Il principio del terzo escluso - Quarta Parte (4/4)

Il principio del terzo escluso

Quarta Parte (4/4)

I tre gradi di astrazione

La negazione della funzione astrattiva del conoscere degrada la dignità dell’uomo al di sotto di quella degli animali. Ma ciò che è da tenere presente nel caso della capacità astrattiva della ragione umana, è che essa opera nell’esercizio del sapere secondo tre gradi di astrazione.

Essa sale dal basso dell’esperienza fisica al livello della matematica, ossia dell’ens quantum e da qui, oltrepassando tutto il mondo del sensibile e dell’immaginabile, s’innalza al livello del puro intellegibile ovvero del puro spirito, e giunge alla metafisica, ossia alla nozione dell’ente in quanto ente, oggetto della metafisica.

L’intelletto, per salire dal secondo al terzo grado d’astrazione, non si limita alla semplice apprensione concettuale (simplex apprehensio) dell’ente composto di materia e forma, ma formula un giudizio col quale oltrepassa il piano dell’essenza per pronunciarsi sull’esistere o sull’essere del reale, mediante la copula del giudizio di esistenza (est), per cui non si limita ad astrarre logicamente o idealmente, come nella semplice apprensione, ma separa mediante il giudizio e dichiara distinto il piano materiale dell’essere da quello superiore dello spirito, ovvero separa la forma dalla materia e considera la pura forma o, potremmo dire, il puro spirito.

L’intelletto, cioè, opera la distinzione tra visibilia e invisibilia, che è uno degli articoli del Simbolo della Fede. Il dato materiale resta implicito nel contenuto del concetto dell’ente; ma ciò a cui va la preferenza dell’intelletto è lo spirito, perché solo un esso si realizza la pienezza e la perfezione dell’essere (esse).

L’intelletto, cioè, al terzo grado d’astrazione, nega che l’ente sia puramente materiale ed afferma l’ente immateriale, ossia lo spirito, quindi sale oltre la fisica (meta-fisica) al massimo livello dell’essere, che è quello spirituale, il cui sommo è l’essere divino. E se ancora la conoscenza animale può giungere fino al secondo grado di astrazione, che riguarda il mondo materiale, è solo l’intelletto umano, in quanto spirituale, che si eleva al livello della pura forma, ossia dell’ente spirituale, che può essere l’anima, l’angelo e Dio. In questo orizzonte sconfinato dell’essere analogico l’intelletto trova per induzione dall’ente causato il puro essere (esse purum), atto d’essere senza potenza, che è l’ipsum Esse per se subsistens, ossia Dio.

La ragione, dunque, opera un primo grado di astrazione nel sapere fisico, per il quale la mente astrae dal dato sensibile diveniente particolare e coglie l’essenza fisica universale, come per esempio in quel cane l’essenza del cane o in quella porzione d’acqua coglie l’essenza dell’acqua o nella caduta di quel grave la legge della gravità.

Prescindendo successivamente dalle qualità sensibili e mobili dell’oggetto fisico, la mente si eleva all’astrazione di secondo grado, quella matematica, per la quale l’oggetto non è più un oggetto reale sensibile e mobile, ma solo immaginabile, immanente alla ragione (ens rationis) come oggetto dotato di pura estensione, una res extensa, come un numero o un’equazione o un triangolo.

Salendo ancora più in alto nella scala dell’essere, l’intelletto coglie l’ente reale nella sua pura intellegibilità, a prescindere anche dall’immaginazione e quindi dalla materia. Si forma la nozione più universale, della quale la nostra ragione essa è capace: la nozione dell’ente in quanto ente.

Tale nozione può essere di due tipi: la nozione dell’ente logico e quella dell’ente metafisico. L’ente logico è l’ente in quanto pensato o concepito dalla ragione, il cosiddetto ens rationis o ente ideale. L’ente inteso dal metafisico è invece l’ente reale, in tutte le sue possibili forme, gradi e varietà implicitamente e virtualmente contenute nel concetto analogico e partecipativo dell’ente[1]. L’astrazione logica ottiene il principio di non-contraddizione o del terzo escluso. L’astrazione metafisica ottiene il principio d’identità.

