Il ripudio del sacrificio di Cristo in Padre Felice Scalia

 Il ripudio del sacrificio di Cristo in Padre Felice Scalia

Crucifixus etiam pro nobis

Il Lettore che mi ha di recente inviato le tesi di Alberto Maggi, Carlo Molari e Joseph Ratzinger circa il sacrificio di Cristo per avere un mio parere, mi ha inviato allo stesso scopo anche alcuni pensieri del Padre gesuita Felice Scalia, che riporto qui con relativa mia risposta.

Dice Scalia:

«impressiona che del fantasma e della tragica realtà del sacrificio e del sangue espiatorio di innocenti, sia pervaso anche il cristianesimo. Quel cristianesimo che tuttavia presume di rifarsi in tutto a Gesù di Nazaret, a quel “Figlio dell’uomo” e Figlio di Dio che rifiutò decisamente la stessa idea di sacrificio e ne abolì l’industria nel Tempio, affermando che il Padre vuole “misericordia e non sacrifici”».

Risposta. Come ho ampiamente dimostrato nei miei precedenti articoli, Gesù non ha affatto rifiutato di sacrificarsi per noi per soddisfare al Padre offeso dai nostri peccati, per espiare le nostre colpe, riconciliarci col Padre, ed ottenerci  grazia, misericordia e perdono dal Padre, per pagare al Padre col suo sangue il prezzo del nostro riscatto e della nostra redenzione, per strapparci dalla schiavitù del demonio. 

Gesù fustigò nel tempio i mercanti non tanto per la loro attività consentita dalla Legge di vendere gli animali da offrire in sacrificio, ma per la loro esosità, per la quale essi sfruttavano un’attività un sé legittima come quella dei sacrifici del Tempio per fini di lucro disonesto.

Quando Gesù cita le parole di Osea «Non voglio sacrifici» si riferisce a quei sacrifici di animali che si offrivano in modo prefigurativo rispetto al suo proprio sacrificio, sacrifici che Egli avrebbe abolito e sostituito. E ciò appare evidente dalle parole stesse che il celebrante pronuncia in persona Christi al momento della consacrazione del pane nel corso della Messa: «Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi».

Scalia: «Tra il popolo è comune l’idea che qualche tremendo male, le conseguenze terribili di qualche incidente stradale, siano mandati da Dio per fare “scontare” peccati commessi in gioventù. Ed oggi nella chiesa cattolica se dalla liturgia (messale, sacramentari, liturgia delle ore …) si toglie la mentalità sacrificale e la parola “sacrificio”, difficile prevedere che resta».

Rispondo. Non è cosa affatto disdicevole ma anzi è cosa pia e salutare ritenere che le sventure siano mandate dal Signore per scontare peccati di gioventù. In tal modo, purificandoci dai peccati e scontando qui quelle pene che altrimenti dovremmo scontare in purgatorio, evitiamo il purgatorio ed andiamo direttamente in paradiso.  

Quanto all’eventualità che dalle pratiche liturgiche e sacramentali si tolga la parola «sacrificio», è evidente che verrebbe puramente e semplicemente eliminata l’attività propria della virtù di religione, il cui atto fondamentale è l’offerta del sacrificio cultuale ed espiatorio, che costituisce la base, la forma e la ragione di tutta la sacramentaria e la liturgia cattoliche.

Scalia. Turba il fatto che per ricordare ogni giorno, quasi in modo ossessivo, a preti e popolo, che il dolore va accolto come grazia divina, “in penitenza dei proprio ed altrui peccati”, è stato consentito di aggiungere nella messa, al momento della consacrazione, parole che Gesù non ha mai pronunziato, come “offerto in sacrificio per voi”.

Rispondo. Il dolore vissuto con Cristo in Cristo e per Cristo in penitenza per i propri ed altrui peccati viene facilmente sopportato, perchè esso perde la sua sterilità e diventa principio di redenzione, di espiazione e di salvezza. Il dolore si trasforma da amico della corruzione e della morte, in sorgente di vita, di consolazione , di speranza e di gioia. Beati coloro che nella fede in Cristo sanno vivere il dolore in questo modo! Disgraziati coloro che si dibattono disperatamente nel dolore senza saperne trovare un senso e una via d’uscita. Dementi e masochisti coloro che si crogiolano nel dolore come fosse il destino e la norma della vita.

Quanto alla parola «sacrificio» presente nelle parole della consacrazione eucaristica, è vero che non risulta dalle parole riportate dai Vangeli e da S.Paolo, ma se la Chiesa l’ha messa, è evidentemente perché la Chiesa, assolvendo al suo compito di essere interprete delle parole del Signore, ha ritenuto che quella parola chiarisse ciò che Gesù intendeva dire. O è possibile che l’abbia effettivamente detta, ma che gli agiografi non abbiano pensato di farlo e che invece quella parola sia stata inserita per iniziativa di qualche Apostolo presente all’Ultima Cena, al momento di preparare il canone della Messa.

 Oppure, dato che c’è da pensare che Gesù, durante i quaranta giorni di permanenza tra noi dopo la resurrezione. abbia più volte celebrato Messa, come probabilmente ha fatto con i discepoli di Emmaus, è possibile che abbia usato quella parola in quelle circostanze. In ogni caso sarebbe empio credere, come fa Scalia, che la Chiesa abbia agito arbitrariamente in una circostanza delicatissima come quella della Cena del Signore, che mette in gioco tutto il senso della vita terrena di Cristo.

Scalia. «Ogni voce dissonante, ogni presa di distanza da quelle concezioni che rischiavano di ridurre la celebrazione della “Frazione del pane”, a rito sacrale per svuotare il purgatorio, ogni allarme lanciato per diffidare di quella mentalità che faceva di Dio un personaggio crudele ed incredibile, certo sideralmente  lontano dal Padre di cui ha parlato Gesù, cose come queste sono state al minimo bollate come sospette, pericolose, se non addirittura eretiche.

