La salvezza è gratuita, ma occorrono anche i meriti

 La salvezza è gratuita, ma occorrono anche i meriti

Come risolvere questa antinomia?

Oggi spesso s’insiste sulla gratuità della salvezza, ma non si parla più dei meriti.  Il paradiso, si dice, non può essere meritato, perché è un dono della grazia, che Dio fa a tutti. Ora è chiaro che il meritare non comporta un ricevere, ma un acquistare; chi merita non accoglie un favore, ma esige per giustizia.

Inoltre il meritare si oppone allo stato di chi riceve grazia. Questo non suppone alcuna opera; il merito, invece, è effetto della pratica dei divini comandamenti, della legge morale, del compimento delle opere buone. Dunque, sembra che se i meriti non occorrono per salvarsi, non occorre che ci sforziamo a compiere delle opere e a mettere in pratica delle leggi. Alcuni vanno più in là e dubitano dell’esistenza stessa di leggi morali universali, oggettive ed immutabili.

Ora, nella Sacra Scrittura esiste sia una dottrina della grazia che una dottrina del merito. Come metterle d’accordo? Lutero pensò che occorresse abbandonare la dottrina del merito, per tenere solo quella della grazia. È il famoso sola gratia di Lutero. Ma il Concilio di Trento lo rimproverò di questa falsa soluzione e ribadì la dottrina del merito insieme con quella della grazia. L’esigenza di evitare la contraddizione è un’esigenza basilare ed irrinunciabile del pensiero. Ma appunto per questo, se ci pare di trovare delle contraddizioni nella Scrittura, è impensabile che in esse Dio si contraddica.

Dobbiamo piuttosto dire che siamo noi che non capiamo e dobbiamo pertanto risolvere l’apparente contraddizione. Sopprimere, come fece Lutero, il merito per salvare la grazia, è una pessima soluzione, che falsifica la stessa grazia, perché nella Scrittura i termini che sembrano escludersi a vicenda, in realtà non possono fare a meno l’uno dell’altro.

Su questo punto cardine del cristianesimo, sembra in particolare che ci sia un contrasto fra l’insegnamento di Gesù Cristo e quello di San Paolo. Cristo avverte il giovane ricco che se vuole entrare nella vita, deve osservare i comandamenti. Paolo invece ci assicura che la salvezza non dipende dalle opere e dall’obbedienza alla legge, ma dalla sola grazia e dal credere che Cristo ci ha salvati.

Così similmente Gesù ci avverte che per essere ammessi al banchetto di nozze, occorre che abbiamo l’abito nuziale. Invece San Paolo dice: «noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere» (Rm 1,28). Paolo afferma di essere «schiavo del peccato», così da venire a dire: «non quello che io voglio faccio, ma quello che detesto» (Rm 7,15). Nel contempo sembra discolparsi: «non son più io a fare il male, ma il peccato che abita in me» (v.20).

Dunque, vien fatto di concludere, che se fare il bene è impossibile, e d’altra parte Cristo ci offre la salvezza, vorrà dire che per salvarsi non occorrono le opere, ma basta la grazia. E difatti, Paolo, al termine di queste considerazioni, ponendosi il problema della salvezza, dato che ci considera schiavo del peccato ed incapace di fare il bene, non esamina neppure la possibilità di conquistare la libertà con la buona volontà e con le opere.

Non si tratta infatti di salvarsi, ma solo di essere salvato a somiglianza di un prigioniero che non è in grado di liberarsi da sé, per cui raggiunge la libertà solo se è liberato da qualcuno. Per questo Paolo si chiede: «chi mi libererà da questo corpo di morte?» (v,24), e risponde: «la grazia di Dio per mezzo di Nostro Signore Gesù Cristo» (v,25). Dunque sembra dire che per salvarsi non occorrono le opere buone, cosa impossibile, ma è sufficiente la grazia.

