La luce della sofferenza - Giobbe e Gesù Cristo - Seconda Parte (2/2)

 

La luce della sofferenza

Giobbe e Gesù Cristo

 Seconda Parte (2/2)

 

 La risposta di Cristo

 Gesù Cristo suppone quanto Giobbe sa circa il rapporto di Dio con la sofferenza e ci insegna molte cose su di essa. Ci chiarisce le sue origini dal peccato originale, ci chiarisce perché essa può essere buona e voluta da Dio, ci chiarisce la sua funzione salvifica, ci chiarisce come liberarcene definitivamente.  Ci chiarisce che Dio ricava dal peccato di Adamo una felicità – la figliolanza divina – superiore a quella felicità umana che ci sarebbe stata se Adamo non avesse peccato.

Tuttavia, possiamo osservare che, se Dio avesse voluto, avrebbe potuto creare un’umanità gloriosa di figli di Dio esattamente come quella che risulta dall’attuale piano di salvezza, anche se non avesse permesso al peccato di entrare nel mondo e quindi anche se non fosse stata necessaria la redenzione di Cristo per raggiungere l’attuale scopo finale della storia della salvezza. Perchè Dio ha voluto non impedire il peccato? Non lo sappiamo, né Cristo ce lo ha rivelato, perché questo mistero è talmente intimo alla volontà divina e per noi impenetrabile, che può esser noto solo a Dio.

La risposta di Cristo al perché della sofferenza non si limita, come quella di Giobbe, a dirci che è gradita a Dio e quindi, nonostante l’apparenza contraria, che essa è buona perché voluta da Dio anche per l’innocente. Nel contempo Cristo conferma il principio di Giobbe che la sofferenza è un male da togliere e conferma che Dio premia i giusti e punisce i malvagi. Giobbe dice però che Dio per motivi a noi ignoti può far soffrire anche l’innocente. Invece Cristo spiega dicendo che questo innocente, che si offre a Dio per la salvezza dell’umanità, è Lui stesso.

Gesù risolve così l’apparente contraddizione di un Dio che sembra ad un tempo buono e cattivo, collegandosi anche con la profezia del Servo di Dio isaiano innocente e sofferente, che si offre in sacrificio di espiazione per la salvezza dell’umanità, per cui la sofferenza dell’innocente si inquadra nel tema mosaico del sacrificio dell’agnello pasquale.  

L’Antico Testamento presenta quindi con chiarezza due concetti riguardanti il rapporto di Dio con l’uomo, concetti che corrispondono ai dati della ragione e della teologia naturali, utili quindi per il dialogo interreligioso: il concetto che Dio castiga il malvagio e premia il giusto e il concetto che l’uomo, sentendosi in debito di colpa verso Dio, gli offre sacrifici per ottenere grazia e perdono.

Lo stesso Antico Testamento, così, pur mantenendo saldi questi princìpi, suscita con Giobbe la grave questione: se è vero che Dio è buono e giusto, come mai di fatto nella vita presente ci sono innocenti che soffrono come meriterebbe un malfattore e malfattori che vivono indisturbati senza sventure?

Giobbe sta fermo sui suddetti princìpi e risponde accorgendosi che Dio, senza mancare alla sua bontà e alla sua giustizia, può mandare al giusto la sofferenza per motivi suoi a noi incomprensibili, ma certamente validi. Giobbe però non va più in là. Sarà Cristo con la sua dottrina e con il suo esempio a svelarci ciò che a Giobbe era rimasto ignoto: la sofferenza dell’innocente Figlio di Dio è redentrice dell’umanità.

D’altra parte il profeta Isaia (c.53), considerando il significato espiatorio del sacrificio cultuale mosaico intuisce la possibilità che il perdono dei peccati possa essere ottenuto non tanto dal sacrificio di animali quanto piuttosto da un misterioso Servo di Dio che, innocente, offre se stesso prendendo su di sé il castigo del peccato, pagando al nostro posto e riconciliandoci così con Dio.

