perchè vuole solamente la cosa in sé; non dispone ancora dei mezzi al fine. C’è poi il secondo atto della ragione pratica, che si chiama giudizio speculativo pratico, che è già un rendersi conto non solo del fine, ma anche dei mezzi che saranno da adoperare per conseguire il fine.

Questo atto è seguito dalla cosiddetta intentio, che riguarda sempre il fine, notate bene, riguarda sempre il fine, ma lo riguarda con la precisa volontà, come vedete l’atto si concretizza di più, di adoperare dei mezzi in vista del conseguimento del fine. E così si compie l’ordo intentionis.

E inizia l’ordo electionis, perché termina con l’atto di scelta. E qui avete anzitutto dalla parte della ragion pratica il consilium, la deliberazione della ragion pratica, l’elaborazione di una pluralità di vie possibili per il raggiungimento del fine. Nella ragion pratica anzitutto il consiglio ovviamente è molto importante. Sarà soprattutto l’ufficio del prudente, quello di consigliarsi a lungo per poi agire con prontezza e con una certa decisione.

L’atto del consilium, della deliberazione della ragione pratica, è seguito dal consensus voluntatis. La volontà acconsente; cioè, vedendosi presentare dalla ragion pratica tante vie possibili della realizzazione del fine, che uno si è proposto, la volontà dà un consenso di massima a queste diverse vie, diciamo, di conseguimento del fine.

Poi segue, sempre dalla parte della ragion pratica, il iudicium practico-practicum[1]. E qui siamo effettivamente al nocciolo dell’atto umano. Qui il giudizio pratico-pratico, è l’oggetto specificante appunto l’atto di scelta, electio. Ecco perchè questa parte dell’atto umano si chiama ordo electionis. E’ sempre un qualche cosa di interiore, che si svolge dentro all’anima umana. Ripeto, è estremamente importante proprio questo momento culminante dell’atto interiore, cioè appunto il rapporto tra il giudizio pratico-pratico e la scelta, l’atto di scelta.

Premetto il perchè di questa importanza. Qui la nostra ragione umana purtroppo non riesce e non riuscirà mai, penso, per lo meno in questa vita, non riuscirà mai a venirne a capo. Perché effettivamente sotto un aspetto il giudizio pratico-pratico determina la scelta, ma sotto un altro aspetto invece la scelta determina il giudizio pratico-pratico[2]. Che scelta sarebbe, se non potesse determinare appunto il iudicium?

Si parla perciò della libertas arbitrii[3], della libertà dell’arbitrio. Quindi, ciò che è libero nel senso passivo della parola, cioè ciò che è determinabile, non è tanto la volontà, che è determinante, ciò che è determinabile è il iudicium. Vedete, dunque, che il giudizio pratico-pratico è oggetto passivo della determinazione attiva dalla parte della volontà. Sotto questo aspetto quindi la volontà determina attivamente il giudizio pratico-pratico, che si lascia determinare.

Ma sotto un altro aspetto, quello appunto della specificazione, è il giudizio pratico-pratico che si presenta come oggetto dell’atto di scelta. Questa interdipendenza è estremamente importante. Noi riusciamo a discernere entrambi gli aspetti.

C’è appunto quello, diciamo così, rappresentativo, cioè l’intelletto pratico che presenta alla volontà il bene, l’oggetto, con i mezzi del suo raggiungimento. E poi d’altra parte possiamo dire che, mentre dal primo lato[4] il giudizio pratico-pratico si lascia determinare, il giudizio pratico-pratico è determinante secondo la specificazione, determina la volontà quanto alla proposta dell’oggetto, ossia del bene e dei mezzi con i quali il bene si può raggiungere. Questo è l’aspetto sotto il quale il giudizio pratico-pratico prevale sulla scelta.

C’è poi l’altro aspetto, sotto il quale invece la scelta prevale sul giudizio pratico-pratico, e questo, potremmo chiamarlo, è l’aspetto di quella che chiamerei “immobilizzazione”[5] del giudizio pratico-pratico. Non trovo una parola migliore di questa. Questa immobilizzazione non modifica il contenuto del giudizio pratico-pratico. Quindi il contenuto è sempre quello; però la volontà, compiendo l’atto di scelta, fissa il giudizio pratico-pratico, che poi determinerà tutta l’esecuzione dell’opera. Sarà questo il giudizio dell’intelletto che presiederà all’esecuzione dell’opera che ci si è proposti.

Ma notate bene che con questo non abbiamo risolto quasi nulla, perchè occorrerebbe determinare esattamente in che modo accada questa compenetrazione della ragione e della volontà proprio nell’atto, diciamo, in questa interdipendenza tra l’atto del giudizio pratico-pratico e l’atto appunto della scelta. Questa esatta interdipendenza ci sfugge[6].

Comunque è importante già constatare il fatto di questa interdipendenza. Da un lato il giudizio pratico-pratico, che si lascia passivamente determinare, che però è determinante sotto l’aspetto del contenuto presentato. Dall’altra parte la volontà, che invece lo immobilizza e sotto questo aspetto lo determina senza però modificarne il contenuto intellettivo e rappresentativo. Questo è, diciamo così, il cuore dell’atto umano E’ proprio il centro. Dopo di che segue l’ordo executionis.

