La logica della doppiezza - Seconda Parte (2/3)

 La logica della doppiezza
 
Seconda Parte (2/3)

Il principio della logica perversa

La ragione è la facoltà di concepire e di parlare. Infatti in greco logos significa sia ragione che concetto e parola. La ragione forma il concetto di una cosa o il giudizio su di una cosa, ed esprime questo concetto o giudizio nel linguaggio, nella parola, cioè dice o afferma qualcosa. L’atto iniziale della ragione che intende esprimere e comunicare ciò che ha concepito o giudicato, è il dire, l’affermazione (fasis, dictio), è una posizione o tesi (positio, adfirmatio, thesis). Ciò che la ragione originariamente afferma è che la cosa è così in base al fatto che essa è effettivamente così. Dice essere quello che è, dice sì al sì. Dice le cose come sono. Riconosce nel giudizio come stanno le cose. In ciò la ragione manifesta la virtù della sincerità e della veridicità. Per conseguenza, nega che le cose non stiano come effettivamente stanno. Dice non essere ciò che non è, dice no al no.

All’affermazione dell’essere segue la negazione del non-essere. Questo principio fu scoperto da Parmenide. Non si deve dire contro ciò che è. È biasimevole non dire le cose come sono. Dire essere quello che è e non-essere quello che è il peccato di menzogna. Questo è il contraddire.

Inoltre non si può affermare e negare simultaneamente di un soggetto il medesimo attributo. È questa la contraddizione (contradictio, antìfasis, antìthesis). Questo è il principio della logica perversa, che è la logica di Hegel, basata non sulla dizione, ma sulla contraddizione, non sull’affermazione, ma sulla negazione.

Non è la logica del terzo escluso, ma la logica del terzo incluso. La prima dice A o è B o non è B. Tertium non datur. Invece Hegel dice: 1. A è B (tesi); 2. A non è B (antitesi), 3. A è B e non è B (sintesi). Quindi per lui non si deve opporre il sì al no, ma li si deve unire: A è B e non è B. È la logica dei due padroni: non solo il sì al sì, ma anche il sì al no. È la logica della doppiezza. È il dire essere ciò che non è e non-essere ciò che è. È la logica della menzogna. È il far apparir vero ciò che è falso e il far appare falso ciò che è vero. È la logica della simulazione e dell’ipocrisia.

La rivelazione cristiana inculca il dovere dell’onestà intellettuale

Il metodo della logica cristiana, che è la logica della sana ragione, è ben espresso e raccomandato dalle parole di San Paolo, quando egli, nel difendere la linearità ed onestà della sua predicazione, si chiede in forma retorica:

 

«forse ciò che decido io lo decido secondo la carne in maniera da dire allo stesso tempo sì e no? Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è sì e no. Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo, non fu sì e no, ma in Lui c’è stato solo il sì» (I Cor 1, 17-19).

E poco dopo l’Apostolo chiarisce:

 

«Quale rapporto ci può essere fra la giustizia e l’iniquità o quale unione fra la luce e le tenebre? Quale intesa fra Cristo e Beliar o quale collaborazione fra un fedele e un infedele? Quale accordo fra il tempio di Dio e gli idoli?» (II Cor 6, 14-16).

San Giacomo, dal canto suo, raccomanda: «il vostro sì sia sì e il vostro no sia no, per non incorrere nella condanna» (Gc 5,12). La logica cristiana è la logica del sì al sì e del no al no. Essa cioè suppone una decisione assoluta per Dio e il rifiuto assoluto di adorare un altro Dio accanto a Lui. Il ragionatore onesto sa che il dire la verità comporta il rifiuto della menzogna, il dire sì a Dio comporta il dire no a Satana. L’onesto obbedisce al comando di Cristo, di non servire a due padroni: il vero e il falso. Di fatto, per la tendenza dell’uomo a peccare, la disobbedienza è possibile, ma è chiaro che è cosa riprovevole, che ripugna alla coscienza.