Risposta. Non c’è dubbio che la Messa è normalmente offerta per la liberazione delle anime del purgatorio. Il Dio che esige di essere compensato e al quale si deve arrecare soddisfazione o si devono offrire sacrifici ed occorre propiziare per l’offesa del peccato al fine di essere perdonati e poter adeguatamente riparare, non è per nulla un Dio crudele, ma un Dio giusto ed amantissimo, anche se ci ha giustamente castigati con la morte, perché proprio unendoci alla passione e morte di suo Figlio noi otteniamo il dono immenso della figliolanza divina, che ci rende al di là di ogni merito partecipi della vita della SS.Trinità ed eredi della vita eterna nella terra dei risorti. E questo è esattamente il Dio Padre, del quale ci ha parlato Gesù. E’ chiaro allora che negare queste verità salvifiche è eresia.

Scalia.  «Come a partire dalla “gioia del vangelo” si sia arrivati a concepire la vita sulla terra come tempo di espiazione e di sacrifici; come si sia quasi giunti a dare a Dio il volto terribile della dea Kalì (dea sopra gli déi, manifestazione del volto autentico del cosmo), o quello tremendo delle divinità mesopotamiche, è oggetto di seria ricerca anche nella storia delle religioni. Bisogna partire dall’equivoco sul sacrificio di Isacco chiesto da un indistinto “Eloim” ad Abramo? Non è facile sapere se l’acquiescenza popolare alla spiegazione comune del tentato sacrificio di Isacco, sia dovuta alla convinzione ovvia, arcaica, che la vita esige la morte dell’altro, anche se innocente, oppure alla credenza che Dio è padrone di ogni vita, che lui è al di sopra di ogni morale, che per mettere alla prova Abramo e “vedere” fino a che punto gli era fedele, poteva tranquillamente mettere in conto il terrore mortale di un ragazzo, lo strazio di una madre, l’affidabilità di un padre, la morte di un innocente trattato come un animale da olocausto».

Risposta. La gioia del Vangelo proviene esattamente dalla gioia di donare e sacrificare la nostra vita per Dio e per il prossimo sull’esempio di Cristo e dei Santi. I sacrifici umani, che erano propri dei popoli circonvicini a Israele, vengono decisamente condannati sin dall’Antico Testamento. L’esegesi moderna ci dice che Abramo si era fatto lui l’idea che Dio volesse veramente il sacrificio del figlio perché appunto suggestionato dalle idee malsane di quei popoli crudeli. Capita a tutti di credere che sia volontà di Dio ciò che non lo è. Abramo era in buona fede e solo all’ultimo momento Dio gli apre gi occhi facendogli capire che stava commettendo un omicidio.

È vero che il sacrificio religioso comporta la rinuncia a qualcosa di prezioso per offrirlo a Dio. ed è vero che un figlio è ciò che un padre può avere di massimamente prezioso. Ma la Lettera agi Ebrei chiarisce due cose: che solo il sacrificio di Cristo può essere efficace e che il vero sacrificio dev’essere sacrificio di sé e quindi dev’essere un atto volontario di obbedienza a Dio. Tuttavia Dio premia Abramo perché era in buona fede. La fede non comporta necessariamente una certezza oggettiva. Dio è tanto buono che ci premia anche quando sbagliamo senza rendercene conto.  

Scalia. «Ma c’è una terza possibile ipotesi per spiegare e, in qualche modo, giustificare la pratica sacrificale nel cristianesimo. Essa è dovuta prima a San Paolo, e poi, verso il 1050, ad Anselmo d’Aosta col suo celebre dialogo “Cur Deus homo”.

Paolo è un ebreo-fariseo, e di fronte alla morte in croce di Gesù non sa davvero che pensare. Può il Messia atteso da secoli, promesso dal Padre, morire da “maledetto”? Da uomo fallito, sconfessato dallo stesso Dio nel cui nome parlava ed il cui volto diceva di avere rivelato? Pietro che rimprovera Gesù per quel suo parlare di arresti, pene inaudite, flagellazioni e crocifissioni, alcuni anni prima, era stato avvinghiato da questo stesso sconcerto: cose come queste che dici, Maestro, non si pensano e tanto meno si dicono, perché sono assurde».

Risposta. Scalia distorce il pensiero di San Paolo. Per Paolo Cristo appare maledetto e respinto da Dio agli occhi degli increduli, mentre in realtà Cristo è glorificato dal Padre che lo pone al vertice e al fondamento di tutta la creazione e il ricapitolatore di tutte le cose, proprio grazie alla croce che ha patito.  Quanto a Pietro, è chiaro che non aveva afferrato come Cristo doveva raggiungere la sua gloria attraverso la croce.

Scalia. Tra gli anni 45 e 55 Paolo affronta lo “scandalo della croce” in una teologia speculativa molto lontana dalle narrazioni evangeliche che trasmettono parole e gesti di un modesto carpentiere galileo, portatore di un progetto di vita umana sotto lo sguardo benevolo di un Padre che vuole la felicità degli uomini.  Paolo del resto non ha conosciuto affatto il “Gesù secondo la carne”, cioè in carne ed ossa. Ha conosciuto il Figlio di Dio, Messia e Signore nostro che è Cristo, il Risorto che “siede alla destra del Padre” in cielo. Senza dubbio, anche per Paolo il Risorto è colui che prima è stato crocifisso; solo che mentre per i vangeli la morte di Gesù fu un assassinio voluto dall’autorità religiosa e politica, dagli uomini comunque, per Paolo fu un sacrificio voluto dal Padre».

Risposta. I Vangeli ci narrano con chiarezza, come vediamo dall’episodio del Getsemani e da diverse dichiarazioni di Cristo, che il suo sacrificio è stato voluto dal Padre, anche se è vero che Gesù fu ucciso per odio dai suoi nemici. A tal riguardo si può dire che un significato della morte di Gesù è stato quello di essere la morte del martire, che non recede davanti alla prospettiva della morte, pur di restare fedele alla sua testimonianza a favore di Dio. Ma il ridurre la morte di Cristo a ciò, come fa Schillebeeckx, vuol dire privare del suo significato peculiare la morte di Cristo e ridurlo a quello di un qualunque puro uomo pio, e trascurare il valore universalmente salvifico della morte di Cristo come sacrificio espiativo di riconciliazione con Dio per la remissione dei peccati.

