Il problema della coscienza di sé in Cartesio (Prima Parte)

 Il problema della coscienza di sé in Cartesio

I. La più grande disgrazia capitata alla filosofia moderna

Cartesio in tutta la storia del pensiero è stato il primo filosofo che ha avuto l’audacia di fondare la realtà non su Dio, ma su se stesso, ossia sulla coscienza di sé, considerando il proprio io in modo tale che da esso si poteva dedurre in primo luogo, come fece Kant, che la conoscenza non deriva dalle cose, ma dall’autocoscienza («io penso»).

Successivamente Fichte dedusse che l’io autocosciente come pensante, pone se stesso nell’io come realtà, per cui non occorreva più ammettere una realtà esterna all’io (la «cosa in sé»). Dopo Fichte, Hegel avrebbe condotto a termine l’identificazione dell’essere col pensiero iniziata da Fichte: «il reale è il razionale e il razionale è il reale», con l’identificazione della metafisica con la logica.

Cartesio, dunque, non è il fondatore della filosofia moderna, ma la disgrazia della filosofia moderna, l’iniziatore di un falso filosofare che ha prodotto nel sec. XIX l’ateismo marxista e il panteismo hegeliano, al quale ha fatto seguito il nichilismo esistenzialista sartriano. Egli è la causa prima non delle conquiste, ma dei fallimenti della filosofia moderna. Molte volte egli è stato confutato dai tomisti[1]. Le opere di Cartesio furono poste all’Indice dalla Chiesa nel 1663.

La vera e a sana filosofia moderna è quella che ha confutato l’impostura di Cartesio, ripristinando il realismo gnoseologico biblico dell’ipsum Esse, come fecero già i teologi domenicani del ‘600, primo fra tutti Giovanni di San Tommaso. E la confutazione è perdurata nei secoli, fino ad oggi, vista l’ostinazione dei difensori di Cartesio. Occorre un continuo lavoro di ripristino del realismo per rimediare ai risorgenti guasti dell’idealismo e del panteismo, oggi condannati da Papa Francesco sotto i nomi di «gnosticismo» e «pelagianesimo»[2]. 

 

Dopo Fichte Hegel dedusse le estreme conseguenze dell’autocoscienza cartesiana: se Fichte parlava dell’io come pensiero ponente sé come essere o realtà, in prima persona (ego sum ipsum esse), Hegel passa a parlare dell’essere in terza persona come pensiero sussistente (cogitans qui est esse), come identità di essere e pensiero. L’essere è pensare ed essere pensato. Il pensiero pensa sé stesso ovvero pensa l’essere pensato.

 

Non più distinzione fra pensare ed essere, non più un reale o un essere esterno al pensiero e indipendente dal pensiero, ma ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale. Non è necessario porre un Dio creatore dell’essere dal nulla, dell’io e del reale esterno, perché l’io autocosciente e pensante è sufficiente a spiegare l’esistenza di sé stesso, delle cose e di Dio.

II. Come Cartesio imposta il problema della conoscenza del sé

Cartesio imposta male il problema della conoscenza e per conseguenza non dà vero fondamento all’autocoscienza. Egli parte infatti dalla constatazione ovvia che noi possediamo delle idee, ma le prende come oggetti a sé stanti, interni alla coscienza, immediatamente intuìti. Non si domanda da dove vengono, come facciamo ad averle, che scopo hanno, a che cosa servono, che funzione hanno, se le abbiamo prodotte noi e perché. Ma soprattutto dà per certo senza ragionevole motivo che il crederle rappresentazioni fedeli di cose esterne, ammesso che esistano, sia illusorio.

Ora dobbiamo osservare che le idee, certo, possono e devono diventare oggetto di conoscenza ed anzi di scienza, in quanto enti di ragione. Esse formano allora il mondo della logica e della matematica. Ma esse vengono formate dalla ragione a contatto col reale sensibile per poterlo rappresentare immaterialmente e intenzionalmente. Ma se l’intelletto non contatta le cose, non possiede neppure le idee e quindi non può farne oggetto di conoscenza. La conoscenza precede la coscienza e non viceversa, come credeva Cartesio. Niente coscienza di sé, se prima non c’è la conoscenza delle cose.

