Che cosa è il subconscio nella Pascendi di Pio X? - Terza Parte (3/4)

  Che cosa è il subconscio nella Pascendi di Pio X?

Terza Parte (3/4)

L’emozione al posto del concetto,

il sentimento al posto della dottrina 

1. Una carenza gravissima della gnoseologia modernista è data dal fatto che a causa dell’influsso dell’empirismo occamistico, del suo disprezzo per l’astrazione metafisica e quindi per le nozioni trascendentali, essa non è fondata sulla nozione dell’essere, ma sulla scelta arbitraria, sulla sensibilità incontrollata, sulla percezione del momento, sull’emozione, sull’immaginazione, sulla sensazione suggestiva, sul bisogno di agire e di affermarsi, sull’estetica sensuale e sulla fantasia creativa.

Essa non è frutto dell’intelligenza metafisica, e di un rigoroso metodo razionale, ma della volontà, dell’interesse personale, dell’emozione e dell’istinto, ed è ordinata non al vedere ma al fare. Il pensiero non si sente dipendente dal reale, ma lo vuol dominare. Non si tratta di adeguarsi (adaequatio), ma di decidere. La verità non è ciò che è, ma ciò che io ho deciso che sia.

La «teologia» che ne viene fuori parla bensì di assoluto, di Dio, di spirito, di vita, di fede, di grazia, di rivelazione, di religione, di Bibbia, di coscienza, di scienza e di morale, ma le confonde con l’esperienza sensibile, l’affettività, l’egoismo, il sogno, l’immaginazione e il gusto soggettivi.

Da qui la sua imprecisione concettuale in campo filosofico, il gusto per il vago, l’indistinto ed il confuso, e quindi per l’equivoco e l’ambiguo, l’incapacità di imbastire un sillogismo dimostrativo, di concepire l’immutabile, il certo, lo stabile, l’immortale, il permanente, l’eterno, l’universale, lo scambiare che fa della saldezza con la rigidezza, il suo concepire la vita solo a livello biologico e non a livello divino, la confusione dello scientifico con l’opinabile, dello spirituale col psicologico, l’ignoranza del soprannaturale, e il suo tutto risolvere nel divenire, nel concreto, nella storia, nell’evoluzione, nel soggettivo.

2. Oltre a ciò lo sfondo sottinteso dell’egoità cartesiana, che porta a non distinguere l’io umano dall’io divino, la coscienza dalla conoscenza, il conscio tematico dall’inconscio originario,  l’inconscio istintuale dal conscio concettuale, l’esterno dall’interno, il vero dall’apparente, l’oggetto dal soggetto, il conosciuto dal conoscibile, e  quindi la tendenza al panteismo.

Il subconscio della Pascendi fa riferimento a una teoria della conoscenza per la quale la concettualizzazione deriva e nel contempo è inconsciamente preceduta da un’esperienza o sentimento originari preconcettuali dell’io pensante ovvero della propria autocoscienza. Con questa autocoscienza è data l’esperienza dell’io, dell’essere e di Dio[1] non come esterni o trascendenti la coscienza, ma come immanenti e volti verso la coscienza. Da qui il «principio d’immanenza» (n.62).

È interessante il dibattito fra Laberthonnière e Blondel da una parte e Le Roy dall’altra sulla questione dell’immanenza vitale (n.62), riportata da Tresmontant[2]. Comune a tutti e tre è il vedere l’immanenza divina non come Dio esterno alla coscienza che inabita nella coscienza, ma come Dio inteso come essenzialmente immanente alla coscienza. La differenza fra i primi due e il terzo sta nel fatto che mentre quelli ammettevano l’intelletto come emanazione dell’azione, questi sosteneva con Bergson l’intuizione del Divenire.