….l’ordo …

Faccio i segni sulla lavagna, perché temporibus illis mi ricordo che l’ho scritto, ma adesso non penso. L’avete ancora in mente, no? L’ordo executionis. Poi c’è anzitutto dalla parte della ragion pratica l’imperium, il comando, che vedremo e studieremo seguendo il testo della Summa, l’imperium, il comando, nel quale, come vedremo, c’è sia l’ordine dell’intelligenza, l’ordine non nel senso di comandare, ma l’ordine nel senso proprio di ordinare, di disporre una cosa all’altra.

Quindi, c’è questo ordine dell’intelletto pratico, però con l’aspetto intimativo della volontà. La volontà è presente in questa disposizione ordinante dell’intelletto pratico. E’ per questo che l’intelletto pratico qui assume il tono appunto imperativo. Non solo dice: questa o quest’altra cosa è da fare. Ma dice concretamente: fac hoc, fa’ questo. Effettivamente, anche introspettivamente, ci rendiamo talvolta conto di questo momento, quando si arriva a dire: fa questo, devi fare questo, è tuo preciso dovere di fare questo.

Qui, come abbiamo visto con quelli che hanno seguito il Trattato sulla Prudenza, si compie proprio, diciamo così, tutta la dinamica della ragion pratica. Essa qui arriva alla sua perfezione, al suo ultimo atto, che è l’atto proprio della virtù della prudenza, virtù che perfeziona appunto l’intelligenza pratica.

All’imperium segue poi il cosiddetto usus activus, l’uso attivo, che pure studieremo, perché è importante. In fondo questa cresis, come la chiamavano i Greci, costituisce l’essenza dell’atto umano, ormai in qualche modo esteriorizzato, che passa all’esecuzione. Può essere anche interno, però si tratta sempre di un qualche cosa di posto in atto dall’imperium della ragion pratica.

Dopodiché c’è l’usus passivus, da parte dell’intelletto. Questo usus passivus è una parola coniata da Padre Gardeil, ma non se ne trova una migliore. Il fatto è che questo usus passivus consiste nel fatto che ci si rende conto dell’operazione eseguita. Nell’eseguire l’operazione, c’è un’avvertenza intellettiva, e non solo intellettiva, si può dire sommariamente conoscitiva, anche sensitiva, che l’opera è stata compiuta.

A questa avvertenza, diciamo così, a questa buona notizia che l’opera è stata bene eseguita, segue ovviamente il gaudium, la fruitio, dalla parte della volontà. E così tutto si compie in gloria, come si dice. Ossia, l’atto umano finisce con una certa gioia, gaudium. Notate l’ottimismo di San Tommaso. Secondo l’Aquinate l’agire è fonte, è fonte di gioia, dovrebbe essere appunto fonte di una certa delectatio.

Allora, ecco, vedete la ragione per cui ho scelto in particolare l’analisi dell’atto di scelta. Perchè è, come dico, al centro dell’atto umano, è il fondamento, è il fondamento del medesimo, dell’atto umano in quanto tale. E’ suscettibile appunto di moralità proprio perchè, l’abbiamo ben visto, procede dall’uomo in quanto è formalmente uomo. Cioè procede dall’uomo secondo la ragione deliberata. Procede dall’uomo secondo la deliberazione della ragione; è appunto la scelta della volontà. E, quindi la moralità dell’atto umano è costituita da questa sua parte, che è il giudizio pratico-pratico, è l’atto di scelta che lo immobilizza[7], che lo fissa.

Anzitutto la prima questione da discernere è una vexata quaestio per la verità, e San Tommaso ne presenta una soluzione, anch’essa devo dire abbastanza vexata. È proprio la questione trattata nel primo articolo della quaestio decima tertia. Si tratta di sapere, problema che Aristotele lasciò appunto in sospeso, se l’atto di scelta, la electio, spetta alla ragione o alla volontà.

Aristotele si è espresso in maniera estremamente prudente, si potrebbe dire decisamente diplomatica. San Tommaso, citando appunto il VI Libro dell’Etica a Nicomaco, dice: electio est, la scelta è un appetitivus intellectus, un intelletto appetitivo, vel appetitus intellectivus, o un appetito intellettivo. Quindi già il grande Stagirita si è reso conto che nell’atto di scelta ci sono entrambe le dimensioni. C’è la dimensione conoscitiva rappresentativa, ma c’è anche la dimensione diciamo così della tendenza appetitiva. C’è l’una e l’altra, però non è facile dire esattamente da che parte sia l’atto di scelta. Aristotele lasciò in sospeso proprio questa questione, limitandosi solo a dire che c’è l’una e l’altra parte.

Notate come in questo svolgersi dell’atto umano, queste dodici parti, così come le abbiamo descritto adesso, man mano che si procede verso la scelta, voi potete osservare una certa compenetrazione reciproca tra l’intelletto e la volontà. La cosa non sorprende più di tanto, perché sapete bene che la extensio intellectus speculativi ad practica, la estensione dell’intelletto speculativo alle cose pratiche, cioè all’agire, avviene tramite la volontà.