L’etica biblica mette assieme in modo apparentemente contradditorio uno straordinario spirito di conciliazione fra forze nemiche con l’affermazione di un’opposizione radicale ed assoluta tra l’essere e il non-essere, dalla quale deriva l’opposizione fra il vero e il falso, il bene e il male. L’etica biblica fa obbligo di cercare con ogni mezzo lecito l’accordo e la pace fra due contendenti, mentre per converso proibisce tassativamente qualunque unione o sintesi fra l’essere e il non-essere, il vero e il falso, il sì e il no, il bene e il male.

Fondamentali, al riguardo, sono le parole di Cristo: «sia il vostro parlare sì, sì, no, no: il di più viene dal maligno» (Mt 5,37). Cristo suppone un’assoluta opposizione fra il sì, l’essere e il no, il non-essere, fra l’affermazione e la negazione. È pertanto fatto divieto di dire no al sì e di dire sì al no, di giudicare non-essere ciò che à e essere ciò che non è. Nel parlare è dunque proibito far apparire non-essere ciò che è ed essere ciò che non è. È la proibizione della menzogna.

«Il di più» traduce il greco perissòn, che propriamente significa «ciò-che-va-oltre-la-misura». Ossia qui Cristo ci dà la regola o misura fondamentale della sana logica naturale, confermata dalla logica del Vangelo. Perché Cristo dice che quel di più viene dal diavolo? In che consiste quel di più? Evidentemente nel barcamenarsi fra il sì e il no, quello che si chiama comunemente il «doppio gioco», dire sì al no e no al sì.

Ma che c’entra il diavolo? Cristo si riferisce certamente alla proposta fatta dal serpente ai progenitori. Il serpente, il bugiardo, presenta sé come veritiero accusando Dio, il Veritiero, di essere bugiardo. Il demonio è l’inventore del principio di contraddizione. Esso è legato alla disobbedienza e alla superbia. Il demonio è l’inventore del falso, della negazione del vero. Presenta come vero il falso e come falso il vero.

Un inganno diabolico è quello di farci credere che per Dio sia falso ciò che per la nostra ragione è vero e viceversa che per Dio sia vero ciò che per la nostra ragione è falso. È un pernicioso errore luterano il credere che la logica del Vangelo sia contraria a quella naturale fondata da Aristotele. Da qui l’insensatezza in Lutero del suo odio contro Aristotele, il quale, benché pagano, si accorda perfettamente in questo campo con la fede.

Precisiamo quindi che Cristo non si limita a proibire la menzogna; proibisce anche il discorso assurdo, ossia la proposizione contradditoria, per la quale si afferma e si nega di un medesimo soggetto un medesimo attributo. Il falso è pensabile, è possibile, ma è moralmente vietato. L’assurdo è ciò che è realmente impossibile, e quindi impensabile. Si può esprimere nelle parole, ma sono parole che non hanno senso. Hegel ha molti giudizi di questo tipo, come quando dice, per esempio, che «il finito è l’infinito», «il bene è il male», «il positivo è il negativo».

Il contradditorio e il falso riguardano il pensiero, il giudizio, la logica. L’assurdo o impossibile riguardano la realtà, l’essere.  Essi conseguono alla negazione del principio di identità, per il quale è impossibile che un ente sia e non sia simultaneamente una data cosa sotto il medesimo aspetto. L’assurdo suppone la confusione fra l’essere e il non-essere.

Essi tuttavia, se si escludono a vicenda sul piano della realtà, possono coesistere nel campo del pensiero e della logica, ossia dell’ente di ragione, per il fatto che il nulla è concepito sul modello dell’essere, per cui nell’orizzonte del pensiero il nulla appare come essere accanto all’essere reale pensato. Hegel sostiene l’unità dell’essere col nulla perché confonde l’essere reale con l’ente di ragione e riduce la metafisica alla logica.

La condotta che discende dai princìpi di identità e di non-contraddizione è indicata e raccomandata dalla Scrittura come sincerità, umiltà, rettitudine, giustizia, semplicità, coerenza, perseveranza, saldezza, fedeltà, onestà, autenticità, verità, bontà, perfezione, santità, ispirata, patrocinata e promossa dallo Spirito Santo. Quella contraria è la falsità, l’inganno, la menzogna, la superbia, la torbidezza, l’infedeltà, la disobbedienza, l’incredulità, la tortuosità, la frode, la simulazione, la doppiezza, suggerita, orchestrata e patrocinata dal demonio, «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44).