In possesso di questa esperienza originaria, la mente passa alla concettualizzazione di detta esperienza secondo i paradigmi della sua particolare cultura e sente il bisogno di «tradurla in rappresentazioni mentali» (n.16), le quali, però, ben lungi dal poter rappresentare concettualmente in modo fedele il divino inconscio sentito o esperito nella coscienza, non ne sono che dei segni simbolici ed indicatori esterni, modelli interpretativi contingenti, passeggeri ed intercambiabili, che a nulla servirebbero se chi ascoltasse non avesse già fatto egli stesso quell’esperienza originaria ed ineffabile, che sarebbe il contenuto della Rivelazione (nn.12-13).

3. A questa esperienza ineffabile ed affettiva, essenzialmente orientata all’azione ed effetto dell’azione, a questa «evoluzione creatrice», per dirla con Bergson, preconcettuale, atematica e trascendentale, della verità assoluta e del Dio «inconoscibile» (n.11), cioè non concettualizzabile, segue la sua espressione concettuale e verbale, che però sono solo immagini o espressioni «sfigurate» (n.13), «trasfigurate» (ibid.), «inadeguate» (n.17), «simboliche» (ibid.), «variabili» (n.18) del contenuto evolutivo dell’esperienza originaria. Queste espressioni, cioè i dogmi (n.16), sono pertanto relative ai tempi e ai luoghi e alle diverse culture. Per questo i dogmi mutano ed evolvono (n.18).

L’espressione subconscio, inconscio o preconscio allude all’idea che il conoscere radicale ed originario si ponga al di fuori della concettualizzazione in un atto precedente che coglie il reale evolutivo in modo coscienziale, diretto, originario, globale, autentico e non concettuale, considerando il concetto sì necessario alle attività pratiche e completamento dell’atto conoscitivo in rapporto alle realtà empiriche, ma come derivato illanguidito e successivo all’atto originario dell’inconscio, il concetto come una rappresentazione mentale indispensabile alla comunicazione del pensiero e al linguaggio, ma confinato a scopi pratici o simbolici (n.80) o poetici, o all’orizzonte delle apparenze soggettive, senza pretese speculative o veritative.

4. Stando così le cose, ci si potrebbe chiedere se la Pascendi colpisce la concezione idealista della conoscenza. Sembrerebbe a tutta prima di no, dato che per l’idealista l’essere è l’essere conosciuto, per cui sembrerebbe negare l’esistenza stessa dell’inconscio come origine della conoscenza di Dio e dello stesso dato rivelato cristiano. L’inconscio infatti è un sapere irriflesso e suppone l’esistenza di un essere-non pensato.

Eppure bisogna dire che nella concezione idealistica del processo conoscitivo l’inconscio ha una sua parte: precede il conscio e conduce al conscio. L’inconscio per l’idealista è lo stato d’ingenuità irriflessa del realista e dell’uomo comune che non si rende conto della radice idealistica del sapere. Ma la stessa «autocoscienza assoluta», esplicitazione dell’io empirico, per l’idealista si può indubbiamente qualificare come Inconscio nel senso che non è oggetto della concettualizzazione realistica. Ma l’inconscio in che senso? Inconscio in rapporto alla coscienza concettuale. Essa infatti emerge da un inconscio non concettuale, anche se questo inconscio è l’autocoscienza cartesiana.

Ma di questa autocoscienza l’uomo comune, secondo l’idealista, proiettato verso le cose esterne, non ha coscienza. Il filosofo cartesiano lo conduce allora alla presa di coscienza che il sapere realistico è la conseguenza di un sapere più profondo, veramente radicale, il cogito, per il quale l’io è conscio di se stesso, ma conscio non tematicamente, come avviene nella coscienza categoriale, ma in una forma tematicamente inconscia, che è appunto l’io penso cartesiano. Qui abbiamo l’inconscio cartesiano, radice dell’inconscio categoriale che ne è la derivazione e sul quale l’inconscio categoriale si fonda. L’inconscio atematico conduce alla coscienza categoriale, ossia alla concettualità.