Ora, per risolvere questa antinomia, è chiaro che dobbiamo interpretare la dottrina di Paolo alla luce dell’insegnamento di Cristo, che in vari modi e a più riprese ci chiarisce che se obbediamo e mettiamo in pratica i comandamenti, ci salviamo, altrimenti ci perdiamo.

Ora è fuori dubbio che la salvezza è dono gratuito della grazia. Ma come si deve intendere questo dogma fondamentale del cristianesimo? Lo si deve intendere in modo da salvare il libero arbitrio, la necessità delle opere buone e quindi il merito, verità di fede insegnate dal Concilio di Trento, oltre che dalla stessa Sacra Scrittura.

L’opera di Cristo non è stata solo quella di salvarci dal peccato,

ma anche quella di donarci la gloria di essere figli di Dio

 

Che cosa è infatti la salvezza? Salvezza da che cosa? Salvezza dalla pena o morte eterna, meritata da tutti gli uomini, tranne che da Gesù e Maria, del peccato originale. E come l’uomo, dopo il peccato originale, caduto in una miseria spaventosa, incapace da sé di rialzarsi e di ristabilire la comunione con Dio, schiacciato dall’ira divina, avrebbe potuto, con le sole misere forze che gli restavano, schiavo di Satana, riparare al male fatto, ricostruire ciò che aveva distrutto, recuperare ciò che aveva perso, riconciliarsi con Dio, essere liberato dal castigo, se Dio stesso, impietositosi della sua misera ed irreparabile condizione, non gli fosse andato incontro sollevandolo dalla sua miseria, dandogli nuove forze, offrendo grazia, misericordia e perdono e consentendogli di riparare al peccato in Cristo? 

Non solo, ma il Padre, nella sua infinita bontà, non si è accontentato di guarire con la grazia la natura umana ferita dal peccato, ma ha voluto in Cristo elevarla allo stato soprannaturale di figlio di Dio, erede della vita eterna e destinato alla visione beatifica in cielo della Santissima Trinità.

Per questo, se vogliamo esprimere in pienezza quella che è stata l’opera di Cristo non basta citare la salvezza dal peccato, ma occorre aggiungere la glorificazione celeste dell’uomo, effetto della grazia elevante. Ora, tutto ciò è dono gratuito della grazia, sì, ma in che senso?

Che sia la grazia stessa, per iniziativa divina, a muoverci al pentimento, alla penitenza, alla conversione, al compimento delle buone opere ed alla santità, Cristo ce lo fa capire chiaramente, quando ci mostra come sia Lui a chiamare il mondo alla speranza di essere salvato, come sia Lui a prendere l’iniziativa della fondazione della Chiesa, Comunità della salvezza, come sia Lui ad esortare alla conversione dicendo che il regno di Dio è ormai vicino, o quando parla della missione degli apostoli e dei discepoli nel mondo o incita i discepoli alla testimonianza.

Chi è infatti che muove la loro azione, se non la grazia dello Spirito Santo? Chi è il Mediatore della grazia del Padre se non Cristo? Chi è che giustifica se non Cristo? (cf I Cor 1,2; 6,11; Eb 2, 11; 10,10). Come gli uomini giungeranno alla «verità tutta intera» (Gv 16,13), se non perché guidati e mossi dallo Spirito Santo?

Ma resta sempre nel contempo il fatto che se noi una volta in grazia non ci sforziamo nel fare il bene e nel correggerci dai nostri vizi, se non traffichiamo industriosamente i talenti ricevuti, se non lavoriamo assiduamente nella vigna del Signore, se non ci procuriamo guadagni in cielo, ossia se non ci facciamo quanti più meriti possibili, se da pigroni e comodini ci presenteremo al datore di lavoro a mani vuote, che gli diremo? Ed egli che farà?

