Che cosa è il realismo - Prima Parte (1/4)

 Che cosa è il realismo

Prima Parte (1/4)

Perché la Chiesa ci tiene al realismo?

Il Santo Padre ha più volte raccomandato il realismo contro l’illusione dell’idealismo, ossia, come egli dice, l’illusione del primato dell’idea sulla realtà, mentre invece è l’idea che deve subordinarsi, assoggettarsi e adeguarsi alla realtà, facendosi da essa regolare. E questo è appunto il realismo.

Che cosa è la realtà? La realtà è l’essere reale dell’ente reale. «Ente reale» che significa? Il termine ente è poco usato, se non per certe espressioni burocratiche: «ente autonomo», «ente lirico», «ente case popolari» e simili. Tuttavia la nozione dell’ente è la più nota di tutte, la più spontanea, la più comune, la più ampia, la più universale, la più semplice, la più indeterminata, la più immediata, la più generica, la più astratta, quella nella quale tutte le nostre nozioni si risolvono e rispetto alla quale sono meno ampie. È la più significativa ma in modo implicito e potenziale, perché l’ente è ciò che ha un’essenza o esiste o ha l’essere in qualunque modo, reale o ideale, attuale o possibile.  Il termine più corrente per designare l’ente reale o la realtà è «cosa» o «qualcosa».

La realtà è qualcosa di esterno al nostro pensiero, alle nostre idee, alla nostra coscienza. Noi stessi siamo una realtà. La realtà ci è data, è indipendente da noi, è presupposta al nostro pensarla. Da essa ricaviamo i nostri pensieri, le nostre idee, i contenuti della nostra coscienza. Possiamo sì modificarla con la nostra azione e il nostro lavoro, ma essa esiste in sé indipendentemente da noi, prima e dopo di noi. Non la creiamo noi.

La nozione del reale coincide con la nozione dell’ente, sottintendendo almeno che sia reale, giacchè si può parlare anche di ente ideale, logico o di ragione. La realtà sono anche le cose. Infatti appunto realtà viene da res, la cosa. Anchea proposto della cosa, si può parlare di cosa reale o logica o immaginaria, materiale o spirituale, concreta o astratta, esistente o inesistente, possibile o assurda.

Quando si parla di ente reale si può intendere o l’ente comune o l’ente in quanto ente. L’ente comune o universale o in generale, è l’ente oggetto dell’intelletto naturale, come nozione intuitiva univoca, primaria, semplicissima ed universalissima, indifferente ad ogni divisione, determinazione o differenza inferiore. Si può connettere con quella di esistenza. Si ottiene mediante un’astrazione dell’essenza universale da tutti i singoli enti. È l’essenza della quale parla Avicenna, che prescinde dal suo essere nella mente o nella realtà.

L’ente in quanto ente invece è l’ente reale analogo, il cui atto è l’essere, oggetto della metafisica, che prescinde imperfettamente dagli inferiori, predicabile analogicamente di ogni ente, concepito mediante un giudizio esistenziale separativo e negativo[1], per il quale l’intelletto, astraendo da ogni materia, concepisce lo spirito come distinto dalla materia e percepisce l’ente puramente intellegibile: l’anima, l’angelo e Dio.

La nozione dell’ente è la più astratta di tutte, perché prescinde anche dai sommi generi delle cose e da qualunque ente singolo o determinato. Ma non vuol dire, come pensò Hegel, che sia vuota di contenuto e non significhi nulla, così da identificarsi col nulla. Tutto al contrario: non esiste opposizione più radicale di quella che c’è tra l’essere e il nulla, la realtà e il nulla. La nozione dell’ente è la più astratta in quanto nessun genere, neanche dei più vasti, può identificarsi con l’ente, perché sennò un altro genere non sarebbe più ente.

La questione del realismo è delicatissima, perchè coinvolge la nozione dell’essere, la quale a sua volta coinvolge la nozione di Dio, il quale nella Scrittura si è degnato Egli stesso di rivelare il suo Nome: «Io Sono Colui Che È»[2] o più semplicemente: «Io Sono». Impossibile avere il giusto concetto di Dio senza avere il giusto concetto dell’essere.