Tutto, le cose, il mondo, la natura, l’io, gli altri, l’umanità, la società, la storia, la vita e la morte, il bene e il male e quindi Dio stesso, si risolvono, come nella loro comune radice originaria nella suddetta egoità cartesiana sviluppata dall’idealismo tedesco: tutto, cioè, si risolve e si unifica nella nozione basilare assolutamente indeterminata e indefinibile, dove c’è tutto e il contrario di tutto: l’Inconscio, Preconscio o Subconscio, inconoscibile (n.81) eppure sperimentabile, aprioricamente intuibile e sensibile, dal soggetto, in modo globale, spirituale, preconcettuale, indistinto, ineffabile, inconcepibile e sovraconcettuale.

Maurice Blondel, il sapere come effetto dell’agire

Maurice Blondel fece una proposta di rinnovamento dell’apologetica, ossia di quella parte della teologia pastorale che si propone di indurre i non-credenti alla fede attirandoli alla fede con argomenti persuasivi e cogenti, che fanno leva sui bisogni e sulle esigenze e sulle aspirazioni più profondi e sentiti dal non-credente, rendendo con la testimonianza ed opportuni esempi ragionevolmente credibile il messaggio di Cristo.

Il Blondel chiamò la sua proposta «apologetica dell’immanenza», perché era convinto che il predicatore del Vangelo può attirare a Cristo le anime non tanto in forza di un’opera di convincimento intellettuale, dimostrando razionalmente l’esistenza di Dio, annunciando un messaggio soprannaturale rivelato totalmente sconosciuto all’evangelizzando e facendogli giungere una grazia che egli non possiede, quanto piuttosto attivando nell’evangelizzando le energie dell’azione morale, che secondo lui erano quelle sole che spingono efficacemente verso la verità divina dandone la certezza all’intelletto, col renderlo consapevole dell’immanenza divina nella sua coscienza con l’emergere dal segreto dell’inconscio.

È così che Blondel ritiene che l’intelletto da solo non raggiunge la verità su Dio se non è sorretto da una volontà previa di raggiungere Dio, effetto del bisogno di Dio immanente alla coscienza ed emergente dall’inconscio. Dice Blondel:

«Una prova che non è che un argomento logico rimane sempre astratta e parziale; essa non conduce all’essere; essa non spinge necessariamente il pensiero alla necessità reale. Una prova che risulta da movimento vitale della vita, una prova che è l’azione intera, è lei, al contrario, che avrà questa virtù costrittiva. Per uguagliarne, per mezzo dell’esposizione dialettica, la forza spontanea, non bisogna dunque lasciare allo spirito alcuna scappatoia. È infatti proprio dell’azione il formare un tutto: è dunque per sua opera che vanno ad unirsi in una sintesi dimostrativa gli argomenti parziali: nel loro isolamento rimangono sterili; per la loro unità sono probanti. È soltanto a questa condizione che essi imiteranno e che essi stimoleranno il movimento della vita. Usciti dal dinamismo dell’azione, ne conserveranno l’efficacia. …

La nozione di una causa prima o di un ideale morale, l’idea di una perfezione metafisica o di un atto puro, tutte queste concezioni della ragione umana, vane, false e idolatriche, se le si considera isolatamente come astratte rappresentazioni, sono vere, vive ed efficaci dal momento in cui, solidali, esse non sono più un gioco dell’intelletto, ma una certezza pratica. …

È dunque nella pratica stessa che la certezza dell’“unico necessario” ha il suo fondamento. In ciò che riguarda la complessità totale della vita, solo l’azione è necessariamente completa e totale anch’essa. Essa porta sul tutto; ed è il motivo per il quale da essa e solo da essa dipende l’indiscutibile presenza e la prova costringente dell’essere. Le sottilità dialettiche, per quanto lunghe e ingegnose possano essere, non contano di più di una pietra lanciata da un fanciullo contro il sole (p.350)»[3].

«Credere che si possa raggiungere l’essere e legittimamente affermare una realtà quale che sia senza aver raggiunto il termine della serie che va dalla prima intuizione sensibile alla necessità di Dio e della pratica religiosa, è rimanere nell’illusione (p.428) [4]».