Gesù Cristo si aggancia all’intuizione di Giobbe del Dio buono che manda la sofferenza all’innocente e alla profezia isaiana del Servo di Dio innocente, che salva l’umanità con la sua sofferenza offrendosi in sacrificio espiatorio. Solo che Isaia sembra dire una cosa impossibile: come fa un uomo, per quanto innocente, a salvare l’intera umanità dal peccato con la semplice offerta di se stesso?

Gesù Cristo mantiene il principio che Dio premia i giusti e castiga i malvagi, ma chiarisce ciò che Giobbe non aveva capito nell’agire di Dio nei suoi confronti. Giobbe aveva capito che Dio, pur mandandogli la sventura, non per questo era ingiusto, ma lo faceva per un motivo misterioso senz’altro valido, ma che a Giobbe restava oscuro. Giobbe, anche se non capisce qual è questo motivo, accetta comunque la volontà di Dio e Dio lo libera dalla sua sventura rendendolo molto più felice di prima.

Gesù Cristo da una parte conferma ciò che Giobbe aveva capito e cioè il dovere del giusto sofferente di rassegnarsi alla volontà di Dio. E dall’altra aggiunge ciò che Giobbe non sapeva e che Cristo stesso rivela. Gesù infatti rivela la possibilità di un rito religioso sacrificale espiatorio, rivelando il significato della profezia isaiana sul Servo di Dio sofferente come riferita a Lui stesso. Egli è dunque il Giobbe che accetta serenamente la sofferenza per amor nostro dalle mani di Dio, ma è un Giobbe che sa perché Dio gli ha mandato la sofferenza: per riscattare l’umanità con l’offerta sacerdotale di se stesso in espiazione dei nostri peccati al nostro posto.

Ma ciò non vuol dire che in quest’opera di salvezza Cristo faccia tutto Lui e a noi non resti altro che godere dei frutti del suo sacrificio. Se vogliamo salvarci, anche noi dobbiamo prendere ogni giorno la nostra croce e salire sulla croce con Cristo.

Dopo tutto i colpevoli che devono scontare siamo noi e non Cristo innocente. Per questo siamo chiamati a fare la nostra parte con l’offerta di quel poco che possiamo offrire (che però per noi è molto), anche se è chiaro che la maggior parte del riscatto la paga Cristo che, essendo Dio, ha il denaro sufficiente per riscattarci dal peccato.

Dunque il motivo per il quale Dio fa soffrire l’innocente ce lo ha rivelato Gesù Cristo col suo sacrificio espiatorio, redentivo, riparatore, soddisfattorio. Se Giobbe sa che la sofferenza dell’innocente è cosa buona ed è voluta da Dio per un buon motivo, Gesù ci dice qual è questo motivo: ottenere dal Padre il perdono dei peccati, portare il peso delle nostre colpe, pagare il debito del peccato, liberarci da ogni male, vincere il demonio, ottenerci la vita eterna.

Cristo, attraverso l’insegnamento di San Paolo, che riprende l’insegnamento del Genesi, c’insegna che le pene della vita presente sono conseguenza del peccato originale, sicchè nessuno di noi è così innocente che quelle pene gli siano immeritate e che comunque la sofferenza dell’innocente, sul suo esempio di Agnello innocente che toglie i peccati del mondo, ci fa capire perché la sofferenza vissuta in Lui è cosa buona e quindi ci fa capire perchè il Padre ci manda la sofferenza.

Cristo conferma il dovere di lottare contro la sofferenza in noi e negli altri, ma, dato che comunque l’uomo nella vita presente non riesce mai del tutto a liberarsi dalla sofferenza ed anzi deve accettare il destino della morte, ecco che Cristo valorizza anche questa impotenza umana per trasformarla con la forza del suo sacrificio in principio di redenzione e di salvezza eterna.

Per il cristiano, che è un essere umano normale e non un masochista, la sofferenza resta sempre un male da combattere e da togliere, resta sempre ripugnante dal punto di vista naturale, ma, alla luce della fede, quando è inevitabile e ineliminabile, diventa buona, amabile, preziosa, utile e desiderabile buona, amabile preziosa come mezzo di purificazione dal peccato e via di eterna salvezza.