Non si tratta della volontà che applica l’intelletto, perchè questo la volontà lo fa anche rispetto all’intelletto speculativo, ma tramite la volontà che in qualche modo si potrebbe dire che rende affettivo l’oggetto, che di per sè è un oggetto dell’intelletto, giacché l’intelletto pratico ha per oggetto, sì, il vero in quanto inteso, ma anche quel vero che è il bene, in quanto è appunto intelletto pratico. Vedete che l’intelletto pratico è un intelletto che partecipa dell’affettività della volontà.

Dopo aver detto, cosa che mi pare abbastanza ovvia, e cioè che nella scelta c’è sia l’aspetto intellettivo che l’aspetto volitivo, la grande difficoltà che si impone è quella di discernere da che parte esattamente stia l’atto della scelta. Ebbene, San Tommaso comincia da una complicata spiegazione, dicendo che nella scelta la ragione e la volontà assumono delle caratteristiche analoghe a quel rapporto che esiste tra la forma e la materia.

Cioè dice praticamente che nell’atto della scelta queste due componenti, queste due facoltà con i loro rispettivi atti, assumono una caratteristica analoga a quella che nell’ambito cosmologico può essere il rapporto tra la forma e la materia. Infatti, un atto che appartiene essenzialmente a una potenza o a un abito, riceve la forma e la specie da una potenza o un abito superiore. Quindi la potenza o l’abito superiore dà la forma alla potenza e all’abito inferiore. Quindi c’è una potenza diciamo così dirigente, che dà la forma alla potenza e all’atto della potenza inferiore.

Ora, quello che è interessante notare è che sempre la funzione della ragione è quella di presentare l’oggetto. La ragione, l’abbiamo ben visto, è essenzialmente rappresentativa. Lì veramente c’è una specie di dualità estremamente importante, che a quanto pare pervade ogni ente. E questo è molto, molto interessante, anche se è un dato di fatto, che teoricamente è difficile dimostrare a priori. E’ una specie di principio, che si osserva in tutte le cose.

E cioè che sempre in ogni entità c’è una certa determinazione formale, c’è sempre una certa forma, una struttura, potremmo dire, della cosa. Pensate all’eidos platonico o alla morfè aristotelica, insomma, ciò per cui la cosa è ciò che è, cioè una certa caratteristica formale nel senso aristotelico della cosa e a questa forma è sempre legata una tendenza, un appetitus, un tendere a qualcosa.

Quindi c’è sempre questa dualità di forma e finis, di causalità formale e finale. La finalità è radicata nell’essenza costituita dalla forma. O meglio, la finalità, ovviamente ciò che è finalizzato è l’agente e l’agente come tale è un soggetto. Però l’agente è finalizzato tramite la sua essenza, tramite la forma, che fa sì che l’agente sia agente di tale determinata specie. E’ una cosa molto semplice.

Aristotele avrebbe detto, per esempio, che un cavallo genera un cavallo, un bue genera un bue, e via dicendo. Insomma, ogni animale di una specie genera un animale della stessa specie. Quindi, vedete, la forma determinante la specie dà la finalità al generante di generare l’animale, un altro animale, un altro individuo della stessa specie. Quindi notate bene questa dualità di forma e di fini.

Ora, la forma può essere presente in diversi modi. C’è la presenza della forma non conoscente, cioè il soggetto non è dotato di conoscenza, quindi possiede la forma in maniera puramente fisica od ontologica; e poi c’è la presenza della forma conoscitiva, che è una presenza intenzionale, nella intenzione dell’agente, nell’intendere dell’agente.

Ebbene, la presenza intenzionale è ovviamente una presenza rappresentativa, cioè il fatto che l’agente abbia presente una forma, al di là della sua che fisicamente lo determina.

È l’importanza del fenomeno della conoscenza, l’emergere della conoscenza dal mondo puramente fisico. Quanto è vera, miei cari, quanto è vera la tesi del buon Padre Gredt, non solo di lui, ma di ogni seguace fedele di S.Tommaso, secondo cui radix cognitionis est immaterialitas. La radice di ogni conoscenza è l’immaterialità, l’emancipazione della forma dalle condizioni della materia. Solo una forma che si libera dalla materia è in grado di ricevere in sè altre forme.

Quindi il soggetto non possiede solo quella forma che lo determina fisicamente, ma possiede una forma, ricettacolo di altre forme. Notate bene tra l’altro come questa caratteristica della conoscenza, in particolare dell’intelletto, che è una conoscenza dell’universale, come questa è l’unica, ma veramente l’unica base attendibile per una prova dell’immortalità dell’anima umana. Quindi l’emergenza del conoscere, del conoscere intellettivamente, al di sopra della materia.

A questo punto possiamo quindi dire che c’è da un lato l’intellettualità, che ha questa caratteristica di rappresentare, di rendere presente la forma della cosa altrui[8] nella sua alterità al soggetto. A questa funzione rappresentativa è legata una funzione tendenziale, una funzione appunto di tendenza e di appetitus, di appetito, appetere, tendere a qualcosa.