È vero che la nozione dell’essere è spontanea, inevitabile, semplicissima, notissima ed universale, per cui tutti ce l’hanno. Tuttavia l’errore può essere dato dal fatto di considerare come essere reale qualcosa di diverso, di insufficiente, di troppo ristretto o di contrario.

Tipico errore è quello di confondere l’essere col pensare, con la nostra idea dell’essere, di scambiare l’ideale per reale. Realismo è invece usare l’idea per conoscere il reale e distinguere l’ideale dal reale. Ecco la grande questione affrontata da questo articolo.

Lo scontro fra realismo ed idealismo

È qui il punto di frizione del realismo con l’idealismo. L’idealista è convinto che il suo pensiero coincide con l’essere; per lui l’essere è l’essere pensato da lui; per cui nulla sta fuori del suo pensiero, e quindi è convinto di produrre lui il reale col suo pensiero.

Si tratta psicologicamente nell’uomo moderno, che si autoincensa come «moderno», del permanere inconscio della mentalità magica del pensiero primitivo[3] o di quello infantile del mondo dei maghi e delle fate, che, con la bacchetta magica fanno apparire o sparire di colpo un personaggio così come noi cliccando sul computer facciamo appare e sparire le immagini.

Si tratta in fondo di una confusione dell’essere con l’apparire: l’essere non è considerato qualcosa che esiste in sé indipendentemente da me, ma l’essere, il reale, la cosa è ciò che appare a me. E come sono capace di creare idee o immagini con la mia mente o con la mia immaginazione, così la realtà per me non è una cosa in sé fuori di me, ma semplicemente è una mia idea, è il prodotto del mio pensiero all’interno del mio pensiero. Non esiste nulla al di là del mio pensiero. Il pensiero, come dice Bontadini, è intrascendibile.

 In fondo l’idealismo è tutto qui. Ben lungi dall’essere il pensiero critico che avrebbe dimostrato l’ingenuità del realismo, si tratta di una mentalità infantile o rimasta infantile, che da una parte non ha saputo crescere intellettualmente scambiando la realtà con l’immaginazione e la conoscenza con la magia;  dall’altra, pur sapendo spaziare nel mondo dello spirito e del pensiero, non ha saputo mantenere la dovuta modestia, che le consente di rendersi conto di non essere al centro e al sommo della realtà, ma semplicemente di essere una creatura creata da Dio dal nulla.

Realismo ed idealismo sono due attrattive che si contendono da sempre la mente dell’uomo. È una frottola inventata dai cartesiani quella che sostiene che il realismo sarebbe una caratteristica della filosofia antica, mentre l’idealismo sarebbe il pregio della «filosofia moderna», cioè quella cartesiana. In realtà l’idealismo, con la sua tendenza monistico-panteista, c’è già in Parmenide e nell’antichissima filosofia indiana, così come il realismo oggi è sempre vivo nel pensiero cattolico ed esisterà fino alla fine del mondo, così come fino alla fine del mondo resterà la gnoseologia cattolica fondata sul Vangelo.

Tutti noi sentiamo l’attrattiva di questi due orientamenti fondamentali del pensiero: da una parte l’inclinazione verso il reale, verso le cose, verso l’essere, che conduce a Dio, Colui Che È, summum ens, ipsum Esse per Se subsistens. Essa ci appare ardua e faticosa; l’intelletto deve rinunciare in forza dell’astrazione, ai diletti del concreto e del sensibile per elevarsi al puro intellegibile, nel quale però già il pagano Aristotele trovava la sua somma gioia.

Deve nutrirsi dell’insipida manna al posto delle gustose cipolle dell’Egitto.  Ma è proprio lasciando tutto per Cristo Verità che l’intelletto riceve poi da lui centuplicato e purificato, nell’esperienza della carità, quel sensibile e quel concreto, dal quale aveva dovuto astrarre.

