I modernisti
sono i farisei di oggi
Ci difendiamo con le nostre labbra: chi sarà nostro padrone?
Sal 12,5
Rm 12,2
Un
malcostume diffuso
Una cosa della quale dobbiamo renderci conto
è che, dopo 110 anni dalla pubblicazione della famosa enciclica Pascendi Dominici gregis di S.Pio X, il modernismo
oggi esiste ancora, come già notava il Maritain nel lontano 1966[1],
ed anzi molto peggiore di quello di allora. Per la verità, il modernismo non è
mai stato sconfitto del tutto; e gli errori condannati da Pio XII nell’ Humani generis non sono altro che nella
linea degli errori modernistici condannati da S.Pio X.
Infatti, il modernismo non è stato solo quel
fenomeno storico, che fu affrontato da S.Pio X, con quelle precise caratteristiche
storiche, parte delle quali sono scomparse e oggi non sono più attuali, ma si
può considerare come uno speciale vizio dello spirito, come tale al di sopra
del tempo e che quindi, come tale, può sempre ripresentarsi nel corso del
tempo.
Che cosa sia, in questo senso, il modernismo,
lo dice la parola stessa: è una esaltazione idolatrica della modernità, è voler
essere moderni in un modo scriteriato, ossia fare della modernità presa in blocco,
ad occhi chiusi, senza distinguerne pregi e difetti, come un ideale o modello o
riferimento assoluti, al di sopra dello stesso Vangelo, dal quale in tal modo i
modernisti prendono solo ciò che a loro garba e respingono il resto.
Il modernismo si può considerare una forma
moderna di fariseismo, in quanto l’uno e l’altro sono ispirati da quell’ipocrisia,
che viene denunciata e condannata da Cristo, ipocrisia che è il vizio di chi
finge una religiosità, della quale non è interiormente convinto, dal che la sua
incoerenza fra la sua professione religiosa e la sua pratica di vita, tra
quello che dice e quello che fa. Cristo infatti associa talmente il farisaismo
all’ipocrisia, che il farisaismo è rimasto anche nei secoli seguenti fino
ad oggi come sinonimo di ipocrisia.
Ciò ci porta ad una considerazione secondo me
importante e che pochi fanno. Si suole attribuire la causa dell’attuale disagio
della Chiesa al contrasto ed alla competizione fra ultratradizionalisti e
modernisti; ed è giusto. Ma ciò che secondo me costituisce la radice prima del
male, che colpisce entrambi i partiti avversi, ma soprattutto i modernisti, è la
pessima abitudine, che si è creata e diffusa in molti, ad un uso capzioso e
disonesto della ragione e del linguaggio, nella falsa convinzione, di origine
occamista e luterana, che la fede si affermi facendo violenza alla ragione, e che la ragione non sappia
far altro che imbastire ragionamenti sofistici e ingannevoli, per cui il
credente, che vuol usare della ragione nel difendere o diffondere la fede, si
sente autorizzato a difendersi in modo sleale ed a parlare all’altro in modo
sleale, senza tener conto delle regole del pensare, del ragionare e del
parlare, che non sono solo regole grammaticali, tecniche o logiche, ma anche
atti umani volontari, i quali, in quanto tali, non possono non aver relazione
col bene e col male, col favore o col danno fatto al prossimo, per cui si può peccare
nel ragionamento non solo in senso formale usando le cosiddette «fallacie», ma
anche in senso morale, se sono usate con malizia per ingannare o per coprire i
propri misfatti. Ecco allora qui apparire il peccato di menzogna o di
ipocrisia.
Ci si è spinti talmente oltre in questa
adulterazione del retto pensare, che oggi sedicenti cattolici, sotto pretesto
di riconoscere il «diverso», giungono al punto di negare validità al principio
del terzo escluso, sostenendo, per esempio, che non si deve escludere che
all’alternativa «o è vero o è falso» si possa aggiungere una terza possibilità:
«è vero e falso». Sicchè il falso non è il contrario del vero, ma è
semplicemente «diverso»; il male non è opposto al bene, ma è semplicemente «diverso».
Come già fece Hegel, non ci si accontenta di
nascondere l’errore dietro l’apparenza del vero e il peccato sotto le sembianze
della virtù, ma si arriva a violare il principio di non-contraddizione, spingendo
al massimo l’ipocrisia e l’inganno di chi vuol far apparire vero non solo ciò che
è falso o incoerente, ma addirittura assurdo e impossibile[2].
Siamo nella totale insensatezza: non si potrebbe offendere il cattolicesimo in
un modo più grave.