Ora, in questa dualità del giudizio pratico-pratico e della scelta, non c’è dubbio che la scelta riceve qualche cosa dall’intelletto. Quindi l’intelletto è la facoltà direttiva della scelta, l’intelletto dirige la scelta, l’intelletto pratico dirige la scelta, in quanto presenta alla scelta il fine e il mezzo con cui ottenere il fine e il mezzo con cui ottenere il fine. Non dico i mezzi; i mezzi sono ancora a livello del consilium e del consensus, notate bene. Invece, nel giudizio pratico-pratico non ci sono più i mezzi, pluralisticamente parlando. C’è il mezzo. Ogni consiglio pratico-pratico presenta un mezzo determinato con cui conseguire il fine.

Ora, non c’è dubbio che sotto questo aspetto l’intelletto pratico dirige l’atto di scelta. L’atto di scelta riceve, diciamo così, questa forma appunto direttiva dall’intelletto pratico. Però la sostanza di questo atto o l’essenza di questo atto, che è quello della scelta, pur diretta dall’intelletto pratico, da questo riceve appunto la forma direttiva, una specie di forma, si potrebbe dire, dinamica. Penso sempre a Francesco Bacone di Verulamio e al suo latens processus, il latente processo.

C’è una forma dinamica[9] che l’atto di scelta riceve dall’intelletto, ma la sostanza di questo atto, per quanto partecipe della forma ricevuta dall’intelletto, non consiste in un che di intellettivo, ma in un che di appetitivo, perchè l’essenza di questo atto è appunto tendere determinatamente al fine da realizzare tramite quel determinato mezzo.

Notate bene, la sostanza dell’atto di scelta sta dalla parte della volontà, perchè la proprietà di questo atto non è tanto riconoscere che il fine è da ottenersi con quel mezzo, ma di tendere in tale fine tramite tale mezzo. Vedete che la determinatezza non c’è solo dalla parte del fine, ma anche dalla parte del mezzo.

Ciò lascia un po’ perplessi, per dire la verità; è per questo che in questa circostanza osai dire che non solo la quaestio è vexata, ma che è un po’ vexata anche la solutio che l’Aquinate ne dà, in questa circostanza, benché voi sappiate che cerco di essere sempre fedele seguace del nostro Angelico Dottore. Si vede che egli ha lottato per la soluzione della questione e ha ragione, perché è una delle questioni più difficili.

Comunque ciò potrebbe indurre in errore, è questo dire che l’intelletto pratico fornisce l’aspetto formale all’atto di scelta, mentre la sostanza dell’atto si pone dalla parte della volontà. Ora la sostanza dell’atto si rapporta alla forma come un che di materiale; la sostanza partecipa la forma. Ma questo potrebbe essere frainteso, perché voi sapete bene, sapete bene come nella sostanza la parte determinante della sostanza è appunto la forma sostanziale[10].

Quindi uno, applicando rigorosamente l’analogia invocata qui, perché questa è proprio una bella analogia di proporzionalità propria, e seguendo rigorosamente questa analogia invocata da San Tommaso, potrebbe dire giustamente, mi pare, che se la parte formale è nell’intelletto, vuol dire che l’intelletto determina la sostanza dell’atto di scelta. È come la forma sostanziale che determina poi tutta la sostanza, tutto il sinolo.

Giovanni di San Tommaso si premura naturalmente di dire che non è così; ed effettivamente non è così. Cioè San Tommaso, come risulta anche dal testo, non pensava a una forma che entra nella costituzione della sostanza, notate bene, ma ad una specie di forma piuttosto accidentale, si potrebbe dire, che però non sorge dalla sostanza, ma che è ricevuta dalla sostanza a modo di partecipazione.

Ci sono infatti determinate forme accidentali, che scaturiscono dalla sostanza e che sono inferiori rispetto alla sostanza. Ci sono poi altre forme sempre accidentali, cioè non costitutive della sostanza, che però sono formali rispetto alla sostanza, anche nel senso che sono superiori riguardo alla medesima, perchè la sostanza le riceve proprio per partecipazione. E così è in questa analogia della sostanza della electio rispetto alla direzione dell’intelletto pratico.

Notate quindi, come giustamente dice Giovanni di San Tommaso, l’intelletto pratico con il giudizio pratico-pratico determina una condizione sine qua non dell’atto di scelta, ma non costituisce la scelta in sé. La scelta è costituita invece da un atto di volontà. Giovanni di San Tommaso lo esplicita molto bene questo, illustrando appunto questo articolo di San Tommaso, cioè dice molto bene anche introspettivamente, se ci pensate bene, no?

La questione che Aristotele lasciò in sospeso è solubile quasi empiricamente. Infatti possiamo dire che l’intelletto può deliberare finchè vuole, può emettere tanti giudizi pratico-pratici, ma finchè il giudizio pratico-pratico non è immobilizzato[11], finchè non è quello e quello solo che dirigerà l’azione, non abbiamo scelta. Quindi, vedete che la scelta non si pone dalla parte dell’intelletto pratico-pratico, che può essere questo o anche quello. La scelta si pone dalla parte di quella facoltà, che non emette il giudizio pratico-pratico, ma lo fissa, o lo immobilizza.

