Appartenenza spirituale e appartenenza giuridica a un Istituto religioso - Dedicato ai giovani alla ricerca della loro vocazione - Terza Parte (3/3)

 Appartenenza spirituale e appartenenza giuridica

a un Istituto religioso

Dedicato ai giovani alla ricerca della loro vocazione

Terza Parte (3/3)

Perché Lutero ha rifiutato la vita religiosa? 

Il religioso, applicando la sua Regola, si impegna a predicare e vivere più intensamente e più perfettamente del secolare il mistero di Gesù Crocifisso, secondo le parole di San Paolo:

 

«Anch’io, fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (I Cor 2, 1-5). «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (I Cor 1, 23-24). «La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio» (1, 18).

Accantonando la sapienza umana Paolo naturalmente non intende dire che essa non possa e non debba preparare la conoscenza e l’annuncio del mistero della Croce, tutt’altro: sappiamo con quanta sapienza filosofica Paolo argomenta nel suo discorso all’Areopago o con quanta forza argomentativa nella Lettera ai Romani Paolo fa presente che l’esistenza di Dio si dimostra partendo dalla considerazione delle sue opere (Rm 1,20) o che la legge morale naturale è «scritta nel cuore», ossia nella coscienza degli stessi pagani (Rm 2, 14-15).

Ora è evidente che tutte queste nozioni razionali fanno da irrinunciabile presupposto all’acquisizione della fede in Cristo. Paolo semplicemente intende dire che non dobbiamo ridurre le verità divine soprannaturali a ritrovati dell’umana sapienza, ma dobbiamo considerarle come «manifestazione dello Spirito Santo». La conoscenza di fede presuppone la conoscenza razionale, che fa da preambolo alla fede (praeambula fidei). Ma la realtà creduta non si fonda su di una realtà razionale, ma sulla luce della fede. Questo vuol dire San Paolo.

Lutero sa benissimo che la predicazione e la pratica del mistero della Croce sono al cuore della vita di ogni cristiano. Quello che non gli va della vita religiosa – ed è ciò che la caratterizza - è la maggior pratica della penitenza e per conseguenza delle osservanze regolari e pratiche ascetiche previste dalla Regola ed ordinate dai voti monastici alfine di purificare ed elevare lo spirito ed espiare le colpe proprie ed altrui.

E questo perché? Perché per Lutero è impossibile pentirsi dei propri peccati. Infatti, secondo lui, come recita una delle sue proposizioni condannate da Papa Leone X nel 1521: «in ogni sua opera buona il giusto pecca» (Denz.1481). Ma questo come mai? Perché Lutero interpreta male quel passo di San Paolo dove sembra che l’Apostolo affermi che Cristo ha peccato: 

 

 «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui  giustizia di Dio» (II Cor 5, 21).

Paolo intende dire che il Padre volle che Cristo assumesse il castigo del peccato, per espiare il peccato, ma non lo stesso peccato, innocente com’era! Per questo Lutero applica il suo famoso motto justus et peccator a Cristo stesso prima che a noi. Cristo ci salva dal peccato peccando, così come ci salva dalla sofferenza soffrendo. È dunque peccando che il Cristo ci libera dal peccato diventando giusto, ma peccando nel momento che è giusto.

I due modi di appartenere a un Istituto religioso

L’appartenenza spirituale ad un Istituto religioso è la condivisione della spiritualità del Fondatore come essa si esprime nell’ideale di perfezione evangelica che egli propone col suo Istituto. Per attuarla è sufficiente far proprio il proposito dell’Istituto e realizzarlo con perseveranza nel corso dell’intera vita, mantenendo rapporti di amicizia o anche di discepolato con membri eminenti ed esemplari dell’Istituto, con le sue devozioni ed il culto dei suoi Santi, come fece il Maritain nei confronti dell’Ordine domenicano.

Viceversa, uno Schillebeeckx, sempre appartenuto ufficialmente all’Ordine, è totalmente estraneo alla sua tradizione teologica ed alla sua spiritualità, ed è piuttosto connivente con dottrine di tendenza empirista e naturalista estranee addirittura al cattolicesimo, aperto al liberalismo sessuale, sostenitore dell’indifferentismo religioso, ribelle al magistero pontificio, per cui è evidente che per lui il permanere ufficialmente nell’Ordine non aveva niente a che vedere con la condivisione dell’ufficio dell’Ordine di collaboratore del magistero della Chiesa e di diffusore della verità cattolica, ma non fu motivato da altro che dalla utilizzazione di una comoda sistemazione economica personale per i suoi studi e le sue numerose pubblicazioni di successo internazionale, che portavano all’Ordine grossissimi proventi economici dalla vendita dei suoi libri, in barba alla finalità dell’Ordine.