La logica di Hegel fondata sulla contraddizione

Hegel è convinto di aver trovato una «nuova filosofia», che richiede una nuova logica. La nuova filosofia parte dal ripudio del realismo, che ammette l’esistenza di cose fuori di noi, esistenti indipendentemente dal nostro pensarle, e il nostro pensiero come inizialmente soltanto in potenza, privo di contenuti, pensiero che riceve il suo contenuto dal contatto della cosa ad esso preesistente e presupposta, sicchè la verità e certezza del sapere è data dal conformarsi del nostro pensiero alla realtà delle cose esterne.

Di fatto Hegel, per sostenere e illustrare le sue idee. sa essere del tutto univoco e rispettoso del principio di non contraddizione e ha molta cura nel confutare i suoi avversari facendo capo a quel principio. Nel contempo non si cura della incontradditorietà dei suoi princìpi, avanzando il pretesto della contradditorietà del reale.

Infatti dichiara Hegel:

 

«l’elevamento della ragione nel più alto spirito della nuova filosofia» è motivato dal fatto che «è stato scorto il necessario contrasto delle determinazioni dell’intelletto con se stesso». Per questo, la questione della verità e del sapere e quindi la nuova logica non suppone una conformità dell’intelletto a una realtà esterna all’intelletto, già data ed esistente prima e indipendentemente dall’intelletto, ma sta nel «sorpassare il concreto immediato e nel determinarlo e dividerlo. Ma la riflessione deve anche sorpassare queste sue determinazioni divisive e metterle anzitutto in relazione fra loro. Ora, in questo punto di metterle in relazione vien fuori il loro contrasto.

 

Cotesto riferire della riflessione appartiene in sé alla ragione; il sollevarsi sopra quelle determinazioni che va fino alla visione del loro contrasto, è il gran passo negativo verso il vero concetto della ragione. Ma quella visione cade, in quanto non sia condotta a termine, nell’errore per cui si crede esser la ragione quella che viene a contraddire se stessa. Essa non si accorge che la contraddizione è appunto il sollevarsi della ragione sopra le limitazioni dell’intelletto e il risolvere queste.

 

Invece di muover di qui l’ultimo passo un alto, la conoscenza delle insoddisfacenti determinazioni intellettuali è fuggita indietro all’esistenza sensibile, persuasa di possedere in questa la stabilità e la concordia. In quanto poi, dall’altro lato, questa conoscenza si conosce solo come conoscenza dell’apparente, vien bensì concesso che essa soddisfi, ma in pari tempo si suppone che, pur non potendosi conoscere le cose in sé, si raggiunga però una conoscenza esatta dentro la sfera dell’apparenza, quasi che qui fosse soltanto diversa la specie degli oggetti e l’una specie, cioè le cose in sé, non cadesse nella conoscenza, ma vi cadesse però l’altra, cioè le apparenze o fenomeni. … Quanto sarebbe questo un proposto insulso, altrettanto è insulsa una conoscenza vera, che non conosca l’oggetto, qual è in sé»[1].

Hegel ammette che possiamo conoscere le cose in sé, ma solo per il fatto che la cosa per lui coincide col concetto della cosa ottenuto non per conformità del pensiero alla cosa esterna, ma mediante la sintesi razionale ossia dialettica dei concetti contradditori dell’intelletto. Hegel vorrebbe bensì superare il fenomenismo kantiano, ma ricade in un fenomenismo peggiore, che non è più quello dell’apparire sensibile ma dell’essere inteso come apparire interiore alla coscienza.

La logica di Hegel non è pertanto la logica di ciò-che-è, ma la logica di ciò-che-appare-a-me. Infatti Hegel definisce la ragione non in rapporto alla natura umana, ma in riferimento all’io, alla maniera cartesiana.  Ciò è connesso con la sua gnoseologia idealista, per la quale la cosa coincide col concetto della cosa; il reale non trascende il razionale, ma coincide col razionale, ossia col logico. L’essere non trascende il pensiero, ma è immanente al pensiero.