Il
modernismo è manifestazione di ipocrisia
Come dice infatti Gesù: «il lievito dei
farisei è l’ipocrisia» (Mt 16,6). Per chiarire il rapporto del farisaismo col
modernismo, come forma moderna di ipocrisia, bisogna allora chiarire perchè
Gesù è così severo contro l’ipocrisia. Sembra infatti essere per Lui il
peggiore di tutti i peccati. C’è, è vero, gravissimo e imperdonabile, il
peccato contro lo Spirito Santo (Mc 3,28), ma a me pare che l’ipocrisia
manifesti la sua gravità, in quanto essa può essere ricondotta, come a sua radice prima, al
peccato di superbia, per la quale il
soggetto, centrato su se stesso anzichè su Dio, si chiude superbamente in punto
di morte all’offerta del perdono divino. Alla radice dell’ipocrisia dei farisei
c’è la superbia, per la quale essi, secondo l’accusa ad essi lanciata da Gesù
nel drammatico scontro con loro narrato da Giovanni (Gv 8, 31-59), non sono da
Dio, ma sono figli del diavolo (vv.38,
44).
C’è poi da tener presente che la condotta
dell’ipocrita, come la denuncia Gesù stesso, è fatta di apparenza esteriore per
ottenere prestigio, ammirazione, seguito, potere ed onori dalla gente. Per
ottenere questo, l’ipocrita assume nella
sua condotta e nelle sue idee ciò che è apprezzato dai potenti, dalla
maggioranza e dalle folle. Ora, però, l’oggetto di questo apprezzamento muta
col passar del tempo e con i mutamenti storici.
L’ipocrisia, che qui a noi interessa e alla
quale soprattutto si riferisce il Signore, è l’ipocrisia religiosa, il simulare
o fingere pubblicamente una pietà apparente, per attirare la stima e
l’ammirazione degli uomini pii, salvo però a tenere, soprattutto di nascosto,
una condotta immorale, del tutto in contraddizione con la finta pietà esteriore
manifestata in pubblico.
Da notare, però, che il tenere nascosto un certo
comportamento o un certo discorso non è sempre necessariamente ipocrisia, purchè
ciò che nascondiamo non sia in contrasto col nostro dire e fare esteriore.
Cristo stesso, infatti, ci comanda di non dire o mostrare a certe persone certe
verità o certi comportamenti in sé giusti e santi (Mt 7,6), ma che però, per
l’impreparazione del soggetto che ci ascolta, potrebbero essere fraintesi o
capiti alla rovescia o da malevoli farisei o da semplici innocenti.
Questo accorgimento è un espediente pedagogico
o anagogico funzionale all’iniziazione ai misteri della fede più reconditi,
elevati e lontani dal comune sentire, che, per essere compresi e apprezzati,
come per esempio l’Eucaristia, il significato della croce o della resurrezione,
richiedono appunto una preparazione, che è data ai soli iniziati.
C’è inoltre da considerare che ciò che
essenzialmente interessa all’ipocrita è la stima e gli onori da parte del
mondo, soprattutto la maggioranza della gente e il ceto dei potenti e delle
persone influenti, quali che siano. Per questo, l’ipocrita non crede necessariamente
all’assolutezza dei valori morali e religiosi, anzi può essere benissimo un relativista.
Quello invece a cui fa la massima attenzione,
è vedere quello che è in auge nel suo tempo e nel suo ambiente, fossero anche
falsi valori, e comportarsi praticando quei valori. In tal modo il successo,
che è ciò che unicamente egli desidera, è assicurato. Va di moda il
tradizionalismo? Ebbene, l’ipocrita si mostra un perfetto tradizionalista. Va
di moda il modernismo? L’ipocrita è un modello di modernista.
Per questo, non bisogna lasciarsi ingannare dal
fatto che i farisei del tempo di Gesù fossero tradizionalisti, per accusare di farisaismo
i lefevriani e scagionare i modernisti, che non sono tradizionalisti. Il cuore,
l’essenza, il «lievito» del farisaismo non sta qui. Al fariseo di oggi, al
fariseo di sempre non interessa niente tradizionalismo o modernismo. A lui,
come ho detto e ripetuto, interessa solo il plauso della gente. Egli oggi fa il
modernista, solo perchè va di moda il modernismo. Per questo ho detto che i modernisti
sono i farisei di oggi.