«Non c’è alcun oggetto del quale sia possibile concepire ed affermare la realtà senza avere abbracciato con un atto di pensiero la serie totale, senza sottomettersi di fatto alle esigenze dell’alternativa che essa impone, in breve senza passare per il punto dove brilla la verità dell’Essere che illumina ogni ragione e davanti al quale occorre che ogni volontà si pronunci.

Noi abbiamo l’idea di una realtà oggettiva, noi affermiamo la realtà degli oggetti; ma per farlo è necessario che poniamo implicitamente il problema del nostro destino e che noi subordiniamo tutto ciò che siamo  e tutto ciò che è per noi ad un’opzione. Noi non arriviamo all’essere e agli esseri che passando attraverso questa alternativa: a seconda di come la si risolve, è inevitabile che il senso dell’essere venga cambiato. La conoscenza dell’essere implica la necessità dell’opzione; l’essere nella conoscenza non è prima ma dopo la libertà di scelta (pp.435-436)»[5].

Il discorso di Blondel sottende quella caratteristica della gnoseologia modernista, della quale parla la Pascendi, ossia il porre la conoscenza filosofica su due piani: un piano originario subconscio, atematico, avente per oggetto l’Assoluto, inconcepibile, preconcettuale, esperienziale, «sentito». È l’autocoscienza cartesiana, il principio di quella che i cartesiani chiamano «filosofia moderna». Essa è subconscia rispetto alla coscienza concettuale, ma è conscia atematicamente.

In tal modo, come Rahner successivamente parlerà di «esperienza trascendentale» preconcettuale (Vorgriff) dell’io, dell’essere e di Dio e «conoscenza categoriale» dei fenomeni e degli enti materiali, così Blondel parla rispettivamente di una conoscenza «reale» e di una conoscenza «nozionale», la prima capace di cogliere l’Assoluto, la seconda, caratterizzata dalla concettualità, mediazione effettiva ma insufficiente del reale umano e divino senza l’apporto della volontà,  che si realizza nella conoscenza reale.

Dice Blondel, citato dal Maritain[6]:

«Il concetto non è che un succedaneo (p.228)»; «l’intelligenza non può accontentarsi di un cibo semivuoto come i concetti né di “rappresentazioni” approssimative, mentre è desiderio di stabilità e sicurezza, affamata di “presenza reale” e di possesso (p.232)»; «l’intelletto astratto o la ragione discorsiva vive di mimetismo o di imitazione» (p.236); «la conoscenza razionale esige un’architettura di simboli (p.231)», ci consegna «delle rappresentazioni o immagini, simboli, campioni, fenomeni (p.237)», degli «avanzi industrializzati e mummificati (p.238)», «ci tiene rinchiusi dentro un vetro smerigliato (p.238)», in un «ambiente chiuso e artificiale (p.238)», ci consente solo «l’affermazione estrinseca, senza visione intrinseca degli esseri (p.239)»; in breve non è ad essa che dobbiamo riservare il nome di intelligenza (p.242)».

«Si comprende bene dunque l’incommensurabilità tra la conoscenza nozionale e la conoscenza reale: con la prima noi ci fabbrichiamo un mondo di rappresentazioni, come in una gabbia di vetro smerigliato dove non siamo in contatto che con dei prodotti d’industria, con degli artificiata o come in un museo scolastico dove, con il pretesto di una lezione di cose, noi conosciamo il campo di grano solo attraverso una pagliuzza disseccata e incollata in un cartone accanto ad altri esemplari morti.

Con la conoscenza reale, quello che noi cerchiamo non sono rappresentazioni, immagini, simboli, campioni, fenomeni, ma è la viva presenza, l’azione effettiva, l’intussuscepzione, l’unione assimilatrice, la realtà. Ed è a questo che, per essere pienamente se stessa, aspira l’intelligenza»[7].