Inoltre bisogna ricordare che Gesù non è stato semplicemente assassinato come un malfattore qualunque, ma è stato punito con la morte dalle autorità sotto l’accusa di essersi fatto dio, pretesa empia che la legge mosaica puniva con la morte. Oggi i panteisti che divinizzano se stessi sono una cosa frequente e tollerata o addirittura ammirata, come se si trattasse di geni speculativi, ma ai tempi di Gesù si avevano le idee giuste e non si scherzava. La tragedia è stata che Gesù era veramente Dio e non è stato riconosciuto come tale, mentre oggi gli sbruffoni panteisti pullulano e vengono onorati.

Scalia. «Gesù di Nazareth – afferma Paolo– è il Salvatore, colui che libera l’uomo dal peccato, e non c‘è altra strada per questo che il sacrificio di sé, perché i peccati si espiano con il sangue. Il Cristo dunque deve sopportare l’ira di Dio scatenata su tutti i peccatori, fare ricadere su di sé il giudizio giusto e tremendo di Dio. Proprio con la morte di Gesù, Dio condannò “il peccato nella carne” e Gesù di Nazareth divenne “maledizione” e “peccato” per noi. In compenso “col suo sangue, con la sua morte, Dio si è “acquistata la chiesa”. Dio “col sangue di Cristo ha rappacificato gli esseri della terra e quelli del cielo.”

La “Lettera agli Ebrei” è terrificante: “senza effusione di sangue non vi è remissione” Non meno terrificante questo Dio che ha avuto bisogno di tanto sangue e di tanta abiezione per rendere giusto l’uomo e perdonargli i peccati. Il film “The Passion of the Christ” di Mel Gibson del 2004 non so se abbia allontanato o avvicinato a questo tipo di Dio sanguinario per misericordia».

Risposta. San Paolo e la Lettera agli Ebrei riprendono l’insegnamento di Is 53: Il Servo di Dio «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui. Per le sue piaghe siamo stati guariti». Questo vuol dire Paolo quando dice che la riconciliazione viene dal sangue di Cristo e la Lettera agli Ebrei quando dice che senza effusione di sangue non vi è remissione. 

Presentare il Padre come un assassino assetato del sangue del Figlio e del peccatore è un’orribile bestemmia. Dio non ha voluto la morte. Essa è il castigo del peccato. Dio nel Figlio assume quella morte che è venuta nel mondo indipendentemente da Lui e contro la sua volontà, se la addossa sulle sue spalle benché non la meriti e da essa, a prezzo del suo sangue, ci procura il perdono, la riconciliazione e la pace.  Dio non vuole il nostro sangue, ma ci dona il suo sangue affinchè offrendo a nostra volta in Lui il nostro sangue, possiamo avere la vita.

Scalia. «Non ci meraviglia più che tanto se i fedeli cristiani hanno con facilità accettato le prospettive sopra delineate come dogma di fede della nostra salvezza. Tanto più che il sacrificio di Gesù in croce viene trasformato in un sublime esempio di amore per noi, chiamati ad amarci ed a servirci, gli uni gli altri, nell’amore, fino all’estremo, “come lui ci ha amati”. La verità è che abbiamo dietro le spalle due millenni di predicazione basata sulla teologia paolina, e da quasi un millennio pesa anche la “versione” che di tale modo di vedere le cose ha fatto Anselmo d’Aosta, acuto, stringente, logico, brillante filosofo-teologo medievale. È sua la teoria “satisfactoria” o della “satisfactio vicaria”».

Risposta. Scalia dimostra di non capire assolutamente niente della sublimità e della specificità soprannaturale dell’amore cristiano, di Colui che, come insegna Cristo, dona la propria vita per gli amici sull’esempio di Cristo stesso, ossia del sacrificio della croce. La teoria della satisfactio vicaria, elaborata da Anselmo dietro l’impulso ricevuto da S.Paolo, è stata dogmatizzata dal Concilio di Trento ed è verità di fede indispensabile per la nostra salvezza.

Scalia. Semplificata al massimo, questa teoria consiste nella logica conseguenza di alcuni assunti.

Dio è giusto – dice il Dottore della chiesa – e per Lui bene e male, obbedienza ed infedeltà alla sua legge non sono la stessa cosa. Certamente Dio è disposto a perdonare i peccati dell’uomo, ma per farlo ha bisogno che anche la sua giustizia sia soddisfatta. Ciò vuol dire che il peccatore deve “scontare” la sua colpa, appunto “pagandone” la pena.

Risposta. Certamente Dio perdona a patto di ricevere soddisfazione; rimette il debito della colpa purchè il debito venga pagato; si riconcilia con l’uomo a patto di essere propiziato da un sacrificio espiatorio.  Tutto ciò però il Padre lo esige dal Figlio e non dall’uomo, perché solo il Figlio può compiere questi atti di giustizia. Dall’uomo il Padre chiede solo il pentimento e la confessione del suo peccato con l’implorazione del perdono. E Dio stesso, con la grazia preveniente, muove in tal senso il cuore dell’uomo e lo giustifica.  All’uomo fa misericordia e perdona gratuitamente. Dal Figlio esige giustizia e soddisfazione. Ma ecco che per misericordia ci rende, nel Figlio, capaci di espiare e soddisfare pagando il debito col sangue del Figlio e meritando la salvezza.

Scalia. «Si aggiunge qui il secondo assunto: la colpa dell’uomo è inespiabile dall’uomo, dato che la gravità della colpa si misura non da chi offende ma dalla dignità dell’offeso. Peccando, l’uomo offende un Dio infinito, mentre pur volendo riparare per il peccato commesso, sa che qualunque cosa faccia o dia a Dio, è sconsolatamente “finita”. La conseguenza è che Dio non ha scelta: se vuole salvare l’uomo e perdonare il peccato, l’espiazione deve venire da “uno” in comunione con l’uomo-finito ed anche in connaturalità col Dio-infinito, cioè da un uomo-Dio capace di offrire alla giustizia divina una realtà finita ma dalla valenza infinita».

