Israele popolo di Dio - Prima Parte (1/2)

 

Israele popolo di Dio

Prima Parte (1/2)

Sorprende come il popolo ebraico

 sappia conservare la propria identità razziale

La Sacra Scrittura, rivelazione di Gesù Cristo, Figlio di Dio, è la testimonianza scritta delle origini, dei protagonisti, della sapienza, delle istituzioni, della letteratura e della storia travagliata ed edificante, amara ed entusiasmante, scandalosa ed affascinante, umanissima e straordinaria, banale e prodigiosa, unica tra quella di ogni altro popolo, di un popolo prediletto da Dio, il popolo d’Israele, perciò detto «popolo di Dio».

Israele è un popolo di una precisa razza, di una precisa lingua, di una precisa religione, organizzato secondo un preciso sistema politico, proprietario di un preciso territorio: il popolo ebraico o popolo d’Israele, oggi costituente lo Stato d’Israele residente nel suo territorio con capitale Gerusalemme.[1]

Come sappiamo dalla Scrittura, il popolo d’Israele ha inizio con Abramo, padre di Isacco, padre di Giacobbe, che appunto assunse il nome di Israele. Il termine Israele significa «Dio è forte». Significativo è il fatto che tra tutti i nomi degli Stati del mondo, Israele è l’unico dove il nome di Dio compare nello stesso nome dello Stato. Come è noto Dio promette alla discendenza di Abramo il possesso di una terra, che successivamente si rivelerà essere la Palestina.

Questo popolo presenta, al di là di mescolanze accidentali od occasionali, una precisa inconfondibile identità razziale sorprendentemente conservarsi nei millenni fino ai nostri giorni, nonostante la diaspora alla quale è soggetto da duemila anni, diaspora parzialmente cessata col ritorno di parte degli Ebrei nella loro terra a partire dalla fine del sec. XIX, come del resto era stato previsto dai profeti.

Le razze umane essendo organismi biologici capaci di diverso grado di attuazione, non sono tutte di pari dignità, non tutte favoriscono allo stesso livello di potenza le attività dello spirito e della cultura. Da qui le varie mentalità, spiritualità, religioni e culture.

Scienza e filosofia sono valori universali, perché dipendono dalla ragione in quanto tale, comune a tutti gli uomini in quanto uomini. Ma, a causa dei differenti condizionamenti biologici razziali, di fatto il grado della cultura, della sapienza o della virtù non è lo stesso in tutte le razze. E questo è testimoniato dall’evidenza dei fatti sotto gli occhi di tutti da sempre. È ovvio che nel contempo il grado di intelligenza e di cultura dipendono anche dall’impegno volontario messo dagli individui nello sviluppo dello spirito.

Questo non è razzismo, ma scienza ed esperienza, se siamo onesti ed oggettivi. Il fatto è che non ogni razza favorisce la scienza e la virtù allo stesso livello, se non abbiamo il paraocchi di un falso egualitarismo, che è proprio quello che causa ingiustizie e discriminazioni.

Non si può negare come i Romani siano maestri nel diritto, i Greci nella filosofia, come i Tedeschi eccellano nel sentimento, gli Italiani nelle belle arti, gli Slavi nell’emotività, i Russi nella mistica, gli Indiani nella spiritualità, i Cinesi nella sapienza pratica, gli Anglosassoni nella tecnica.

Per contro l’Ebreo eccelle nell’intuizione del divino, nel bisogno di sincerità, nel senso del culto di Dio, del valore della famiglia, del bene comune, della libertà di coscienza, nel senso degli affari, nell’economia e il commercio.  

L’Ebreo è il paradigma dell’uomo. Nell’Ebreo tutto è grande: la radicalità delle aspirazioni come la durezza di cuore, la sapienza come la stoltezza, la superbia come l’umiltà, la sincerità del pensare e del parlare come la doppiezza, lo sguardo verso il cielo come l’avarizia e l’attaccamento alla terra, la religiosità come l’empietà, lo spirito di sacrificio come l’astuzia, la nobiltà come l’abiezione.

Bisogna distinguere l’essere ebreo dall’ebraismo o religione ebraica. L’essere ebreo è un’entità razziale. Un ebreo può di fatto essere irreligioso. Un non-ebreo può abbracciare la religione ebraica. Un ebreo può essere cristiano.