Da notare, inoltre, la differenza fra
ipocrisia e sfrontatezza. Non si tratta tanto di due peccati di diverso
contenuto specifico, quanto di un diverso modo di peccare: l’ipocrita sembra
esteriormente una persona virtuosa, ma pecca di
nascosto o quanto meno è incoerente fra il dire e il fare, è una persona
dalla lingua doppia (cf Sir 28,13), che serve due padroni (Mt 6,24): Dio e mammona.
Viceversa lo sfrontato è colui che pecca
sfacciatamente, apertamente e manifestamente coram populo, senza alcun ritegno o vergogna, ma anzi spavaldamente
ed vantandosi del suo peccato o andandone fiero. Ebbene, S.Tommaso, trattando
l’argomento ipocrisia[3],
pur riconoscendo che può essere peccato mortale, nota che almeno l’ipocrita
salva le apparenze e non ha la sfacciataggine di chi pecca apertamente.
Il Concilio
Vaticano II continua la Pascendi
Alcuni hanno pensato che le dottrine del
Concilio Vaticano II, promovendo un incontro
con la modernità, abbiano reso inattuale la Pascendi.
Invece bisogna dire a chiare lettere che la Pascendi
non contrasta affatto col Concilio Vaticano II. Anzi si completano a
vicenda: la Pascendi è preoccupata di
mettere in guardia contro gli errori moderni. Il Concilio vuole accogliere i
valori del pensiero di oggi.
Con l’espressione «pensiero moderno» si
possono intendere due cose: o il puro e semplice fatto del pensiero di oggi, ossia
che cosa si pensa generalmente oggi; oppure il pensiero nato da Cartesio e da
Lutero e sviluppatosi attraverso Kant fino ad Hegel e Marx: la cosiddetta
«modernità». Ora, c’è da osservare che, se per pensiero moderno intendiamo il
semplice fatto di ciò che gli intellettuali pensano oggi, allora possiamo far
rientrare nella categoria del pensiero moderno anche pensatori che attingono al
pensiero antico, come per esempio Heidegger e Severino, che attingono a
Parmenide; Nietzsche, che attinge al mito di Dioniso o di Prometeo; Raimundo
Panikkar, che attinge all’antica sapienza indiana; gli gnostici come Marcione;
i kabbalisti come Isacco Luria; i panteisti come Scoto Eriugena; gli
evoluzionisti come Darwin, Bergson o Teilhard de Chardin, che si rifanno ad
Eraclito; o dubbi mistici come Eckhart e il Cusano o fenomenisti come Husserl e
Schillebeeckx, che riprendono il sensismo dei presocratici o sofisti come John Bertrand Russell, che riprende l’antica
sofistica greca o quella di Ockham, od ontologisti come Bontadini, che riprende
l’idealismo di Platone o come la massoneria, che si ispira all’ermetismo, alla
teurgia e all’antico gnosticismo.
Tuttavia è interessante come tutti questi
pensatori in un modo o nell’altro, implicitamente o esplicitamente, fanno capo
a Cartesio e a Lutero, da loro stessi designati come iniziatori del «pensiero
moderno», che essi contrappongono alla scolastica medievale. È evidente, dietro
a questo disprezzo per la scolastica, in particolare per S.Tommaso d’Aquino, il disprezzo per il
pensiero cattolico.
Eppure
anche in questa massa imponente di pensatori è possibile riscontrare, accanto ad
errori, importanti valori, che hanno fatto avanzare il pensiero fino ad oggi,
come notò soprattutto il grande filosofo e teologo tomista Jacques Maritain,
dando egli stesso l’esempio, con la sua ricchissima e qualificatissima
produzione durata per un cinquantennio, dagli anni ’20 agli anni ‘70, l’esempio
di come si poteva e si doveva congiungere la sublime sapienza dell’Aquinate col
pensiero moderno. E questo è precisamente il compito che il Concilio Vaticano II
si è prefisso nel campo della cultura e che ha assegnato ai pensatori, intellettuali,
artisti, poeti, letterati, scrittori, filosofi
e teologi cattolici di oggi.
Quanto ai modernisti, sono coloro che male
hanno interpretato questo grandioso progetto del Concilio, progetto tale da
avviare una svolta epocale del pensiero e del costume cattolico, come se il
Concilio esortasse ad assumere acriticamente, senza discernimento, tutta la modernità
in modo supino ed idolatrico, prendendo dal Vangelo ciò che piace e respingendo
ciò che non piace, quando invece è il contrario che bisogna fare, ossia
vagliare la modernità e prendendo da essa ciò che si concilia col Vangelo e respingendo il resto.
