O Tommaso o la fine

 O Tommaso o la fine

Bisogna urgentemente che l’Ordine domenicano riassuma in pienezza il suo compito essenziale nella promozione avanzata della teologia, se non vuol tradire il mandato della Chiesa e subordinarsi agli attuali piani mondiali dei nemici di Cristo e dissolversi nella babele ideologica del mondo contemporaneo

Il difficile rinnovamento dell’Ordine

 tentato dal modello rahneriano

Il discorso su San Tommaso del Santo Padre al recente convegno tomistico internazionale all’Angelicum di Roma costituisce un richiamo di estrema importanza fatto a tutta la Chiesa, ma con particolare riferimento all’Ordine Domenicano a riprendere il suo ruolo guida nel campo del progresso della teologia.

È interessante che la pressante esortazione sia venuta da un Papa Gesuita, quasi riconoscimento da parte dei figli di Sant’Ignazio ai figli di San Domenico che spetta a costoro e non ai primi di essere nella Chiesa all’avanguardia nelle ricerche e nelle proposte più avanzate del sapere teologico sia di tipo teoretico che nella sua applicazione  nel campo della formazione sacerdotale.

Conosciamo tutti, infatti, ormai da decenni come la Compagnia di Gesù a partire dall’immediato postconcilio ha lanciato nell’agone teologico ed ha pubblicizzato con tutte le sue forze il suo campione, teologo di indubbie qualità, ma che tutto sommato ha provocato, a causa di una falsa interpretazione delle dottrine del Concilio Vaticano II, un clima di aspre polemiche all’interno della Chiesa, provocando con la sua tendenza modernistica, sotto colore di rinnovamento e riforma, l’acida e sclerotica reazione lefevriana, ha profondamente infirmato o messo in dubbio presso molti cattolici l’autorità del Sommo Pontefice, ha largamente causato presso molti un falso misticismo, la corruzione dei costumi morali, la falsificazione della fede, il raffreddamento della carità e l’annebbiamento della speranza cristiana, ha diffuso un linguaggio teologico basato sull’ambiguità e la doppiezza.

Tutti hanno capito che mi riferisco a Karl Rahner. E se qualcuno non avesse ancora capito, e fosse tra coloro ai quali sta a cuore il bene della Chiesa e la conservazione della fede, lo invito fraternamente ad aprire gli occhi, perché sono sessant’anni che il rahnerismo campeggia sulla scena e produce i suoi effetti, effetti, che, per la verità, non sono proprio l’optimum di quanto avremmo desiderio e diritto di aspettarci dalla riforma conciliare, per non dire che ne sono la falsificazione.

 Purtroppo con l’avvento del Concilio riemerse con virulenza e potenza di seduzione una cattiva tendenza che a tratti e in vari gradi è sempre stata presente nella Compagnia di Gesù, un grave fraintendimento del principio ignaziano del santo gareggiare ispirato alle parole di San Paolo (I Cor 9,24), quella certa tendenza a voler essere i primi della classe in tutto, dimenticando che questo non è vero zelo di perfezione, ma presunzione stolta che conduce a rovinare se stessi e gli altri.

Per quanto riguarda i Domenicani, essi provarono un forte disagio davanti al programma di Papa Giovanni di dar maggior spazio alla misericordia attenuando la severità. Essi sentirono riferito a loro il programma giovanneo, a loro che per secoli avevano presieduto al severo Istituto dell’Inquisizione.

Si avvertì una fortissima ripugnanza e vergogna per questa passata terribile severità e purtroppo in questa reazione, una corrente dell’Ordine, quella seguace di Edward Schillebeeckx, cadde nell’eccesso opposto, una mollezza intellettuale che sconfinava nella doppiezza e nel relativismo. Si passò dal dogmatismo allo scetticismo. Il credere di possedere la verità cominciò ad apparire una presunzione. L’affermazione netta della verità sembrava un’imposizione, una violenza alla coscienza altrui.

Sembrava smarrito il concetto della verità, perduta la fiducia nella verità. Quella verità, per la quale i martiri dell’Ordine avevano dato il loro sangue, sembrava svanire nella nebbia. Cartesio al posto di San Tommaso. I contradditori stanno assieme. Nacque un concetto relativista della verità, per il quale, essendo vero per me ciò che è falso per te, non posso dirti: tu sbagli perchè ciò supporrebbe l’imporre a te quel criterio di verità che è il mio. Possiamo parlare, con l’esimio Card. Pietro Parente, ex-Segretario della CDF, «crisi della verità», secondo il titolo di un suo libro dove denuncia il neomodernismo di Schillebeeckx e Rahner[1].