La coscienza, infatti, non è una conoscenza della realtà esterna; non è la semplice apprensione spontanea di un oggetto. La coscienza, come dice la parola stessa, è un cum-scire. Che significa questo «cum»? Che la mia coscienza, quando è in atto, non conosce solo un oggetto esterno, ma insieme (con) l’oggetto, io conosco me stesso conoscente. Ha ragione pertanto Kant quando dice che «l’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni», perché altrimenti non potrei giudicare e il giudicare non è solo guardar fuori alla realtà, ma richiede anche un guardar dentro la mia coscienza.

La coscienza è la scienza riflessa, che suppone nel nostro intelletto come un prezioso scrigno interiore, ossia la memoria, nel quale l’intelletto versa le notizie che essa acquisisce nel contatto diretto con la realtà esterna. È la famosa «tavoletta» (tabula rasa), della quale parla Aristotele, ingiustamente derisa da tutti i presuntuosi finti angeli, nella quale, prima dell’inizio del contatto conoscitivo col reale sensibile esterno, «nulla è scritto».

San Tommaso confuta in anticipo l’idealismo cartesiano con la seguente sentenza: «Impossibile est quod primum visibile sit ipsum videre» (I-II, q.1, a.1, 2m). Il sistema di Cartesio si basa su di un principio falso e assurdo. Il primo oggetto del nostro conoscere, il punto di partenza del nostro conoscere non sono le idee delle cose, ma le cose. È vero che io trovo in me delle idee che avanzano il diritto di rappresentare cose esterne, ma devo rendermi conto del fatto che io non avrei queste idee, se non avessi contattato le cose.

III. Cartesio lascia insoluto il dubbio circa la veracità del senso

Cartesio mantiene il dubbio circa la veracità del senso, e in ciò pecca certamente di scetticismo o soggettivismo, ma non dubita dell’esistenza delle cose materiali esterne o della res extensa. Il suo sbaglio è la pretesa di dimostrarne l’esistenza, che invece è evidente.

Mentre infatti l’esistenza e l’essenza dello spirito, a cominciare dall’io, per Cartesio, simile in ciò a Sant’Agostino (interiora spiritualia), sono immediatamente ed originariamente note grazie all’autocoscienza, senza bisogno di partire dall’esperienza, l’essere materiale esterno (exteriora materialia), lo ammette e pensa che lo possiamo conoscere così com’è, almeno negli accidenti quantitativi, se non in quelli qualitativi. Tuttavia ne ammette l’esistenza e la conoscibilità matematica come è noto, solo, grazie alla veracità divina che, illumina la nostra mente, anche in ciò simile ad Agostino.

Cartesio purtroppo si dichiara certissimo di una cosa assolutamente falsa: «È certissimo che questa nozione o conoscenza di me stesso, così precisamente presa, non dipende dalle cose, l’esistenza delle quali non mi è ancora nota»[3]. Bisogna rispondere invece dicendo che non occorre dimostrare l’esistenza delle cose, perché è verità evidente ed indubitabile. L’ente materiale sensibile è l’oggetto naturale del senso e dell’intelletto. Inoltre sarebbe un’impresa assurda una simile dimostrazione, perché si dimostra ciò che è nascosto. Ma le cose sensibili cadono immediatamente sotto i sensi. Semmai l’evidenza sensibile è necessaria come base per dimostrare ciò che non è evidente.

Altra negazione cartesiana dell’evidenza sensibile: «Un’altra cosa ancora asserivo, che a causa dell’abitudine che avevo di credervi, pensavo di percepire assai chiaramente, sebbene, veramente, non la percepissi affatto: e cioè che vi erano delle cose fuori di me, donde procedevano quelle idee ed alle quali esse erano in tutto simili. Ed era in questo che m’ingannavo»[4]. Che ci siano cose fuori di noi nello spazio, oggetti e persone e parti del nostro stesso corpo è cosa evidente ed indubitabile. Non è per nulla effetto di un’abitudine.

Il criterio della verità non è più secondo Cartesio un’impossibile conformità alle cose esterne, ma si riduce ad essere la conformità con le proprie idee: «Il principale e più ordinario errore che si possa trovare nei giudizi, consiste in ciò, che io giudico che le idee, le quali sono in me, siano simili o conformi a cose che sono fuori di me; poiché certamente, se considerassi le idee solamente come modi o maniere del mio pensiero, senza volere riportarle ad altro, ben difficilmente mi potrebbero dare occasione di errare»[5].