Bisogna tuttavia dire, ad onor del vero, che
i modernisti dei tempi di S.Pio X non avanzarono un’istanza sbagliata, tutt’altro:
forse anche da qualche secolo gli spiriti più chiaroveggenti del cattolicesimo,
come un S.Francesco di Sales, un S.Filippo Neri, un S.Francesco Saverio o un Matteo Ricci o un
Card.de Bérulle, protettore di Cartesio, e lo stesso Galileo Galilei
avvertivano la necessità che la Chiesa fosse più attenta alle novità ed alle istanze
positive del’insorgente modernità.
Lo stile dei
modernisti
I modernisti si ritengono la punta avanzata
della Chiesa, sempre guidati dallo Spirito Santo, protagonisti profetici di una
«svolta epocale», realizzatori, anzi superatori del Concilio, perché convinti
di proporre idee ancora più avanzate.
Come i farisei del tempo di Gesù, con le loro menzogne e i loro
intrallazzi, lisciando Superiori corrotti e compiacenti ed adeguandosi alla
moda, sono ormai riusciti, sembra, a realizzare il loro sogno tenacemente
coltivato da cinquant’anni, di conquistarsi numerosi posti-chiave nella Chiesa
e a formarsi in essa una claque entusiasta,
una numerosissima schiera di fanatici discepoli, alcuni, ingenui; altri, furbi;
tutti senza discernimento come gli abitanti di Ninive e vogliosi di servire Dio
e mammona.
I modernisti sono generalmente persone dal
cuore indurito e impenitente, per la loro presunzione, per il loro orgoglio e,
come già denunciava la Pascendi, per
la loro «superbia» (nn.83 e 90). Non c’è verso che ascoltino i buoni consigli
ed alcun richiamo al pentimento, che sono ad essi indirizzati da veri profeti,
e da buoni pastori, teologi e fedeli.
Essi sono irremovibili e perseverantissimi nei
loro errori, proprio loro che non fanno altro che parlare di cambiamento, di
mutamento, di divenire e di movimento, mettendo il divenire persino in Dio. Ma
loro non li smuove nessuno. Tirano diritto imperterriti per la loro strada verso
il precipizio con albagia e sussiego, evitando di rispondere alle critiche che
ne demoliscono le posizioni, e lo fanno sia
perchè tali critiche han fatto loro chiuder la bocca, sicchè non hanno modo di
giustificarsi, e sia per disprezzo verso i loro avversari, bastando loro
l’appoggio dei loro forti sodali e numerosi ammiratori e seguaci.
I modernisti non possono essere tutti in buona
fede e vittime di errori invincibili, ma sanno benissimo quello che pensano e
che vogliono: ridurre la Chiesa a una realtà puramente terrestre ed
assoggettarla al mondo moderno, in particolare al rahnerismo, al luteranesimo,
alla massoneria, al sionismo, all’Islam e al comunismo. Ora, è impossibile che
un laureato alla Gregoriana o alla Lateranense non sappia distinguere gli
articoli della fede dalle eresie. Quindi, se sostiene un’eresia, non è perchè lo
faccia preterintenzionalmente o involontariamente, ma proprio perché è convinto,
come un Lutero o un Ario o un Nestorio, che quella sia la verità evangelica
contro le menzogne del Papa e del Magistero della Chiesa. Del Catechismo della Chiesa cattolica e del
Diritto canonico se ne infischia.
Il vero
progresso non c’entra col modernismo
Non bisogna confondere il progressismo col
modernismo, così come non bisogna confondere il tradizionalismo cattolico, come
per esempio quello di un Garrigou-Lagrange, un Card.Ottaviani o del
Card.Parente o del Card.Siri o di Padre Tomas Tyn, rispettosi delle dottrine
del Concilio, col tradizionalismo farisaico di coloro che si sono opposti alle
dottrine del Concilio credendole moderniste. Questo è l’equivoco tipico dei lefevriani.
Invece il progressismo, come per esempio
quello di Maritain, Gilson, Congar,
Fabro, Daniélou, Journet, Spiazzi e molti altri, per non parlare del Magistero dei
Papi del postconcilio, è il saggio, doveroso ed intelligente atteggiamento,
ispirato dal Concilio, di coloro che sanno vedere la continuità fra la fede della
Chiesa medioevale e quella della Chiesa del Concilio, senza opporre la scolastica
medioevale a quella moderna, e sono capaci di intendere il senso salvifico dello
sviluppo storico, nonché il dovere di ogni cristiano e della Chiesa stessa di progredire di giorno in giorno nella
conoscenza della verità e nella pratica del bene.