Se c’è uno che insiste sul fatto che la salvezza è dono della grazia e della misericordia del Padre, questi è proprio Gesù Cristo; ma con altrettanta chiarezza Egli ci fa sapere che il salvarci o non salvarci dipende da noi, dalle nostre opere buone o cattive, perché dalla parte di Dio non c’è altro che grazia e misericordia per tutti; per cui, se uno si danna, è solo colpa sua, è solo perché ha scelto il male, e non deve tirare fuori la scusa che è schiavo del peccato, perché, se ci avesse messa la buona volontà, col soccorso della grazia, se ne poteva  liberare e ce l’avrebbe fatta.

Come è possibile che la salvezza sia al contempo gratuita e meritata?

Comunque il problema esiste: come è possibile che la salvezza sia gratuita, se è meritata? Perché è peccato di presunzione e falsa confidenza in Dio, il pretendere di salvarsi senza meriti? D’altra parte, per qual motivo negare, come fanno alcuni, di avere meriti o di poterli avere, se questo è smentito dall’esistenza del nostro libero arbitrio e dalla coscienza che abbiamo di essere padroni delle nostre azioni? Non è questa una finta umiltà, un’infingardaggine e un’ipocrisia? Perché, se vogliamo una cosa di questa terra sappiamo come procurarcela e se invece pensiamo alla salvezza aspettiamo che ci venga regalata dal cielo?

Comunque la domanda resta: posso io ricevere una cosa gratuitamente e ad un tempo comprarla o pagarla o meritarla? Se Cristo paragona la vita eterna ad una perla preziosa che un mercante acquista vendendo tutti i suoi averi, come può poi questa vita eterna essere un dono gratuito? (Mt 13,45).

Se il regno dei cieli è un tesoro che si tratta di accumulare sin da adesso con le opere buone, potrebbe poi questo tesoro essere regalato? (Mt 6,19). Se il regno di Dio lo conquistano i lottatori (cf Mt 11,12), come potremmo poi accedervi gratuitamente e senza sforzo? Si tratta di scalare rischiosamente una montagna o di fare un’allegra passeggiata a valle? Costa sacrificio o è come ricevere un regalo da Babbo Natale?

Se in cielo ci attende un «premio» (Lc 6,35), la felicità del cielo può nel contempo esserci donata gratis? Se il castigo viene inflitto a chi non compie una certa opera per guadagnare un certo premio, ma la vita eterna è semplicemente dono della grazia, per quale motivo Dio dovrebbe punire coloro che non lavorano e non si sacrificano per ottenere la vita eterna?

Infatti, pensando a come vanno le cose della vita presente, ci viene spontaneo di fare considerazioni come le presenti: se un operaio fa un buon lavoro, la paga che gli dà il datore di lavoro non è una grazia o un favore, ma è preciso dovere del padrone dargliela ed è preciso diritto del lavoratore riceverla.

Ancora. In questa vita ci sono spettacoli per vedere i quali l’ingresso è gratuito, mentre per altri bisogna pagare il biglietto. O l’una o l’altra cosa: non possono valere entrambe le cose simultaneamente «per la contradizion che no’l consente», direbbe Dante.

Per risolvere l’antinomia si potrebbe dire che nel caso del regno dei cieli l’ingresso resta gratuito, perché Dio stesso ci fornisce il denaro di Cristo per pagare l’ingresso. E questa è la soluzione proposta dalla Chiesa nel Concilio di Trento: lo stesso meritare soprannaturale è dono della grazia. Quindi è vero che «tutto è grazia»; ma perchè la grazia crea i meriti.

Tuttavia alcuni insoddisfatti insistono dicendo che la salvezza, essendo gratuita, è «incondizionata». Infatti, così molti oggi ragionano: se fosse condizionata dal compimento delle opere e quindi dai nostri meriti, dove finirebbe la grazia? Una grazia condizionata, non sarebbe gratuita: e allora, che grazia è?

L’incredulo o il marxista o il massone, dal canto suo, è convinto che per raggiungere la felicità siano sufficienti i suoi meriti senza bisogno della grazia. Questa è la preoccupazione di San Paolo, il quale in molti altri passi del suo pensiero non nega affatto, in perfetta linea con Cristo, che per raggiungere il regno dei cieli occorrono assolutamente le opere buone e l’osservanza fedele dei comandamenti.