Blondel, con l’uso lussureggiante e sfarzoso di concetti abilmente congegnati e brillantemente esposti, ricco di immagini illusorie, non s‘accorge di darsi la zappa sui piedi, di servirsi necessariamente degli aborriti concetti e ragionamenti per squalificare i concetti e per sragionare. E per questo egli non s‘accorge di confutarsi da sé senza bisogno di qualcuno che lo confuti dal di fuori.

Per esprimerci con parole prese dalla Scrittura, egli cade nella fossa che ha scavato (cf Sal 9-10, 16); «la sua malizia ricade sul suo capo, la sua violenza gli piomba sulla testa» (Sal 7, 16-17). Egli cade così nel ridicolo e nello stesso tempo fà pena. Quando si trasgrediscono e si offendono le leggi fondamentali del pensiero, il pensiero stesso si vendica e punisce l’incauto attentatore distruggendo il contenuto assurdo del suo pensare.

Questa, in fondo, è la sorte nichilista della gnoseologia modernista, illusa di poter partire da un subconscio globale atematico ed inconoscibile o di raggiungere d’un balzo un sovraconscio metaconcettuale, il quale, ben lungi dal costituire un’originaria fantomatica esperienza atematica ed originaria, non è altro che un vano sogno,  che sfocia nell’incubo, e nella tragedia,  di chi, non accontentandosi della limitata benché alta dignità del pensare umano, vorrebbe presuntuosamente e stoltamente competere con la scienza e l’autocoscienza divine.

Come fu che Laberthonnière prese un granchio

Laberthonnière sbaglia completamente il bersaglio quando se la prende con l’«idealismo greco» per sostenere il «realismo cristiano». La filosofia greca non ha solo l’idealismo platonico, ma raggiunge il suo vertice di sapienza nel realismo aristotelico, che San Tommaso ha opportunamente utilizzato per interpretare il realismo biblico.

Laberthonnière, se avesse voluto fare un’operazione intelligente, avrebbe dovuto prendersela con l’idealismo di Cartesio, questo sì che è l’idealismo veramente pericoloso ed anticristiano e non quello del povero Platone, che ispirò la gnoseologia agostiniana, e che Agostino, che non conosceva Aristotele, giudicò il sommo dei filosofi pagani.

L’idealismo platonico è sostanzialmente un realismo e un realismo sublime, perché – e questo Laberthonnière non lo sapeva? – anche i ragazzi del liceo sanno che l’idea platonica nulla ha a che vedere col concetto cartesiano dell’idea innata nella coscienza umana, ma è Idea divina, sussistente, immutabile ed eterna, modello ed esemplare del mondo della realtà materiale e della condotta morale.

Per Platone l’idea formata dalla mente umana non è altro che un’immagine, una rappresentazione, un’imitazione e una partecipazione fallibile e sbiadita dell’Idea divina sussistente nell’Iperuranio, oggetto della beata contemplazione del filosofo, principio di virtù e guida sicura della vita morale, come lo fu per Socrate.

È l’idealismo cartesiano che sostituisce l’ideale al reale e scambia l’idea con la realtà, come se l’oggetto del conoscere fossero le nostre idee e non le cose extramentali, secondo quanto opportunamente Papa Francesco ci ha fatto notare nel designare l’errore dell’idealismo.

Laberthonnière cade poi addirittura nell’assurdo quando considera lo stesso Aristotele come idealista, quasi fosse un antesignano di Cartesio o di Hegel, solo perchè Aristotele parla di Dio come Nòesis Noèseos[8], Pensiero del Pensiero, senza tener conto che quel «pensare» divino non è una semplice idea, ma coincide con lo stesso Essere divino.

Per Dio pensare vuol dire essere ed essere vuol dire pensare. Ma Dio non è un puro pensare senza essere! Come potrebbe infatti un pensante essere pensante se stesso, se non fosse sussistente, e quindi non fosse essere sussistente, come è conveniente che Dio e solo Dio sia?