Il giusto progresso deve realizzarsi
nell’ambito del vero e del bene. Dev’essere un passaggio dalla potenza
all’atto, dall’imperfetto al perfetto, dal bene al meglio; nella vita: dalla
nascita alla crescita; dall’inferiore al superiore; dal difettoso o all’integro;
dal poco al molto; dal vecchio al nuovo. Nella conoscenza: dall’implicito
all’esplicito; dall’inconscio al conscio; dalle premesse alle conseguenze. Nella
morale: dalle tendenze alla loro attuazione; dagli abiti alle virtù; dalla
virtù imperfetta alla virtù perfetta; dalla ragione alla fede; dal peccato alla
giustizia; dalla giustizia alla carità; dalla virtù alla mistica; dall’uomo
vecchio all’uomo nuovo; dalla terra al cielo.
L’onestà
intellettuale nella teologia medioevale
Occorre notare a questo punto che principio e
regola prima del pensare e del ragionare propri della teologia scolastica
medioevale sono l’onestà intellettuale e l’accettazione leale, docile, semplice
ed umile delle cose come sono e dell’evidenza oggettiva sia del senso che dell’intelletto.
Da ciò consegue una raffinata arte della
disputa, del dialogo e della discussione, una capacità di persuadere e di convincere
basata sulla ragionevolezza e la carità, cose delle quale noi, che ci vantiamo
a proposito e a sproposito di essere i maestri del dialogo e dell’ecumenismo e
i nemici del dogmatismo, mentre siamo degli inconcludenti chiacchieroni, non abbiamo
neanche l’idea, denigrando e deridendo scioccamente e da ignoranti le lunghe e complesse
dispute medioevali, i cui preziosi frutti oggi sono proprio quelli che stiamo
dissipando per tornare all’arte di Protagora e
di Gorgia e alla falsa saggezza di Sesto Empirico, di Aristofane, di
Lucrezio e di Epicuro.
Il teologo medioevale ammette certamente di poter
sbagliare in buona fede, ma all’accorgersi
dell’errore, è pronto a correggersi. Egli sa che è possibile entro certi limiti
conquistare e possedere la verità, ma che nel contempo non si è i padroni e i
creatori della verità. Non c’è ostinazione
nelle sue idee, perché sa che la verità è data dall’adeguazione del nostro
giudizio alla realtà così come è e che essa non è posta dal nostro pensiero, ma
è creata da Dio indipendentemente da noi.
È il
famoso «realismo medioevale», tanto scioccamente preso in giro dagli idealisti
tedeschi, nonchè dagli scettici e i soggettivisti di ogni tipo. È quella preziosa
virtù intellettuale, che Cristo chiama «semplicità della colomba», senza che per questo sia esclusa la «prudenza
del serpente», ossia la riflessione e la saggezza del giudizio critico.
Il metodo del pensare e del ragionare
medioevale, e la corrispondente regola del
linguaggio, sono largamente influenzati dal famoso «sì, sì; no, no» di
evangelica memoria (Mt 5,37): limpidezza, onestà, coerenza, obbiettività, sincerità.
L’atmosfera intellettuale è dominata dalla logica di Aristotele, con
particolare attenzione agli Elenchi
sofistici, il VI libro dell’Organon[4],
dedicati alla esposizione e alla messa in guardia dai ragionamenti falsi,
scorretti, ingannevoli, capziosi e sofistici.
E lo stesso S.Tommaso non mancherà di scrivere l’opuscolo De fallaciis ad quosdam nobiles artistas[5],
che tratta dello stesso argomento.
A disturbare, però, questa atmosfera di
serenità speculativa e di leali dispute teologiche, in un’Europa cristiana,
dove la teologia, pur fondata in ragione, è spesso espressione sapienziale
della pietà, della santità, per non dire della mistica, ci fu l’influsso dei
filosofi islamici, che dettero origine alla dottrina della «doppia verità», una
legittimazione della doppiezza autorizzata dallo stesso Corano, il cui Dio
dispotico ed inaffidabile si riserva a suo arbitrio e per i suoi insindacabili comodi,
quando e come vuole, di mentire perché cosi gli piace, mentre autorizza il
fedele all’inganno e alla menzogna, se ciò serve alla diffusione dell’Islam.
Questo pensare, questo filosofare, questo
ragionare, questo dialogare, questo disputare in un clima di fede, di comunione
fraterna, di valori vitali condivisi, di onestà intellettuale, di grazia, di
carità e di rispetto per la verità, è
ciò che fa il fascino incomparabile e lo «spirito della filosofia medioevale», per riprendere il tutolo di un’opera
magistrale di Etienne Gilson[6].