È possibile appartenere spiritualmente a un Ordine religioso, per esempio quello Domenicano, e non appartenervi giuridicamente, in quanto membri dell’Ordine ufficialmente riconosciuti. Un Maritain, per esempio, educato alla teologia da grandi Maestri Domenicani a cominciare da S.Tommaso, ha vissuto esemplarmente la spiritualità domenicana  tomista molto meglio e con maggior frutto e convinzione che non tanti membri ufficiali dell’Ordine. Che vale, viceversa, un’appartenenza giuridica, se, come nel caso di Schillebeeckx, ci si ribella al Magistero della Chiesa e si cade nell’eresia?

La vita spirituale e la condotta giuridica di un Istituto religioso convergono nel conseguimento dello scopo dell’Istituto. Per esempio lo scopo dell’Ordine domenicano, secondo il famoso motto di San Tommaso d’Aquino, è contemplata aliis tradere: comunicare agli altri i contenuti della divina contemplazione. Questo programma si potrebbe ricavare dalla Scrittura, per esempio dall’apparizione di Cristo a San Paolo: «ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto» (At 26,16) oppure da Giovanni:

 

 «Ciò che abbiamo contemplato, ossia il Verbo della vita, del quale rendiamo testimonianza, la Vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi, noi lo annunziamo anche a voi perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (I Gv 1, 1-3). Questa è la vocazione domenicana. 

Il Domenicano esprime questa conoscenza di Cristo che guida al Padre nello Spirito Santo col linguaggio adatto, che per essere proporzionato all’oggetto espresso è quel linguaggio spirituale, del quale parla San Paolo: «non un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali» (I Cor 2, 13). È quello che San Paolo chiama «linguaggio della sapienza» (I Cor 12,8).

Non che Paolo escluda l’importanza e l’uso della sapienza umana, intendiamoci bene. Paolo intende dire che il messaggio evangelico non è semplice frutto della sapienza umana o della filosofia. Ma ciò non toglie che nell’opera dell’evangelizzazione occorra cominciare col dar prova di saggezza umana, perché è solo così che possiamo condurre gli uomini alla fede in Cristo, come fa per esempio oggi Papa Francesco nel dialogo con i musulmani: egli fa riferimento a quella conoscenza naturale e razionale di Dio, che ogni uomo ragionevole possiede, fa leva su quel senso naturale della fratellanza universale che ogni uomo interiormente avverte, per preparare i musulmani a ricevere e ad accogliere l’annuncio del Vangelo. Questo è il compito del Domenicano.

Ma questo compito di per sé non richiede necessariamente l’aggregazione giuridica all’Ordine domenicano. Il giovane può benissimo decidere di attuarlo per conto proprio, di propria iniziativa, con progetti concreti elaborati da lui, come ha fatto Maritain, sia pure in ascolto e in amicizia con religiosi o teologi domenicani, nutrendosi della liturgia e della pietà dell’Ordine, imitando l’esempio dei suoi Santi, frequentando eventualmente una Fraternita domenicana o pregando insieme con i Domenicani in una loro chiesa, valendosi di un confessore domenicano, seguendo corsi filosofici o teologici tenuti da Domenicani, partecipando a pellegrinaggi organizzati da Domenicani, recitando quotidianamente il Santo Rosario, prendendo parte alle grandi feste dell’Ordine, come per esempio quella di San Domenico, di San Tommaso o di Santa Caterina, donando offerte per le missioni domenicane.  

Chi ci impedisce di far voto privato per tutta la vita di imitare San Domenico mettendoci sotto la sua protezione, prendendolo a modello di predicatore del Vangelo al fine di operare per la salvezza delle anime? Quel San Domenico, del quale Gregorio IX disse, pieno di ammirazione: Inexplicabile gaudium concipiens de zelo animarum?

E se l’appartenenza giuridica contrasta con quella spirituale?