Il cristianesimo è la pienezza dell’ebraismo, così come il Nuovo Testamento perfeziona e non abolisce l’Antico. Anzi Dio ha chiamato l’ebreo ad essere modello di cristianesimo per tutti gli altri popoli. Il cristiano non-ebreo ha il dovere di mostrare all’ebreo non-cristiano che Cristo è la pienezza dell’ebraismo.

La lingua ebraica, a confronto di altre lingue, è povera di vocaboli, ma le parole posseggono delle radici dalle       quali si possono ottenere più significati, collegati fra di loro, in modo tale, che formano dei veri e propri sistemi concettuali. Eppure Dio ha scelto questa lingua per rivelarsi in pienezza all’umanità.

La terra promessa

Un’altra cosa che stupisce nel popolo ebraico, sorto da un solo uomo, Abramo, è come già con Abramo e poi successivamente con Mosè, Giosuè e Davide abbia determinato con precisione nei suoi confini e conquistato il suo territorio e come nei millenni ha saputo restargli fedele fino ad oggi, testimone la storia e la Sacra Scrittura.

La terra di Canaan è per la verità un territorio di dimensioni assai modeste, se lo confrontiamo con la Persia, l’India o la Cina, un territorio dal clima caldo, di scarsa fertilità, scarsità d’acqua e quindi di vegetazione, benché la Bibbia lo designi come «paese dove scorre latte e miele», per cui si fatica a comprendere come Abramo lo abbia preferito alla sua patria d’origine, se non fosse stato per il suo desiderio di evadere dalla sua terra abitata da politeisti, mentre egli aveva scoperto l’attrattiva del Dio unico.

A differenza di altri popoli bramosi di espandersi e di fondare imperi, come fu il popolo romano o quello di Ciro o di Alessandro Magno o quello inglese, o lo stesso popolo arabo con l’Islam, il popolo ebraico non ha mai nutrito tali ambizioni, anche per la sua ritrosia ai viaggi marini, anzi ha sempre tenuto a tenersi distinto dagli altri popoli, anche per motivi religiosi, per non lasciar contaminare il proprio monoteismo dagli idoli degli altri popoli.

Come sappiamo che Dio ha dato agli Ebrei il possesso della Palestina?

Un problema esegetico che alcuni tra noi cristiani pongono è quello di sapere se la rivelazione ricevuta da Abramo della terra promessa è vera rivelazione divina, oggetto di fede teologale o è un’idea che si fece Abramo, trasmessa poi ai suoi posteri come rivelazione divina, e sempre creduta tale dagli Ebrei fino agli Ebrei di oggi.

Ora la Chiesa, erede della rivelazione veterotestamentaria, che cosa ci dice? Ci dice qualcosa in merito? Che gli Ebrei siano i legittimi possessori della Palestina perché Dio ha voluto così è verità di fede anche per noi cristiani? Per noi cristiani la tesi secondo la quale Dio ha assegnato ad Israele il possesso della Palestina è Parola di Dio o è una convinzione solo umana e discutibile, che gli Ebrei si sono fatti a partire da Abramo? 

Infatti la moderna esegesi storico-critica ha dimostrato come molti dati che la Scrittura soprattutto veterotestamentaria sembra presentare come rivelazione divina o come dato rivelato, ad un esame più attento condotto con i metodi esegetici moderni, si sono rivelati idee proprie della cultura del tempo. Si pensi solo alla tesi dell’inferiorità della donna o al precetto dello herem, che comporta la distruzione totale del nemico.

Ebbene, la tradizionale fede ebraica nel fatto che Dio ha donato agli Ebrei in possesso la terra di Canaan è confermata dai risultati più recenti della storia delle civiltà, delle arti, dei commerci e delle religioni, dall’antropologia culturale, dall’archeologia, dalla numismatica. Nessun popolo antico contesta mai ad Israele il suo territorio. 

La Chiesa non ha mai definito come verità di fede che Dio abbia dato ad Israele la Palestina. Ma anche l’esegesi odierna non ha difficoltà a riconoscere che si tratta di un dato rivelato, che un giorno la Chiesa potrà definire come dogma di fede, dunque verità necessaria per ottenere la salvezza. E difatti, come dice San Paolo, noi cristiani provenienti dalle genti siamo un olivo selvatico innestato nell’olivo originario: e come potremmo prosperare senza il dovuto rispetto di questo olivo? Inoltre, il proclamare come dogma questa cosa potrebbe sostenere e incoraggiare Israele nella sua missione spirituale a servizio dell’umanità e difenderlo dai suoi nemici.