Nessuno nega che esistano modi di astrarre sbagliati, illusori e fuorvianti, che esistano astrazioni vuote, troppo generiche ed inutili. Ma da qui a prendersela con l’astrazione come tale, ci corre moltissimo ed è sbagliatissimo. Il problema non è quello di sostituire l’astratto col concreto, ma di saper astrarre con prudenza, saggezza, con mire realistiche, rigore scientifico e rispetto della logica.

Chi non sa apprezzare ed usare l’astrazione, non scopre e non capisce neppure il concreto, perché l’atto morale concreto inteso dal giudizio prudenziale non è altro che l’applicazione all’azione della legge universale colto astrattivamente, in quanto norma dell’agire. E d’altra parte non potrebbe l’intelletto capire l’essenza della cosa concreta, se non si volgesse alla sua immagine come sussidio dell’intuizione concettuale dell’intelletto: quel volgersi che San Tommaso chiama conversio ad phantasma.

Contraddire e contraddirsi

Bisogna distinguere il contraddire dal contraddirsi. Il contraddire è un atto volontario moralmente buono o cattivo di opposizione ad una proposizione o ad una persona. Il contraddirsi è un discorso che negando sé stesso, annulla sé stesso, per cui quello che il dicente dice non ha senso.

Di Gesù dice il vecchio Simeone: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2, 34-35). Gesù ha il potere di suscitare il meccanismo della contraddizione. Non si contraddice, ma contraddice ed è contraddetto.

Davanti alla sua condotta, che tocca le corde e gl’interessi profondi del cuore umano, gli uomini, vedendosi messi a nudo, sono costretti ad uscire allo scoperto, a prender posizione ed appare chi è per la verità e chi è contro; chi è per Cristo e chi è per l’anticristo. I furbi non possono più darla ad intendere e i loro piani sono svelati; non riescono più a sgusciare o sfuggire alla luce di Cristo. Per contro gli onesti perseguitati vengono rivendicati, si fanno coraggio e si manifestano apertamente per quello che veramente sono, liberati dalle calunnie, dalle incomprensioni e dalle diffamazioni.

Gesù infrange e manda in frantumi con il suo divino sguardo penetrante le barriere spesse, impenetrabili ed accuratamente innalzate di opportunistico neutralismo, di falsa imparzialità e di furbo astensionismo, dietro ai quali gli ipocriti celano il loro pensiero per dar ragione al sì come al no, gli gnostici credono di nascondere una superiore saggezza, gli infingardi occultano la loro volontà di non prender nulla sul serio all’infuori di se stessi, i doppiogiochisti cercano comunque di stare a galla, i voltagabbana si sottomettono al potente di turno. Nascono così i conflitti aperti, si mettono le carte in tavola e si sa di ognuno che cosa pensa. È il momento della verità. Si capisce chi sta dalla parte di Cristo e chi di Beliar.

Si manifesta Gesù segno di contraddizione: «Non sono venuto a portare la pace, ma una spada» (Mt 10,34). Nella contraddizione al male avviata da Gesù più che mai risplende la verità e il rispetto del principio di non-contraddizione. Gesù è il Cavaliere dell’Apocalisse, il «Fedele», il «Verace», che «giudica e combatte con giustizia» (Ap 19,11). Gesù è Combattente leale che non ha intelligenza e non patteggia col nemico. Il suo sì è sì e il suo no è no. È molto chiaro da che parte sta o con chi sta ed è molto chiaro contro chi sta.

Il principio di non-contraddizione è un principio di coerenza e linearità: «Non potete servire a due padroni» (Mt 6,24). Esso vuol dire che non è lecito: è peccato di doppiezza o di opportunismo o di ipocrisia. Dal punto di vista dell’accadere, è possibile che succeda. Ma ciò che accade, per il semplice fatto che accade, non è detto che sia bene.

In tal modo, bisogna dire che il peccato non è un atto contradditorio, che si tolga da solo o si autodistrugga, per un semplice meccanismo dialettico, come crede Rahner. Il peccato è un’azione fallita non nel senso che va a vuoto. Se il peccato fosse tale, non si capirebbe che senso possa avere l’opera della Redenzione. Le cose vanno in realtà ben diversamente. Esistono infatti peccati riuscitissimi nel loro intento ed effetto malvagio e perfettamente organizzati ed orchestrati, efficacissimi nel fare il male o nell’ottenere il male o il danno che il peccatore si era prefisso di ottenere.