Questa maniera di pensare ovviamente provocò nell’Ordine una crisi di identità, un dissesto intellettuale disastroso con conseguente forte diminuzione dell’energia intellettuale e delle convinzioni morali. E per conseguenza, numerose defezioni dall’Ordine, chiusura di conventi, assenza di nuovi conventi e calo delle vocazioni.

Il Card. Parente chiamò «crisi della verità» questo triste fenomeno, che poteva aver l’apparenza di applicare il principio della misericordia. Un teologo che pur non essendo domenicano, era un eminente discepolo della sapienza tomistica, il Maritain, già prima del Concilio per decine d’anni dette prova di aver trovato l’equilibrio intellettuale auspicato dal Concilio, per il quale la certezza della verità dogmatica si sposava perfettamente con un’apertura misericordiosa nei confronti della modernità.

Ancor oggi noi Domenicani possiamo trovare in Maritain i criteri e l’esempio di quel rinnovamento intellettuale che il Concilio ci chiese, improntato a quella carità che sa congiungere sapientemente e fruttuosamente, secondo le circostanze, il momento della misericordia con quello della severità. Così ritroveremo in pienezza la peculiarità del nostro carisma.

Nella Chiesa infatti ogni Istituto ha il suo particolare e peculiare carisma, legato a quello del Santo o Santa fondatori, per il quale quell’Istituto eccelle sugli altri a servizio della Chiesa, carisma che deve custodire gelosamente proprio per assolvere la missione specifica che la Chiesa gli ha affidato, carisma, mancando di fedeltà al quale verrebbe meno la ragion d’essere del medesimo Istituto, il quale con ciò stesso perderebbe il diritto a fregiarsi del riconoscimento della Chiesa e a svolgere quella missione, che la Chiesa gli ha affidato approvandone e garantendone l’autenticità e la validità.

Purtroppo invece dobbiamo notare dolorosamente come la Compagnia di Gesù, lanciando il suo campione, molto fumo e poco arrosto, ad essere buoni nel giudizio, non ha avuto la migliore delle sue idee, ed ha procurato danni piuttosto che vantaggi. Così è successo che nel dopoconcilio i Gesuiti hanno combinato tanti guai contravvenendo scandalosamente e ripetutamente al loro voto di obbedienza al Papa, che Papa Luciani era deciso ad abolire la Compagnia, se la sua improvvisa misteriosa morte non glie l’avesse impedito.

San Giovanni Paolo II all’inizio del suo pontificato aveva la stessa idea, se non fosse stato distolto dal suo abile Segretario di Stato Casaroli, col quale del resto riuscì nella formidabile impresa di far sciogliere pacificamente, per intercessione della Madonna di Fatima, l’Unione Sovietica facendo tornare il cristianesimo e la democrazia in Russia.

Purtroppo col postconcilio è ricomparsa quella nefasta competizione fra Gesuiti e Domenicani, che si sperava finita per sempre, competizione scandalosa, anche se non priva di lati entusiasmanti. Mi riferisco alla famosa controversia De auxiliis, della fine del ‘500-inizi del ‘600 a seguito dell’opera del gesuita spagnolo Luis Molina sulla concordia del libero arbitrio con la grazia, dove appariva l’opposizione della concezione ignaziana del libero arbitrio come alleato della grazia, con chiara percezione della causalità umana, mentre i Domenicani, con maggior percezione della causalità divina, vedevano il libero arbitrio come mosso dalla grazia.

I Domenicani sembravano svalutare la forza del libero arbitrio, ed erano accusati dai Gesuiti di avvicinarsi a Lutero. I Domenicani, per converso, accusavano i Gesuiti di pelagianesimo, perchè sembravano dare troppa importanza al libero arbitrio. Ma anche i riferimenti di fondo erano diversi: i Gesuiti facevano capo alla metafora biblica dell’Alleanza, il patto fra Dio e l’uomo. I Domenicani prestavano più attenzione alla metafisica: il nesso tra causalità umana e causalità divina secondo la nozione metafisica analogica di causalità.

Il Papa, che assistette con infinita pazienza a 167 incontri, il cui clima era diventato surriscaldato, a un certo punto impose silenzio ad ambo le parti proibendo di accusarsi vicendevolmente di eresia ed avocando a sé la sentenza definitiva, cosa che i Pontefici non hanno più fatto; e tuttavia hanno raccomandato di seguire in teologia S.Tommaso; il che lascia intendere la loro preferenza per la soluzione tomista rispetto a quella molinista dei Gesuiti.