Non solo, ma può anche essere positivamente e intenzionalmente voluta e scelta con la dovuta moderazione e senza escludere il benessere personale, cercata e voluta come esercizio di penitenza, esercizio ascetico per l’acquisto delle virtù e come prezzo da pagare per il servizio del prossimo o per testimoniare la propria fedeltà a Cristo,

Occorre sfatare un’idea oggi corrente fra i buonisti e che fu già propria di Marcione nel sec.III, secondo la quale il Dio del Nuovo Testamento sarebbe meno severo di quello dell’Antico o addirittura, come crede Kasper[1], il Dio del Nuovo avrebbe cessato di castigare. Non è affatto vero; il Dio del Nuovo punisce ancor più severamente di quello dell’Antico, che pure appare così spaventoso. Ma ciò è del tutto giusto. Ciò infatti dipende dal fatto, come spiega bene la Lettera agli Ebrei[2], che avendo il Padre usataci con Cristo una maggiore misericordia, rifiutare Cristo è molto più grave che rifiutare Mosè. E se rifiutando Mosè si andava agli inferi, adesso chi rifiuta Cristo va all’inferno, che è una pena molto maggiore. Così pure è per quanto riguarda il premio celeste: se Giobbe spera di vedere il volto di Dio, il cristiano spera di contemplare la Santissima Trinità.

Il fatto che con l’Incarnazione Dio in Gesù non sia più soltanto in cielo nascosto come Padre, nella sua tremenda maestà, ma si sia rivelato in Cristo e in Gesù bambino, il fatto che sia stato presente tra noi e sia in noi, non ci autorizza a prendere Dio sottogamba come fosse Babbo Natale o il buon nonnino un po’ rimbambito. Tutt’al contrario: deve renderci ancora più attenti a non peccare, sapendo che adesso, se non ci pentiamo e non ci convertiamo, saremo puniti più severamente.

D’altra parte, benché Dio parlasse con tuoni e fulmini sul monte Sinai e avesse mandato il fuoco dal cielo su Sodoma e Gomorra, era poi in realtà un Padre tenerissimo già prima che incarnasse suo Figlio. E d’altra parte Dio non manda anche adesso i terremoti e le pandemie? E chi è capace di capire il linguaggio di Dio? Chi è capace di imparare queste lezioni?[3]

Né del resto il Padre adesso sarà meno severo se respingeremo il Figlio che tanta maggior pietà, tanto maggior amore e tanta maggiore tenerezza ha mostrato verso di noi peccatori. Tanta incredibile degnazione, tanto abbassamento, tanto pazzo amore, - quaerens me sedisti lassus - devono farci temere ancor di più, non di meno, pur in una maggiore sconfinata confidenza.

Consolare gli afflitti è un’arte non facile

Consolare gli afflitti nel corpo e nello spirito è una grande opera di misericordia, alla quale ogni cristiano è  tenuto, ma soprattutto il sacerdote, alter Christus, custode dei misteri della fede e della salvezza, benché anche lui povero peccatore, ministro di quel Cristo che ha dato se stesso per noi come sacerdote e vittima sull’altare della croce in riscatto dei nostri peccati e ci invita a percorrere anche noi la nostra via crucis per salire con Lui al cielo e risorgere con Lui a vita gloriosa e immortale dalle tenebre e dall’obbrobrio della morte.

Si tratta di un’opera difficile ma bellissima. Difficile perché bisogna, per essere persuasivi, saper illustrare e spiegare al sofferente, sempre che sia abbastanza lucido per poter seguire il nostro argomentare, un mistero soprannaturale e paradossale di valorizzazione della sofferenza, di come ci liberiamo dal peccato e dalla sofferenza proprio mediante la sofferenza, il mistero di una morte che uccide la morte.

Opera difficile, che richiede fede illuminata e pura e perfetta adesione al Magistero della Chiesa, perché si tratta di comunicare con persuasività e credibilità una verità sommamente consolante, nonchè con grande carità, perché la Croce è frutto dell’amore, con grande prudenza e discernimento, perché occorre applicare princìpi universali a singoli casi sempre uno differente dall’altro.