Ma la grazia che cosa è?

La grazia, per la Scrittura è un dono o favore soprannaturale della bontà divina, che non sorge in Dio per ragioni della sua giustizia retributiva, ma perché Dio si prende a compassione o pietà dell’uomo fragile peccatore, benché a lui ribelle, perché vuol convertirlo, oppure perché vuole dar sfogo alla sua infinita bontà, dando, al di là del merito, a un tale un tot di grazia e a un tal altro un tot superiore, come a Lui piace.

Il concetto biblico della grazia, come tutti i concetti della rivelazione biblica, fanno riferimento alle nostre cose umane, ma queste vengono utilizzate dalla Parola di Dio come analogati inferiori, paragoni, immagini o simboli del concetto o mistero rivelato corrispondente, che la Bibbia ci vuole insegnare come oggetto di fede. Così l’idea biblica della grazia divina parte da come intendiamo noi la grazia nei nostri rapporti umani: la grazia o il favore di un sovrano o di un benefattore o di un padre o di una madre o di un amico.

Solo che il concetto biblico della grazia divina aggiunge qualcosa che non c’è né può esserci nell’atto umano del far grazia. Comporta cioè il fatto che Dio non dona, come avviene nelle cose umane, un qualcosa di estrinseco a Lui – un beneficio, un podere, un vitalizio, un’onorificenza, un premio, una somma di denaro, un trofeo, ecc. – ma comunica all’uomo un qualcosa di Sé, dona  all’uomo un dono finito nel suo modo finito di esistere nell’anima dell’uomo, ma di essenza infinita, perché è la stessa essenza divina.

Non si tratta, come crede Rahner, di un’autocomunicazione dell’essenza divina all’uomo, perché la grazia è un dono creato, annullabile dal peccato. Dio non può comunicare la propria essenza alla creatura, perché l’essenza divina, nella sua semplicità e singolarità, è incomunicabile. Essa può comunicare se stessa come Padre solo al Figlio, perché identica è l’essenza divina del Padre e del Figlio.

Come è noto, San Pietro parla della grazia come «consorzio» (koinonòs, II Pt 1,4) nella divina natura. La Vulgata traduce con «consortes». Ma koinonòs può voler dire anche «partecipe». E questa traduzione, avallata da S.Tommaso, ha finito per prevalere nel linguaggio della teologia e della Chiesa[1].

Così infatti ne parla San Tommaso, distinguendo una felicità naturale dalla beatitudine soprannaturale procurata dalla grazia:

«Esiste una duplice felicità o beatitudine dell’uomo: una, proporzionata alla natura umana, alla quale cioè l’uomo può pervenire in forza dei princìpi della sua natura. L’altra invece è la beatitudine che eccede la natura umana, alla quale beatitudine l’uomo può pervenire solo per divina virtù, secondo una certa partecipazione della divinità, come è detto in II Pt 1,4, che per mezzo di Cristo siamo fatti partecipi della natura divina»[2].

Occorre tuttavia fare attenzione a intendere bene questo «partecipare», che i Padri hanno messo in relazione alla mèthexis platonica, che significa un «avere-con». Participatio invece è un partem-capio, prendo-in-parte, una parte da un tutto. Allora è chiaro che questo «prendere-in-parte» va inteso solo in senso analogico, dato che, essendo l’essenza divina semplicissima e indivisibile, non se ne può prendere una parte: o tutta o niente. Per questo bisogna dire francamente che la grazia è di essenza divina, senza temere il panteismo, purché si abbia l’avvertenza di S.Tommaso di distinguere nella grazia nella sua essenza dal suo modo di esistere nell’anima. Dice infatti l’Aquinate:

«Poiché la grazia è al di sopra della natura umana, non può essere che essa sia una sostanza o forma sostanziale, ma è una forma accidentale della stessa anima. Ciò infatti che esiste sostanzialmente in Dio, diventa accidentale nell’anima che partecipa della divina bontà. … Secondo dunque il fatto che l’anima partecipa imperfettamente la divina bontà, la stessa partecipazione della divina bontà che è la grazia, ha nell’anima un modo imperfetto di esistere rispetto a come l’anima sussiste in se stessa; la grazia è tuttavia più nobile della natura dell’anima in quanto è un’espressione o una partecipazione della divina bontà; ma non per il modo d’essere»[3].