Inoltre, per evitare l’antisemitismo non basta un generico apprezzamento dell’Ebreo come persona umana: occorre rispettare in lui ciò che Dio ha voluto fare di lui. In tal senso San Giovanni Paolo II ha detto che gli Ebrei sono i nostri «fratelli maggiori», non nel senso che la religione cristiana sia inferiore a quella ebraica, ma nel senso che in ogni Ebreo dobbiamo saper riconoscere la sua superiore vocazione, anche se non le è stato fedele. Disprezzare l’Ebreo non è solo ingiustizia; è un’eresia che blocca il cammino della salvezza.

I Romani dominarono su Israele per motivi di ordine pubblico, data la turbolenza degli zeloti che non volevano accettare l’autorità dell’Impero di Roma, ma non contestarono mai che la Palestina appartenesse agli Ebrei. I primi a negare che Dio avesse dato agli Ebrei la Palestina furono i musulmani con la pretesa che Dio avesse dato a loro e non agli Ebrei la Palestina, in quanto considerantisi i veri discendenti di Abramo al posto di Isacco, capostipite degli Ebrei.

Quanto alla narrazione biblica del modo col quale gli Ebrei occuparono sotto la guida di Giosuè la terra promessa, questa sì che il nostro sguardo morale di oggi, educato dal Vangelo e dalla conoscenza dei diritti umani, ci fa capire che non può per nulla riflettere la volontà divina ma solo ci ricorda gli usi barbarici di allora, usi del resto comuni a tutti i i popoli.

Per questo, simile narrazione, ben lungi dal richiamarci a un comando divino, ci lascia disgustati ed inorriditi nel constatare la violenza con la quale gli Ebrei cacciarono o sterminarono quelle tribù che occupavano il territorio che Israele riteneva essere suo per rivelazione divina. È chiaro che questi atti di violenza non possiamo noi oggi non condannarli, alla luce di quei princìpi di civiltà che la stessa Bibbia ci inculca.

È chiaro quindi che simili comportamenti vanno spiegati con l’ignoranza che i popoli di allora, compreso quindi Israele, avevano di quegli elementari princìpi di civiltà, che prescrivono che l’occupazione di un territorio abitato da altri, per quanto siamo convinti che ci spetti, va fatta con garbo e buone maniere prendendo accordi con i residenti nel territorio che intendiamo occupare, come fecero appunto gli Ebrei, che a partire dalla fine ‘800 tornarono a gruppi o alla spicciolata in Palestina.

Ciò inoltre che stupisce e che non s’incontra in altri popoli è l’abbinamento di questo attaccamento alla propria terra con il fenomeno della diaspora, motivato o da cause di forza maggiore, come non calamità o per libera scelta, ma senza che le comunità sparse per il mondo trascurino la conservazione anche per secoli della propria identità etnica, culturale e religiosa.

Israele è prescelto da Dio, ma se non è fedele, non può essere prediletto

La Scrittura rivela che Israele è una realtà etnica prescelta da Dio e chiamata ad essere popolo santo tra le genti e redentore dell’umanità, e Dio lo avverte per il tramite dei profeti che potrà essere vero Israele, Israele di Dio, solo se sarà vero Israele, ossia Israele secondo lo spirito, solo se rispetta il patto di alleanza stipulato con gli inviati di Dio. Già i profeti avvertono che certo Dio ha eletto Israele perché sia luce del mondo; ma perché l’ebreo sia salvo ed effettivamente prediletto da Dio, per essere veramente popolo di Dio, non basta all’ebreo la sua condizione razziale, la sua discendenza abramitica, perché possono essere popolo di Dio anche quei popoli pagani che vivono nell’osservanza dei divini comandamenti, anche se non conoscono l’alleanza fatta da Dio con Abramo.

Dio ha chiamato Israele ad essere popolo sacerdotale, regale e profetico fra tutti i popoli legislatore dell’umanità, benedizione per tutte le genti, ma se non corrisponde a questa eccelsa vocazione, Dio lo castiga tanto più severamente, quanto più grande è rispetto a quella degli altri popoli è la sua responsabilità.

Così già nell’Antico Testamento comincia a farsi strada l’idea che si può essere popolo di Dio anche se non si è Israele in senso razziale.  Ãˆ il precorrimento del nuovo Israele fondato da Cristo, che egli chiama “Chiesa”, corrispondente all’assemblea d’Israele dell’Antico Testamento, nuovo Israele che ha per statuto la nuova Alleanza.