La ragione, per Hegel, sopravanza l’intelletto, che svolge un ruolo solamente preparatorio e subordinato alla ragione, il cui moto non parte dall’intelletto per fermarsi all’intelletto, ma si oppone alla separatezza fissa ed astratta operata dall’intelletto, per tornare su se stessa come autocoscienza arricchita di tutte le determinazioni del divenire strutturato secondo la schema della dialettica di tesi, antitesi e sintesi. Quindi il processo del sapere non è la salita dal sensibile verso il culmine della visione di Dio, ma è la stessa Ragione, che per essenza, secondo Hegel, è divina, la quale nell’uomo e nella storia dissolve le rigidità dell’intelletto e anima il moto circolare della dialettica, che corrisponde al divenire stesso di Dio nell’uomo e nel mondo.

L’intelletto e la ragione all’opera nella logica hegeliana

Il tema di fondo della filosofia hegeliana è lo Spirito, che egli chiama anche Io, Autocoscienza, Soggetto, Idea, Concetto; è l’Assoluto, Dio stesso. Dio però non come ipsum Esse, opposto al non-essere, Dio come Identità assoluta, ma Dio inteso come identico-non-identico, Essere-non-Essere, come autonegazione o, come si esprime Hegel, «negatività assoluta», che per Hegel è il Divenire, ma divenire dello Spirito, quindi Storia. Tuttavia lo Spirito, per Hegel, non esiste senza la materia. Dio non è Dio senza il mondo. L’Universale non è astratto ma concreto.

Non essendoci opposizione fra essere e non essere, non esiste per Hegel opposizione fra vero e falso, fra bene e male, ma tutte queste coppie sono identiche e coincidono nell’Assoluto, in Dio, anzi sono Dio. È questa la dialettica. Il Dio di Hegel non è monolettico, ma dialettico. Nella sua cristologia Cristo va d’accordo con Beliar. Dio non è uno solo, l’ipsum Esse, il Dio del sì, ma è doppio: è il Dio dell’essere-nulla, vero-falso, bene-male, vita-morte, sì-no. Non è il Dio della coerenza, ma della doppiezza.

Per converso, in Hegel la conflittualità è eretta a sistema, perchè l’essere stesso è diviso in se stesso, opposto a se stesso e contro se stesso. Dio è contro se stesso. Il pensare hegeliano non è un pensare di conciliazione, ma un pensare essenzialmente polemico ed anzi contradditorio.

È vero che Hegel parla di conciliazione, ma la sua è la conciliazione dell’inconciliabile, dell’essere col nulla, del vero col falso, del bene col male. Invece, laddove ci potrebbe essere la vera conciliazione, ossia tra i nemici e gli avversari, Hegel si rifiuta di operarla, non solo, ma la considera impossibile e ritiene addirittura necessaria la conflittualità per il progresso della vita e della storia, perché per lui non c’è amore del bene senza amore del male e non c’è vita senza morte.  Così infatti Hegel descrive l’attività dialettica dello Spirito:

 

«L’intelletto determina e tiene ferme le determinazioni. La ragione è negativa e dialettica, perché dissolve in nulla le determinazioni dell’intelletto. Essa è positiva, perché genera l’universale e in esso comprende il particolare. … Ma nella sua verità la ragione è spirito; e lo spirito sta al di sopra di tutti e due, della ragione intellettuale o dell’intelletto razionale. Esso è il negativo, quello che costituisce la qualità tanto della ragione dialettica, quanto dell’intelletto; lo spirito nega il semplice e così pone la determinata differenza dell’intelletto. Ma insieme la dissolve; e così è dialettico.

 

Se non che esso non si ferma al nulla di questo risultato, ma in questo risultato esso è parimenti positivo, ed ha così restaurato quel primo semplice, ma come un universale che è in sé concreto. Sotto un tale universale non vien sussunto un particolare dato, ma in quel determinare e nella sua risoluzione anche il particolare si è già determinato.