Osserviamo che è vero che nel semplice constatare d’avere certe idee non ci sbagliamo. Ma ciò non basta a soddisfare il nostro bisogno di verità, che è soddisfatto solo quando attingiamo alle cose. Dubitare di questa possibilità di cogliere le cose come sono con le loro proprie qualità sensibili od ontologiche, mentre sperimentiamo ogni giorno che, nell’esercizio del conoscere, tale possibilità normalmente si attua nella percezione sensibile ed intellettuale, salvo nei casi dell’errore, vuol dire o fingere o essere ingannati da un disturbo della sensibilità o essere in mala fede, ossia impugnare la verità conosciuta, che è un peccato di superbia, quella che già Aristotele chiama apaideusìa, che è il vizio del giovane discepolo indocile ed arrogante che non si lascia istruire dal maestro, ma oppone al suo insegnamento il suo parere sbagliato che gli fa comodo, quello che nell’educazione familiare è il ben noto «saputello» o «bastian contrario». San Tommaso parla di «protervia».

È vero che l’apparenza a volte inganna. E ciò spiega l’errore involontario o in buona fede e spiega anche l’esistenza della coscienza erronea in buona fede[6] e quindi non colpevole. L’errore è causato da una precipitazione impulsiva ed incontrollata del giudizio, spesso dettata dalla presunzione o dal pregiudizio o dalla fretta o dalla passione o dall’emozione, per cui ci appare vero il falso o certo ciò che non lo è. La circospezione, la calma e l’attenzione ci aiutano ad evitare gli errori. Molto importante è, quando ci accorgiamo dell’errore, riconoscere d’aver sbagliato. Errare humanum est; perseverare est diabolicum.

Ma se, sulla base di vani pretesti soggettivistici o di libertà di pensiero o che la realtà è irraggiungibile, ci rifiutiamo di confrontare i nostri giudizi con la realtà e non ascoltiamo chi ci confuta, è impossibile che ci correggiamo dai nostri errori e diventiamo degli esaltati dalle idee fisse, che suscitano la commiserazione di tutti gli onesti ed avveduti, che non vogliono farsi menare per il naso (trahere per nasum).

Ha quindi ragione il Padre Fabro, quando dice che il cogito cartesiano in realtà è un volo, cioè non è un vero adeguarsi della coscienza alla verità oggettiva, ma è un voglio-che-le-cose-stiano-così. È, quindi, un atto volontario del soggetto, il quale non accetta l’oggetto nella sua verità ontologica, ma oppone ad esso un suo oggetto mentale, arbitrario ed ipostatizzato, l’«idea» o «essere pensato» in sostituzione all’essere reale esterno, giudicato dubitabile, ignoto (Kant), inesistente (Fichte) o coincidente col pensato (Hegel).

Così Cartesio non ha tenuto conto del fatto che per noi il reale, si tratti del reale sensibile o di quello intellegibile contenuto nel primo, è un maestro di verità, al quale dobbiamo obbedire per conoscere la verità. Cartesio quindi è un ipocrita, quando proclama di voler stabilire la verità dubitando ed opponendosi ad un tempo a quella verità evidente e indubitabile, che ogni uomo ragionevole e sano di mente può immediatamente percepire con assoluta certezza.

La presuntuosa apaideusìa del «cattolico» Cartesio ventiquattrenne appare evidente già dal suo dichiarato disprezzo o quanto meno messa in dubbio di tutto il magistero filosofico a lui precedente e per conseguenza dello stesso magistero ecclesiastico, che suppone evidentemente i dati certi della sana filosofia, con la pretesa di rifondare da solo tutto il sapere umano vagante nell’incertezza e nelle contraddizioni fino ai suoi sventurati tempi.

È possibile tuttavia che l’animo del giovane Cartesio risentisse turbato dei terribili conflitti religiosi fra cattolici e protestanti, che solo da poco si erano spenti, ma che aveva lasciato in molti una traccia di scetticismo. Ciò tuttavia non scusa affatto Cartesio nel suo folle intento. E basterebbero queste sue insensate dichiarazioni per suscitare in ogni animo saggio e avveduto un moto istintivo di ripulsa e di totale sfiducia nel suo nuovo sbandierato infallibile metodo filosofico, che, come era da prevedersi, non sarebbe stato affatto approvato dalla Chiesa, ma che invece trovò favore nel mondo protestante, suscitando l’idealismo tedesco, e nella nascente massoneria, successivamente sfociante nell’illuminismo settecentesco.