I documenti del Concilio combaciano esattamente col pensiero di S.Tommaso, anche se ad uno sguardo superficiale ed inesperto, che non conosca profondamente gli uni e l’altro, ciò non sembrerebbe. Ma si tratta sostanzialmente di diversità di linguaggio: Tommaso, dottore scolastico, ha ovviamente un linguaggio scolastico. Il Concilio, invece, benchè contenente parti dottrinali, ha voluto avere un linguaggio pastorale.

Ma è chiaro che tra i periti del Concilio, addetti alla preparazione dei documenti, hanno lavorato fianco a fianco Domenicani e Gesuiti, nel nascondimento, nel silenzio e nell’obbedienza al Magistero della Chiesa, a servizio dei Padri del Concilio, senza i protagonismi, gli esibizionismi e i suoni di tromba dei rahneriani.

Nella Chiesa, come nella società, non si deve rubare il mestiere agli altri. Ognuno deve accontentarsi del ruolo che gli è affidato, perché per quello è preparato e non per altri. In teologia il Lumen Ecclesiae, il Doctor communis Ecclesiae è il Domenicano, non il Gesuita. Il Gesuita è già sufficientemente definito dal titolo bellissimo del suo Istituto: Compagnia di Gesù.

È la «buona battaglia», della quale parla San Paolo. Questa è la sua competenza, qui il Gesuita è maestro, modello e campione. Deve accontentarsi di questo, vantarsi di questo, primeggiare in questo. È per questo che la Chiesa l’ha approvato, non per altro. Deve lasciare al Domenicano la guida della teologia. Qui deve imparare da San Tommaso, come lo stesso Sant’Ignazio ha saggiamente voluto.

Il Gesuita eccelle nella pastorale. Ma la pastorale è applicazione della teologia ed è stimolo alla teologia. Ecco dunque la distinzione dei ruoli nella reciproca complementarità: il Gesuita mette in pratica quello che insegna il Domenicano; questi impara la pastorale dal Gesuita.

Il rapporto fra Domenicani e Gesuiti

Il problema fondamentale della Chiesa di oggi, causa del suo disagio e della fatica che fa a purificarsi e a progredire, ad espandersi e a conquistare le anime a Cristo, a rendersi credibile agli occhi del mondo, a realizzare sul serio la riforma conciliare, a conservare la Tradizione e a comprendere le novità dello Spirito, è quello dell’accordo fra Domenicani e Gesuiti, nel rispetto del loro specifico carisma e nella collaborazione in reciproco aiuto per il bene della Chiesa e la salvezza del mondo.

Il grave disordine nei rapporti fra questi due Istituti della Chiesa è dato dal fatto che i Gesuiti tendono a voler sostituire i Domenicani nella guida teologica della Chiesa con la sostituzione di Rahner a San Tommaso. Il Santo Padre, da vero e fedele Gesuita, con la sua autorità di Successore di Pietro, ci indica la strada per mettere le cose a posto: non Rahner ma San Tommaso è il Doctor communis Ecclesiae. Da ciò discendono molte conseguenze pratiche per Domenicani e Gesuiti.

Innanzitutto, bisogna che noi Domenicani riprendiamo il nostro ruolo guida teologico attuando il discepolato tomista in piena fedeltà al dettato delle nostre Costituzioni e secondo la piena attuazione del mandato che ci viene oggi dal discorso del Santo Padre. Nelle parole del Papa è l’intera Compagnia di Gesù che nel nome di Sant’Ignazio  si dichiara pentita del suo rahnerismo e riconferma la sua volontà di seguire San Tommaso secondo la volontà del Fondatore e quella dei Romani Pontefici.

In secondo luogo, noi Domenicani e i nostri fratelli Gesuiti dobbiamo tenere ben presente che nel pieno rispetto del nostro diverso carisma si gioca la nostra ragion d’essere nella Chiesa e quindi la nostra stessa esistenza di Domenicani e Gesuiti in quanto tali. E diversamente non potrebbe essere, perché la Chiesa ci approva nella misura nella quale siamo fedeli al nostro carisma.