 

Questo movimento spirituale, che dà a sé nella sua semplicità la sua determinatezza, ed in questa dà a sé la sua uguaglianza con se stesso, questo movimento, che è perciò lo sviluppo immanente del concetto, è il metodo assoluto del conoscere e insieme l’anima immanente del contenuto stesso. …

 

La coscienza è lo spirito come sapere concreto cioè immerso nell’esteriorità. Ma la progressione di questo oggetto riposa soltanto, come lo sviluppo di ogni vita naturale e spirituale, sulla natura delle pure essenzialità, che costituiscono il contenuto della logica. La coscienza, in quanto è lo spirito manifestantesi, che per la sua propria via si libera dalla sua immediatezza ed esterna concrezione, diventa il puro sapere che si propone per oggetto quelle pure essenzialità stesse, quali esse sono in sé e per sé. Coteste essenzialità sono i pensieri puri, lo spirito che pensa la sua essenza. Il lor proprio muoversi è la loro vita spirituale ed è quello per cui la coscienza si costituisce, e di cui è l’esposizione»[2].

Così Hegel definisce la ragione:

 

«La verità in sé e per sé, che è la ragione, è la semplice identità della soggettività del concetto e della sua oggettività ed universalità. L’universalità della ragione ha perciò il significato dell’oggetto, che nella coscienza come tale è dato soltanto, ma che è ora esso stesso universale e abbraccia e compenetra l’io; ed altresì quello del puro io, della pura forma che sorpassa l’oggetto e lo chiude in sé.

 

L’autocoscienza, ossia la certezza delle sue determinazioni sono tanto oggettive – determinazioni delle essenze delle cose – quanto suoi propri pensieri, è la ragione, la quale, in quanto è siffatta identità, è non solo la sostanza assoluta, ma la verità come sapere. Giacchè la verità ha qui la sua determinazione peculiare, per forma immanente, il concetto puro, che esiste per sé, l’io, la certezza di se stesso come universalità infinita. Questa verità che sa è lo spirito»[3].

Per questo Hegel innalza la dialettica al livello di scienza. Infatti la dialettica, come aveva stabilito Aristotele, è l’arte dell’argomentare probabile, fondata sull’apparenza. Essa comporta il contrasto fra due opinioni opposte, tra le quali non è possibile decidere qual è la vera. La conclusione del confronto dialettico, pertanto, è solo interlocutoria, non dà un risultato univoco e definitivo, ma un risultato che può sempre essere rimesso in discussione, perché non emerge chiaro e con certezza chi dei due dialoganti ha ragione.

Nella dialettica non è che uno ha ragione e l’altro ha torto, in modo tale che colui che ha ragione possa persuadere l’errante di avere torto. Invece le due tesi sono entrambe vere ed entrambe false, in rapporto ai due punti di vista dei dialoganti. La discussione, quindi, non può mai avere termine con la resa dell’errante davanti a colui che l’ha confutato, perché entrambi ritengono che il proprio parere non sia oggettivo, ma sia quello che sembra a ciascuno: l’essere si risolve nel pensiero; l’essere è l’essere pensato; la realtà è quello che penso io della realtà.

La dialettica, quindi, non produce un vero sapere, saldo e definitivo, cioè l’adeguazione comune dei dialoganti al comune dato oggettivo mutabile immutabile che sia, ossia alla realtà così com’è in se stessa fuori di loro e indipendentemente da loro, ma una perpetua e irresolubile forzata congiunzione - la cosiddetta «sintesi» -  del sì col no, senza che sia mai possibile raggiungere un sì e un no sicuri e definitivi, ma sempre – per esprimerci in termini popolari – un continuo, inconcludente ed esasperante botta-e-risposta, dove non si sa mai qual è e dov’è la verità, ma ci si appaga sempre squallidamente o furbescamente od ostinatamente di apparenze soggettive arbitrarie, che si elidono a vicenda. È qualcosa di simile a certi interminabili affettuosi «dialoghi ecumenici» promossi dai modernisti del postconcilio.

Nella dialettica non si giunge a una conclusione unica condivisa da entrambi i dialoganti, ma ognuno resta della propria idea perché a ognuno dei due pare di avere ragione, restando attaccato alla propria opinione, benché non sia capace di dimostrare all’altro che ha ragione.