Secondo la Scrittura non basta dunque essere ebreo in senso razziale per fruire delle promesse fatte ad Abramo e svolgere una funzione di guida dell’umanità alla salvezza, ma occorre la piena fedeltà all’alleanza fatta da Dio con Abramo e successivamente migliorata e precisata con Mosè, fino alla nuova Alleanza stipulata da Cristo nel suo sangue.

Le narrazioni bibliche e la storia d’Israele e di Gerusalemme in questi duemila anni testimoniano di una alternanza di fedeltà e infedeltà di Israele a Dio, alla quale corrisponde una conseguente alternanza di interventi divini ora glorificando Israele con periodi di splendore e floridezza e di vittorie sui nemici, ora mandando calamità e sventure per castigarlo e richiamarlo alla fedeltà all’alleanza, ora permettendo dolorosi e drammatici confitti interni.

Nel corso della storia Dio alternativamente favorisce e castiga Israele, ha pietà e punisce, innalza ed abbassa, affligge e consola sempre con intento pedagogico, correttore, purificatore e formativo, santificante e glorificatore. Pensiamo da una parte alla gloria degli Ebrei, ad Abramo, ai profeti, a Mosè, a Davide, a Cristo, alla Madonna, agli apostoli, ai geni nei vari campi del sapere, della letteratura, della politica, dell’arte e della scienza.

Pensiamo dall’altra alle afflizioni e ai martiri dell’ebraismo, alla schiavitù egiziana e babilonese, pensiamo alla soggezione ai veri imperi. Pensiamo alle persecuzioni inflitte agli ebrei da parte di cristiani ed altri popoli. Pensiamo alla shoàh. Pensiamo all’odio di Hamas contro Israele. Hamas male interpreta il Corano nel volere la distruzione degli Ebrei. Il Corano non vuole affatto la distruzione, ma la salvezza degli Ebrei[2].

Da qui nasce la distinzione paolina fra l’Israele secondo la carne e Israele secondo lo spirito. Quello che conta per la salvezza è essere Israele secondo lo spirito, anche se non lo si è secondo la carne. E Cristo parimenti dirà che a nulla serve essere figli di Abramo in senso fisico se non lo si è nella fede in Lui.

Maometto[3] e gli Ebrei

Maometto era animato ad un tempo da un forte bisogno religioso e da un viva solidarietà col suo popolo, minacciato e umiliato dall’Impero bizantino. Egli ebbe ad incontrare sia ebrei che cristiani e gli si impose la scelta fra il monoteismo trinitario cristiano e quello antitrinitario ebraico.

Refrattario alle sottili speculazioni teoretiche, nelle quali i bizantini si perdevano in discussioni interminabili, uomo pratico eppure mente fortemente intuitiva, dotato di forti preoccupazioni morali, ma portato al semplicismo, Maometto trovò troppo complicata e addirittura idolatrica la concezione teologica cristiana, che metteva in gioco nozioni metafisiche come quella di essenza, esistenza, sussistenza, natura, ipostasi, persona, accidente, relazione, sostanza e processione.

Gli era chiaro che Dio era uno, unico, personale, altissimo creatore e signore del cielo e della terra, giusto, clemente, misericordioso e provvidente. Ma non voleva saper altro, giudicando inutili o blasfeme sottigliezze le infinite discussioni alle quali si dedicavano i teologi bizantini con albagia e con tono di superiorità nei confronti dei rozzi Arabi.

Il Dio coranico è chiuso al mistero trinitario non perchè possegga attributi che lo impediscano. Se si confrontano i 99 attributi di Allah con quelli che San Tommaso stabilisce nelle sue opere, si noterà una perfetta coincidenza, salvo una certa impostazione volontaristica, che fu fatta già notare da Benedetto XVI nel suo famoso discorso a Ratisbona.

Il problema è in Maometto stesso, che non riesce a capire come Dio possa avere un figlio, perché in tal caso, egli dice, dovrebbe avere una moglie. Manca evidentemente la considerazione giovannea secondo la quale questa figliolanza non va intesa in senso sessuale, ma spirituale, in riferimento al Verbo o Logos.