Come è noto, Cartesio cercherà di fondare la certezza che le nostre rappresentazioni sensibili corrispondono a cose materiali esterne non sul fatto che le abbiamo contattate regolarmente, ma sulla veracità divina, la quale, non volendo che cadiamo nell’inganno, ci assicura di questa corrispondenza.

Ma ecco che se da una parte Cartesio fa intervenire la veracità divina dove non c’entra, perché basta la veracità del senso, dall’altra il suo razionalismo rifiuta il principio d’autorità perché sostiene che nulla possiamo accettare, se non è evidente o razionalmente dimostrato, sicché impedisce l’esercizio della fede in Dio rivelante per il motivo dell’autorità divina.

Al riguardo, è estremamente significativa, tra le Regole per la direzione dell’intelligenza (Regulae ad directionem ingenii)[7], 1) la seconda: «bisogna occuparsi soltanto di quegli oggetti, alla cui certa e sicura conoscenza appare esser sufficiente la nostra intelligenza»; e 2) l’ottava: «se nella serie delle cose da ricercare se ne incontri qualcuna che il nostro intelletto non possa intuire sufficientemente, bisogna fermarsi e ci si deve astenere da un lavoro assolutamente vano»; e perché questo?

Perché, secondo Cartesio, noi dobbiamo saper ricavare tutto il nostro sapere esclusivamente da noi stessi facendo funzionare la nostra ragione, senza che occorra imparare dagli altri. Nel dialogo «La ricerca della verità mediante il lume naturale»[8] egli dichiara:

«mi sono proposto di mettere in evidenza le vere ricchezze della nostra anima, rendendo palesi ad ognuno i mezzi per trovare in se stesso e senza valersi affatto dell’aiuto altrui, tutto il sapere che gli è necessario per la guida della sua vita ed i mezzi d’acquistare in seguito col suo studio tutte le più rare conoscenze che la ragione dell’uomo è capace di possedere».

Occorre rispondere a Cartesio che la nostra ragione non è affatto sufficiente a fornirci tutto il sapere che le è necessario per la guida della sua vita, ma che noi siamo per natura orientati al conseguimento di Dio nostro fine ultimo e sommo bene, per conoscere il Quale la nostra ragione non è affatto sufficiente, ma occorre anche la fede in Lui. 

Occorre inoltre dire che esistono oggetti supremamente per noi importanti, e tra questi sommamente Dio, alla cui certa e sicura conoscenza non appare affatto esser sufficiente la nostra intelligenza, ma occorre che essa sia illuminata dalla fede.

Infine, si deve dire che se nella serie delle cose da ricercare se ne incontri qualcuna che il nostro intelletto non possa intuire sufficientemente, e tra queste le principali sono certamente Dio e le verità di fede che Egli ci rivela, noi non dobbiamo affatto fermarci, ma, avendone la possibilità e le forze, dobbiamo continuare l’indagine con modestia, ma anche con coraggio, come suggerisce l’Aquinate a proposito del culto eucaristico: «quantum potes, tantum aude, quia est maior omni laude».

È qui che noi vediamo il caratteristico deleterio razionalismo cartesiano, che blocca la possibilità di praticare sia la fede umana che quella divina, e con ciò inducendo l’uomo a rifiutare di assoggettarsi sia al magistero o testimonianza umana che a quella divina. Ma ciò è estremamente irragionevole, perché priva di una delle fonti necessarie, alle quali attingere la verità.

Un conto infatti è l’oscurità e un conto l’ambiguità o l’equivocità di un messaggio. Le verità o i dogmi della fede hanno contenuti oscuri per la nostra ragione. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che ci comunicano il pensiero divino, che non può non trascendere quanto noi con la nostra limitata ragione possiamo comprendere e dimostrare. Ma ciò non vuol dire che in questi misteri noi non ci capiamo assolutamente nulla come fossimo davanti a pure parole o davanti a frasi ambigue, equivoche o senza senso o assurde o fossimo totalmente al buio.

Il mistero divino è oscuro, ma non ambiguo. Così il linguaggio biblico o ecclesiastico che lo esprime è oscuro ma non ambiguo. Oscuro non vuol dir falso come crede Cartesio. Oscuro vuol dire che la ragione penetra fino ad un certo punto, oltre il quale non vede più. Ma sa che c’è dell’altro, che non vede – ecco l’oscurità – e che è noto solo a Dio.