Ci siamo, miei cari? Pensateci bene. Guardate che è importante questo punto. Mi dica. Prego.

… fissa dopo che è stato scelto …

No! È questo il punto. È nell’atto di scelta, che lo fissa.

… sì, ma …allora … spostare il problema ulteriormente a monte …

Coraggio. Spiegati meglio.

… scelto …

È questo il punto misterioso. Cioè quello che possiamo sapere, è questa duplice priorità: da un lato la priorità dell’intelletto sulla volontà. Ecco perchè è una conditio sine qua non per l’atto di scelta e San Tommaso insiste molto a dirlo. Mi piace sempre come non smentisce mai se stesso, il nostro caro Aquinate. In sostanza non cede mai alla scuola francescana. È sempre intellettualista

Quindi dice che il primato spetta all’intelletto, ancora, che presenta l’oggetto. Da quel lato c’è il primato del giudizio pratico-pratico, che è già emesso, nota bene, caro Fra Giuseppe. È già emesso. Però non è ancora immobile. Quello che lo fa diventare in qualche modo l’unico criterio di tutta l’azione che seguirà, è appunto la immobilizzazione derivante dalla scelta[12]. E sotto questo aspetto è la scelta che predomina sul giudizio.

Potete immaginarvelo un pochino così, ma dico immaginarlo. Vi dissi proprio a ragion veduta, che il giudizio pratico-pratico non presenta più una pluralità di mezzi, ma presenta un solo mezzo concreto. Però, prima della immobilizzazione della scelta, il giudizio pratico-pratico prevalente può essere quello, ma non è l’unico, ma ha accanto a sé tanti altri possibili giudizi pratico-pratici.

Faccio sempre il mio solito ridicolo esempio di un viaggio da compiere: ecco, per esempio, adesso mi capitava di andare a Mantova. Che odissea, perché è una cittadina poco collegata con Bologna tramite le ferrovie. Così ogni tanto il piccolo esempio può essere anche realistico, col chiedersi quali mezzi adoperare. C’è un solo treno, se ho capito bene, che collega le due città, come diretto Poi ci sono altre possibilità, di cambiare a Modena. Ad uno quasi viene in mente: ma andarci in bicicletta potrebbe anche essere una scelta attendibile; andarci a piedi, non lo so, insomma. Ma comunque il giudizio pratico-pratico potrebbe essere formulato anche in tal senso, no?

La libertà poggia proprio su questo. Cioè sul fatto che, dato un fine, noi possiamo riconoscere una pluralità di mezzi attendibili per il suo raggiungimento. Quindi, il fine è la località. Io voglio raggiungere quella determinata località; posso andarci a piedi, posso andarci a cavallo, posso andarci in bicicletta, posso andarci in motocicletta, in automobile, in treno e non so se c’è anche qualche altro mezzo. In aereo, no, non mi pare che ci sia la possibilità.

Ci sono diversi mezzi di trasporto. Poi tra questi mezzi diciamo che c’è una appetitività del consensus, che mi dà, mentre io delibero, il deliberare. Notate che è già un vagliare i mezzi, non è semplicemente dire: c’è qui un mezzo e poi un altro e poi un altro ancora. Nella deliberazione del consilium, ci mettiamo già una certa gerarchia di mezzi. Per esempio, io so che ci arriverei anche a piedi, come faceva San Domenico, il nostro glorioso Padre, che andava sempre a piedi a chissà quale distanza, no?

Tuttavia, ecco, noi, per uomini del nostro tempo poco ascetico probabilmente, il giudizio pratico-pratico di questo tipo sarà non proprio al primo posto. Quindi c’è già il livello del consilium, c’è una certa gerarchia che mettiamo in questi singoli giudizi pratico-pratici. Se volete il consilium è un confronto fra tanti giudizi pratico-pratici.

A questo punto avviene il consensus, che è tutta una appetitività che vi dà il nulla osta, diciamo, il placet rispetto sia a tutti quei mezzi che l’intelletto presenta, sia anche al loro ordine di preferenza. A questo punto, però, finchè non interviene la scelta, i giudizi pratico-pratici sono sempre ancora molteplici. Ci può essere quello preferenziale, per esempio io preferisco di andarci in treno, però se c’è lo sciopero, non so, ci andrò in taxi. O con qualche altro mezzo.

C’è, sempre in sostanza, la possibilità di scartare il giudizio preferito e di preferirne un altro. Quando interviene la scelta, questa possibilità di scartare il giudizio di prima non c’è più. Cioè io posso rifare la scelta, ma è nell’ambito di un altro atto, che rifaccio la scelta.

Quindi, ciò che dà in qualche modo una certa fissità, un carattere definitivo al giudizio pratico-pratico è appunto l’atto di scelta. E siccome non spetta all’intelletto dare questa immobilità, ma spetta piuttosto fornire il contenuto, dobbiamo pensare che spetterà all’altra parte, cioè alla parte volitiva agire scegliendo. Quindi l’atto di scelta è proprio della volontà.