Dall’altra parte, lo spirito della superbia ci suggerisce di centrarci sulle nostre idee, ammaliati dalla potenza e dalla grandezza del nostro pensiero, fondando così il nostro volere non nella luce dell’essere, ma nel bagliore sinistro di uno spirito carnale, giacchè «queste cose – per dirla con San Paolo - hanno una parvenza di sapienza con la loro affettata religiosità ed umiltà e austerità riguardo al corpo, ma in realtà non servono che per soddisfare la carne» (Col 2,23).

Così esistono gradi di realismo e gradi di idealismo. Il realismo più radicale è quello di San Tommaso; l’idealismo più estremo è quello di Hegel. E curiosamente le due filosofie quasi si toccano proprio sul punto dell’essere, quindi sulla questione della realtà, se non fosse che mentre Tommaso vede nell’essere il nome divino, Hegel, senza escludere che l’essere possa essere il predicato di Dio o dell’Assoluto[4], lo dialettizza col nulla cadendo nel nichilismo.

Nell’idealismo tedesco è evidente la volontà di connettere la realtà non con l’ente né con le cose, ma al cogito cartesiano, che a partire da Cartesio, mostra progressivamente nel corso di tre secoli fino ad Hegel le sue virtualità antropocentriche, soggettiviste e panteiste.

Nella metafisica di Wolff emerge la preoccupazione di esordire non con il riferimento all’ente, ma alla certezza dell’autocoscienza. Per Kant è la forma a priori dell’intelletto che dà forma al fenomeno o all’oggetto. L’io, diceva Fichte, pone il non-io. È quella che Fichte chiama «immaginazione produttiva». Per Schelling l’oggetto è posto dal soggetto. Per Hegel il reale è il razionale, è ciò che è posto dalla ragione. Ugualmente per Gentile il soggetto crea se stesso: è quella che egli chiama «autoctisi». Per Husserl non è la realtà che regola la nostra soggettività, ma è la soggettività a dare «costituzione» alla realtà, come cogitatum.

Esistono peraltro tentativi di mediazione fra realismo e idealismo, come quello dello Schelling maturo o di Bontadini[5], che però rischiano la doppiezza e lo opportunismo[6]. Non che non possa trovarsi qualche verità nell’idealismo, se non altro perché esso conosce certamente il valore dello spirito, ed esistono effettivamente forme di realismo grossolano, materialista, cinico, amaro o pessimista.

D’altra parte anche gli inferiori della nozione di ente, i generi, le specie e gli individui, anche le differenze e le determinazioni sono ente, per cui è evidente che la nozione dell’ente astrae da tutto, così da poter abbracciare tutto, ma nel contempo non può astrarre da nulla di tutto ciò che è ente, compresi tutti i possibili, fino ai minimi enti e agli enti immaginari o di ragione.

Ben lungi quindi dall’essere una nozione vuota, la nozione dell’ente è la più ricca di tutte, non in atto, altrimenti saremmo onniscienti, ma implicitamente e confusamente, perché con essa tutto conosciamo, tutto pensiamo, tutto comprendiamo. È l’unica nozione che usiamo in tutti i nostri pensieri, giacchè si suppone che ogni cosa sia un ente. Anche le nostre idee sono enti, enti di ragione, pensieri pensati, enti mentali, ma enti. Persino il nulla lo concepiamo sul modello dell’ente.

Che cosa intende qui il Papa col termine «idea»? Si riferisce al senso più comune della parola, come quando diciamo «le mie idee», «ne ho un’idea», «idea sbagliata», «che bella idea!» e simili. Si tratta di entità mentali riferite a delle altre idee o alla realtà.

Nel linguaggio quotidiano usiamo il termine idea come sinonimo di concetto. Ma non sono la stessa cosa. L’idea è un progetto o intento mentale produttivo o in senso morale o in senso operativo. Il concetto è la rappresentazione mentale di una cosa, una realtà o un ente ideale o di ragione, matematico, logico o immaginario, ricavato per astrazione dall’esperienza sensibile.