L’uomo medioevale conosce la stessa peccaminosità
che abbiamo noi oggi; ma sapeva riconoscerla, pentirsene e riparare davanti a
Dio e agli uomini. Ed aveva notoriamente una pietà religiosa più diffusa, più
sincera e più intensa della nostra.
L’uomo
medioevale poteva essere un dissoluto e compiere delitti orribili verso il prossimo,
anche peggiori di quelli che commettiamo noi oggi. Ma aveva notoriamente un senso
della trascendenza divina e un timor di Dio molto maggiori del nostro; e questo
lo salvava. Invece noi oggi siamo certamente più progrediti in tante cose materiali,
tecniche, mediche, scientifiche, economiche, civili ed umane, ma l’ateismo,
l’empietà, l’indifferentismo, l’irreligione, la bestemmia, la spavalderia, lo
gnosticismo, il panteismo, l’arroganza e l’albagia prometeiche, l’autoincensazione
vanitosa e l’autoreferenzialità narcisistica sono all’ordine del giorno e non
promettono nulla di buono, se non ci convertiamo al più presto.
Guglielmo di
Ockham e i suoi epigoni
Solo con Ockham, nel sec.XIV, dopo la
scomparsa dell’antica sofistica con l’avvento del cristianesimo, riappare lo scetticismo,
lo spirito ipercritico e demolitore proprio dei sofisti presocratici, che nei
secoli seguenti finirà col caratterizzare larga parte dello spirito moderno.
Animato da tale spirito, Ockham getta il
dubbio su quelle certezze che la scolastica aveva da secoli diligentemente e
laboriosamente fondato e stabilito in ragione, come il valore oggettivo del
principio di non-contraddizione e degli universali, il valore della metafisica,
la dimostrazione dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, il valore
dell’onnipotenza e della libertà divine, l’assolutezza della legge morale. Da
Ockham derivano i pericoli dottrinali e morali insiti nella modernità e quindi
gli errori del modernismo.
Portiamo alcuni esempi dell’ipocrisia ovvero
del farisaismo di cristiani, che nel loro ragionare, sostituiscono l’astuzia
alla lealtà: Lutero, Cartesio ed Hegel. Essi sono i modelli e i padri
dell’attuale modernismo, dell’ipocrisia e della doppiezza moderne. Si dicono ed
appaiono cristiani, ma lo sono veramente? Hanno una vera fede? Parlano della
Bibbia e dei dogmi cristiani, della fede cristiana: ma come la intendono? In
conformità alla dottrina della Chiesa? Per nulla, al contrario dei teologi
medioevali, fedeli al Magistero della Chiesa.
Tutti e tre ammettono certamente l’esistenza
di Dio e il valore della religione. Ma come? A quali condizioni? Ma poi, più
profondamente: quale Dio? Un Dio che
sta alla pari della mio io: la «mia
coscienza» di Lutero, il cogito di
Cartesio, l’autocoscienza di Hegel. Dunque due padroni: l’io e Dio, con la
pretesa di servirli entrambi: fingo di servire Dio, ma in realtà servo me stesso.
Ecco l’ipocrisia.
Lutero, a tutta prima, con la sua violenta
polemica contro la ragione, corrotta dal peccato, orgogliosa e sofista, da lui
chiamata la «puttana del diavolo», sembrerebbe voler renderla umilmente
sottomessa alla fede. Sembra combattere l’ipocrisia farisaica di chi pretende
di gloriarsi dei propri meriti e di vantarli davanti a Dio.
Ma poi, come è noto, egli esagera nella
polemica contro la ragione e contro le opere, non riconoscendo alla volontà la
capacità di fare il bene e alla ragione la capacità di cogliere il vero, la sua
funzione di preambolo della fede e di strumento della teologia, come se la
mente umana dovesse e potesse essere illuminata direttamente dalla divina
rivelazione, e la volontà mossa ad agire
sempre sotto l’impulso dello Spirito Santo, senza la mediazione della ragione e
del prossimo (la Chiesa), cosa che è possibile solo alla mente divina, che
illumina Se stessa.
In tal modo, Lutero, in nome dell’obbedienza
libera e interiore allo Spirito e al Padre celeste e della fede in Cristo,
scatena la famosa polemica contro il supposto farisaismo e il legalismo dei
monaci. Tale polemica può a tutta prima assomigliare a quella di Cristo contro
i farisei. Ma a un certo punto in Lutero appare un io attaccato a se stesso
nell’irremovibile, presuntuosa ed irragionevole convinzione che si era fatto,
contro l’ammonimento che gli aveva fatto il Papa, di essere predestinato alla
salvezza, indipendentemente dalle opere.