Che importa se non ci prendono nell’Ordine o siamo maltrattati nell’Ordine o siamo espulsi dall’Ordine? Forse che Savonarola, espulso dall’Ordine ed arso sul rogo con l’approvazione del Maestro dell’Ordine Gioacchino Turriani  è stato meno Domenicano di uno Schillebeeckx, ispiratore del famoso eretico Catechismo Olandese, censurato da San Paolo VI e San iovanni Paolo II, ed osannato da tutti i modernisti dentro e fuori dell’Ordine?

Diciamo allora con tutta chiarezza e cognizione di causa: chi, pur avendo avuto una vocazione autentica, sull’esempio degli scismatici per non dire degli eretici, defeziona deliberatamente dall’Ordine, per quante delusioni abbia avuto o scandali o ingiustizie abbia patito o visto, non ha scuse: è un fedifrago, uno spergiuro, un violatore del diritto canonico, un traditore di Dio e dei Confratelli, meritevole di un severo castigo, mancando all’irrevocabile promessa fatta davanti all’Ordine, alla Chiesa e a Dio di osservare gli obblighi sacri della sua professione religiosa. È un disertore dalla buona battaglia contro Satana. È un ingrato ai benefìci ricevuti e provocatore di un grave scandalo, che turba i fedeli.

Il fatto che oggi la Chiesa conceda facilmente la dispensa dagli obblighi del sacerdozio e della professione religiosa, non toglie che un gesto del genere in linea sia un peccato gravissimo, che dev’essere adeguatamente riparato per poter essere perdonato.

Dato il gran numero di defezioni che sono avvenute in questi ultimi 60 anni, si è creato un costume di biasimevole leggerezza e quasi di indifferenza nei confronti dei Confratelli che lasciano l’Ordine e a volte anche il sacerdozio.

Chi resta sacerdote può comunque conservare la spiritualità dell’Ordine. Difficilmente si riesce a capire per quali motivi confratelli di virtù e di valore lasciano l’Ordine. Hanno ricevuto dei torti dai Superiori? Ma perché non sopportare? Una volta che ci si è ritrovati nell’ideale domenicano, dopo aver ricevuto la rara grazia di essere accolti in un Ordine così santo ed illustre passando nell’Ordine anni di fruttuoso lavoro, intrecciando amicizie con molti confratelli, il fatto riabbandonarlo appare difficilmente giustificabile, e pare motivato da meschini motivi di orgoglio o di ripicca. Questi confratelli hanno evidentemente imparato poco dai Santi dell’Ordine col loro tradimento sono mostrati indegni di appartenergli.

Ancor più biasimevole naturalmente è stato l’abbandono del ministero sacerdotale, con tutto il bisogno c’è di sacerdoti. Si potrebbe fare l’ipotesi di un’ordinazione invalida. Ma se essa è stata valida, che scuse potranno trovare davanti al Giudice divino? Può essere che non abbiano mai capito che cosa è il sacerdozio? E se l’avevano capito, con quale faccia adesso sperano nella salvezza?

Certo l’aggregazione giuridica all’Ordine o anche solo ad una Fraternita laicale dell’Ordine comporta oggettivamente la più completa attuazione del suo essere domenicano. Ma per il fatto che giochi la spiritualità domenicana e il modo di condursi, di pregare, di evangelizzare domenicano non è necessariamente segno che Dio lo chiami a farsi sacerdote o Fratello cooperatore nell’Ordine domenicano. Il giovane deve poter capire se Dio lo chiama, come un Maritain, ad una semplice aggregazione spirituale o ad un’aggregazione giuridica.

Il poter appartenere giuridicamente all’Ordine, sulla base dell’assunzione della spiritualità dell’Ordine, soprattutto come sacerdoti è una grande grazia a pochi concessa. Ma è anche una grande responsabilità, mancando alla quale si è maggiormente castigati da Dio di chi avesse condiviso solo la spiritualità dell’Ordine. Chi gli appartiene giuridicamente dev’essere per loro di esempio di spiritualità domenicana.

Può capitare che un laico domenicano viva la fraternità domenicana nel suo rapporto con i frati dell’Ordine meglio che non certi frati nelle loro comunità, dove può capitare che tra di loro esistano gravi dissensi o divisioni. La vita comune conventuale dovrebbe istituzionalmente costituire il massimo di realizzazione della fraternità domenicana.