Papa Francesco nota come l’idealismo, che egli chiama anche gnosticismo, a causa di un’eccessiva presunzione di sapere e di un’importanza esagerata data alle idee, si rende prigioniero di astrazioni vuote, che lo isolano dalla realtà concreta e da una proficua attenzione al prossimo e ai suoi bisogni, per un’autocelebrazione del proprio io fatto centro di tutto, quasi fosse l’Assoluto.

Così succede che le idee, invece da essere mezzi mentali per cogliere e rappresentare il reale, si interpongono fra la mente e la realtà, col risultato di non vedere più il reale al di là di esse, ma di vedere solo le proprie idee, scambiandole per il reale. Non si vede più l’altro, il fratello, ma solo se stessi con i vani prodotti della propria mente.

È chiaro che l’astrarre è opera propria del pensiero, chè altrimenti avremmo solo la percezione sensibile comune a quella degli animali ed è chiaro che le idee appartengono al mondo dello spirito, ma non è vera spiritualità quella che si ferma all’attività ideativa, magari anche aderente al reale, o si ferma a concepire la legge morale nella sua astratta universalità, magari anche legge autentica naturale o divina, senza però calarla fattivamente nel concreto delle situazioni, simili a quegli scribi e farisei che «dicono e non fanno» (Mt 23,3) o a coloro che dicono «Signore, Signore, ma non fanno la volontà del Signore» ( cf Mt 7,21).

Caratteri del realismo

Il realismo è l’attaccamento o l’attenzione dell’intelletto alla realtà, è l’adesione del pensiero al reale così com’è, è il riconoscere onestamente e fedelmente le cose come sono, è l’accettazione del reale anche se non ci piace. Realismo dice certamente con particolare accento attenzione al concreto e al materiale. Ma in senso più vasto ed elevato è la pura e semplice adesione a ciò che è vero, alla verità non solo del materiale ma anche e soprattutto dello spirituale.

Il realista non si ferma all’apparenza, ma verifica che ad essa corrisponda alla realtà. Se invece è la stessa realtà che gli appare o gli si manifesta, allora l’accoglie volentieri. Che la realtà sia presente o assente, nascosta o evidente, comprensibile o incomprensibile, trascendente o immanente, materiale o spirituale, misteriosa o chiaramente percepibile, pensata o pensabile, distinta o indistinta, al realista non interessa; gli basta che sia la realtà.

Il realista possiede un intelletto vigile e riflessivo, per cui non si lascia ingannare dalle apparenze. Ama verificare l’esattezza delle sue opinioni ed è pronto a mutare idea ove si accorga d’aver sbagliato. Sa di poter sbagliare, ma nel contempo possiede convinzioni di base, punti di partenza del sapere, circa i quali è certissimo di non sbagliare.

Esige che venga dimostrato ciò che non è evidente, ma evita la stoltezza di voler dar fondamento ad un’evidenza prima ed immediata come quella del senso o dei princìpi primi della ragione. Sa che non esiste un prima a ciò che è primo, altrimenti non sarebbe primo.

Respinge quindi l’accusa di ingenuità che gli viene dall’idealista, il quale crede di conoscere un fondamento del sapere ed una certezza più radicali di quelli del realista, quando invece si tratta di teorie che confutano se stesse perché sono obbligate ad usare quello stesso realismo che vorrebbero superare o confutare, Il realismo infatti è naturale al pensiero. O il pensiero è realista o il pensiero non esiste. Il pensiero è fatto per la realtà.

Ovviamente, quanto essa è più alta, tanto più lo interessa, per cui  preferisce quella vivente a quella non vivente, quella umana a quella animale, quella spirituale a quella materiale, quella soprannaturale a quella naturale, quella divina a quella creaturale. 