Risposta. Le cose stanno effettivamente così.  Lo dice il Salmo: «Nessuno può riscattare se stesso e dare a Dio il suo prezzo. Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine e non vedere la tomba» (Sal 49, 8-10). Col peccato l’uomo ha arrecato a se stesso un danno che non è in grado di riparare, ha contratto con Dio un debito che non può pagare, ha perduto un bene infinito, Dio, che non può riacquistare. Per questo il Padre incarica il Figlio di aiutare l’uomo. Il Figlio s’incarna affinchè l’opera di espiazione possa essere compiuta da un uomo, che può soffrire, ma quest’uomo dev’essere anche Dio, per poter avere questa potenza riparatrice, redentiva, soddisfattoria proporzionata all’infinita dignità della persona offesa.

Scalia. «Purtroppo non si tratta di gioco di parole. E se da un verso ne viene fuori un Dio che ci tiene immensamente all’uomo, dall’altro, questo Dio è tanto lontano dai racconti evangelici che non si può non rimanere perplessi. Un Dio che vuole la sofferenza, che la rende salvifica, non ha molto da spartire con un Padre che ha in orrore la sofferenza dei suoi figli e che, per vincerla, “lavora sempre”, anche di sabato, ed opera miracoli per togliere il dolore dal mondo, per annunciare che vuole una umanità unita nella gioia e nel reciproco aiuto, proprio per uscire dalla sofferenza. Questo ha insegnato Gesù. Questo ha fatto in tutta la sua vita».

Risposta. Secondo la fede cristiana Dio rende salvifica la sofferenza non nel senso che la consideri salvifica come tale, il che sarebbe assurdo: infatti di per sé la sofferenza è un male, è conseguenza del peccato, è perdizione, è corruzione, è distruzione, è il contrario della salvezza. È bene che esista il male, perché Dio ricava il bene dal male, la gioia dalla sofferenza, ma è impossibile che il male sia bene. La sofferenza è un male e resta un male. Solo che Dio la utilizza per ricavarne un bene e per eliminare la stessa sofferenza, salvo che non sia il castigo dei dannati.

Dio non ha in orrore la sofferenza, ma il peccato. Egli castiga il peccato con la sofferenza appunto per insegnare all’uomo a non peccare, facendogli presenti le conseguenze incresciose del peccato. Egli odia assolutamente il peccato, odia la sofferenza di chi è punito ingiustamente. Vuole invece quella sofferenza che è castigo del peccato.

È vero che c’è chi pecca e sul momento non gli capita nulla, ma Dio lo attende alla resa dei conti come fa col ricco epulone e, se il peccatore non si converte, non potrà sfuggire al castigo eterno. È vero che Dio permette la sofferenza degli innocenti come quella del povero Lazzaro o di Giobbe; ma questo perché? Perché ha deciso di salvare l’umanità attraverso il sacrificio dell’innocente suo Figlio. E, come si sa, la vittima del sacrificio, per essere gradita a Dio, dev’essere pura, santa e senza macchia. Per questo Dio manda speciali sofferenze ai santi suoi prediletti, capaci di sopportarle per l’eccezionalità del loro amore, unendosi al sacrificio di Cristo, per dar loro modo di crescere nella virtù e splendere di maggior gloria in Paradiso.

 Amare la sofferenza come tale è stoltezza e peccato contro la divina provvidenza e grave fraintendimento della valorizzazione cristiana della sofferenza, che si chiama dolorismo, per cui si giunge all’eccesso intollerabile di credere che Dio stesso soffra; è quella stortura psicologica che si chiama masochismo.  Per il cristiano la sofferenza è in se stessa innaturale ed odiosa, e se egli la ama e la considera, come Giobbe, mandata da Dio, è perché sa che Dio gli dà modo ed occasione in Cristo di utilizzarla per scontare i suoi peccati, per purificarsi e per ottenere salvezza e perdono.

Il cristiano ama la sofferenza perché Cristo, seppur con naturale ripugnanza, l’ha amata per amor nostro e per obbedire al piano salvifico del Padre. È chiaro peraltro che la salvezza cristiana è liberazione dalla sofferenza secondo il voto più proprio della nostra natura fatta per la gioia e la felicità. Ma il cristiano sa che è proprio assumendo la sofferenza con gli stessi sentimenti ed intenzioni di Cristo che egli si libera dalla sofferenza.

Nel contempo resta ovvio che egli, come ogni uomo ragionevole,  ha il preciso dovere di operare per il sollievo dalla sofferenza in lui e nel prossimo, utilizzando tutte le risorse dell’arte medica e favorendone il continuo progresso, soffrendo con chi soffre e compatendo misericordiosamente ogni forma di debolezza, fragilità ed insufficienza involontaria.

Ma ecco che quando l’arte umana deve confessare la sua impotenza, la saggezza evangelica dispone di sue proprie risorse per render fecondo, sensato e sereno anche quel momento, accogliendolo dalle mani di Dio ed unendosi con amore e pazienza alla croce salvifica di Cristo.  Il Vangelo sa dare una risposta consolante al mistero della sofferenza, tale che nessun’altra sapienza umana sa dare, la quale resta muta o crede di trovarsi davanti all’assurdo; essa è portata o ad un rifiuto sterile e disperato o all’opposto a farne un assoluto che essa pone persino in Dio. Essa è incapace di vedere, come invece vede il Vangelo, nella sofferenza, un segno dell’amore  di un Dio giusto e misericordioso, che proprio per mezzo di essa in Cristo ci consola e ci salva.

La sofferenza, dunque, non è un male assoluto come lo è il peccato, dal quale sia lecito liberarsi con ogni mezzo, come per esempio il suicidio o alleviandola con piaceri illeciti. Ma è un male che in Cristo può essere trasformato in bene e che quindi, quando arriva senza che vi sia rimedio, può sempre essere utilizzata in Cristo per la nostra salvezza.

Dio rende dunque salvifica la sofferenza nel senso che da essa per mezzo di Cristo ricava la salvezza, ossia, grazie alla sua onnipotenza misericordiosa, ricava un beneficio da ciò che di per sé è danno e sventura. Egli trasforma il negativo in positivo. Rende il negativo principio del positivo. Il negativo, che di per sé non produce niente, assunto da Cristo, diventa sorgente di positività. La morte diventa via alla vita. La tristezza si trasforma in gioia. L’incomprensibile diventa comprensibile. Il ripugnante diventa accettabile.