Il peccato quindi dev’essere tolto o riparato dalla giustizia e dalla misericordia divine, altrimenti resta. L’atto del peccato non è affatto autocontradditorio, ma ha una sua ben precisa identità: rubare, fornicare, uccidere, mentire, ecc. Occorre la misericordia divina per togliere il peccato.

Il peccato non è un atto contradditorio, ma è un atto realmente esistente e possibile, che contraddice alla giustizia ed è riconducibile all’autocontradditorio, in quanto si basa sull’affetto per un bene creato considerato come assoluto.

Aristotele riteneva che non fosse necessario confutare colui che si contraddice, perché con la sua contraddizione, confuta sé stesso e che colui che vuol negare il principio di non-contraddizione, dovrebbe essere muto come una pianta, perché già nel momento in cui esprime parole che hanno un significato, è obbligato a rispettare quel principio.

Aristotele nel famoso libro IV della Metafisica espone e fonda il primo principio della dimostrazione, che è il primo principio della metafisica, ossia il principio d’identità e di possibilità: è impossibile che l’ente sia tale e non sia tale simultaneamente.

Chi pretende di dimostrare il principio deve per forza basarsi sul principio. È quel vizio logico e quell’errore di metodo, che si chiama «petizione di principio» (petitio principii). Infatti qualunque tesi parte dal primo principio e si basa su di esso, per cui bisogna darlo per scontato, perché se se ne dubita, il vero si stabilisce solo ricorrendo al principio. Tanto vale allora lasciarlo in pace e costruire il sapere dimostrativo sulla base di quel principio.

Chi nega il primo principio è costretto ad ammetterlo come presupposto sulla base della validità del quale il negante lo nega. Il primo principio della logica è il principio di coerenza e di non-contraddizione. Dire sì ciò che è sì e dire no ciò che è no. Tra il sì e il no non c’è un terzo, se non per le persone doppie o false.

Il primo principio della metafisica è il principio d’identità: ogni ente è ciò che è e non può esser tale e non esser tale simultaneamente e sotto lo stesso rapporto. Il negarlo comporta la negazione dell’oggetto della metafisica e con ciò la distruzione di qualunque giudizio sul reale.

Da questo principio teoretico discende il primo principio della morale, che dice: fa’ il bene e fuggi il male. L’assoluto è uno solo: non puoi servire due assoluti. Questa è doppiezza. Devi necessariamente sceglierne uno. Se scegli quello giusto ti salvi; se scegli quello sbagliato, ti danni.

L’evidente al senso e all’intelletto non ha bisogno di essere provato o dimostrato. Chi infatti vuol provare l’evidente dovrebbe partire da un evidente precedente considerato come primo e punto di partenza. Invece ciò che ha bisogno di essere provato è il mediato, ossia la causa o il fine di un effetto percepito immediatamente.

Il risvolto morale del principio del terzo escluso

La polemica che spesso si sente contro i «princìpi astratti» o le «idee astratte» o i «precetti astratti» comporta anzitutto errori logici, perché queste espressioni sono tautologie. Infatti non esistono princìpi concreti e idee concrete o precetti concreti. Sarebbe come dire un cavallo equino e un bue bovino.  Princìpi, idee e precetti sono di per sè enti di ragione astratti.

Tale polemica scoraggia il ragionamento morale e blocca sul nascere la possibilità stessa del pensiero e della scienza morali e per conseguenza la possibilità che l’azione morale sia diretta dal pensiero e riduce l’agire morale all’obbedienza o all’esecuzione dei comandi del Capo o all’estrinsecazione di moti impulsivi istintivi, emotivi o irrazionali, come avviene negli animali senza ragione.

È vero che l’atto morale realizzato è un qualcosa di concreto. Ma non potrebbe essere moralmente buono e retto, se non fosse la prudente applicazione nel concreto dell’esistenza e delle circostanze adatte di un principio o un ideale o una legge morale come tali universali formulati in concetti e giudizi e quindi astrattamente colti dalla ragione o dalla fede.

I princìpi morali o ideali o precetti morali sono contenuti mentali bensì ricavati dal concreto e rispecchianti la realtà della natura umana e dei suoi fini, ma in sé stessi sono rappresentazioni concettuali e contenuti mentali astratti per loro essenza, anche se indubbiamente sono indirizzati all’azione concreta.