Ora, per quanto riguarda il soggetto della scelta, è ovviamente un soggetto sempre e soltanto razionale. In poche parole, negli animali e tanto più nelle piante, insomma negli esseri inferiori rispetto all’uomo, non c’è la scelta. Anche qui bisogna essere moderatamente intellettualisti. Potremmo dire che proprio il fondamento, la radice della libertà che si manifesta nell’atto di scelta, è ancora l’intellettualità, la razionalità.

La libertà proprio strettamente legata alla razionalità. Senza razionalità non c’è libertà. Voi sapete bene che appunto San Tommaso considera la razionalità come costitutiva dell’uomo. Ottimista, dicono i nostri antropologi di oggi. Dicono: altro che razionalità! Tanti istinti, tanta libido freudiana, e al di sopra c’è una piccola, proprio millimetrica sfera, uno strato esiguo di razionalità. Ma per quanto esiguo, miei cari, notate bene che quello che conta non è la quantità; quello che conta è appunto la determinazione essenziale.

Purtroppo! Potessimo dire tutti, magari vivessimo, fossimo in grado di vivere sempre proprio a livello della nostra dignità, a livello appunto della nostra differenza specifica! Purtroppo non sempre ci è dato. Però, non c’è dubbio che quello che determina l’uomo, quello che lo costituisce essenzialmente, è appunto la sua razionalità.

Quindi il costitutivo formale dell’uomo è la razionalità. Però da questo costitutivo formale, come prima proprietà essenziale, scaturiscono tante altre proprietà essenziali. Una delle più importanti appunto è la libertà. Queste due proprietà, una fondante e l’altra derivata, si richiamano a vicenda: intelletto e libertà.

Quindi, in qualche modo, là dove non c’è la conoscenza dell’universale, del comune, non c’è nemmeno l’apertura dell’appetito conseguente la forma, non c’è nemmeno l’apertura dell’appetito, al bene universale o comune. Non c’è quindi neanche negli animali, che sono già dotati di conoscenza e quindi di un certo volontario, di una certa spontaneità, come abbiamo detto e che abbiamo definito come voluntarium imperfectum. Vi ricordate, no?  

Ebbene, anche negli animali, nei quali c’è già conoscenza, quindi una certa radicale immaterialità, non c’è tuttavia ancora la possibilità di quello che San Tommaso ama chiamare appunto la collatio, non c’è ancora la possibilità di conferre, di instaurare un confronto tra l’universale e il particolare o meglio ancora tra due particolari nell’ambito di un universale.

Il confronto tra due particolari, confronto assiologico, confronto di valore tra due particolari, tra due mezzi particolari, è possibile solo nell’ambito di un universale. Se io per esempio devo decidere sul mezzo del trasporto da adoperare per arrivare a una destinazione, debbo proprio astrarre, cioè non devo solamente avere presente il fine particolare: voglio arrivare lì. Ma devo in qualche modo considerare il viaggio in un modo astratto, per poi poter valutare le convenienze del medesimo a livello dei mezzi.

Quindi, là dove appunto la conoscenza c’è, ma è solamente del particolare, anche l’appetito sarà determinatum ad unum, l’appetito è determinato a una sola cosa. Quindi non c’è libertà. La libertà c’è là dove c’è possibilità appunto di seguire questa o quella strada, di optare per questa o quella alternativa. Questo dominio attivo della volontà è fondato sulla determinabilità del giudizio pratico-pratico, cioè sul fatto che l’intelletto pratico è in grado di afferrare la relatività, la ristrettezza, la particolarità del bene presentato da questo o quel giudizio pratico-pratico.

Questo è possibile solo se si afferra sia la ratio veri che la ratio boni. E’ necessario proprio avere presente, soprattutto poi la ratio boni, è necessario avere presente intellettivamente il concetto trascendentale del bene come tale, per poi poter confrontare i singoli beni tra loro nell’ambito della ratio boni.

Ora, è fin troppo evidente che di questa astrazione solo l’uomo è capace. E quindi solo l’uomo è dotato di libertà. Notate quindi che l’astrazione, miei cari, è una gran bella cosa. Perché spesso al giorno di oggi si amano i concretismi. Ma, effettivamente, se l’uomo non astraesse, non conoscerebbe intellettivamente. L’astrazione e la conoscenza intellettiva sono assolutamente sinonimi. E non solo non conoscerebbe intellettivamente, ma non sarebbe nemmeno in grado di scegliere con libertà.

C’è a questo proposito, solo a titolo di curiosità, un articolo di S.Tommaso. Leggetevelo per conto vostro. Fa’ un po’ sorridere, quasi. Però la risposta di S.Tommaso è come sempre geniale. Nella terza obiezione, nell’ad tertium, quella famosa obiezione riguardante gli istinti degli animali. Talvolta sembra che gli animali ragionino. Notate che questo, al giorno di oggi è proprio un argomento, argumentum princeps, per attenuare, diciamo così, le frontiere, che tuttavia sono fin troppo modeste, tra l’uomo e gli animali inferiori.