Quanto al realismo cristiano, esso non ha nulla a che vedere con la gnoseologia concretistica di Ockham, ma, come ha dimostrato San Tommaso, esso è sintesi dell’idealismo platonico dell’Idea divina modello dell’essere, dottrina essenziale per spiegare la creazione e l’agire pratico, col realismo aristotelico, fondamento della dottrina della verità, realismo del concetto come rappresentazione astratta mentale della cosa, giusta il famoso detto dello Stagirita: «Non è la pietra che è nell’anima, ma l’immagine della pietra».

Il panteismo di Loisy

Alfred Loisy è l’esponente principale e più famoso dell’esegesi biblica modernista, contemporaneo del Servo di Dio il Domenicano Padre Marie-Joseph Lagrange, grande biblista cattolico[9]. È estremamente interessante accostare queste due grandi figure di studiosi, entrambi sacerdoti; eppure quale abisso tra l’uno e l’altro: il primo, caduto nell’eresia; il secondo, morto in concetto di santità, tanto che è in corso la causa della sua beatificazione. Ed è altrettanto interessante come il Lagrange, da vero Domenicano, seguì con accorato interesse la triste vicenda del Loisy, certamente nell’intento di riportarlo alla fede.

Il Lagrange ha avuto il merito di recuperare le istanze valide dell’esegesi storico-critica protestante, che i modernisti come Loisy assumevano acriticamente in contrasto con le esigenze della sana ragione e trascurando l’interpretazione della Tradizione e del Magistero della Chiesa. In tal modo il Lagrange ha precorso in esegesi biblica il recupero delle istanze modernistiche, fatto dal concilio Vaticano II, sulla scia del quale la Pontificia Commissione Biblica nel 1993 ha pubblicato la Dichiarazione L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa.

Il documento, tuttavia, si mostra carente nell’evidenziare la necessità che l’esegeta si accosti al testo biblico non solo fornito delle scienze bibliche, ma anche di una docilità al pensiero dell’Aquinate, alla luce soltanto del quale, per espresso secolare avvertimento della Chiesa, lo studioso della Bibbia è in grado di afferrare i principali temi della rivelazione biblica senza il rischio di restare alla superficie o di disperdersi o di cadere in penosi e pericolosi equivoci o fraintendimenti. Il Padre Lagrange fu esemplare in questa fedeltà al Dottore comune. Egli stesso racconta di se stesso:

«Il fondo dell’insegnamento era la Summa di S.Tommaso, studiata nel suo testo, questione dopo questione, articolo dopo articolo. Nulla vale più di questo contatto giornaliero con la lettera del più grande dei teologi»[10].   

La Pascendi, a riguardo dei modernisti, parla di esegesi «razionalista» ed ha ragione in riferimento all’esegesi di Spinoza, Strauss, di Reimarus e Bauer. Ma ugualmente avrebbe potuto parlare di esegesi fideista ed irrazionalista o storicista in rapporto a quella del protestantesimo liberale di Schleiermacher, di Ritschl, Tröltsch  o Dilthey.

Il Padre Lagrange fa del Loisy questo breve ritratto:

«Loisy trascura di dire che il suo punto di arrivo, già previsto e rivelato nel 1886, era il dubbio fra deismo e panteismo, con un’inclinazione molto netta verso il panteismo, che presto prevalse, la negazione dell’immortalità dell’anima, della divinità di Gesù Cristo, dell’istituzione divina della Chiesa»[11].

La tragica vicenda intellettuale di Loisy ha inizio sin dal tempo dei suoi studi di seminarista, allorchè incontra la teologia di San Tommaso, per la quale prova un irrefrenabile disgusto, che lascia intendere uno spirito non aperto alla verità, ma all’affermazione di sé.

Benchè infatti la Chiesa raccomandi San Tommaso come Doctor communis Ecclesiae a preferenza di qualunque altro Dottore, essa approva anche altri maestri o dottori, come per esempio Sant’Agostino o il Beato Duns Scoto o San Bonaventura o San Bernardo, Sant’Anselmo. Tuttavia resta chiaro che l’eventuale rifiuto dell’Aquinate per un altro Maestro sarà legittimo se avviene nell’orizzonte dell’ortodossia e non per uno spirito di ribellione alla sana ragione o alla fede cattolica.