Cioè Maometto non ha compreso l’analogia che San Giovanni fa tra la generazione biologica di un figlio e la produzione del concetto (logos) da parte della mente. Così Giovanni dà una spiegazione della generazione divina del tutto spirituale, veramente consona alla divinità, che nulla ha a che vedere col sesso.

Inoltre Maometto non ha compreso che la dualità Figlio-Padre non è da intendersi come la dualità di due dèi o di due sostanze, ma la dualità di due relazioni sussistenti: il Padre è la paternità sussistente generativa: il Figlio è la Figliolanza sussistente generata. Padre del Figlio. Per questo, giocando solo sulla relazione, che è accidente, e non sulla sostanza, l’unità della sostanza divina è salva.

D’altra parte, la concezione coranica di Dio come unico Dio e creatore del mondo e dell’uomo, ripresa dalla Sacra Scrittura (Gen 1,1) ha un altissimo valore metafisico, che costituisce un’ottima base di dialogo[4] fra musulmani, ebrei e cristiani, opportunamente segnalata dal decreto Nostra aetate del Concilio Vaticano II.

Inoltre questa concezione di Dio ha prodotto nei secc. X-XII un’alta teologia che si è espressa soprattutto un Avicenna, che giustifica il Dio creatore come Essere necessario, a differenza della creatura che è ente contingente. Ed inoltre anche nell’Islam l’ineffabilità divina, benchè escluda la prospettiva cristiana della mistica della figliolanza divina, ammette tuttavia, nella corrente dei Sufi, autorizzata da Al-Gazzali nel sec. XII, la simbologia nuziale già presente nel biblico Cantico dei Cantici[5].

Maometto inoltre ha una concezione di Dio legata all’Antico Testamento, un Dio maestoso e distante dal popolo minuto come erano i sovrani orientali, un Dio benevolo, ma impressionante e spaventoso, col quale non ci si può prender confidenza, al quale si deve obbedire a puntino e tacere. L’ideale non è l’amore di Dio o l’unione con Dio, come nel cristianesimo, ma la devozione fino a terra, ossequiente, obbediente, timorosa e fedele (islam).

Tuttavia Maometto, nel suo forte bisogno di preservare e liberare il suo popolo dal dominio bizantino e di affermarne la dignità, per voler esaltare gli Arabi al di sopra non solo degli ebrei, ma anche dei cristiani, i quali si vantavano di essere discendenti di Abramo per via di Isacco e Giacobbe (Israele), si convinse che invece il vero discendente di Abramo fosse Ismaele, dal quale derivano gli Arabi.

Maometto afferma di aver ricevuto la rivelazione coranica dall’arcangelo Gabriele. Ma ci si può domandare come abbia potuto far ciò quell’arcangelo Gabriele che, secondo la rivelazione biblica, accolta ormai da sei secoli della Chiesa, annunciò a Maria che sarebbe stata Madre di Dio.

È evidente che Maometto prende dalla Bibbia solo quello che gli suggerisce il supposto arcangelo Gabriele per la gloria eccelsa degli Arabi. Così pure infatti Maometto, contro il chiaro insegnamento della Scrittura, che su questo punto non volle seguire, si convinse che i discendenti privilegiati di Abramo non sono i figli di Isacco, e quindi i figli di Davide e fino ai discepoli di Gesù, figlio di Davide e Figlio di Dio, Re di Israele, ma i figli di Ismaele, che sarebbero gli Arabi.

Per questo, secondo Maometto, non gli Ebrei con Mosè, non i cristiani con Cristo, ma lui stesso, grazie alla rivelazione dell’arcangelo Gabriele, si ritenne depositario della piena e definitiva rivelazione della volontà salvifica di Dio a favore dell’umanità.

Ed allora, autoconvintosi con ferrea inflessibile volontà della sua divina missione, in forza della sua straordinaria efficacia oratoria, tempra eccezionale di leader politico e militare, grazie alla generosità totale con la quale si dedicò al bene e alla grandezza del suo popolo, Maometto da allora fino ad oggi è riuscito a trascinarsi dietro folle sterminate di seguaci entusiasti e convinti fino al fanatismo e ad una cieca intolleranza di esser loro e non gli ebrei e i cristiani la vera luce e salvezza del mondo e i cultori del vero unico Dio.

Maometto, nonostante gli insegnamenti biblici contrari, crede che Gerusalemme non spetti di diritto agli Ebrei, ma i suoi seguaci. Egli può avere avuto benissimo un’esperienza mistica a Gerusalemme, ma ciò non lo autorizza assolutamente a sostituire il culto islamico a quello ebraico-cristiano.