Prima di parlare, occorre pertanto capire la situazione particolare del sofferente, per dargli quella qualità e dose di medicina della quale ha bisogno e della quale è capace, perché una somministrazione eccessiva può provocare una reazione di rigetto e una somministrazione troppo scarsa non valorizza tutte le risorse del paziente.

Sappiamo che il mistero della croce, il «discorso», la «ragione» (logos) della croce, come dice S.Paolo, benché segno,  frutto ed effetto della sapienza e della potenza divine, è apparentemente contrario alla ragione: sembra insensato, assurdo, irrazionale e scandaloso.  Occorre pertanto presentarlo non tutto ad un botto, ma adagio, con cautela, delicatezza gradualmente, a piccole dosi, osservando ad ogni passo come reagisce il paziente. Se vediamo che rifiuta, è meglio non insistere ed arrestarci perché non è detto che questa resistenza nasca da incredulità, ma può benissimo nascere da momentanea incapacità di assimilazione.

Il mistero della croce è di per sé verità salvifica e consolante da annunciare a tutti. Non è verità facoltativa riservata al pluralismo religioso, ma è verità, è imperativo morale obbligatorio per tutti coloro che tengono alla propria eterna salvezza. Va annunciata non solo ai credenti in Dio, cristiani, ma anche ai pagani, agli ebrei e ai musulmani.

Non dobbiamo lasciare costoro nell’ignoranza o nell’equivoco col pretesto del pluralismo religioso o della libertà religiosa o della diversa sensibilità, ma dobbiamo persuaderli che sbagliano nel rifiutare il mistero della croce. Il pluralismo religioso è un valore solo laddove esso non intacca o non relativizza gli obblighi universali imposti da Cristo ad ogni uomo per salvasi, quale che sia la sua religione.

Relativizzare o render facoltativi questi obblighi non è rispetto della coscienza altrui. ma è defraudarlo del diritto di conoscere la verità. Prendere a pretesto il fatto che ci si può salvare anche errando in buona fede non è motivo sufficiente per evitare di annunciare la verità e di correggere coloro sbagliano. Resta vero comunque che non si deve prendere a pretesto il dovere di tutti di accettare il Vangelo per rifiutare quello che può essere un sano pluralismo religioso.

È sempre vero pertanto che se si rischia di annunciare questo mistero a chi non è in grado di capirlo e apprezzarlo o di annunciarlo in modo sbagliato, è meglio non annunciarlo, perché esso, anziché consolare, può apparire, come dice San Paolo, stoltezza per i pagani e scandalo per gli ebrei[4].  Che fare allora?

Il fatto è che, benchè in linea di principio si tratti di verità da annunciare a tutti, di fatto non a tutti, almeno per il momento, può e deve essere annunciata, perché di fatto non tutti sono disposti o preparati a capirlo e ad accoglierlo. In certi casi è meglio tenerlo nascosto. Il non parlarne non è reticenza o mancanza di coraggio o infedeltà al mandato missionario, ma è prudenza e carità. Non si può dare una medicina in sé buona a un malato che non è in grado di trarne beneficio. La si deve dare a chi può trarne vantaggio.

Consolare gli afflitti è opera bellissima, perché solleviamo il fratello dalle tenebre alla luce, dall’angoscia alla felicità, dalla disperazione alla speranza; lo liberiamo dai lacci della morte, dagli inganni, dai tormenti e dalle minacce di Satana.

Occorre innanzitutto che il sofferente si senta, si riconosca afflitto, sia in cerca di consolazione, abbia bisogno di essere consolato e chieda consolazione da chi spera di ottenerla. Ora, non tutti noi, anche se duramente provati, anche se soggetti a terribili sventure o minacce di morte o cose simili, sentono il bisogno di essere consolati e si sfogano con Dio come Giobbe, magari protestando e chiedendoGli perché li tratta così.