Ma purtroppo succede che esistano di fatto amicizie secondo lo spirito domenicano più intense e sincere tra laici simpatizzanti o frequentatori dei conventi domenicani, mentre magari all’interno di quel convento esistono confratelli che si guardano in cagnesco. Che vale allora un legame giuridico quando manca la carità? Meglio la carità senz’alcun legame giuridico. Così succede che vi siano laici o preti diocesani che vivono lo spirito domenicano meglio di regolari frati domenicani, i quali però hanno messo in soffitta l’esempio di carità del Santo Padre Domenico.

Nessuno impedisce a questo giovane di restare laico come fece Maritain, e di imitare nella sua condotta l’esempio di S. Domenico e dei Santi domenicani, di pregare per la riforma dell’Ordine, affinché esso sia libero dalle forze malsane e corruttrici, che tuttora lo guastano, assuma nuova linfa vitale, prosegua nell’attuazione della riforma conciliare non alla maniera modernista, ma secondo le direttive dei Papi del postconcilio, e nella piena osservanza delle Costituzioni dell’Ordine.

Egli, sull’esempio di Cristo, avrà da soffrire, da essere perseguitato ed emarginato, da subire incomprensioni, diffamazioni, disprezzo, false accuse ed umiliazioni; sarà oggetto di attacchi da parte degli invidiosi, dei rilassati o dei rigoristi; ma non deve perdersi d’animo, né amareggiarsi, ma procedere coraggioso e sereno, pago della nettezza della propria coscienza e dell’ammirazione dei buoni, anche se pochi,  perché troverà nello spirito stesso dell’Ordine e nei suo Santi in cielo e in terra la forza di sopportare le prove e di superare le difficoltà per assolvere alla sua missione riformatrice e rivivificante ed ottenere all’Ordine un nuovo slancio che gli faccia recuperare l’entusiasmo e l’efficacia apostolica delle origini.

I vizi della vita religiosa 

Essi rovinano anche vocazioni autentiche e manifestano quelle false. Vediamo i principali.

La tiepidezza è la carità striminzita, rinsecchita ed abitudinaria. Viceversa, avendo il religioso tutti i mezzi più adatti per ottenere la perfezione della carità, se per pigrizia o trascuratezza non li usa, manca al fine della vita religiosa, che è quello, come dice Santa Caterina da Siena, di esercitare l’«ardentissima carità» e  di coltivare l’«infocato desiderio» della santità.

Infatti, come dice Sant’Agostino, «o la carità progredisce o non è carità». Come San Pio X diceva che il cattolico è per essenza tradizionalista, allo stesso modo possiamo dire che il cattolico è per essenza un progressista. Infatti, tradizione e progresso si richiamano a vicenda. Il progresso è lo sviluppo della tradizione e la tradizione è la base di lancio del progresso. Chi bada solo al progresso è un sovversivo e un modernista. Chi bada solo alla tradizione è un pezzo da museo o un corpo irrigidito dalla morte.

Ma la tiepidezza, la negligenza e l’insipidezza di questi religiosi appaiono anche dal fatto che non si curano di vivere la loro vita religiosa secondo il carisma del Fondatore o dei Santi dell’Istituto, ma vivono una vita magari senza gravi falli, ma del tutto grigia ed incolore in uno stile neutro, astratto e passe-par-tout, che andrebbe ugualmente ed indifferentemente bene per qualunque altro Istituto religioso. 

È come se uno che deve usare un farmaco specifico per quella data malattia, usasse un farmaco generico che non è in grado di curare i sintomi specifici di quella data malattia. La malattia non la cura. Se uno si fa Domenicano per fare il prete secolare o per imitare il Francescano, che Domenicano è?

L’ipocrisia è il nascondere, lasciandolo intravedere, un giudizio falso (ypo-krino=giudico sottintendendo), dietro un giudizio apparentemente vero; è il fingere di essere santi senza volerlo essere. È il farla in grande per piccole cose tralasciando i doveri e valori principali. Le labbra dell’ipocrita sono «labbra bugiarde che parlano con cuore doppio» (Sal12, 3).