Egli considera bensì Gerusalemme la città santa, cantata dai profeti, e appunto per questo i musulmani hanno costruito sulla spianata del tempio di Gerusalemme le moschee di Al-Aqsa e di Omar, per significare che il culto ebraico e cristiano sono stati migliorati e sostituiti dal culto islamico.

Qui i musulmani hanno compiuto un vero e proprio sopruso, perché il loro modo di render culto a Dio non è affatto superiore a quello ebraico-cristiano, ma è inferiore, in quanto, mentre gli ebrei e i cristiani conservano il culto mosaico voluto da Dio, il culto islamico non è affatto rivelato da Dio, ma è un’invenzione di Maometto, sempre preso dalla voglia di dare il primato religioso agli Arabi sugli Ebrei e su tutti gli altri popoli.

Per quanto riguarda il rapporto della religione con la politica, Maometto prende a modello l’Israele di allora: non può essere membro della comunità politica se non il credente nel Dio di Mosè. Così similmente per Maometto non può essere membro della comunità politica se non il credente nel Corano. Manca evidentemente il diritto alla libertà religiosa, che è un apporto del cristianesimo e che è stato fatto proprio dallo Stato d’Israele di oggi.

Da questa identificazione del potere religioso con quello politico nasce il tipico espansionismo islamico, che assume la forma di imperialismo politico: il musulmano identifica la propria missione di diffusore del Corano con la conquista militare e politica delle terre e dei popoli ai quali annuncia il Corano. Tutta la terra gli è stata donata da Allah, grazie alla sua fede in Allah, per cui il prender possesso di territori esterni a quello arabo non è un’invasione, ma l’appropriarsi di ciò che è suo e gli spetta per diritto divino.

Per questo la diffusione nel mondo dell’islamismo coincide con un’espansione geografica dello stesso islamismo nella sua dimensione statuale-politica. In tal modo l’Islam ha fondato Stati islamici formati da popoli non-arabi, perchè la fede islamica non dev’essere solo quella degli arabi, ma di tutti i popoli, ebrei compresi. Tutti, per salvarsi, devono convertirsi all’Islam.

Qui vediamo la differenza dal cristianesimo, per il quale la diffusione del Vangelo non richiede affatto che il cristiano rivendichi un dominio politico sui popoli che evangelizza, ma al contrario il cristiano promuove la libertà religiosa e l’autonomia politica di tutti i popoli: a Cesare ciò che è di Cesare! Gli basta conquistare le anime.

Il musulmano invece crede che tutta la terra per divina rivelazione sia di sua proprietà. Per questo nega ad Israele la proprietà della Palestina e l’Impero ottomano non ebbe alcuno scrupolo ad occupare e dichiarare come sua proprietà il territorio d’Israele.

Maometto ammette il ministero della profezia, il ruolo del maestro e del sapiente, la guida alla preghiera, l’offerta dell’agnello. Ma, come gli Ebrei, non capisce il valore del sacerdozio istituito da Cristo perché, come gli Ebrei, non crede alla divinità di Cristo.

Dunque anche Maometto, come gli Ebrei, non ha capito, per la sua incredulità e presunzione, la sublime e divina figura del Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, convinto che Dio a lui e non a Cristo ha affidato la pienezza della rivelazione salvifica, convinto di conoscere meglio di Cristo qual è la via della salvezza. È incredibile come Maometto riesca da 14 secoli ad affascinare e trarre dietro di sé folle sterminate, tuttora in aumento, non solo gli Arabi, ma anche molti altri popoli che hanno creduto alle sue dottrine.

Tutta la controversia fra ebrei, musulmani e cristiani ruota attorno alla figura di Abramo e dei suoi discendenti, mentre nel contempo Abramo, come ha insegnato il Concilio Vaticano II, è punto di dialogo e convergenza. La questione in gioco è chiarire qual è il popolo eletto da Dio tra tutti i popoli discendenti da Abramo. Gli ebrei si considerano giustamente il popolo eletto e in ciò noi cristiani siamo d’accordo, precisando però che questa elezione etnica è salvifica solo se l’ebreo accoglie Cristo come discendente di Abramo.