 Insomma la grazia è l’essenza divina che esiste accidentalmente nell’anima. Per cui qui, benché l’esistere sostanziale valga di più dell’esistere accidentale, si dà che la grazia vale di più dell’anima non da punto di vista dell’esistere, ma dell’essenza, in quanto l’essenza dell’anima è infinitamente al di sotto dell’essenza divina. Ecco spiegato il detto di San Paolo: «abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (II Cor 4,7).

In tal modo che succede nell’uomo in grazia? Che supera il proprio essere naturale per partecipare della stessa vita divina di quel Dio che gli dona la grazia. Naturalmente non è che l’uomo divenga Dio o uguale a Dio, cosa impossibile. E tuttavia nella sua anima viene ad esistere accidentalmente e quindi finitamente una qualità, appunto la grazia, di essenza divina.

Quindi si può dire sotto l’aspetto dell’essenza che la grazia è Dio in un esistere accidentale, ossia non secondo il suo essere sostanziale e sussistente. Ma sotto l’aspetto dell’esistere si deve dire che la grazia non è Dio, ma un dono creato di Dio, perché tocca l’accidentale e non il sostanziale. E l’accidentale non può essere Dio.

La grazia nella vita presente è altresì destinata da Dio ad aumentare continuamente a causa delle buone opere, fino a che, se l’uomo è perseverante, la grazia in punto di morte raggiunge il culmine, che con la morte resta per sempre come tale come condizione gloriosa del premio eterno.

La grazia, quindi, nel piano divino, ben lungi dall’agire da sola come effetto dell’agire divino, agisce di concerto con l’azione umana del libero arbitrio da lei mosso all’atto delle virtù. Se invece l’uomo in grazia pecca, come si sa, perde la grazia, che sotto il profilo del suo esistere nell’anima, viene distrutta. Invece la sua essenza divina si ritrae in Dio, che l’ha data. Per poterla riacquistare, occorre che il peccatore la chieda nuovamente, sotto l’impulso della stessa grazia, che Dio non cessa di inviare ad ogni peccatore, salvo che non sia egli stesso a rifiutarla.

E il merito che cosa è?

Il concetto di merito è un concetto intuitivo e comunissimo, che apprendiamo ed usiamo con facilità fin da bambini. Tutti sanno istintivamente che cosa vuol dire meritare, anche se non è facile dare una definizione del concetto. Qual è quel ragazzo che non ha occasione di dire per esempio: «Francesco si è meritato un sette in condotta a causa della sua disobbedienza alla maestra», oppure: «Giovanni si è meritato il premio nella gara sportiva per la sua bravura eccezionale».  Oppure capita di sentire il commento della gente alla carcerazione di un assassino: «Se l’è meritata! Con tutti i delitti che ha commesso!». Oppure: «È stato nominato Cavaliere del Lavoro per i meriti che si è acquistato con la sua benefica attività imprenditoriale».

Perché mai, allora, come sostengono i buonisti, col pretesto della gratuità della salvezza e della divina misericordia offerta a tutti, Dio dovrebbe mandare tutti in paradiso? Gli assassini e le loro vittime, i pentiti e gl’impenitenti, gli oppressi e gli oppressori, i superbi e gli umili, i violenti e i miti, le vergini e le prostitute, i martiri e i loro carnefici, gli ortodossi e gli eretici, i pii e i bestemmiatori? Tanto vale allora fare i nostri comodi, agire senza legge e senza regole e fare tutto quello che ci viene in testa.