In terzo luogo, al fine di realizzare veramente ed utilmente il nostro carisma, bisogna che noi Domenicani purifichiamo la nostra teologia da certe false forme di tomismo, che, sotto pretesto di una più profonda comprensione del pensiero dell’Aquinate o di integrarlo con gli apporti del pensiero moderno o di rendere la sua dottrina più comprensibile ed utile per gli uomini d’oggi, o per aggiornarne il linguaggio,  inquinano e falsificano il pensiero di Tommaso con errori desunti da certi filosofi moderni come per esempio Kant, Hegel, Gentile, Husserl, Gadamer, Habermas, Heidegger  o Severino.

In quarto luogo, in particolare bisogna che il nostro Ordine si liberi dagli errori di Schillebeeckx, soprattutto dalla sua negazione della divinità di Cristo e dal suo soggettivismo gnoseologico. Deve liberarsi anche dal secolarismo di Gustavo Gutierrez comprendendo che il Vangelo nega sì l’esistenza di due mondi nel senso che il mondo creato da Dio è solo questo dove siamo, da salvare dal peccato e da far risorgere all’ultimo giorno.

Ma il Vangelo ci dice anche che esiste un altro mondo, al di là di questo e oltre a questo, nel senso che lo scopo del cristianesimo non è semplicemente uno scopo terreno economico, sociale e politico, salvare questo mondo, ma è l’elevare in Cristo e nella Chiesa la nostra mente e la nostra vita nella vita di grazia, così da esser da essa illuminati e guidati, fuggendo il mondo del peccato, ad ascendere al mondo di Dio, il paradiso, dove vedremo Dio «faccia a faccia», «così com’È».

In quinto luogo, bisogna che i Gesuiti si liberino da una certa tendenza a voler strafare. Ottimi sono il loro dinamismo, la loro capacità di movimento, il fervore missionario, operativo e pastorale, ottimo è il desiderio di progredire e di fare sempre meglio, ottimo è il desiderio di conquistare anime a Cristo, ottimo è il desiderio di essere a totale disposizione di Cristo, per la mediazione del Papa, in vista della salvezza del mondo. Tuttavia devono stare attenti, nella consapevolezza delle loro molteplici doti e capacità, a non pretendere di primeggiare in tutto, a non voler essere i primi della classe. perchè questa è la rovina dell’Ordine.

Devono stare attenti al volontarismo, al sincretismo e alla doppiezza. E in ciò devono imparare dai Domenicani, dal loro intellettualismo, dalla loro sapienza e dal loro leale pensare e parlare. I Gesuiti devono ricordare che la volontà non è regola a se stessa.

Una volontà non illuminata dalla verità e dalla certezza intellettuale, ma solo mossa dall’emozione, oscilla fra il servilismo e la disobbedienza, mancando di della finalità intellettuale presupposta. Lo dimostra il fenomeno del rahnerismo, per il quale purtroppo molti Gesuiti seguono supinamente e fanaticamente un teologo ribelle al Magistero della Chiesa.

La certezza intellettuale, infatti, salvo che non si tratti di verità di fede, non dipende da una decisione della volontà, ma da una necessità dell’intelletto. Si capisce allora come Cartesio venga fuori da una scuola di Gesuiti. Infatti la certezza del sum cartesiano non dipende da un’evidenza intellettualmente necessitante, come il principio di identità in Aristotele e San Tommaso, ma dalla decisione della volontà di scegliere il cogito come ragione del sum; ma Cartesio avrebbe potuto scegliere benissimo un altro atto di coscienza, come per esempio vivo, sentio, amo, gaudeo, ecc.

Altro rischio che proviene dalla presunzione di saper tutto, è il sincretismo, per il quale, invece di badare alla qualità del sapere, si bada alla quantità, con la conseguenza di metter su una gran quantità di idee non criticate e vagliate, contradditorie e disordinate. Qualità degli studiosi Gesuiti è quella di saper raccogliere grandi quantità di dati positivi, per sintetizzare, ordinare e vagliare i quali occorre però il discernimento speculativo domenicano.

Questa tendenza al sincretismo è già notoriamente presente in Suarez, che mette assieme, non si capisce come, Tommaso, Bonaventura, Scoto ed Ockham, suscitando le giuste critiche dei Domenicani. Per voler accontentare tutti, si finisce per non accontentare nessuno, dar spazio ai furbi, amareggiare gli onesti e si cade nell’opportunismo, nella doppiezza e nell’ambiguità, odiosi vizi aspramente combattuti da Cristo nei farisei.