Chè se uno rifiuta Tommaso in nome di Ockham o di Lutero o di Cartesio o di Hume o di Kant o di Hegel o di James o di Comte o di Marx, è evidente che la sua scelta non può considerarsi consona alla retta ragione filosofica e ancor più alla fede cattolica. E questo purtroppo fu il caso di Loisy, al quale era sgradito Tommaso non perché preferiva qualche altro autore cattolico, ma perché sentiva antipatia per lo stesso cattolicesimo.

Con tutto ciò il Loisy si fece sacerdote, non sappiamo con quanta sincerità e convinzione, stanti le sue idee sul cattolicesimo, e si dette con passione agli studi biblici, ma servendosi di un metodo critico meramente razionalista, che non teneva conto del dato rivelato e quindi del carattere divino della Scrittura con particolare riferimento all’interpretazione che ne fa la Chiesa. Da qui le opposizioni che incontrò sia da parte dell’autorità ecclesiastica che di colleghi cattolici ad essa fedeli.

Diamo qualche esempio della sua mentalità modernista, portata ad accusare il Magistero della Chiesa di essere attaccato a una vecchia concezione di Dio non più adatta ai tempi moderni. In queste parole Loisy finge di rivolgersi direttamente alla Chiesa. Scrive nel 1883:

«Sai tu che la necessità di un Dio autore del mondo ed anche distinto, così indipendente come tu lo presenti, non è evidente per me e per molti altri? … La tua idea di Dio ci appare meschina pressoché quanto le fantasticherie mitologiche del paganesimo sono apparse ridicole ai tuoi dottori. Invano moltiplichi le espressioni barbare, le distinzioni sottili; più tu affermi, più ti allontani dalla realtà. Il tuo Dio è diventato un’immensa astrazione o piuttosto la sintesi di tutte le astrazioni dello spirito umano; hai fatto l’apoteosi della metafisica, hai divinizzato le tue proprie idee. … Dalle officine della scolastica non poteva uscire se non un Dio-sillogismo. Ma oggi i fedeli della metafisica sono estremamente rari. Tutto lo sforzo dei nostri spiriti migliori è applicato allo studio della natura, delle sue leggi e delle sue forze. L’astronomia crea un mondo ben più vasto di quanto tu non avresti mai pensato»[12].

Nel 1892:

«Sembra impossibile che Dio esista. È impossibile che non esista. Il Dio antropomorfico, proprietario di un mondo che egli governa da gran Signore, arbitrariamente e con cattiveria, non esiste. Ma Dio esiste: è il lato interiore, eterno, immutabile, semplice ed uno, del mondo esteriore, temporale, mutevole e multiplo»[13].

Nel 1903:

«L’evoluzione della filosofia moderna tende sempre di più all’idea di un Dio immanente, che non ha bisogno d’intermediari per agire nel mondo e nell’uomo. La conoscenza attuale dell’universo non suggerisce forse una critica dell’idea di creazione? La conoscenza della storia non suggerisce una critica dell’idea di rivelazione? La conoscenza dell’uomo morale non suggerisce una critica dell’idea di redenzione?»[14].

Nel 1904:

«Non credo più alla divinità di Gesù Cristo e considero l’incarnazione personale di Dio come un mito filosofico. … Se io sono qualcosa in religione, sono piuttosto panteo-positivo-umanista che cristiano. … Da molto tempo non posso più pregare Dio come si pregherebbe un uomo dal quale si attende un favore. La mia preghiera consiste nel raccogliermi nella mia coscienza per decidere ciò che io credo buono e lecito. Io credo che Dio assista a questa operazione e che vi sia implicato»[15].