Notate che quello che dice qui S.Tommaso sarebbe ovviamente oggetto di facile derisione, anzi, senza quasi, certamente di derisione da parte dei nostri più aggiornati evoluzionisti. Un Teilhard de Chardin una cosa del genere non potrebbe accettarla. C’è in qualche modo una tendenza a pensare panteisticamente, perché non si scappa a questo, a pensare panteisticamente che i viventi si distinguono solo accidentalmente gli uni dagli altri. Esiste una specie di sostanza vivente, che è suscettibile poi di differenziazioni accidentali.

Invece, S.Tommaso è ben convinto che ogni animale, ogni essere vivente, è una sostanza a sè stante, proprio formata dalla sua propria forma, che è sua, specifica. E da forma a forma non si passa, se non cambiando sostanza. In tal senso non c’è dubbio che l’intelligere e il non-intelligere proprio sono, costituiscono un discrimine tra l’uomo e tutti gli altri esseri conoscenti.

La differenza tra l’uomo conoscente e gli animali conoscenti, è la differenza del conoscere intellettivo, proprio dell’uomo astraente, e del conoscere non intellettivo che invece è proprio degli altri animali

Al giorno di oggi, sia detto solo in parentesi, si pensa persino a delle macchine pensanti. Infatti, una macchina deve essere molto più intelligente di coloro  che pensano che una macchina possa pensare. Cioè effettivamente devo dire che, chi arriva a pensare che la macchina possa pensare, è stato superato da quella stessa macchina che ha costruito.

Ad ogni modo, il fatto è che c’è poco da fare. Il privilegio dell’uomo, con cui dobbiamo vivere, perchè è anche una grande responsabilità, è una grande dignità e una grandissima responsabilità, è quello di poter pensare, di poter astrarre. Però vero è che effettivamente gli animali inferiori, S.Tommaso si riferisce qui ai cani, hanno una certa sagacitas, come la chiama S.Tommaso. Talvolta sembrano quasi avere dei momenti di riflessione.

L’esempio è quello del cane, che quando segue la traccia di un cervo, cioè le vestigia, proprio le tracce di un cervo, dinnanzi ad un trivio, tre vie possibili, il cane si ferma: prova la prima via, prova la seconda e, se non trova la traccia nè nella prima nè nella seconda via, prosegue per la terza senza verifica empirica. Perchè mai? Perché, come sembra, ha fatto un sillogismo disgiuntivo.

Invece no, non ha fatto un sillogismo disgiuntivo, dice S.Tommaso, ma semplicemente, in qualche modo, in questa complessità di istinto, si manifesta la grandezza di una, certa razionalità, che però non c’è attivamente nel cane, ma della quale il cane partecipa, in quanto questa complessità di istinto è stata immessa in lui da Colui che lo ha creato.

Quindi, per San Tommaso sempre opus naturae est opus intelligentiae, l’opera della natura è sempre opera di intelligenza, ovviamente intelligenza creatrice negli animali più evoluti, espressione che non mi piace, diciamo negli animali più differenziati. Che poi l’intelligenza creatrice si manifesti maggiormente lì, ebbene, non c’è nessun dubbio.

E non c’è nessun dubbio nemmeno su quello che dicevano i neoplatonici e cioè che, quando un essere inferiore giunge alla sua perfezione, imita in qualche modo[13] ciò che è proprio dell’essere superiore. Quindi, gli animali, giunti alla perfezione della vita sensitiva, imitano quasi in qualche cosa ciò che potrebbe essere simile al ragionamento e alla riflessione.

Questo per quanto riguarda il soggetto della scelta. La scelta riguarda esclusivamente i mezzi. Questo lo possiamo dire brevemente e poi vi concedo la vostra ben meritata pausa. La scelta riguarda solamente i mezzi e non i fini, per il semplice motivo che la scelta segue il giudizio pratico-pratico, come abbiamo visto. E il giudizio pratico-pratico è un giudizio che ha per oggetto il fine concreto, non una proposta teorica di mezzi possibili, ma la proposta di un fine concreto.

“E’ meglio per te, figliolo mio”, mi dice la ragione pratica o meglio poietica in questo caso; “è meglio per te, figliolo mio, che tu prenda il treno delle 13.50 per andate a Mantova”, come treno, diciamo così, più diretto e via dicendo. Quindi, si potrebbe dire, c’è una certa preferenza fatta dal consilium, dalla deliberazione dell’intelletto pratico, che poi in qualche modo finisce con la determinazione di un giudizio pratico-pratico. Cioè è decisamente meglio per me, è da fare, è da prendere quel determinato mezzo di trasporto, nell’esempio che vi ho citato.

Quindi in qualche modo il giudizio pratico-pratico si presenta come la conclusione del sillogismo pratico. Avete la premessa, se volete, il consilium, la deliberazione. E poi, tramite questo deliberare, questo ragionare, si arriva a determinare appunto il giudizio pratico-pratico più consono al fine da raggiungere, che mi presenta il mezzo più consono al fine da raggiungere. Questo poi diventerà oggetto della scelta e sarà immobilizzato dalla scelta.