Il rifiuto del principio di non-contraddizione non può avere applicazione in campo speculativo perché comporta un’autodistruzione del pensiero. Ma può essere interpretato anche come principio della condotta morale. In tal caso esso viene a giustificare i comportamenti contradditori ed incoerenti, la falsità, il tranello, il sotterfugio, l’astuzia, l’infingardaggine, la simulazione, la dissimulazione, l’infedeltà, la slealtà, il tradimento, la doppiezza e l’ipocrisia.

Doppiezza ed ipocrisia è nascondere il giudizio falso sotto un apparente giudizio vero. Si serve a due padroni: al vero e al falso, a Dio e a mammona. Sì a ciò che è no e no a ciò che è sì: sì insieme col no. Sì e no ad un tempo. 

La persona doppia pretende ad un tempo di servire Cristo e l’anticristo, ovvero Cristo e Beliar. Viceversa, i nemici del vero cristiano non possono che essere nemici di Cristo e servi dell’anticristo. Se invece ha nemici che hanno delle ragioni contro di lui, allora in tal caso essi sono amici di Cristo ed è lui che diventa nemico di Cristo.

Il soggettivista, lo scettico, lo gnostico, il relativista, il fenomenista, l’empirista, l’apriorista, l’idealista si contraddicono nel momento in cui affermano, perchè infirmano le basi stesse del pensare. Sarebbe infatti possibile per ognuno di loro, ma sarebbe troppo lungo farlo qui[2], dimostrare che distruggono quello che affermano nel momento in cui lo affermano, perché negano quelle evidenze primarie di senso o di ragione, in base alle quali, se vogliono pensare, sono costretti a far ricorso.

Essi fanno violenza all’onestà e rettitudine del pensare e compiono un suicidio intellettuale, un assassinio del loro pensiero armati dal loro stesso pensiero. Vale per loro quanto afferma il Salmista: «La sua violenza gli piomba sulla testa» (Sal 7,17). «Chi scava una fossa vi cadrà dentro» (Pro 26,27; Sir 27, 26). Chi la fa l’aspetti.

La ragione comanda di non separare ciò che deve stare unito e di non unire ciò che dev’essere separato. Il primo errore è il dualismo; il secondo è il monismo. Il primo è l’errore di Mani, di Platone e di Cartesio; il secondo è l’errore di Shamkara, di Origene, di Spinoza e di Hegel, che pare sfiorato da Guardini.

Non si può operare la sintesi dell’antitetico: si offende il principio di non-contraddizione. La dialettica lascia opposti gli opposti. Non basta a creare la sintesi. Non risolve i conflitti, non crea l’unità. Non si può creare l’unità togliendo i molti: questo fu l’errore di Parmenide. Ma non si possono neppure lasciare i molti privi di unità: questo fu l’errore di Eraclito. E questi sono gli errori della logica di Hegel. Occorre conciliare l’uno con i molti senza cadere nella doppiezza, nella contraddizione e nell’equivoco.

Per ottenere ciò, creare l’unità e la sintesi coerente dei diversi e togliere le contraddizioni occorre l’analettica, come diceva il Padre Tomas Tyn. Si può infatti e si deve invece operare la sintesi del sintetico (et-et), osservando così il principio di diversità, di analogia e di armonia, senza violare il principio di non-contraddizione o terzo escluso (aut-aut), il che è atto di disonestà e di doppiezza.

Alcuni usano la metafora spaziale dell’avvinarsi reciproco e dell’incontro per rappresentare la soluzione dei conflitti dottrinali. Ma essa è insufficiente o può essere addirittura fuorviante. Infatti, è vero che i due litiganti o avversari possono e devono incontrarsi sulla base di una comune verità. Ma il problema non è tutto qui. Non si tratta semplicemente dell’avvicinarsi vicendevole fino a trovarsi assieme in un luogo comune, come potrebbero fare due tizi, i quali, uno da Milano e l’altro da Bologna, s’incontrano a Parma.

Questo va bene per accordi di tipo pratico. Ma in campo dottrinale c’è anche un problema di vero e di falso, di sì e di no. E non è che il sì e il no possano avvicinarsi tra di loro fino a aggiungere ad un punto medio fra il sì e il no. Il sì e il no non sono come il bianco e il nero, tra i quali c’è il grigio. No, tra di loro non c’è niente in comune, ma un’opposizione assoluta. Tra il paradiso e l’inferno non c’è un luogo comune. Come Abramo spiega al ricco epulone, «tra noi e voi è stabilito in grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi» (Lc 16, 26).