Il mistero della fede è dunque per noi intellegibile ed esprimibile in concetti, che, se non sono univoci, sono quanto meno metaforici o analogici. Lo sbaglio di Cartesio è stato quello di credere che non esista cibo per la ragione all’infuori dell’univocità matematica. Invece il cibo che Cristo offre alla ragione non solo non è ostico alla ragione, ma è talmente gustoso ed abbondante, che ne avanza.

Così ha ragione Antonino Bruno nel ritenere Cartesio il fondatore del «pensiero laico» - meglio diremmo «laicista» - inteso come «autonomia della ragione, elevata ad unica norma ed autorità per la propria vita mentale e morale», un «pensiero che non accetta limiti o autorità trascendenti, se non a rischio di annullarsi o negarsi»[9].

IV. Il procedimento per chiarire l’origine delle idee

 Volendo allora affrontare seriamente il problema della verità della conoscenza, cioè se l’idea che è in me corrisponde ad una cosa fuori di me, non devo partire dalla considerazione che nella mia coscienza ci sono delle idee, e chiedermi come faccio a passare dall’idea della cosa alla cosa, come se il primo oggetto che conosco fosse l’idea. Non è così. Il primo oggetto è la cosa che vedo là davanti a me. Per sapere se conosco la cosa, devo guardare alla cosa e poi, controllando l’idea che già mi ero fatto della cosa, potrò sapere se essa è vera o no, se l’idea è o non è conforme alla cosa.

Non devo chiedermi come posso passare dalle mie idee delle cose alle cose. Ma semmai se alle mie idee che già posseggo, corrispondono delle cose, verificando sulle cose stesse. Devo chiedermi cioè se le mie idee corrispondono alle cose, perché le cose sono la regola della verità delle mie idee e non le mie idee regola della verità delle cose.

Contattando la cosa, formo l’idea della cosa, che entra nella coscienza. Dato che l’idea deriva o è ricavata dalla cosa, non c’è nessun problema a passare dall’idea alla cosa. Ma se mi fisso arbitrariamente nella convinzione che la mia conoscenza cominci con la conoscenza delle mie idee, cioè cominci dalla co-scienza  e non dalla scienza delle cose, dopo non riesco più ad uscire dalla mia coscienza, rimango chiuso in me stesso, non riesco più a sapere se alle mie idee, interne alla mia coscienza, corrispondono cose esterne alle mie idee, rimango bloccato nelle mie idee senza poter più raggiungere la realtà.

Cartesio sembra non sapere che la dottrina delle idee o dei concetti è stata elaborata per spiegare il fatto della conoscenza, ossia l’esperienza del conoscere, il fatto misterioso e meraviglioso, cioè, che l’essenza della cosa esterna, dopo l’atto del conoscere, è la medesima che è intenzionalmente nella nostra mente, come osserva Aristotele: «Non è la pietra che è nell’anima, ma l’immagine della pietra».

L’idea (Cartesio) o la percezione (Berkeley, Hume) non è il primum cognitum, sì che sorga il problema se esista una realtà esterna e come raggiungerla. Al contrario, noi ci accorgiamo di conoscere la realtà esterna che ci sta di fronte (ob-iectum): vediamo le cose, tocchiamo le cose, ecc., possiamo conoscerle come sono, pur potendo sbagliarci. Non conosciamo un essere percepito o un essere pensato, ma conosciamo un essere percepibile e un essere pensabile.

La veracità della conoscenza sensibile postula che le qualità sensibili delle cosa (colore, sapore, odore, peso, ecc.) siano oggettive, cioè appartengano realmente alla cosa, benché l’organo di senso venga fisiologicamente mutato dal loro influsso fisico sull’organo di senso.

Ma l’essere rosso, l’essere pesante, l’essere profumato, l’essere sonoro, ecc. si pongono sul piano dell’essere, e non del mero apparire al soggetto, per cui sono proprietà reali del loro soggetto e concorrono a determinarne l’essenza. Se quindi nella cosa la qualità sensibile ha nella cosa un essere reale e materiale, nell’apprensione conoscitiva ha un essere rappresentativo, immateriale ed intenzionale, formato dall’atto conoscitivo dell’organo di senso, che così apprende una qualità sensibile realmente, veramente ed oggettivamente esistente nella cosa sensibile. La veracità del senso consente al senso stesso di capire quando erra, come per esempio nelle illusioni ottiche, nel daltonismo, nella miopia, nelle allucinazioni, nei sogni, ecc.