La perdita o il disprezzo della nozione del merito, diffusa da buonisti e luterani, proprio nel campo della dinamica della salvezza, che è il più prezioso, sotto pretesto di umiliare la vanteria umana e la meritocrazia, è una iattura gravissima per l’equilibrio della coscienza morale, la pratica della giustizia e la vera comprensione della misericordia e dell’uguaglianza umana.

Vediamo allora con attenzione che cosa è in generale il merito. Esso è uno stato della volontà conseguente a un atto del libero arbitrio del meritante, relativo al compimento o non compimento di un’opera precedentemente pattuita col rimuneratore e da lui sanzionata con premio, se il meritante è stato ai patti o castigo, se invece il meritante non ha onorato il patto. Nella Sacra Scrittura questo patto è rappresentato con l’immagine dell’Alleanza fra Dio e Israele. Nell’ambito dei rapporti umani, il modello più semplice del patto è o il contratto sociale, col quale il cittadino s’impegna nei confronti dello Stato oppure il contratto di lavoro tra il lavoratore e il datore di lavoro, paragone più volte usato da Cristo stesso.

Il merito comporta un diritto al premio o una soggezione al castigo. Il retribuire secondo i meriti è dovere di giustizia. Il far grazia è dono della misericordia. I meriti che ci acquistiamo davanti agli uomini sono effetto delle nostre opere. In tal caso, il compenso che ci viene retribuito pareggia il valore dell’opera compiuta, perchè il merito può essere degno del compenso e questo può essere adeguato al merito. Per una prestazione finita riceviamo un compenso finito.

Ma nel caso dei nostri meriti davanti a Dio il discorso è molto diverso, perché, anche essendo in grazia, le nostre opere finite non possono essere strettamente degne del premio che ci viene concesso, per cui Dio, nel conferirci il premio, unisce la giustizia alla misericordia. Egli, infinitamente buono e generoso, compensa molto al di là dei nostri meriti, perché essi, finiti come sono, non sono adeguati, degni o proporzionati al premio infinito della vita eterna.

Soltanto Cristo, in quanto Figlio, merita presso il Padre a stretto rigore di giustizia. Ma i nostri meriti, per quanto uniti a quelli di Cristo, sono così limitati, che il Padre ci fa un forte sconto, ci viene incontro benevolmente dandoci molto di più di quanto potremmo meritare; per cui il nostro merito non è condegno, come quello di Cristo, ma semplicemente congruo o conveniente. Per meritare dunque il paradiso ci valiamo dei meriti di Cristo, della Madonna e dei Santi unendo ai loro i nostri meriti in grazia.

Il meritare è attività propria della creatura umana che agisce nel tempo in successione di atti liberi verso la morte, momento nel quale l’uomo sceglie definitivamente il suo fine ultimo e con ciò stesso cessa di meritare presso gli uomini e presso Dio: se questo fine è Dio, consegue il premio eterno; se il fine è il rifiuto di Dio gli è inflitta da Dio la pena eterna.

Per questo gli angeli non meritano, perché già hanno fatto la loro scelta definitiva, chi per Dio, chi contro Dio. Neppure Dio merita, perché il suo agire non ha un fine a Lui estrinseco, così da dover compiere atti per raggiungerlo, ma il suo agire è il suo stesso Essere, sicché Egli attua il suo volere solo governando il creato, il che Gli dà il diritto di retributore delle azioni degli uomini secondo i loro meriti. Oltre a ciò Dio governa con immensa bontà, donando la sua grazia per la conversione dei peccatori.

Lutero per salvare la grazia ha voluto escludere il merito

Lutero distingue in campo etico un’opzione fondamentale per Cristo nella fede dalla molteplicità delle opzioni categoriali relative alle attività di questo mondo. La prima è la scelta salvifica di Cristo: «afferrare Cristo», come egli dice, aggrapparsi a lui come il naufrago si aggrappa al soccorritore. E questo è certamente un pensiero buono. Occorre così ricordare che Lutero non nega in linea di massima l’esercizio del libero arbitrio. Per lui è inefficace e inesistente ai fini della salvezza, ma non negli affari di questo mondo, ossia per quanto riguarda gli atti categoriali.  