Occorre correggere quelli che se la prendono con Dio. Occorre consolare con l’insegnamento di Giobbe i sofferenti che credono in Dio, ma non sono preparati, per esempio cristiani tiepidi, massoni, ebrei o musulmani, a capire e ad apprezzare il modo cristiano di consolare.

La predicazione consolatrice deve dunque rivolgersi ai credenti in Dio, in quanto solo questi hanno l’umiltà di riconoscere la loro miseria e il peso della sventura che li affligge. Solo questi quindi chiedono consolazione, sapendo sì che Dio esiste, ma sentendosi comunque smarriti e da Lui abbandonati.

Per trovare le parole adatte non basta verificare se siamo davanti a un credente o un non credente. Anche quando sappiamo di essere davanti a un credente, bisogna andare adagio. Occorre saper valutare il grado della sua disponibilità all’ascolto e di capacità d’intendere le parole del Signore.

Occorre fornirgli ciò che può comprendere, apprezzare e assimilare, non di più per non provocare una reazione di rigetto, non di meno, affinchè possa trarre tutto il frutto possibile dalle nostre parole. Occorre colmare la sua mente di tutta la parola di Dio della quale è capace.

San Paolo distingue i cristiani fragili nel carattere, poco istruiti, deboli nella fede, bisognosi di latte, da quelli robusti, esperti, capaci di cibo solido (Rm 3,1-2). Potremmo parlare anche di credenti tiepidi e credenti fervorosi oppure di cristiani immaturi e cristiani adulti. Ci sono i principianti e gli avanzati. Esistono diversi gradi nelle virtù. Chi è meno perfetto non è un grado di compiere l’atto di chi è più perfetto e non glielo si può chiedere.

La dottrina e l’esempio di Giobbe possono essere adatti ai primi, meno generosi, capaci e coraggiosi. Invece, la proposta esplicita e motivata di portare la croce con Cristo è per i più illuminati nella fede, per i più generosi e docili alle divine disposizioni, per i più ferventi nella carità, nei più disposti al sacrificio.

La predicazione consolatoria ha la sua ragione d’essere ed ha speranza di riuscire efficace, se la persona afflitta che chiede di essere consolata o ha bisogno di essere consolata crede, almeno come Giobbe, nella giustizia, bontà e misericordia di Dio e si avverte come peccatrice, figlia di Adamo, bisognosa di espiare e fare penitenza dei propri peccati.

Su questo punto però l’esempio di Giobbe che si sente innocente e non pensa ad espiare i peccati propri o degli altri, può anche essere di scarso aiuto, anche se esistono effettivamente casi di persone buone alle quali capita una serie di disgrazie, tanto che comprensibilmente si chiedono angosciate e turbate come mai capita proprio a loro, come mai quel Dio che esse avevano servito con tanto zelo, le abbandona in tanta sciagura, per cui sono tentate di protestare e di rimproverare Dio di crudeltà o quanto meno di ingratitudine. Esse non capiscono che, come dice Cristo, siamo servi inutili. Occorre allora confortarle con una grande vicinanza affettiva, esortandole alla pazienza, alla speranza e alla preghiera.

Viceversa, un ateo o un panteista o uno gnostico non si avvertono come afflitti abbattuti dal male, perché spavaldamente si sentono nel Tutto, sono il Tutto e sono uno col Tutto. Guardano al cielo non in tono di supplica, ma di sfida. Non hanno bisogno di alcuna consolazione, perché bastano a se stessi, vedono la verità assoluta, posseggono la scienza assoluta, per la quale il loro io empirico s’identifica con l’Io assoluto. Non occorre dunque una verità consolatoria, perché a loro basta il semplice Assoluto da contemplare e da fruire, come nella visione di Spinoza, il quale dice che il saggio nel vedere la Sostanza, non piange o ride, ma soltanto sa e vede.

Infatti è chiaro che l’ateo, che non crede all’esistenza di Dio, non può chiedere consolazione a Dio. Ugualmente il panteista non ha bisogno di consolazioni divine, dato che si ritiene alla pari di Dio. E Dio evidentemente non ha bisogno di essere consolato.