Dio ricava la vita dalla morte, la quale, senza questo intervento divino, resta solo morte. Il castigo, come dice Isaia 53, nelle mani di Dio diventa salvezza. Altrimenti resta solo castigo.  Chi non accetta la croce salvifica di Crsto, resta oggetto del castigo che si è meritato col peccato. L’inferno non è altro che la condizione di coloro che non hanno voluto vedere nella Croce il segno della misericordia e della vittoria sul peccato e sulla morte.

Chi invece si unisce alla croce di Cristo è liberato dalla colpa e dalla pena. Soffrendo con Cristo si vince la sofferenza. Questo atto di ricavare la gioia dalla sofferenza senza che essa perda il suo essere sofferenza, è evidentemente un atto che solo Dio può fare nella sua bontà creatrice, un atto a cui rende partecipi i credenti in Cristo, atto che solo Lui può compere perché comporta il ricavare l’essere dal non-essere, anzi dalla privazione o la mancanza di essere, qual è appunto il dolore e la sofferenza.

Scalia. «La “Lettera di Giacomo” – non a caso spesso divergente rispetto a Paolo – rompe ogni indugio: “Questa è la religione pura e senza macchia agli occhi di Dio Padre: visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni, custodire se stessi immuni dal contagio del mondo”. Che vuol dire: Il culto divino gradito a Dio, ciò che veramente vi salva come umani e figli del Padre-Misericordia, è che voi diventiate come Lui, usando misericordia tra voi, vivendo della stessa bontà generosa del Figlio suo. E se facendo questo sarete scomunicati dai cultori di una religione cultuale che cerca di placare l’ira di Dio o di ottenerne i favori offrendo in sacrificio sofferenza e morte, se questo succede, siate beati perché così, prima di voi, hanno trattato Gesù di Nazareth, assassinato in croce “fuori le mura”».

Risposta. San Giacomo si riferisce a quella religiosità sincera che accompagna il culto divino all’esercizio della carità fraterna, mostrando come essa è precisamente l’effetto di una sincera offerta a Dio del Santo Sacrificio della Messa. D’altra parte San Giacomo ci ricorda chiaramente come la giustificazione non dipenda solo dalla fede, ma occorrano anche le opere e tra queste opere pone il sacrificio di Abramo (Gc 2,21-23).

Scalia. «Le cose non diventano più plausibili se si afferma che il debito dell’uomo peccatore era col diavolo. Allontanatasi da Dio, l’umanità in solido è divenuta possesso del diavolo di cui è schiava per sempre. Se qualcuno vuole strappare l’uomo a questo indebito tiranno, bisogna che paghi il dovuto riscatto. In pratica ci vuole sempre il sangue dell’uomo-Dio».

Risposta. L’interpretazione, fatta da alcuni nel passato, dell’azione di Satana, paragonata ad un sequestro di persona, per il quale il rapitore libererebbe il prigioniero dietro pagamento di un riscatto che consisterebbe nel sangue di Cristo è del tutto fuorviante. Il diavolo certamente si può considerare un rapitore, che ha sottratto l’uomo a Dio suo legittimo proprietario, mentre Cristo col suo sacrificio strappa l’uomo dal potere del diavolo. Ma il riscatto (lytron o apolytrosis), del quale parla San Paolo o Gesù (Mt 20,28), connesso con l’atto della redenzione o ricompera (re-d-emptio) fatta da Cristo, si riferisce al debito pagato al Padre da Cristo o al suo sangue, col quale ci ha comprati (I Cor 6,20).

Con questo prezzo Gesù ha risarcito il Padre, e quindi il denaro lo ha consegnato al Padre e niente affatto al demonio, al quale non è dovuto alcun pagamento, per cui la redenzione non va assolutamente paragonata alla liberazione di un rapito con pagamento di riscatto al rapitore, ma ad una liberazione di un prigioniero dalle mani di un sequestratore, che non può esigere alcun riscatto.

Scalia. «Abbiamo assoluto bisogno di una soteriologia nuova, di una teologia meno mitica e più concreta sul concetto di salvezza (e, precedentemente, sul “peccato”) perché l’uomo esca dalla mentalità di essere nato per soffrire, espiare e salvarsi in paradiso, dimenticando che il Regno di Dio annunziato da Gesù è regno di amore, giustizia e pace, fin da ora e per sempre. Il credente deve uscire da una mistica del dolore per entrare in quella della gioia. Il “devoto” delle nostre novene deve poter percepire che accanto alla “riparazione” per gli sputi, i flagelli del Cristo storico, oggi abbiamo il compito di tenere compagnia al Cristo dolorante nei barconi carichi della disperazione degli immigrati, nei “richiedenti-asilo” stipati in campi di fortuna o di fronte a muri invalicabili e fili spinati, negli innumerevoli giovani divenuti “scarto” senza futuro alcuno, derubati di ogni diritto».

Risposta. Nessuno mette in discussione che il Regno di Dio annunziato da Gesù è regno di amore, giustizia e pace, fin da ora e per sempre. Ma come lo si conquista? Con la «violenza» (Mt 11,12), ossia con lo sforzo ascetico, entrando per la porta stretta, rinunciando alla propria vita, lasciando tutto, facendosi eunuchi, abbracciando la croce quotidiana, mortificando l’uomo vecchio, spegnendo le opere della carne, offrendo allo schiaffo anche l’altra guancia.

Non c’è dubbio che accanto a ciò il Vangelo ordina e consente tutta una serie di opere serene, di virtù umane e soprannaturali, piacevoli, facili, soddisfacenti, gioiose, costruttive, creative, ricreative, di proprio gusto, gratificanti, ludiche, entusiasmanti, divertenti.

E non c’è dubbio che la pratica soteriologica che ci è proposta dal Concilio Vaticano II chiude definitivamente con un precedente stile ascetico comparso nel ‘600 col giansenismo in reazione al lassismo protestante e durato fino alla soglia del Concilio, uno stile che risentiva del dualismo cartesiano anima-corpo, che enfatizzava eccessivamente l’aspetto penitenziale, sacrificale, espiativo e soddisfattorio, una spiritualità volontarista, repressiva, colpevolizzante,  fiscale e pedante, che non si accorgeva che se è vero che per crucem ad lucem, è altrettanto vero che i frutti della croce sono precisamente le primizie e la caparra dello Spirito, e il graduale apparire dell’uomo nuovo fin da adesso, al posto dell’uomo vecchio sepolto nel battesimo.