Ci accorgiamo che le rappresentazioni delle cose sono immaterialmente nella nostra coscienza. E chiedendoci come ciò sia possibile, ci sentiamo obbligati ad ammettere che quando contattiamo la realtà con la potenza conoscitiva, ci formiamo un’immagine o una rappresentazione mentale della realtà, un mezzo immateriale o mentale, che ci consente di cogliere la realtà: è il concetto o idea. In esso e per esso vediamo la cosa.

Non è vero, come credeva Hegel, che la filosofia non deve ammettere alcun presupposto, se per presupposto intendiamo l’essere presupposto al pensiero. Se invece per presupposto intendiamo «dato per scontato», allora occorre effettivamente verificare la certezza e l’evidenza di ciò che appare assolutamente certo. In questa istanza Cartesio non sbaglia. Sbaglia nel non essere stato abbastanza radicale, perché la certezza primaria e fondamentale non è quella della mia esistenza, ma quella del reale colto col senso e con l’intelletto.

Soltanto il pensare divino non ha alcun oggetto presupposto, perché è il creatore di quello stesso essere che Egli pensa. Invece l’essere, per il pensare umano, precede il pensare ed è indipendente dal pensare. Per noi l’essere, prima di essere pensato è pensabile; prima di essere conosciuto, è ignoto. Esiste in sé, anche se non lo pensiamo. Diventa pensato, entra intenzionalmente nel nostro pensiero, una volta che lo abbiamo conosciuto. Ma in sé stesso resta fuori dal pensiero.

 Fine Prima parte di Tre Parti

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 12 luglio 2020

Aristotele: «Non è la pietra che è nell’anima, ma l’immagine della pietra»

Immagine da internet


[1] Alcuni esempi fra tutti: J.Maritain, Le songe de Descartes, Buchet&Chastel, Paris 1932; Tre Riformatori, Morcelliana, Brscia 1964; P.Lumbreras, De dubio methodico Cartesii. Dissertatio historico-critica,Friburgi Helvetiorum 1919. Cartesio viene regolarmente confutato in tutti trattati tomisti di gnoseologia e di critica della conoscenza

[2] Esortazione Apostolica Gaudete et exultate del 2018.

[3] Meditazioni metafisiche, op.cit., p.84.

[4] Ibid., p.95.

[5] Ibid., p.97.

[6] Cf Sum.Theol., I-II, q.19, a.5; De Ver., a.4. La conscientia, per S.Tommaso, è solo la coscienza morale, che quindi per lui è l’atto di applicare la scienza morale alla propria condotta passata, presente e futura: Sum.Theol., I, q.79, a.13. Ciò non impedisce all’Aquinate, come vediamo in questo studio, di avere chiarissimo il concetto dell’autocoscienza, che ci permette di confutare Cartesio; solo che egli la chiama semplicemente cognitio sui. Cf i miei studi: IL CONCETTO DI COSCIENZA IN S.TOMMASO, in AA.VV., La coscienza morale e l’evangelizzazione oggi, Atti del convegno organizzato dallo STAB, ESD, Bologna 1992; AUTOCOSCIENZA E COSCIENZA MORALE IN S. TOMMASO D’AQUINO, in Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, a cura di L.Gabbi e V.U.Petruio, Ed. Donzelli, Roma, 2000, pp.45-72.

   Il principio gnoseologico che governa e giustifica la dottrina della Dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa è la possibilità che la coscienza erri in buona fede in materia di religione. Il che non toglie che esistano verità religiose talmente evidenti, come per esempio che Dio esiste, che in esse non è possibile errare in buona fede. Per questo il Concilio insegna che l’ateismo cosciente non può essere senza colpa (cf Gaudium et Spes, n.19).

 

[7] In Cartesio. Opere filosofiche, I, Editori Laterza, Bari 1991, p.19.

[8] Opere filosofiche, op.cit., pp.97-98.

[9] Introduzione a Cartesio, Meditazioni metafisiche, Editori Laterza,Bari 1968, p.9.

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