Gli ipocriti sono servi di due padroni (Mt 6,24). Non si curano, per i loro torbidi fini, di evitare l’ambiguità, l’equivoco o il doppio senso, ma anzi lo cercano appositamente, per apparire quello che non sono ed ottenere il plauso umano, e per raggiungere per vie traverse, senza darlo a vedere, scopi disonesti o inconfessabili, del tutto all’opposto della limpidezza della Parola di Dio: «i detti del Signore sono puri, purificati al fuoco sette volte» (Sal 12,7).

Invece di opporre nettamente ed assolutamente il sì al no, si studiano slealmente e subdolamente di trovare una via di mezzo, così da dire simultaneamente sì e no (Mt 5,37), da mancare al principio di non-contraddizione e da esprimere pensieri che possono essere interpretati in due sensi opposti in contraddizione fra loro.

Gesù, come si sa, usa  espressioni molto severe contro gli ipocriti, li chiamandoli «serpenti» e «vipere» per il loro fare sinuoso apparentemente mite e dolce, eppure velenoso (Mt 23,33). Li chiama altresì «sepolcri imbiancati» (Mt 23,27), perché, morti interiormente, vogliono dare all’esterno un’impressione di bellezza e di purezza.

La vita religiosa, a causa di questa sua tendenza alla doppiezza, che stiamo considerando, si presenta sostanzialmente falsificata nel suo spirito, salvando un’esterna condotta giuridica apparentemente corretta e rispettosa della Regola nei minimi dettagli.

Così si può creare il fenomeno di religiosi astuti, disonesti, senza vera vocazione, che con mille abili artifizi, vie traverse, trucchi, espedienti, escamotages ed adulazioni, riescono ad ingannare i formatori facendosi accogliere nell’Istituto e rimanendovi anche per tutta la vita, riscuotendo successo ed ottenendo onori, e praticando nel contempo pedestremente e senza convinzione, un’osservanza meramente esteriore, e conducendo parallelamente e di nascosto, senza destar sospetti, una vita disonesta e peccaminosa.

Non c’è da meravigliarsi se qualcuno ad a un certo punto, per sua convenienza, lascia l’Istituto. Ma altri, soprattutto in un Istituto corrotto, prosperano, o perché a loro conviene restare o perché incontrano ipocriti come loro, o perché ricattati, per cui l’uno evita di denunciare l’altro – abbiamo qui l’esempio eclatante della pedofilia o degli scandali nell’amministrazione economica o la complicità nell’eresia.

Sappiamo quanto da sessant’anni i modernisti polemizzano contro l’ipocrisia, il farisaismo, il legalismo, il giuridismo, il rigorismo e il conservatorismo, strumentalizzando la riforma della vita religiosa promossa dal Concilio Vaticano II in nome dell’essenziale, dell’esistenziale, del concreto, della storicità, della spontaneità, dell’autenticità, della coscienza, della libertà, del progresso, della diversità e del dialogo.

Ma in realtà essi sono i nuovi farisei, i quali, visto che piace alla gente la figura del misericordioso, pluralista, liberale, mite e pacifista, si prodigano nell’apparire tali, mentre in realtà nel cuore coltivano l’odio, la doppiezza, l’invidia, la faziosità, l’estremismo, l’ingiustizia, la vendetta e la violenza.

L’invidia è la rovina della carità fraterna e della vita comune, cardine della vita religiosa. Infatti l’invidia è il dispiacere del bene altrui, soprattutto se l’altro ci supera nel sapere o nella virtù, o ha ricevuto doni di grazia superiori ai nostri.

L’invidioso è un superbo, attaccato alla propria vera o supposta eccellenza, un soggetto che vuol emergere e primeggiare sugli altri, bramoso di ricevere lodi ed onori per la sua eccellenza. Per questo non tollera che un altro gli dia ombra o sia superiore a lui o più famoso di lui, soprattutto se costui fonda la sua condotta morale su princìpi sani, mentre l’invidioso si fonda sull’egoismo e l’autoaffermazione.

L’invidia inoltre produce odio, fazioni e divisioni, perché l’invidioso, che ha sempre un suo seguito, aizza i suoi non solo verso la persona odiata, ma anche verso i suoi seguaci. Così la comunità si divide. L’invidioso offusca i valori comuni, che stanno alla base della vita comune e, trascinando una parte della comunità alle sue idee, fa sì che la parte rimasta sana sia osteggiata dai suoi seguaci, sia obbligata a difendersi e a combatterli.