Pensare e parlare diversamente sarebbe falsità doppiezza. La concordia e la pace fra i due avversari sono date dal fatto che chi ha ragione deve persuadere chi ha torto e costui deve umilmente riconoscere di aver torto per dar ragione a chi ha ragione.

Il primo principio della ragione è dunque quello dell’aut-aut e dell’univocità; il secondo è quello dell’et-et e dell’analogia. Questi due princìpi sono i due pilastri fondamentali della ragione speculativa e della ragion pratica, che assieme formano il principio di ragione logica, metafisica e morale.  Si deve unire un bene con un altro bene, ma non si può unire il bene col male. Ciò comporta la confusione e l’equivocità. La conciliazione è possibile e doverosa nel caso dell’et-et; essa crea la pace, l’armonia e la concordia; crea l’unità nella molteplicità. Invece è doppiezza, discordia, ingiustizia e disonestà nel secondo, ossia quando si dà l’aut-aut.

Ciò vuol dire che l’antitesi e la sintesi sono incompatibili e si escludono a vicenda (aut-aut). Non si deve temere il dualismo quando si tratta di opporre il sì al no; chè invece questa opposizione è la sana dualità che esprime la giustizia e l’onestà.  Queste invece comandano di evitare la doppiezza del monismo e della falsa unità, che confonde il sì col no. Come è inevitabile il principio di non-contraddizione, così è inevitabile opporre il bene al male: anche chi li vuole unire è costretto a dire che è bene unirli ed è male separarli.

Il suddetto principio di ragione è confermato dalla fede cristiana: l’opera conciliatrice di Cristo riconcilia i termini che possono e devono essere riconciliati: l’uomo con Dio e gli uomini tra di loro: questo è il principio dell’et-et. Ma separa eternamente ciò che non può essere unito senza falsità e doppiezza. E qui si ha il rispetto del principio dell’aut-aut, del sì, sì, no, no. Il giudizio universale separa ed unisce: separa i beati dai dannati ed unisce nell’eterna beatitudine l’umanità pentita e divisa dal peccato. Per questo il profeta Simeone predice del bambino Gesù: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2, 34-35).

Fine Quarta Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 12 aprile 2021




Aristotele riteneva che non fosse necessario confutare colui che si contraddice, perché con la sua contraddizione, confuta sé stesso e che colui che vuol negare il principio di non-contraddizione, dovrebbe essere muto come una pianta, perché già nel momento in cui esprime parole che hanno un significato, è obbligato a rispettare quel principio.

Aristotele nel famoso libro IV della Metafisica espone e fonda il primo principio della dimostrazione, che è il primo principio della metafisica, ossia il principio d’identità e di possibilità: è impossibile che l’ente sia tale e non sia tale simultaneamente.

Il suddetto principio di ragione è confermato dalla fede cristiana: l’opera conciliatrice di Cristo riconcilia i termini che possono e devono essere riconciliati: l’uomo con Dio e gli uomini tra di loro: questo è il principio dell’et-et. Ma separa eternamente ciò che non può essere unito senza falsità e doppiezza. E qui si ha il rispetto del principio dell’aut-aut, del sì, sì, no, no. 

Il giudizio universale separa ed unisce: separa i beati dai dannati ed unisce nell’eterna beatitudine l’umanità pentita e divisa dal peccato. Per questo il profeta Simeone predice del bambino Gesù: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2, 34-35).


Immagini da Internet

[1] Cf Tomas Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione analogia entis, Edizioni ESD Bologna, 1991; nuova edizione riveduta a mia cura nelle Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009.

[2] Sarebbe bene consultare i migliori trattati di gnoseologia, come per esempio quelli del de Tonquédc, del Toccafondi, del Maritain, del Garrigou-Lagrange, della Vanni Rovighi, del Roland-Gosselin, del Simon, del Livi, del Gény, compresi anche i miei studi.

 

9 commenti:

  1. Padre Daniel Ols O.P. dice che da almeno due o tre secoli il mondo moderno é in maniera più o meno cosciente preda dell'idealismo. La realtà, le cose non sono più oggettivamente tali come sono ma sono diventate ciò che si pensa e desidera che esse siano. L'intelletto piega le cose al proprio pensiero e alla propria volontà. Il contrario esatto del realismo di San Tommaso sempre attento all'oggettività delle cose e quindi alla verità. Dal suo scritto, Padre, si vede che in molti pensatori moderni mancherebbe poi una base logica, mi pare. Ci vedrei anche un po' di vanità e amor proprio.