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato 5 gennaio 2023

L’etica biblica mette assieme in modo apparentemente contradditorio uno straordinario spirito di conciliazione fra forze nemiche con l’affermazione di un’opposizione radicale ed assoluta tra l’essere e il non-essere, dalla quale deriva l’opposizione fra il vero e il falso, il bene e il male.

L’etica biblica fa obbligo di cercare con ogni mezzo lecito l’accordo e la pace fra due contendenti, mentre per converso proibisce tassativamente qualunque unione o sintesi fra l’essere e il non-essere, il vero e il falso, il sì e il no, il bene e il male.

Il contradditorio e il falso riguardano il pensiero, il giudizio, la logica. L’assurdo o impossibile riguardano la realtà, l’essere. Essi conseguono alla negazione del principio di identità, per il quale è impossibile che un ente sia e non sia simultaneamente una data cosa sotto il medesimo aspetto. L’assurdo suppone la confusione fra l’essere e il non-essere.

Essi tuttavia, se si escludono a vicenda sul piano della realtà, possono coesistere nel campo del pensiero e della logica, ossia dell’ente di ragione, per il fatto che il nulla è concepito sul modello dell’essere, per cui nell’orizzonte del pensiero il nulla appare come essere accanto all’essere reale pensato. Hegel sostiene l’unità dell’essere col nulla perché confonde l’essere reale con l’ente di ragione e riduce la metafisica alla logica.


Nella dialettica non si giunge a una conclusione unica condivisa da entrambi i dialoganti, ma ognuno resta della propria idea perché a ognuno dei due pare di avere ragione, restando attaccato alla propria opinione, benché non sia capace di dimostrare all’altro che ha ragione.



Immagini da Internet:

- La pace e la fertilità legano le frecce di guerra, Abraham Janssens
- Gesù tra i dottori (particolare), Giovanni Antonio Burrini
- Due studiosi che discutono, Rembrandt Harmensz van Rijn 



[1] Logica, 27

[2] Logica6-7

[3] Enc 401

5 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    Il testo di san Paolo in 2 Cor 6,15, è talvolta utilizzato dai cattolici contrari al Concilio Vaticano II nei suoi insegnamenti ecumenici.
    "...o quale collaborazione fra un fedele e un infedele?..." (2 Cor 6,15), come se San Paolo si riferisse all'inutilità di un dialogo (parola orribile, se c'è, per un lefebvriani o filolefebvriani!) tra credenti e non credenti, o tra cattolici e protestanti, o tra cristiani e marxisti, per esempio.

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    1. Caro Silvano,
      in questo passo San Paolo non si oppone a un dialogo leale e costruttivo. Infatti egli ne dà l’esempio con la sua infaticabile predicazione nello sforzo di persuadere tutti che Cristo è il Salvatore.
      Qui invece Paolo vuole escludere un certo modo di dialogare, basato sull’equivoco, per il quale l’apostolo, a causa di una malintesa volontà di accordo, tace su quelle verità che potrebbero suscitare una reazione negativa da parte del destinatario della predicazione oppure addirittura falsifica certi contenuti della fede, per accontentare l’interlocutore.
      In sostanza è evidente che tra chi annuncia con sincerità il Vangelo e chi in mala fede lo respinge, non ci può essere accordo. E’ interessante a questo riguardo l’accenno che Paolo fa all’opposizione tra Cristo e Beliar. E’ chiaro che in questo caso non ci può essere accordo, come non ci può essere accordo tra una buona e cattiva volontà.
      Per quanto riguarda invece l’ecumenismo, può capitare che il fratello separato sia mosso da buona volontà, ma purtroppo può capitare anche che questa buona volontà non ci sia. È in questo caso che il dialogo diventa impossibile.