Che cosa è o qual è in generale, quella realtà, alla quale il realista è assolutamente fedele, mai vorrebbe perdere, dalla quale mai vorrebbe separarsi, mai vorrebbe tradire, mai vorrebbe celare, sempre desidera conoscere e mostrare, costi quel che costi?

Tutti abbiamo spontaneamente il concetto di realtà come pure abbiamo il concetto di «cosa», res, da cui viene realtà.  Variano i pareri circa ciò in cui consiste la realtà. Per l’idealista la realtà è appunto l’idea, il pensiero o l’autocoscienza o l’io. Per Husserl è il cogitatum. Per Hegel è il concetto. Per Bontadini è l’unità dell’esperienza. Per Heidegger è il Dasein, l’esserci, che per lui è l’uomo. Per Hume o per Berkeley è il sentito. Per il fenomenista è il fenomeno; per il materialista è la materia.

Per il realista non ci sono dubbi: la realtà è l’essere reale dell’ente o della cosa. La realtà è ciò che tutti noi vogliamo conoscere. La realtà è qualcosa che ha un’essenza ed ha l’essere, qualcosa di esistente. La realtà è la verità oggettiva. Reale è l’ente che ci sta di fronte, l’ob-iectum, oggetto che ci è dato, che esiste fuori di noi e indipendentemente da noi, oggetto che esiste anche se non lo pensiamo, oggetto che non è prodotto della nostra idea o del nostro pensiero, oggetto che forse esisteva prima che noi fossimo e che continuerà ad esistere anche dopo che noi non saremo più, come per esempio il Monte Bianco.

Il realismo impone l’attenzione ai fenomeni come manifestazioni empiriche di cose o realtà materiali. Essi hanno una natura e sono regolati da leggi fisiche formulabili matematicamente, rispettando le quali è possibile all’uomo un dominio razionale sulla natura, che gli consente di utilizzarla per il soddisfacimento dei suoi bisogni fisici. Non c’è alcun problema a considerare i fenomeni come delle cose, si tratti di accidenti o di sostanze, dei quali è possibile conoscere la natura o l’essenza.

La famosa distinzione kantiana fra fenomeno empiricamente osservabile e cosa in sé ignota appare una distinzione artificiosa. Si potrà dire semmai che nelle scienze naturali non siamo in grado di individuare delle specie di fenomeni, la cui essenza sia riconducibile a delle forme intellegibili distinguibili e differenziate formalmente. Conosciamo in questo modo amplissime regioni della realtà come per esempio la distinzione fra il vegetale, l’animale e l’uomo; ma non conosciamo la differenza ontologica fra l’asino e il cavallo o tra la pantera e il leopardo. In tal senso Kant ha ragione nel dire che dobbiamo fermarci al fenomeno, mentre non conosciamo la cosa in sé.

Il realismo è attento anche alla realtà interiore del nostro spirito, ai contenuti della coscienza, dei sensi interni e agli enti di ragione formati al fine di conoscere la realtà esterna. L’adeguazione dell’intelletto al dato oggettivo è per il realista un imperativo che egli applica sia al mondo esteriore come al mondo interiore del proprio spirito e della propria coscienza. L’esigenza realistica si estende al mondo dei propri pensieri, giudizi, idee e concetti, il mondo dell’ente di ragione logico e il mondo degli enti matematici ed immaginari. L’esigenza realistica non è altro che un’esigenza di conoscenza e di verità. Certo al realista sta a cuore soprattutto l’ente nella sua consistenza sostanziale. Ma dovunque ci sono tracce di entità, anche infime e debolissime, puramente mentali o fantastiche, lì il realista è interessato a cogliere il vero.

La questione della realtà è infatti strettamente connessa con quella della verità come corrispondenza fra il pensiero e l’essere, fra l’intelletto e la realtà. Essa è connessa con la questione del giudizio oggettivo, che è il giudizio verace, adeguato al reale, che rispecchia lo stato delle cose.