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    1. Caro Alessandro, sono pienamente d’accordo con la tua analisi, la quale d’altra parte, come vedo, riflette il pensiero di P. Ols, e ciò non mi stupisce, perché con lui sono in amicizia da alcuni decenni e ne ho molto stima perché è un ottimo tomista
      Per essere più precisi, l’idealismo moderno, che sfocia in quello tedesco dell’‘800, nasce con Cartesio e sarebbe quella che i cartesiani, per farsi propaganda, chiamano “filosofia moderna”, che è all’origine dell’attuale modernismo.
      Papa Francesco indubbiamente non è un filosofo, ma è una persona di buon senso, nutrita dal realismo biblico, per cui egli manifesta una chiara impostazione tomistica e nutre giustamente ripugnanza per l’idealismo.

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    2. Caro Alessandro, la vera filosofia moderna è quella che, come ci indica la Chiesa stessa, è promossa dal Concilio Vaticano II e sviluppa il pensiero di San Tommaso arricchendolo con quanto c'è di buono nella modernità.
      Esempi eminenti di questo metodo sono filosofi come Maritain, Fabro, Gilson e altri della scuola tomistica.

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  2. E' tutto pensiero di Padre Ols. Il quale, dice anche che la formazione religiosa senza San Tommaso é priva di spina dorsale e quindi si arriva al risultato di correre il rischio di produrre oggi più della letteratura religiosa che della teologia vera (il senso delle sue parole é questo, ma basta poco per vederlo da soli). Maritain, dice sempre P. Ols, scrisse nel suo diario che con San Tommaso il pensiero si sente a casa.

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    1. Caro Alessandro, mi compiaccio molto di queste ottime considerazioni, che condivido in pieno.

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  3. Caro Padre Cavalcoli:
    "La polemica che spesso si sente contro i «princìpi astratti» o le «idee astratte» o i «precetti astratti» comporta anzitutto errori logici, perché queste espressioni sono tautologie. Infatti non esistono princìpi concreti e idee concrete o precetti concreti. Sarebbe come dire un cavallo equino e un bue bovino. Princìpi, idee e precetti sono di per sè enti di ragione astratti".

    Mi sembra di vedere questa vuota polemica in alcune espressioni di papa Francesco, che ovviamente io posso capire in un certo senso corretto, ma che, di per sé, mi sembrano implicare tautologia, e quindi giungono a confutare (di per sé) le frasi del Papa. Lo vedo ad esempio nel numero 26 della recente lettera apostolica "Desiderio desideravi", quando parla di "concetto astratto", che equivale a dire "idea astratta".
    Forse quello che dico non ha importanza, che è un mero difetto di lingua di papa Bergoglio, e che dovrebbe essere ignorato senza ulteriori preoccupazioni. Ma anche così, denota che c'è una certa inclinazione per quelle correnti che rifiutano tutto ciò che è "astratto", senza accorgersi consapevolmente di ciò a cui si fa riferimento.
    Grazie.

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    1. Caro Ross,
      le dirò che anch’io, quando leggo queste espressioni di Papa Francesco, mi sento a disagio, ma poi sforzandomi di dare una interpretazione benevola mi rassereno.
      Qual è il rischio di queste espressioni? È quello di essere strumentalizzate da una mentalità occamistica o esistenzialista, spregiatrice della dignità del pensiero, che per sua natura vive nell’astrazione nel senso che si libra al di sopra dello spazio e del tempo, si solleva al di sopra del particolare e del concreto, per attingere all’orizzonte dell’eterno, dell’infinito, dell’universale e dell’immutabile.
      Io credo che la preoccupazione di Papa Francesco sia solitamente non tanto una preoccupazione speculativa, ma una preoccupazione di tipo morale. Ora, dobbiamo sapere bene che, se la legge morale come tale è un principio astratto, la sua applicazione deve avvenire nel concreto.
      Inoltre io credo che quando il Papa se la prende con le astrazioni, voglia colpire l’astrattismo tipico dell’idealismo e dello gnosticismo, come del resto ha chiarito più di una volta.