L’elezione razziale, come avverte San Paolo, è inutile senza l’accoglienza dell’elezione secondo lo Spirito, l’Israele di Dio, la Chiesa di Cristo, elezione che a questo punto non richiede necessariamente la razza ebraica, ma è aperta a chiunque accoglie Cristo, che peraltro è colui che conduce Israele alla gloria eterna predetta dai profeti.

Maometto invece non tiene in nessun conto dell’elezione razziale di Israele e sostituisce ad Israele il popolo arabo, discendente da Ismaele, figlio di Abramo. Maometto, per un eccessivo amore per il suo popolo, non volle riconoscere che Abramo aveva preferito Isacco, dal quale derivano gi ebrei, che a loro volta danno origine ai cristiani.

La controversia tra ebrei, cristiani e musulmani circa la vera religione si può risolvere solo se gli arabi, stando alla rivelazione biblica, correggono il Corano alla luce della Bibbia. Gli ebrei hanno ragione a considerarsi figli di Abramo, popolo eletto dal punto di vista razziale, ma se vogliono corrispondere veramente a questa elezione divina e vogliono salvarsi, devono accogliere l’elezione a figli di Dio, che Cristo offre non solo agli ebrei, ma a tutta l’umanità.

Quanto all’opposizione di Maometto ai cristiani, essa assomiglia a quella ebraica, con la differenza che mentre gli ebrei hanno come punto di riferimento l’Antico Testamento, che è certamente rivelazione divina, i musulmani si basano sul Corano, che è rivelazione divina solo circa quei passi che il Corano riprende dall’Antico Testamento.

La predicazione di Maometto, infatti, come risulta dal Corano, ha radici bibliche, ma Maometto è rimasto fermo, come gli ebrei, all’Antico Testamento e non ha compreso, similmente agli ebrei, che il Nuovo Testamento è il compimento di quello. Invece Maometto ha creduto, come gli ebrei, che bastasse l’Antico, ma non solo: lo ha falsificato sostituendo come popolo eletto gli arabi ad Israele, in quanto gli arabi discendono da Ismaele, mentre Israele come noi cristiani discendiamo da Isacco.

 Ora bisogna dire che i musulmani, come popolo arabo, sono senz’altro figli di Abramo attraverso Ismaele e fanno bene a proporre, insieme con cristiani ed ebrei, il Dio di Abramo a tutta l’umanità come unico vero Dio. Tuttavia, se veramente vogliono realizzare la pienezza della divina rivelazione, devono integrare le verità presenti nel Corano con quelle aggiunte dal Vangelo di Cristo.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 13 marzo 2024


Un problema esegetico che alcuni tra noi cristiani pongono è quello di sapere se la rivelazione ricevuta da Abramo della terra promessa è vera rivelazione divina, oggetto di fede teologale o è un’idea che si fece Abramo, trasmessa poi ai suoi posteri come rivelazione divina, e sempre creduta tale dagli Ebrei fino agli Ebrei di oggi.

Ora la Chiesa, erede della rivelazione veterotestamentaria, che cosa ci dice? Ci dice qualcosa in merito? Che gli Ebrei siano i legittimi possessori della Palestina perché Dio ha voluto così è verità di fede anche per noi cristiani? Per noi cristiani la tesi secondo la quale Dio ha assegnato ad Israele il possesso della Palestina è Parola di Dio o è una convinzione solo umana e discutibile, che gli Ebrei si sono fatti a partire da Abramo? 

Infatti la moderna esegesi storico-critica ha dimostrato come molti dati che la Scrittura soprattutto veterotestamentaria sembra presentare come rivelazione divina o come dato rivelato, ad un esame più attento condotto con i metodi esegetici moderni, si sono rivelati idee proprie della cultura del tempo. Si pensi solo alla tesi dell’inferiorità della donna o al precetto dello herem, che comporta la distruzione totale del nemico.

Immagine da Internet

[1] Cf Simon Sebag Montefiore, Gerusalemme. Biografia di una città, Mondadori, Milano 2020; Carlo Maria Martini, Verso Gerusalemme, Feltrinelli Editore, Milano 2002; Gerusalemme, a cura di Vincent Lemire, Edizioni Einaudi, Torino 2017.

[2] Paola Caridi, Hamas. Dalla resistenza al regime, Edizioni Feltrinelli, Milano 2023.

[3] Sulla storia dell’Islam vedi Carole Hillebrand, Islam. Una nuova introduzione storica, Edizioni Einaudi, Torino 2016.