A questo punto ecco apparire l’ipocrisia,
l’astuzia, la disonestà e la doppiezza. Lutero, per difendere il proprio
errore, ricorre a quei ragionamenti capziosi e astuti, che aveva imparato da
Ockham e che pur all’inizio aveva condannato e adesso attacca i suoi avversari
fedeli al Papa e il Papa stesso facendo uso proprio di quella ragione sofistica
che aveva chiamato puttana del diavolo. Se questa non è ipocrisia, ditemi che
cosa è l’ipocrisia.
Cartesio similmente dubita dell’indubitabile,
stabilisce col suo cogito una
certezza forzata, non fondata non sul dato oggettivo, ma sulla volontà[7],
toglie alla ragione la sua semplicità, la contorce su se stessa e la getta nel
precipizio con la pretesa che gli angeli vengano a soccorrerla. Dio ha pietà
degli umili, non dei gradassi e di coloro che Lo tentano. Anche alla radice del
cogito cartesiano non c’è l’io che si
apre a Dio, ma l’io centrato su se stesso sotto le apparenze della pietà.
Dalla metafisica cartesiana non può sorgere
una autentica morale oggettiva, perché Cartesio, benché riconosca la natura
umana composta di anima e corpo, prende delle posizioni filosoficamente
infondate, sulle quali è impossibile edificare un’autentica morale. Il fattore
che si salva è il libero volere, ma dalla visione cartesiana, fondata sul cogito e non sull’esperienza, è
impossibile ricavare leggi e fini, che sono materiale indispensabile per
costruire una morale. Resta indubbiamente l’istanza della libertà, che fonda la
dignità dell’agire umano. Cartesio riconosce altresì che la libertà nasce
dall’agire secondo ragione, nonché il dovere di dominare le passioni. Ma su tutto
l’agire domina l’ombra del cogito e
non di un Dio come fine ultimo dell’uomo; il che sembra sottrarre l’agire umano
alla signoria divina e far dipendere tutto dal cogito e dalla libertà, cosa che rischia di condurre all’ateismo, e
difatti gli atei e i libertini francesi del ‘700 si richiameranno proprio a
Cartesio.
Ma ecco allora l’astuzia di Cartesio, il
quale, prevedendo lo scandalo che avrebbe suscitato una simile morale fondata
solo sul proprio io e sulla libertà, come già aveva fatto Lutero, e che appunto
avrebbe avuto il suo riconoscimento da parte del luterano Hegel, per precauzione
si astenne dal chiarire come intendeva la sua morale e coprì la sua tesi esplosiva
col velo di quella che chiamò «morale provvisoria», praticamente un adattamento
furbesco e senza sincerità alla morale cristiana corrente, giacchè questa non
corrispondeva alle sue reali intime convinzioni discendenti dal cogito. Operò dunque per convenienza,
cioè per non incorrere nei rigori dell’Inquisizione, che comunque condannò le
sue opere nel 1663.
Con Hegel l’ipocrisia farisaica giunge al
culmine. Se con Lutero e con Cartesio l’io serve a due padroni, cioè a Dio e a
se stesso, con Hegel a l’io serve solo a se stesso perché si considera come la
manifestazione dello Spirito Assoluto, sostituendosi a Dio o innalzandosi fino
a Dio[8].
L’apparenza di spiritualità nasconde il più totale egocentrismo.
Se in Lutero e Cartesio c’è un dualismo o una
separazione fra il pensiero e l’azione, se il pensiero non serve all’azione e
l’azione non serve al pensiero, e quindi non c’è coerenza fra pensiero e
azione, le opere in Lutero non mettono in pratica la fede e l’agire in Cartesio
non è la prassi della ragione, in Hegel l’incoerenza si aggrava nella legittimazione
del contradditorio: il pensiero s’identifica con l’azione, l’essere col
non-essere, il vero col falso, il bene col male. Non solo il no passa nel sì e
il sì nel no, ma il sì coincide col no e il no coincide col sì. Dio esiste e
non esiste. Ogni ente esiste e non esiste; ogni proposizione è vera e falsa;
ogni azione è buona e cattiva.
È interessante notare come questi personaggi si
atteggiano nei confronti della ragione. Tutti e tre sono nemici della teologia
scolastica, di Aristotele e di S.Tommaso. Per quale motivo? In nome di che
cosa? Come considerano se stessi? C’è modestia? C’è umiltà? C’è rigore, onestà,
coerenza e limpidezza nel ragionare? Sanno dimostrare quello che dicono o ci
prendono per allocchi? Portano prove convincenti? Su cosa fanno leva? Sulla
forza della ragione e della fede o sulla debolezza della nostra ragione e della nostra fede?