Nel 1906:

«Propendo verso il monismo, o verso il panteismo? L’ignoro. Sono delle parole; io tengo a parlare di cose. La fede vuole il teismo; la ragione tenderebbe al panteismo. Senza dubbio esse considerano due aspetti del vero, e la linea di accordo ci è nascosta»[16]. «Mi sembra evidente che la nozione di Dio non è mai stata altro che una proiezione ideale, uno sdoppiamento della personalità e che la teologia non è mai stata che una mitologia sempre più raffinata. Dio è come un io superiore, che sorveglia un io inferiore. al quale restiamo identificati»[17].

Fine Terza Parte (3/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 27 agosto 2021

È l’idealismo cartesiano che sostituisce l’ideale al reale e scambia l’idea con la realtà, come se l’oggetto del conoscere fossero le nostre idee e non le cose extramentali, secondo quanto opportunamente Papa Francesco ci ha fatto notare nel designare l’errore dell’idealismo.

Laberthonnière cade nell’assurdo quando considera lo stesso Aristotele come idealista, solo perchè Aristotele parla di Dio come Nòesis Noèseos, Pensiero del Pensiero, senza tener conto che quel «pensare» divino non è una semplice idea, ma coincide con lo stesso Essere divino.

Per Dio pensare vuol dire essere ed essere vuol dire pensare. Ma Dio non è un puro pensare senza essere! Come potrebbe infatti un pensante essere pensante se stesso, se non fosse sussistente, e quindi non fosse essere sussistente, come è conveniente che Dio e solo Dio sia?

 

Diamo qualche esempio della sua mentalità modernista, portata ad accusare il Magistero della Chiesa di essere attaccato a una vecchia concezione di Dio non più adatta ai tempi moderni. In queste parole Loisy finge di rivolgersi direttamente alla Chiesa.

Scrive nel 1883: «Sai tu che la necessità di un Dio autore del mondo ed anche distinto, così indipendente come tu lo presenti, non è evidente per me e per molti altri?

Nel 1892: «Sembra impossibile che Dio esista. È impossibile che non esista. Il Dio antropomorfico, proprietario di un mondo che egli governa da gran Signore, arbitrariamente e con cattiveria, non esiste. Ma Dio esiste: è il lato interiore, eterno, immutabile, semplice ed uno, del mondo esteriore, temporale, mutevole e multiplo».

Nel 1903: «L’evoluzione della filosofia moderna tende sempre di più all’idea di un Dio immanente».

Nel 1904: «Non credo più alla divinità di Gesù Cristo e considero l’incarnazione personale di Dio come un mito filosofico».

Nel 1906: «Propendo verso il monismo, o verso il panteismo? L’ignoro.».

Immagini da Internet:
- Lucien Laberthonnière
- Alfred Firmin Loisy


[1] La stessa cosa avviene nell’esperienza trascendentale di Rahner. Cf il mio articolo «Rivelazione originaria» in Rahner, in Sacra Doctrina, 6, 1985, pp.537-559.

[2] Op.cit., pp.198-199.

[3] Garrugou-Lagrange, op.cit., pp. 44-45.

[4] Ibid., p.45.

[5] Ibid.

[6] L’intelligenza e la filosofia di Maurice Blondel in Riflessioni sull’intelligenza e la sua vita propria, Editrice Massimo, Milano 1987p.94. I numeri di pagina tra parentesi si riferiscono al testo de L’Action, famosa opera del Blondel.

[7] Ibid,. p.95.

[8] Il realismo cristiano e l’idealismo greco, Vallecchi Editore, Firenze 1949, p.29.

[9] Cf Bernard Montagnes, Marie-Joseph Lagrange. Un biblista al servizio della Chiesa, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2007.

[10] Cit. da Tesmontant, op.op., p.37.

[11] Ibid., p.50.

[12] Ibid., p. 51.

[13] Ibid., p.53.

[14]Ibid., p. 54.

[15]Ibid., p. 55.

[16] Ibid., p.57.

[17]Ibid., p.58.

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