Ma poi Lutero purtroppo fraintende Paolo quando parla dell’uomo schiavo del peccato, incapace di fare il bene. Gli sfugge che Paolo usa qui, come ogni tanto gli capita o polemizza, un linguaggio enfatico e non va preso alla lettera o in senso assoluto, perché, considerando altri passi dell’Apostolo, dove parla formalmente, al di là della retorica, in realtà noteremo come egli ammette la possibilità e la necessità dell’esercizio del libero arbitrio sorretto dalla grazia e la necessità delle buone opere in ordine alla salvezza.

 Invece Lutero, male interpretando San Paolo, per il quale l’uomo usa del libero arbitrio sia in ordine alla salvezza che per gli affari di questo mondo, ritiene estinto il libero arbitrio ai fini della salvezza e ne ammette l’esercizio e l’utilità solo per l’opzione fondamentale, ossia la scelta di fede in Cristo che ci ottiene la salvezza, mentre ammette l’utilità degli atti categoriali solo per gli affari di questo mondo.

Per lui l’osservanza dei comandamenti o è impossibile o è facoltativa, data la concupiscenza irresistibile a seguito del peccato originale. Le opere buone seguono tuttavia alla grazia, ma non meritano la vita eterna, che dipende dalla sola grazia senza che occorrano meriti, che, per Lutero, sul piano della vita cristiana, sono impossibili, perché egli esagera la sproporzione fra l’opera dell’uomo e il premio celeste. Non capisce che il meritare cristiano è partecipazione ai meriti infiniti di Cristo.

Conclusione

Occorre ritrovare il concetto e la giusta considerazione del ruolo del merito nella vita morale e in quella cristiana. Per un malinteso ecumenismo c’è troppa acquiescenza nei cattolici nei confronti dei protestanti riguardo alla loro posizione errata circa l’importanza essenziale del merito nella vita cristiana.

In tal modo, invece di illuminare i protestanti, alla luce del Concilio di Trento e dell’attuale Magistero della Chiesa, in particolare il Catechismo della Chiesa Cattolica, succede che siano i cattolici a trascurare questa nozione e la sua pratica con la conseguenza di creare uno squilibrio nell’organismo delle virtù cristiane, che, spinto alle ultime conseguenze, farebbe crollare interamente l’edificio della morale cristiana e della stessa morale naturale.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 17 gennaio 2021


 

Ora è fuori dubbio che la salvezza è dono gratuito della grazia. Ma come si deve intendere questo dogma fondamentale del cristianesimo? Lo si deve intendere in modo da salvare il libero arbitrio, la necessità delle opere buone e quindi il merito, verità di fede insegnate dal Concilio di Trento, oltre che dalla stessa Sacra Scrittura.

 
 
 
 
Illustrazione della parabola dei talenti in una Bibbia dei primi del ‘900
 
 
 
 
 
 

[1] Cf C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino, SEI, Torino 1950, pp.299-314.

[2] Sum. Theol., II-II, q.62, a.1.

[3] Ibid., I-II, q.110, a.2, ad 2m.

2 commenti:

  1. Molto utile questa spiegazione tra gratuità della grazia e merito: la grazia crea i meriti. Spiegazione non da poco.

    in effetti, quando dice "...non é che l'uomo divenga Dio o uguale a Dio" é invece purtroppo insegnato oggi ad esempio al Boston College of Theology dai gesuiti: tesi del 2018 dal titolo "incarnation and humanization in the theology of Karl Rahner" (scaricabile il PDF). Che dire?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Alessandro, purtroppo Rahner cade nel panteismo, che è quella forma di superbia che viene istigata dal demonio alla coppia edenica, quando le promette: "Sarete come Dio".

      Elimina

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.