Nessuna pregustazione della futura resurrezione sembrava possibile, ma tutta la virtù e la gioia sembravano doversi restringere negli angusti limiti di una natura decaduta sempre bisognosa delle rinunce necessarie in difesa dalla continua incombente tentazione al peccato con la relativa minaccia dell’inferno.

L’appello alla solidarietà, alla compassione, all’accoglienza di Cristo sofferente nei poveri e negli emarginati resta il tono più alto della moderna vicinanza a Gesù Crocifisso. Ma se tutto ciò dovesse esser vissuto nello spregio del valore espiativo, redentivo, soddisfattorio e riparatore del sacrificio di Cristo e quindi della sua santissima Croce, frutto, come dice Santa Caterina da Siena, di un’«ardentissima carità», non solo a nulla gioverebbe, ma sarebbe segno di essere caduti nella trappola del demonio, il quale nulla ha più in odio del sacrificio della croce.  

Del resto, nell’amore a Cristo crocifisso si riassume quella carità della quale parla San Paolo, senza la quale potrei parlare le lingue degli uomini e degli angeli, ma sarei solo un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna, quella carità senza la quale, avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, sarei un nulla; quella carità senza la quale, distribuissi anche tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo da essere bruciato, nulla mi gioverebbe (cf I Cor 13, 1-3).

Scalia. «Il cristianesimo nato in Galilea come uscita da un Dio minaccioso, crudele, amico dei potenti, adirato con gli umili da sempre inadempienti e disperati, quello stesso cristianesimo diviene appoggio ai potenti che a loro volta si mostrano segno e plenipotenziari del Dio onnipotente (“pantocrator” – come dice il simbolo Niceno che così attribuisce a Dio un titolo puramente pagano), saggio legislatore e giudice inflessibile di tutti gli erranti, sensibile all’ordine imposto, impassibile di fronte al dolore ed alle sventure umane».

Risposta. È ribadita qui la confusione caratteristica della teologia buonista, per la quale il Dio giudice che punisce il peccato ed offre nelle sventure l’occasione per fare penitenza ed espiare le nostre colpe in unione col sacrificio di Cristo, sarebbe “un Dio minaccioso, crudele, amico dei potenti, adirato con gli umili da sempre inadempienti e disperati”, un “saggio legislatore e giudice inflessibile di tutti gli erranti, sensibile all’ordine imposto, impassibile di fronte al dolore ed alle sventure umane”».

Qui l’irritazione emotiva che suscita nell’animo di Scalia l’immagine di Cristo crocifisso lo fa uscire in espressioni ingiuriose nei confronti del Dio cristiano e ci vien fatto di chiederci in base a quale concetto di Dio Scalia si permetta questo discorso farneticante, dove appare chiaramente che perde la lucidità razionale.  Ci chiediamo cioè quale concezione di Dio Scalia oppone alla concezione cristiana, che ho esposto. E la risposta non pare difficile: il Dio di Scalia sarebbe un Dio che ci accontenta in tutto, ci dà successo e piaceri e non ci fa mancare nulla di quanto il mondo può assicurare.

Scalia.  «Se non recuperiamo la centralità di un Dio che “vuole amore e non sacrifici”, che ha a cuore la nostra gioia, la dignità di ogni vita, la libertà dei suoi figli, se non riusciamo a comprendere che siamo stati creati per la felicità e la relazione benevola fin da ora, e che vivere e far vivere è il sogno di Dio e l’unica nostra prospettiva di futuro, ogni riforma della chiesa sarà impossibile, ogni nuovo ordine mondiale servirà a rafforzare i potenti, e la parola speranza servirà solo a procrastinare i tempi della più amara delle delusioni: nessun dio ci salva perché il nostro destino di povera gente in balia della violenza più cinica è solo la morte nel nulla».

Rispondo. Un Dio che non chiede sacrifici e promette solo felicità e benessere non è il vero Dio. È quel dio che secondo l’opera di Goethe, si presenta al Dottor Faust proponendogli un patto: io in questa vita ti assicuro piaceri, benessere, fortuna ed onori. Ma tu, quando morirai, verrai con me.  Questo dio dolce, tenero, buono e benevolo è però quel dio crudele che nell’al di là bastonerà a sangue i suoi fedeli per l’eternità. È il demonio.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 giugno 2022

 

Santo Pietro e Paolo

Scalia distorce il pensiero di San Paolo. Quanto a Pietro, è chiaro che non aveva afferrato come Cristo doveva raggiungere la sua gloria attraverso la croce.

San Paolo e la Lettera agli Ebrei riprendono l’insegnamento di Is 53: Il Servo di Dio «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui. Per le sue piaghe siamo stati guariti».

Chi si unisce alla croce di Cristo è liberato dalla colpa e dalla pena. Soffrendo con Cristo si vince la sofferenza. Questo atto di ricavare la gioia dalla sofferenza senza che essa perda il suo essere sofferenza, è evidentemente un atto che solo Dio può fare nella sua bontà creatrice, un atto a cui rende partecipi i credenti in Cristo, atto che solo Lui può compere, perché comporta il ricavare l’essere dal non-essere, anzi dalla privazione o la mancanza di essere, qual è appunto il dolore e la sofferenza.

Dottor Faust

Un Dio che non chiede sacrifici e promette solo felicità e benessere non è il vero Dio. È quel dio che secondo l’opera di Goethe, si presenta al Dottor Faust proponendogli un patto: io in questa vita ti assicuro piaceri, benessere, fortuna ed onori. Ma tu, quando morirai, verrai con me.  Questo dio dolce, tenero, buono e benevolo è però quel dio crudele che nell’al di là bastonerà a sangue i suoi fedeli per l’eternità. È il demonio.