L’oggettività della conoscenza è la verità della conoscenza, la conoscenza che rispetta o rispecchia il suo oggetto, che è la realtà ovvero l’ente reale o la cosa in sé così com’è. Oggetto viene da ob-jectum: ciò che sta davanti o di fronte alla potenza conoscitiva. E questo oggetto è la realtà.  

Oggi si parla di «oggetti» per dire le cose fisiche sensibili. Si tratta di un uso improprio del termine per non dire di un abuso, perché in tal modo viene fuori l’espressione ridicola per cui l’oggetto della conoscenza sperimentale sarebbe l’oggetto.

La questione della realtà è strettamente connessa anche con quella dell’essere. L’ente reale è ciò che è in atto d’essere. Ora questo è l’oggetto della metafisica. Dunque il realismo è fondamentalmente il metodo della metafisica.

Fine Prima Parte (1/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 5 dicembre 2022

È vero che la nozione dell’essere è spontanea, notissima ed universale.

L’idealista è convinto che il suo pensiero coincide con l’essere; per lui l’essere è l’essere pensato da lui; per cui nulla sta fuori del suo pensiero, e quindi è convinto di produrre lui il reale col suo pensiero.

Si tratta psicologicamente nell’uomo moderno, che si autoincensa come «moderno», del permanere inconscio della mentalità magica del pensiero primitivo o di quello infantile del mondo dei maghi e delle fate, che, con la bacchetta magica fanno apparire o sparire di colpo un personaggio così come noi cliccando sul computer facciamo appare e sparire le immagini.

 

La nozione dell’ente è la più ricca di tutte, non in atto, altrimenti saremmo onniscienti, ma implicitamente e confusamente, perché con essa tutto conosciamo, tutto pensiamo, tutto comprendiamo. 

È l’unica nozione che usiamo in tutti i nostri pensieri, giacchè si suppone che ogni cosa sia un ente. 

Anche le nostre idee sono enti, enti di ragione, pensieri pensati, enti mentali, ma enti. Persino il nulla lo concepiamo sul modello dell’ente.

Certo al realista sta a cuore soprattutto l’ente nella sua consistenza sostanziale. Ma dovunque ci sono tracce di entità, anche infime e debolissime, puramente mentali o fantastiche, lì il realista è interessato a cogliere il vero.


[1] «L’ente immateriale non è materiale».

[2] Eb. Ehièh escer Ehièh, dal verbo hauà=essere.

[3] Cf J. Maritain, Quattro saggi sullo spirito nella condizione d’incarnazione. Morcelliana, Brescia 1978, pp.64-91.

[4] Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 163, pp.91-92.

[5] Bontadini nel suo libro Studi sull’idealismo (Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1995), vorrebbe dimostrare che quella che egli chiama «metafisica classica», cioè quella parmenidea, ha colto l’essere meglio di quanto abbia fatto San Tommaso utilizzando Aristotele, cioè intendendo l’essere come atto dell’ente inizialmente percepito dai sensi. Infatti, secondo Bontadini il vero e più profondo ed alto pensiero greco sull’essere sarebbe quello di Parmenide, il quale supera e completa l’idealismo moderno evidenziando il vero realismo, che non è il puro atto di pensare sul modello di Gentile, ma il pensiero dell’essere, recuperato a suo dire da Severino, che fa capo a Parmenide. Tuttavia Bontadini, che vuole essere cattolico, non sa decidersi fra il realismo tomista della creazione dell’ente contingente e l’idealismo parmenideo di Severino dell’unico Essere come Essere necessario, perché non riesce a capire la positività del divenire e quindi come possa essere creato dal nulla piuttosto che essere, come vuole Severino, un’apparizione finita dell’Essere.

[6] La stessa epochè husserliana, benché fondata sull’idealismo, non ha quell’acrimonia contro il realismo costatabile in un Fichte, e concede spazio al realismo, professando di non volerlo confutate, ma semplicemente costruire un filosofare che lo accantona. Ci si chiede però che filosofia è quella che pretende di considerare le essenze (wesenschau) prescindendo dall’ente reale.

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