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  4. Caro Padre Cavalcoli,
    in quest'ultima parte del suo articolo dici che "Per ottenere ciò, creare l’unità e la sintesi coerente dei diversi e togliere le contraddizioni occorre l’analettica, come diceva il Padre Tomas Tyn".
    C'è qualche libro, saggio o articolo di padre Tyn in cui io potrei chiedere il significato dell'’analettica di padre Tyn?
    In Wikipedia trovo (solo nella versione spagnola) una breve nota che non me sembra coerente con il pensiero tomista di Tyn. Lo verso in spagnolo:
    "L'analettica è un metodo creato dalla Filosofia della Liberazione, sviluppato da pensatori come il teologo Juan Carlos Scannone, il filosofo Enrique Dussel e l'antropologo Rodolfo Kusch.
    Dussel spiega il metodo nel suo libro Filosofia della liberazione, come metodo adatto per svolgere il compito filosofico. Il termine analettica (in greco antico, ανωλεκτική) è formato dall'unione dei termini greci ανω anó, che significa "oltre", e λογιζομαι loguizomai, che significa "ragionare".
    Per Dussel, la dialettica considera l'unità del diverso, degli opposti nella totalità dell'essere. Analettica significa andare oltre la totalità e incontrare l'Altro, che è originariamente diverso e quindi il suo logos interpella oltre la mia comprensione dell'essere, oltre il mio interesse. [Dussel, Enrique (1977) Introducción a la Filosofís de la Liberación. Bogotá: Editorial Nueva América, 4.ª ed. 1991; p.p. 196-204].
    Questo metodo integra, almeno nella sua base, due modalità di analisi filosofica già trattate e utilizzate dalla tradizione filosofica: l'analogia (metodo classico, ampiamente utilizzato nel tomismo e in altre scuole di scolastica), e la dialettica (già indicata come comprenderlo in suo aspetto platonico o nel suo aspetto hegeliano/marxista).
    Secondo Jesús Villagrasa, questo termine è stato creato da Bernhard Lakebrink per applicarlo alla metafisica tomista" [Hegels dialektische Ontologie und die thomistische Analektic (Colonia 1955, Ratingen 1968)].
    C'è più sviluppo sull'argomento in: Jesús Villagrasa: La analéctica como método de una metafísica realista en A. Millán-Puelles, Alpha Omega VII (1): 17-46. In: https://web.archive.org/web/20160305021202/http://www.uprait.org/archivio_pdf/ao7102_villagrasa.pdf

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    1. Caro Ross,
      come lei stesso mi fa presente, il termine analettica è stato coniato da Lakebrink ed assunto da P. Tyn per designare il metodo e la dottrina tomista dell’analogia. Non esistono quindi particolari trattazioni di P. Tyn sull’analettica, perché, come egli stesso dice, l’analettica non è altro che un termine per designare la dottrina tomistica dell’analogia.
      Per quanto riguarda l’uso dell’analettica fatto dalla teologia della liberazione, non sono al corrente di questa cosa, ma dalle poche parole che lei mi dice traggo l’impressione che possa essere un uso legittimo. Avverto però che la vera analettica è incompatibile con la dialettica hegeliana-marxista.
      Per quanto riguarda la combinazione dell’analettica con la dialettica, bisogna vedere che cosa si intende per dialettica. Quel tipo di dialettica, che si accorda con l’analogia, è la dialettica aristotelica, la quale consiste nell’arte di dibattere le opinioni, alla ricerca di una conclusione scientifica.
      Intesa così la dialettica si accorda con l’analogia, perché può mettere in rilievo delle opinioni analoghe. Inoltre l’analogia è utile per la dialettica perché può mettere in evidenza delle somiglianze o delle diversità nei modi di pensare o di argomentare.
      Ben altra cosa è la dialettica hegeliana e quindi quella marxista, inquantoché qui siamo di fronte al metodo della contraddizione, il quale non si concilia col metodo dell’analogia, perché questo è fondato sul principio di non contraddizione e di identità. Per questo, mentre la dialettica hegeliana spiega il diverso con la negatività, la dialettica compatibile con l’analogia entra nel campo del diverso, ma sempre nel rispetto del principio di non contraddizione, mentre l’analogia è la vera spiegazione dell’alterità e della diversità, perché, grazie al principio di identità, crea il contatto tra i diversi, per cui salva nello stesso tempo l’identità dell’identico, pur nel pluralismo della somiglianza, della diversità e della proporzione.

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