 

Immagini da Internet

12 commenti:

  1. Rev. P. Cavalcoli,
    Ho seguito con molta tristezza tutti i suoi ultimi post sulla dottrina della Redenzione e sulle eresie che si vanno propagando riguardo ad essa. Al di là di tutte le questioni dottrinali, da lei magistralmente esposte, mi resta una domanda umanissima e lancinante: perché l'autorità competente non ha mai fatto nulla (almeno a mia scienza) per censurare questi teologi che diffondono eresie attorno ad uno dei misteri più sublimi e commoventi della nostra fede? Non dico che si dovesse colpirli con il massimo delle pene canoniche e/o delle censure, ma perché nemmeno una messa in guardia? Non ci resta che pregare i benedetti Apostoli nel giorno della loro solennità!
    Grazie e a presto,

    Pietro

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    1. Caro Pietro,
      anch’io sono molto meravigliato e posso dire anche rattristato per questa situazione in cui abbiamo la netta impressione che molti vescovi trascurino il loro dovere di correggere gli erranti, che oggi sono molto numerosi, dotti, astuti e potenti. Ho l’impressione che molti vescovi siano intimiditi dall’apparente saggezza di questi impostori, peraltro non privi spesso di buone qualità.
      È possibile che molti vescovi correggano o cerchino di correggere questi eretici in una via riservata, in modo da non svergognarli in pubblico e nello stesso tempo fare in modo che questi teologi siano apprezzati per i loro lati positivi.
      Inoltre c’è da tenere presente che il fedele che vuole seguire la sana dottrina possiede un’abbondanza di mezzi di informazione, a cominciare dal Catechismo e dai grandi Cristologi del Nostro tempo, che non mancano.
      Infine, il mio auspicio è che il mio esempio possa essere seguito da altri teologi, per il fatto che io compio un’opera di mediazione tra il Magistero e questi carenti teologi, così da spiegare alla gente per quale motivo essi sbagliano.
      Mi sembra che i vescovi svolgono un lavoro educativo e formativo; quello in cui, secondo me, dovrebbero maggiormente impegnarsi è la critica di errori che sono difficilmente riconoscibile dal comune fedele.

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  2. Non posso che condividere totalmente il pensiero del Sig. Pietro e aggiungermi all'augurio di Padre Cavalcoli per i teologi che rimettano a posto quanto si é andato distruggendo (ve ne sono già, come ad esempio Padre Mauro Gagliardi ed il suo libro di dogmatica "La verità é sintetica"). Preghiamo per i vescovi che aprano gli occhi davvero e con coraggio si adoperino per la difesa pubblica della nostra bellissima fede quando il limite é stato oltrepassato. Dio é bellissimo, giustissimo, buonissimo, potentissimo, pazientissimo con tutti noi!

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    1. Caro Alessandro,
      la ringrazio per queste belle parole, che trovano tutto il mio consenso. Mi ha commosso soprattutto la serie di entusiastici attributi superlativi, che lei ha dedicato a Dio, alla fine del suo discorso.
      Sì, certo, continuiamo a sperare che i nostri vescovi, che sono i maestri della fede, ascoltino lo Spirito Santo, che li ha consacrati vescovi, per annunciare con parresia la Parola di Dio e pascere il gregge pronti a dare per esso la vita.

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  4. Rev. Padre Cavalcoli,
    Vorrei inoltre osservare, riguardo a quella che agli occhi dello Scalia (e di altri) sembra un'aggiunta (impropria) da parte della Chiesa alle parole della consacrazione eucaristica, che se la formula "offerto in sacrificio per voi" non è formalmente presente nel testo dei sinottici o nel testo paolino, in tutti e tre i sinottici si legge, riguardo alla consacrazione del vino ormai divenuto il Preziosissimo Sangue, che esso è "versato per molti, in remissione dei peccati" ("τὸ περὶ πολλῶν ἐκχυννόμενον εἰς ἄφεσιν ἁμαρτιῶν", "qui pro multis effunditur in remissionem peccatorum", Mt 26,28, cf. // Mc 14,24, Lc, 22,20). Come si dovrebbe interpretare la frase in questione, secondo cui il sangue di Cristo è "versato [...] per la remissione dei peccati", se non nell'unico senso possibile, così come intende la Lettera agli Ebrei e come ha sempre e costantemente insegnato la Chiesa di Cristo? Non contiene essa forse un riferimento evidente ad un'offerta sacrificale? Non avevano forse quelle parole un riferimento ovvio, sulle labbra di un giudeo del I secolo, all'economia sacrificale del Tempio, che dell'economia della grazia era segno e prefigurazione? Mi pare poi assurdo, in una prospettiva di fede, cercare di individuare il vero "messaggio gesuano" pretendendo di isolarlo da supposte "incrostazioni ideologiche successive" dovute ai seguaci di Cristo, senza parlare del fatto che con un approccio del genere si verrebbe a squalificare de facto tutto il Nuovo Testamento, giacché ciascuno dei suoi 27 scritti, compresi i 4 Vangeli, sono in fin dei conti l'opera dei discepoli del Signore...

    In Cristo,

    Pietro

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    1. Caro Pietro,
      sono pienamente d’accordo con le sue osservazioni.
      Io direi che quel “per” ha un duplice significato:
      1) introduce a un complemento di vantaggio e significa “a favore o a vantaggio di molti”;
      2) e, in secondo luogo, indica la soddisfazione vicaria, cioè il fatto che Cristo, mediante il suo sacrificio, espia i nostri peccati al nostro posto, di noi peccatori, che siamo debitori insolventi, Lui innocente, ma, in quanto Dio, dotato della virtù infinita di meritare la salvezza per tutti gli uomini e di ottenere il perdono divino, rendendoli partecipi dei suoi meriti.

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  5. Caro Padre Giovanni,
    non posso che ringraziarla ed unirmi agli elogi che le sono già stati rivolti dai signori Pietro e Alessandro, per la sua encomiabile battaglia contro l’eresia e le derive di taluni teologi.

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    1. Mi scusi sono Bruno V. Essendomi precedentemente scollegato dl mio account, questo e i due successivi commenti sono stati acquisiti come da Anonimo.