Quindi, come vedete, la scelta segue la conclusione, ciò che a livello di intelligenza pratica ha valore di conclusione, ossia il giudizio pratico-pratico. Ora, seguendo la scelta la conclusione dell’intelletto pratico, anche la scelta, se volete, perché appunto atto di volontà, deve avere sul piano appetitivo il valore di una certa conclusione.

Ora, in practicis la conclusione si pone sul piano dei mezzi, mentre i princìpi sono appunto i fini, Quindi, non c’è dubbio che la scelta non ha per oggetto i fini[14], ma dei mezzi. E’ chiaro che poi rispetto a una deliberazione, ciò che è fine può essere mezzo, rispetto ad una altra deliberazione. Così, dice giustamente S.Tommaso che  quello che è fine per il medico, come la salute fisica, non è fine per il cristiano, perchè per il cristiano il fine ultimo è la salute dell’anima, non la salute del corpo.

Quindi il cristiano dev’essere pronto a rischiare perfino la salute fisica, che invece il medico considera come il fine ultimo, non in assoluto, ma il fine ultimo della sua disciplina. Quindi lì ci possono essere degli spostamenti, ma quello che è sicuro è che del fine, in quanto è fine, non c’è scelta[15]. La scelta propriamente è dei mezzi. Va bene?

Noi scegliamo, ahimè, miei cari, vedete, noi scegliamo persino il fine ultimo, ma non in astratto, chè quello è già determinato; scegliamo però il fine ultimo in concreto. Suppongo che abbiamo fatto una buona scelta: abbiamo scelto il Signore Dio, come fine ultimo della nostra vita, no? Ma avremmo potuto scegliere anche il potere o il piacere o chissà che altro.

Perché questo? Appunto perché la conoscenza del fine ultimo …..

Termine della registrazione

Fine Prima Parte

 P. Tomas Tyn

 Registrazione a cura di Amelia Monesi - Bologna, 17 febbraio 1987

Trascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 5 marzo 2014

Testo rivisto con note da P. Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 6 agosto 2015


Nell’eseguire l’operazione, c’è un’avvertenza intellettiva, e non solo intellettiva, si può dire sommariamente conoscitiva, anche sensitiva, che l’opera è stata compiuta.

A questa avvertenza, diciamo così, a questa buona notizia che l’opera è stata bene eseguita, segue ovviamente il gaudium, la fruitio, dalla parte della volontà. E così tutto si compie in gloria, come si dice. Ossia, l’atto umano finisce con una certa gioia, gaudium. Notate l’ottimismo di San Tommaso. Secondo l’Aquinate l’agire è fonte, è fonte di gioia, dovrebbe essere appunto fonte di una certa delectatio.

La moralità dell’atto umano è costituita da questa sua parte, che è il giudizio pratico-pratico, è l’atto di scelta che lo immobilizza, che lo fissa.

È questo il punto misterioso. Cioè quello che possiamo sapere, è questa duplice priorità: da un lato la priorità dell’intelletto sulla volontà

 

Il primato spetta all’intelletto, che presenta l’oggetto. Da quel lato c’è il primato del giudizio pratico-pratico, che è già emesso. Però non è ancora immobile. Quello che lo fa diventare in qualche modo l’unico criterio di tutta l’azione che seguirà, è appunto la immobilizzazione derivante dalla scelta. E sotto questo aspetto è la scelta che predomina sul giudizio.

Vi dissi proprio a ragion veduta, che il giudizio pratico-pratico non presenta più una pluralità di mezzi, ma presenta un solo mezzo concreto. Però, prima della immobilizzazione della scelta, il giudizio pratico-pratico prevalente può essere quello, ma non è l’unico, ma ha accanto a sé tanti altri possibili giudizi pratico-pratici.

Faccio sempre il mio solito ridicolo esempio di un viaggio da compiere.

Immagini da Internet


[1] Giudizio di merito.

[2] Causae ad invicem sunt causae.

[3] Libertà del giudizio.

[4] Cioè della volontà.

[5] Fissazione, stabilizzazione.

[6] Come avvenga esattamente questa interdipendenza ci sfugge.

[7] Il giudizio.

[8] Dell’altra cosa.

[9] Stimolante.

[10] Però qui per “sostanza”  si potrebbe intendere  “materia”.

[11] Fissato. Per es.: “fissare una data”.

[12] La volontà non entra nel merito del contenuto intellegibile del giudizio, cosa di sola spettanza dell’intelletto, ma tiene fermo quel dato giudizio, onde rendere possibile l’azione secondo quel giudizio. Siamo nell’ordine dell’esercizio, non della specificazione.

[13] Il limite inferiore dell’ente superiore.

[14] In quanto, se devo scegliere i mezzi, si suppone che il fine sia già stabilito. Ma considerando la vita in generale o in assoluto, è chiaro che si impone anche e innanzitutto la scelta del fine. Infatti ho la possibilità di scegliere come fine della mia vita un fine onesto come un fine disonesto, posso scegliere Dio o il mondo.

[15] Nel senso che non posso non avere un fine. Omne agens agit propter finem. Non posso scegliere se avere o non avere un fine. Posso tuttavia e debbo scegliere il fine giusto.

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.