[4] Cf Claudio Monge, Nominare l’ineffabile: il problema del nome di Dio nei testi sacri delle religioni abramitiche, in Sacra Doctrina, 1, 2019, pp.184-213; Louis Gardet, Esperienze mistiche in paesi non cristiani, Edizioni Paoline, Alba 1960; L’Gardet-O.Lacombe, L’esperienza del sé. Studio di mistica comparata, Edizioni Massimo, Milano 1988.

[5] Per Avicenna e Al-Gazzali, vedi Henri Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi Edizioni, Milano 2000.

4 commenti:

  1. Caro padre, nella sua prima parte hai citato le caratteristiche tipiche dei romani, dei greci, dei tedeschi, degli italiani, degli slavi, dei russi, degli indiani, dei cinesi, degli anglosassoni. Naturalmente capisco che non era sua intenzione menzionare tutti i gruppi razziali. Ma capisco anche che lei possa capire che gli ispanici e gli ispanici americani potrebbero avere un posto nella sua lista di selezione. Infine, grazie alla Spagna e al Portogallo, la Chiesa ha conquistato un immenso territorio per il Vangelo nel XV secolo. Penso che meritasse di essere menzionato.
    Quindi: segnali lei qualche contributo caratteristico degli spagnoli?

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    1. Caro Dino,
      io intendevo portare solo alcuni esempi, ma è evidente che la razza spagnola sia molto diffusa in America Latina e abbia raggiunto la parte meridionale dell’America del Nord. Tuttavia gli spagnoli si sono in piccola parte mescolati con gli indigeni di quelle terre.
      A parte il contributo etnico degli spagnoli, è chiaro che il loro contributo più importante è stato quello dell’evangelizzazione. Se vogliamo scendere nel dettaglio, io direi che il carattere spagnolo si distingue per una speciale forza d’animo e una vigorosa intraprendenza, che però a volte rischia una eccessiva passionalità.

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  2. "Le razze umane essendo organismi biologici capaci di diverso grado di attuazione, non sono tutte di pari dignità, non tutte favoriscono allo stesso livello di potenza le attività dello spirito e della cultura." Con tutto il rispetto, questo sembra scrivere Chamberlain o Hitler.

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    1. Caro Rubén,
      nella persona umana, e quindi in ogni singolo individuo della specie umana, occorre distinguere diversi gradi attitudinali a tutti i livelli vitali della persona.
      Supposta l’identità specifica della natura umana, composta di anima e corpo, di pari grado ontologico in tutti e singoli individui della specie umana, principio questo dell’uguaglianza e della fraternità umane, per cui tutti gli individui hanno i medesimi diritti e doveri fondamentali, la più elementare esperienza ci porta a constatare che ognuno di noi nasce non soltanto con diverse attitudini nei diversi campi della vita, ma tra due individui, che hanno la stessa attitudine, c’è uno che ce l’ha di più e l’altro che ce l’ha di meno.
      Ora, la razza non è altro che una conformazione biofisica con particolari caratteri differenziali, per la quale, con un certo grado di approssimazione, senza potere fare distinzioni nette, è possibile riconoscere in essa una base biologica attitudinale, che condiziona la vita spirituale.
      A questo punto la differenza tra questa teoria sperimentale, anche se non ha il rigore della scienza, e il razzismo nazista, è una differenza radicale e chiarissima. Mentre il razzismo nazista è basato su di una concezione dell’uomo di tipo materialistico, per cui ad una data dignità materiale fa sorgere una data dignità spirituale, e viene meno l’uguaglianza umana, ma si teorizza un’umanità superiore dominatrice di un’umanità inferiore, la giusta teoria della dignità della razza secondo gradi di perfezione è un semplice dato di fatto, è un valore creato da Dio ed è infine una condizione biofisica graduata secondo gli individui, che spiega i diversi gradi attitudinali della persona nel campo della attività razionali e spirituali, per cui per esempio l’individuo o una razza può essere più portata alla scienza, un’altra alla filosofia, un’altra al lavoro, un’altra alla socialità, un’altra alla religione, un’altra all’arte e così via.
      Riconoscere queste diverse attitudini significa praticare il vero rispetto per gli individui e la dignità delle razze umane, come entità biologiche create da Dio. In tal modo si riconosce la diversa dignità di ciascun gruppo umano, si evitano le ingiustizie e le discriminazioni, che possono giungere fino alla loro distruzione o appiattimento, e si favorisce lo sviluppo delle qualità proprie di ciascuno.

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