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    2. Caro Bruno,
      a breve pubblicherò un articolo di risposta alle opinioni de La Civiltà Cattolica e di Gianfranco Ravasi

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  6. La seguente sua sola affermazione mi ha lasciato perplesso:
    “L’esegesi moderna ci dice che Abramo si era fatto lui l’idea che Dio volesse veramente il sacrificio del figlio perché appunto suggestionato dalle idee malsane di quei popoli crudeli”.
    Eppure, il testo della Genesi, anche nell’ultima traduzione della CEI, non sembra favorire questa possibilità ermeneutica, ribadendo che “Dio mise alla prova Abramo”:
    «Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: "Abramo!". Rispose: "Eccomi!". Riprese: "Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò"» (Gen 22, 1-2)
    Peraltro, uno dei libri storici dell’Antico Testamento, Giuditta, sembra confermare l’iniziativa divina nel mettere alla prova Abramo:
    «Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava le greggi di Làbano, suo zio materno. Certo, come ha passato al crogiuolo costoro con il solo scopo di saggiare il loro cuore, così ora non vuol fare vendetta di noi, ma è a scopo di correzione che il Signore castiga quelli che gli stanno vicino"» (Gdt 8, 26–27).
    L’edizione 1973 della Bibbia, a cura de La Civiltà cattolica, Ancora editrice, così commentava:
    «Il suo unico tesoro [di Abramo] è stato fino a questo punto la sua fede: e solo in virtù di questa, Dio lo ha benedetto. Adesso riceve l’ordine di sacrificare proprio la sua fede e la sua speranza, senza tuttavia lasciarle vacillare. Il fatto inspiegabile non è che Dio gli chieda il sacrificio di un figlio, anche se debba colpire duramente l’affetto paterno: in effetti la religiosità del paese ammetteva questa forma deplorevole di culto (Giudici 11, 30-39; 2Re 3, 27; 16,3; 21,6). Ciò che pare assurdo è di dover immolare proprio il motivo per cui era vissuto fino allora, quel figlio per cui Dio gli aveva chiesto il sacrificio di ogni altro bene. Dio in contraddizione? Si divertirebbe a torturare? Senza un’obiezione Abramo dice sì, e nel buio totale obbedisce. Le varie battute del racconto – innegabilmente a livello dell’arte – fanno sentire il dramma di quell’anima. “Dio provvederà!” Se prova è perché ama (cfr. Ebrei 11, 17-19). E Dio stesso ha provveduto la vittima per l’olocausto. L’ariete presentato ad Abramo era solo provvisorio. Un altro Padre ha realmente sacrificato il suo unico Figlio per amore degli uomini […] poi lo ha recuperato nella resurrezione […] L’epilogo dell’evento prepara una recisa condanna dell’uso cananeo di sacrificare i bambini (cfr. Deuteronomio 12, 29-31; 18, 10-12; Geremia 7, 31-33; 19, 1-13), ma soprattutto illustra l’epilogo di ogni vero sacrificio: Dio ridona ai suoi fedeli come frutto della loro fede quel dono gratuito al quale essi avevano rinunciato per preferire il Signore».
    Lei ritiene, Padre Giovanni, che questo tipo di esegesi, assieme a quella di Ravasi (che riporto nel successivo commento), debba ormai essere abbandonata?

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  7. Questo invece il commento di Gianfranco Ravasi, tratto da “Il racconto del cielo”, Mondadori, 1995:
    «[…] siamo di fronte al tema della fede “nuda”, che non ha altri appoggi se non nella Parola trascendente. Fede che conosce, però, il baratro dell’oscurità, che brancola alla ricerca di un senso, che si scontra col mistero. Fede ricondotta al suo stadio più puro: il terribile cammino silenzioso di tre giorni affrontato da Abramo verso la vetta della prova diventa il paradigma di ogni itinerario di fede. È un percorso tenebroso e combattuto, accompagnato solo da quell’iniziale, implacabile comando: “Prendi tuo figlio…”. Poi il silenzio […]
    Fin dove si arriverà? Si crea una tensione spasmodica che verrà squarciata e risolta dal grido di Dio che spezza finalmente il suo silenzio […] Solo Lui poteva in quel momento trattenere Abramo dalla sua fede obbediente e disperata. La fede è ora ricondotta al suo stadio più puro, assoluto e tragico, essendo priva di alcun appoggio umano, razionale e religioso.
    Eppure una logica c’è: come figlio carnale Isacco doveva morire perché Abramo rinunciasse anche al sostegno della sua paternità e non avesse neppure le ragioni della carne e del sangue per credere nella promessa, ma solo quelle della parola divina. Per questo Dio lo invita alla distruzione del legame umano paterno-filiale. Abramo, dopo la prova, riceve Isacco non più come figlio ma in quanto “promessa” divina, grazia pura e assoluta […]
    “Abramo credette e non dubitò” scrive Kierkegaard in Timore e tremore “credette quello che era in contraddizione con la ragione” […]
    È proprio attraverso la paradossale spogliazione della morale, della ragione, degli affetti e della razionalità della fede che Isacco si manifesta come parola divina purissima, promessa di Dio incarnata. Il figlio della carne e del sangue scompare idealmente sul Moria, Abramo deve rinunciare a lui; quello che, scendendo dal monte, lo accompagnerà non sarà più un semplice erede o un figlio di Sara, sia pure avuto in modo prodigioso, sarà invece un figlio-dono, sarà il vero figlio “promesso”. Per riceverlo, però, il patriarca ha dovuto affondare il coltello nella sua paternità. Solo rinunciando a tutto, nel giorno tempestoso della prova, si ottiene tutto, come ripeterà anche Gesù introducendo la legge del perdere per trovare, del lasciare per ricevere (Lc 18,28-30) […]
    “Venerabile padre Abramo, quando sei tornato a casa dal monte Moria” continua Kierkegaard “tu avevi guadagnato ogni cosa e conservato Isacco” […] L’obbedienza della fede alla fine dona pace e rivela che dietro il volto apparentemente crudele di Dio si cela un progetto non di morte ma di vita e di grazia. La citata Lettera agli Ebrei, che svolge il tema in chiave cristologica, giungerà ad affermare che Abramo offrì suo figlio perché era certo “che Dio è capace di far risorgere anche dai morti e per questo lo riebbe e fu come un simbolo (Eb 11,19)».

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