Ora, un giovane di retta intenzione e che abbia la vocazione per quell’Istituto che entri in un Istituto così diviso, si troverà ad essere accolto dagli osservanti e ad essere respinto dai rilassati. Troverà chi lo ammira e chi lo disprezza, chi gli è benevolo e chi lo maltratta, chi lo ascolta e chi lo ignora. Non si deve scoraggiare per le opposizioni. È logico che essendo lui fervoroso, sia amato dai fervorosi e odiato dai rilassati. Si rallegri per gli amici e sappia sopportare con carità i nemici.

La vita comune conventuale, oltre che dalla liturgia, dall’ufficio divino comune,  è alimentata da opportune riunioni comunitarie. Le Costituzioni domenicane ne prevederebbero tre che sarebbero utili alla promozione dell’unità e della carità fraterna, ma che purtroppo vengono trascurate: una riunione dedicata alla riconciliazione: il fratello che ha commesso pubblicamente un torto contro un altro confratello o contro il bene comune, chiede perdono e promette di fare penitenza.

Un seconda, dedicata alla discussione degli affari della comunità e delle sue attività apostoliche e all’arricchimento culturale e spirituale reciproci, nella quale ognuno parla della propria attività e viene interpellato o interrogato su di essa dai confratelli.

Una terza, dedicata all’aggiornamento teologico nell’ascolto di una conferenza tenuta da un esperto su qualche materia concernente la formazione permanente  su qualche importante avvenimento ecclesiale o dell’Ordine o per discutere su di qualche questione di morale o dottrina di attualità.  

Fenomenologia dei giovani in ricerca

Nella ricerca o problematica della loro vocazione i giovani incontrano varie difficoltà, sono soggetti a varie tentazioni, seguono diverse vie o metodi o esprimono diverse esigenze. È bene che la guida spirituale, il sacerdote o il promotore delle vocazioni le conosca tutto questo insieme di cose, per offrire a ciascun giovane la soluzione giusta o i suggerimenti adatti al suo caso o per sbloccare il cammino o per togliere le illusioni o per chiarirgli le idee o per fargli capire che il Signore lo chiama a restare nel secolo

Segnali positivi

C’è il giovane ottimo, dalle salde convinzioni, che ha sentito veramente la chiamata divina a quel dato Istituto, ne ha perfettamente compreso il fine e il compito e lo fa suo con totale convinzione. Entrandovi, si accorge che quell’Istituto è corrotto, ma non del tutto. Possiede ancora forze sane, sebbene in minoranza.  Sente che il Signore lo ha chiamato ad aiutare l’Istituto a risorgere e a ritrovare lo spirito delle origini e il carisma del Fondatore.

C’è il giovane dalla spiccata vita interiore, che sente molto l’importanza del suo rapporto personale con Dio o addirittura con la realtà.

C’è il giovane che per dar senso e sapore alla sua vita e mettere in atto le sue potenzialità o far fruttare i suoi talenti, sente il bisogno di affidarsi sì a Dio, ma per mezzo una guida umana che gli faccia sentire Dio vicino e lo guidi concretamente sul sentiero della felicità.

C’è il giovane di buon cuore, portato spontaneamente ad aiutare gli altri con criteri meramente umani e terreni e che tende a concepire tutto senso e la soddisfazione della sua vita nell’esplicazione di questa attività, senza riuscire ad apprezzare una misericordia di tipo spirituale, che si occupi dei bisogni spirituali del prossimo e della finalità celeste di questa vita terrena.

C’è il giovane estroverso, naturalmente socievole e spiritoso, di carattere allegro, portato a credere che il senso della sua vita si esaurisca nell’estrinsecazione a getto continuo della sua giovialità e nel vivere ed agire insieme con gli altri, conformandosi alla condotta della maggioranza e ai gusti del pubblico.

Fraintendimenti e difficoltà

Quando di parla della «pace del chiostro», certi giovani s’immaginano che la vita monastica sia un tranquillo passare i giorni, al riparo  delle tempeste del mondo,  senza avere noie o preoccupazioni e senza essere disturbati dai problemi degli altri, con lavoro, cibo, alloggio ed assistenza sanitaria assicurati in un perenne clima di piacevole fraternità, senza chiasso e senza rumori, in un luogo stupendo dalle bellezze artistiche secolari e dalle suggestive bellezze naturali.