Riconoscono le prime evidenze immediate della
ragione e dell’esperienza? C’è obbiettività e imparzialità nel pensare? Si è
liberi da pregiudizi, dai partiti presi o da interessi personali o dal desiderio
di successo o dalla soggezione all’opinione altrui o dalla voglia di dominare gli
altri o di passare per dei geni?
Se fossero esaminati ad un esame di onestà, dovendo
rispondere a tutte queste domande, certamente non passerebbero all’esame. Ma è
tanta la loro furbizia e, per converso, tanta è l’ingenuità, per non dire la
dabbenaggine buonista (spesso interessata) di tanti nostri contemporanei, che si
credono critici avveduti, che quegli esimi impostori, ancora dopo secoli,
riescono ad ingannare anche menti nobili ed elevate, le quali non imparano
nulla dai disastri morali prodotti dalle loro idee.
È giunto allora il momento di prendere atto
che a partire da Ockham, il «venerabilis Inceptor», Francescano nell’abito ma
non nello spirito, la cristianità europea ha preso una via sbagliata, che ci ha
portati sempre più lontano da Dio, dalla verità, dai buoni costumi morali e
dalla felicità, il che non significa assolutamente misconoscere i progressi compiuti
da allora dalla scienza, dalla tecnica, dalla filosofia, dalla teologia, dalla
civiltà e dalla Chiesa stessa con i suoi sapienti e i suoi santi, fino al Concilio
Vaticano II e alla Chiesa attuale del postconcilio. Occorre tuttavia salvare questi
valori e queste conquiste, e liberarci una volta per tutte da una ragione
malsana e disonesta, per recuperare quanto nella sapienza del Medioevo c’è di quel Logos della fede in Cristo, Che è
«sempre lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8).
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 8 marzo 2020
[1] Ne Le
paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, Paris 1966, p.16.
[2] È questo l’assunto sostenuto da C.Giaccardi e
M.Magatti, La scommessa cattolica, Editrice
Il Mulino, Bologna, 2019, pp.85-86.
[3] Sum.Theol.,
II-II, q.111, a.2.
[4] Organon,
a cura di Maurizio Migliori, Edizioni Bompiani, Milano 2016.
[5] In Opuscula
philosophica, a cura di R.Spiazzi, Edizioni Marietti, Roma-Torino 1954,
pp.223-240.
[6] Vedi l’Edizione della Morcelliana di Brescia
del 1964.
[7] Il Padre Fabro osserva giustamente che il cogito in realtà è un volo. Cartesio, che, da buon
volontarista, resta occamista,
sostituisce infatti nella conoscenza la volontà all’intelletto.
[8] Sull’etica di Hegel, vedi: Massimo Borghesi,
L’età dello Spirito in Hegel. Dal Vangelo
«storico»
al Vangelo «eterno», Edizioni Studium, Roma 1995, cc.V e VI; Vito Mancuso, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del «Principe
di questo mondo», Edizioni
Piemme, 1996, pp.274-276; J.Maritain, La
filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana,
Brescia 1971, pp.241-248.
Caro Padre Cavalcoli,
RispondiEliminanon puoi immaginare il piacere che mi dà leggere e rileggere i suoi articoli, non importa quanto lontani possano essere. Questo, ad esempio, di due anni fa, è altamente suggestivo! E mi fa suggerire sfumature, o dubbi, o domande, che a volte resisto a trasmetterli, per non infastidirli.
Permettimi almeno uno:
Il fatto che lei affermi (e giustamente) che "non bisogna lasciarsi ingannare dal fatto che i farisei del tempo di Gesù fossero tradizionalisti, per accusare di farisaismo i lefevriani e scagionare i modernisti, che non sono tradizionalisti", e che dopo la sua argomentazione ragionata, concludi dicendo che "i modernisti sono i farisei di oggi", questo porta a negare che anche i tradizionalisti (o passatisti) di oggi sono farisei?...
Caro Silvano,
Eliminai farisei dell’epoca di Gesù erano sostenitori della tradizione. Quindi possiamo dire che, sotto questo aspetto, i modernisti di oggi non sono farisei.
Tuttavia, se per fariseo intendiamo una persona ipocrita o doppia, possiamo dire che, in vari modi e diverse misure, sia i modernisti che i passatisti sono farisei.