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  2. Caro Massimo,
    il dovere di essere veraci, che troviamo nell’ottavo Comandamento, si può confrontare col V Comandamento che ci dice di non uccidere.
    Infatti, tra i due Comandamenti c’è una relazione: l’uno e l’altro promuovono la vita. Promuovere la vita significa opporsi a ciò che nega la vita. Per questo il Comandamento “Non uccidere” significa “non uccidere l’innocente”. Il che significa, secondo la morale cattolica tradizionale, la liceità della legittima difesa personale, della giusta azione bellica, che comporta l’uccisione del nemico, e la pena di morte.
    Come si giustificano questi principi, che sembrano contraddire al V Comandamento? Occorre qui tener presente che la morale comporta una scala di valori, ognuno dei quali è certamente assoluto e tuttavia esiste una gerarchia, per cui, se un valore minore ostacola un valore superiore, dev’essere accantonato per salvare il valore superiore.
    Facciamo adesso gli esempi. Il permesso di uccidere non va inteso come una eccezione al comando “Non uccidere”, ma come una difesa della vita contro una forza che la vuole sopprimere.
    Similmente è permesso mentire a chi si servirebbe della verità per commettere un peccato. Anche qui si tratta di legittima difesa, ossia di proteggere la persona che verrebbe offesa dal malfattore che, conoscendo quella verità, gli permetterebbe di offendere quella data persona.
    A tal riguardo la Bibbia riporta l’esempio di Raab, la quale mente ai soldati che stanno cercando due emissari d’Israele, che essa aveva nascosto in casa. Questo gesto di Raab è più volte lodato dalla Scrittura, in quanto essa ha impedito che i soldati catturassero i due emissari d’Israele.
    Così possiamo pensare a coloro che hanno mentito per salvare gli Ebrei durante le leggi razziali, mentre l’offerta della propria vita di P. Kolbe non è un suicidio, ma un atto di supremo amore.

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  3. Caro padre Giovanni,
    ho riflettuto e approfondito in questi giorni, dopo che mi hai dato la sua precedente gentile risposta.
    Non sono uno studioso di filosofia o di teologia, ma ho letto alcuni riassunti divulgativi sulla virtù della veracità e sul vizio della menzogna, tutti basati sul pensiero di San Tommaso d'Aquino, che sembra considerare sempre la menzogna come un peccato , almeno veniale.
    Premesso che so che lei è un grande tomista, molto fedele a san Tommaso, e data la risposta che mi ha dato in precedenza, e dato il fatto che lei si riferisce all'esistenza dei "valori", sorge una domanda che forse lei potrebbe risponda per me: il tema della filosofia del "valore" è un tema filosofico moderno o contemporaneo, che non esisteva ai tempi di San Tommaso, che si riferiva solo a una filosofia della "verità" e del "bene", ma non ad una filosofia di "valore"?
    Grazie

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  4. Caro Massimo,
    il termine “valore” è stato introdotto in filosofia morale solo in questi ultimi due secoli ed è stato preso dall’economia e precisamente dal traffico del denaro. Pensi per esempio alla Borsa Valori di Milano.
    Il termine “valore” viene dal latino valeo, che vuol dire aver forza, aver vigore. Da qui l’aggettivo “valido”.
    In questo termine sono insinuate due idee: quella del pregio o del prezzo, per cui una cosa è preziosa; e quella della forza e del vigore, che dà l’idea della salute e della sanità.
    Abbiamo qui anche l’idea di qualcosa di autentico, di vero. A ciò si aggiunge il concetto dell’utilità di ciò che è valido. Da ciò lei capisce molto bene come questa parola si combina facilmente con la tradizionale idea del bene.
    Nell’‘800 è esistita una corrente di filosofia morale, che si chiamava filosofia dei valori, la quale si richiamava alla morale kantiana e intendeva sottolineare l’universalità e l’oggettività dei valori morali.
    In questo modo Papa Benedetto XVI ha parlato di valori non negoziabili.
    Il fatto che in San Tommaso non esista questo termine nella sua filosofia morale, non significa che questo termine abbia dato un apporto alla filosofia morale dell’Aquinate.
    Il termine valore ci aiuta a capire meglio che cos’è il bene morale, il fine della vita umana, l’essenza delle virtù e della legge morale.
    Per quanto riguarda la “verità” per San Tommaso essa è il bene dell’intelletto, ma oggi Tommaso non avrebbe alcuna difficoltà a parlare di valore della verità.

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