Ora in tutto ciò c’è qualcosa di vero, ma se il giovane si aspettasse che si verificasse sempre e comunque, si sbaglierebbe di grosso. In particolare, bisogna spiegargli in che esattamente consiste quella «pax», che è pure il motto della spiritualità benedettina. 

Non è la pace che dà il mondo, ma è la pace che dona Cristo, ben superiore e ben più stabile e sicura di quella che dà il mondo, ma che è innanzitutto pace interiore della coscienza purificata dal peccato, è fruizione anticipata dei beni celesti, è operare per la pace e la riconciliazione, è retta intenzione della volontà. È pace che nasce proprio dall’accettare contrasti e conflitti a causa di Cristo (Mt 10,34). È mitezza ed umiltà di cuore, è vittoria sulla tentazione e sul peccato. Questa pace quindi la può gustare solo chi ama e ascolta Cristo.

Ostacoli alla vocazione

C’è il giovane egocentrico e ambizioso, che si crede un genio o un riformatore dell’umanità, e che quindi aspira a suggestionare gli altri, ad imporsi su di essi, a mietere successo, a ricevere onori, a dominare sugli altri e sfruttarli per i propri interessi.

C’è il giovane cedevole alle passioni, generalmente l’ira e la lussuria, il quale, per tacitare la sua coscienza,  sottolinea il suo diritto alla libertà, si proclama ateo o, se ammette un Dio, sostiene che questo Dio, essendo misericordioso,  compatisce la sua fragilità, gli assicura che non è in colpa e che non ha nulla da espiare; non gli impone alcun dovere lo lascia libero di agire come crede,  e non lo castiga, ma gli ha assicurato che lo salverà gratuitamente senza alcun bisogno di meriti o di osservanze legali.

C’è il giovane di buona intenzione, ma debole di carattere, di vedute limitate, senza convinzioni salde, influenzabile, portato all’opportunismo e al quieto vivere. Entrato in un Istituto ed accortosi che è corrotto, invece di lasciarlo, finge una falsa umiltà e una falsa obbedienza, che in realtà è furbizia, per le quali, anche se all’inizio possedeva una vera vocazione, sedotto dalla mondanità diffusa nell’Istituto, cede a questa mentalità, pur di essere accettato e trovare così una dignitosa sistemazione economica e sociale presso un Istituto fiorente, ricco e stimato dal mondo.

Il giovane ricco. Ci può essere il giovane di formazione cristiana, abituato ad una condotta corretta, che potrebbe avere la vocazione, ma che, attaccato alle proprie qualità ed alla propria capacità decisionale, benché creda in Cristo, obbedisca ai comandamenti e Lo preghi, è attaccato anche al mondo, e non intende mettersi nei suoi confronti di Dio in un atteggiamento di totale disponibilità, perché vuole sì dare a Dio qualcosa, ma qualcos’altro, la direzione della propria vita, vuol tenerselo per sé.

Per questo, ha rapporto con Dio, ma anche Lo tiene un po’ alla larga, perché teme che se si mettesse in sincero ascolto, gli chiederebbe di farsi religioso, cosa che, al momento, non vuole affatto. Questo giovane, per il momento, resiste alla chiamata, ma non è escluso che in futuro, sperimentando la sua miseria e il suo nulla, apra il suo cuore a Dio.  È quello che è successo a me.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 marzo 2021

 

La vita spirituale e la condotta giuridica di un Istituto religioso convergono nel conseguimento dello scopo dell’Istituto. 

Per esempio lo scopo dell’Ordine domenicano, secondo il famoso motto di San Tommaso d’Aquino, è contemplata aliis tradere: comunicare agli altri i contenuti della divina contemplazione. 

Questo programma si potrebbe ricavare dalla Scrittura, per esempio dall’apparizione di Cristo a San Paolo: «ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto» (At 26,16) oppure da Giovanni:

 


 «Ciò che abbiamo contemplato, ossia il Verbo della vita, del quale rendiamo testimonianza, la Vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi, noi lo annunziamo anche a voi perché anche voi siate in comunione con noi. 

La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (I Gv 1, 1-3). Questa è la vocazione domenicana.

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