Oppure c’è bensì chi sente il peso della colpa per aver peccato e sente quindi il rimorso e il rimprovero della coscienza per aver disobbedito a Dio, sente l’ira divina incombere su di lui. Ma non gli viene in mente di andare a confessarsi per non dover riconoscere che il turbamento che sente è il castigo del suo peccato, per non mostrarsi pentito e addolorato di aver peccato e di aver meritato i castighi divini, per non dover rifare il buon proposito di non peccare più, dato che il peccato lo attira.

Invece il buonista va dal prete modernista, il quale gli raccomanda di stare tranquillo: Dio continua ad amarlo con infinita tenerezza, ha pietà della sua fragilità e cacci l’immagine pagana del Dio adirato, vendicativo e punitore; un Dio che vuole essere rimborsato o ripagato. Dio non chiede niente, se non amore e confidenza. Dio è sempre con lui e vada pure avanti confidando nella divina misericordia che perdona tutti e sempre. Ma un Dio così non esiste.

Oppure va dallo psicanalista, il quale gli fornisce un ansiolitico considerando il senso di colpa del paziente non come stato di peccato (pregiudizio clericale), ma come un disturbo psicoemotivo dovuto alla repressione-rimozione sessuale: faccia sesso tranquillamente (etero od omosessuale) perché è il modo di scaricare la tensione e impedire al superego di opprimere l’ego con vani fantasmi medioevali riesumati dall’etica sessuale, causa di neurosi, propria della Chiesa Cattolica.

In conclusione, non è male far presente con tatto all’afflitto che le sue pene possono essere dovute a peccati anche solo veniali, commessi anche in un lontano passato, conti in sospeso, ai quali è dovuta una pena o riparazione temporale che, se non è scontata qui, bisogna scontarla in purgatorio. Il purgatorio è meglio farlo qui e adesso perché le sue pene sono più severe di quelle che possiamo scontare adesso e possono durare secoli e millenni, anche se è vero che in purgatorio c’è la consolazione della certezza di essere salvi.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 9 marzo 2024


L’Antico Testamento presenta con chiarezza due concetti riguardanti il rapporto di Dio con l’uomo, concetti che corrispondono ai dati della ragione e della teologia naturali, utili quindi per il dialogo interreligioso: il concetto che Dio castiga il malvagio e premia il giusto e il concetto che l’uomo, sentendosi in debito di colpa verso Dio, gli offre sacrifici per ottenere grazia e perdono.

Gesù Cristo da una parte conferma ciò che Giobbe aveva capito e cioè il dovere del giusto sofferente di rassegnarsi alla volontà di Dio. E dall’altra aggiunge ciò che Giobbe non sapeva e che Cristo stesso rivela. Gesù infatti rivela la possibilità di un rito religioso sacrificale espiatorio, rivelando il significato della profezia isaiana sul Servo di Dio sofferente come riferita a Lui stesso. Egli è dunque il Giobbe che accetta serenamente la sofferenza per amor nostro dalle mani di Dio, ma è un Giobbe che sa perché Dio gli ha mandato la sofferenza: per riscattare l’umanità con l’offerta sacerdotale di se stesso in espiazione dei nostri peccati al nostro posto.

Ma ciò non vuol dire che in quest’opera di salvezza Cristo faccia tutto Lui e a noi non resti altro che godere dei frutti del suo sacrificio. Se vogliamo salvarci, anche noi dobbiamo prendere ogni giorno la nostra croce e salire sulla croce con Cristo.

Immagine da Internet: Cristo crocifisso (particolare), Beato Angelico

[1] Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo. Chiave della vita cristiana, Editrice Queriniana, Brescia 2015.

[2] 10, 26-31

[3] Cf il mio libro Perché peccando ho meritato i tuoi castighi. Un teologo davanti al coronavirus, Edizioni Chora Books, Hong Kong 2020.

[4] Un esempio di questa prudenza che può sembrare reticenza, ma che in realtà è carità, ce lo dice il Papa stesso in un recente discorso fatto all’Associazione Talità kum di Vicenza il 2 marzo scorso, associazione che raccoglie genitori che hanno perduto un figlio.

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