In sesto luogo, occorre curare la reciprocità, ognuno al proprio posto, senza invadere il campo dell’altro. Il Gesuita non è sufficientemente attrezzato per affrontare la metafisica, la teologia naturale, la teologia sistematica, dogmatica, speculativa, l’angelologia, l’etica naturale, l’antropologia filosofica, il rapporto fra scienza, filosofia, fede, morale e teologia. Deve imparare da S.Tommaso. Per converso il Domenicano ha da imparare dal Gesuita nel campo della teologia biblica e delle scienze bibliche, della patrologia, della storia della Chiesa, della storia delle religioni, della liturgia, dell’agiografia, delle scienze umane, giuridiche e sociali, del rapporto tra fede e politica, della psicologia sperimentale, della direzione spirituale.

Nel campo della pastorale, i Domenicani sono maestri nella predicazione, i Gesuiti sono maestri nel campo degli esercizi spirituali, dell’educazione e formazione religiosa e spirituale e nella conduzione pastorale della comunità.  Nel campo della mistica ci sono due approcci reciprocamente complementari: c’è l’approccio fenomenologico, proprio dei Gesuiti e c’è l’approccio teologico, proprio dei Domenicani[2].

In settimo luogo, Gesuiti e Domenicani devono integrarsi ed aiutarsi a vicenda nel campo del linguaggio. Cristo è molto chiaro: «dire sì ciò che è sì e dire no ciò che è no. Il di più appartiene al diavolo» (Mt 5,37). I Domenicani fanno più attenzione al comando di Cristo: «semplici come le colombe» e quindi all’onestà, sincerità, limpidezza, franchezza, parresia e lealtà nel pensare e nel parlare; rischiando l’ingenuità, la credulità, il semplicismo e il buonismo; i Gesuiti invece sono più attenti al «prudenti come serpenti».

Da qui quel discernimento che richiede nella condotta duttilità, elasticità, comprensione, adattabilità, senso delle situazioni e delle circostanze, simulazione o dissimulazione per legittima difesa, segretezza e sotterfugi a fin di bene, col rischio però della menzogna, dell’ipocrisia, della doppiezza, della slealtà, dell’infedeltà, del maneggio, dell’ambiguità.

Bisogna sostituire il misericordismo con la misericordia

e distinguere la severità dalla crudeltà

Oggi talmente esagerata è stata la reazione postconciliare all’uso della severità nel passato, che siamo caduti nell’eccesso opposto di lasciar correre e scusare tutto sotto pretesto che Dio è buono e nella falsa idea che tutti si salvano, per cui io non ho alcun dubbio che mi salverò facendo quel che mi pare (tanto esiste una verità oggettiva?), mentre Hitler è certamente in paradiso accanto S.Francesco a godere in eterno della visione beatifica.

Così si spiega il successo di Rahner, il quale, per condurre il misericordismo alle estreme conseguenze, non si è accontentato del pur già eretico misericordismo di Lutero del sola fides e del sola gratia, ma, respingendo ciò che in Lutero restava della verità cattolica, ossia la credenza nell’esistenza di dannati (tra i quali Lutero poneva anche il Papa), si è allontanato dal cattolicesimo ancor più di Lutero, accogliendo la tesi di Schleiermacher, secondo il quale tutti si salvano e l’inferno non esiste; al contrario di Hegel, che qui resta luterano, pur applicando la sua dialettica, per cui per lui l’inferno diventa una necessità logica dell’agire divino, in quanto negativo, necessario all’affermazione del positivo.

Infatti nel sec. XIX nel mondo protestante c’era stato un grosso dibattito sulla questione del demonio e dell’inferno, dal quale dibattito era sorta la posizione  di Schleiermacher, iniziatore del cosiddetto «protestantesimo liberale». Egli, influenzato dall’illuminismo, si era convinto che una migliore comprensione della misericordia divina richiedesse di abbandonare la credenza luterana nell’esistenza di dannati e del demonio, credenza ritenuta poco evangelica e ancora legata alla severità del Dio veterotestamentario. Così Schleiermacher riesumò il misericordismo origeniano, inteso peraltro non in senso escatologico, ma come risurrezione immediata per tutti in paradiso. Il diavolo fu visto non più come una persona reale, ma come semplice figura mitologica, simbolo del male.

Al contrario di Schleiermacher, giudicato con disprezzo da Hegel un sentimentale privo di spirito speculativo, per Hegel Dio, che coincide col divenire e con la storia, dove il bene si oppone al male e la vita alla morte in modo dialettico e quindi logico, è necessariamente autore anche del male.

Derivazione dal pensiero panteistico di Hegel, ma mitigato in senso parmenideo, è oggi il pensiero di Severino, per il quale, come per Hegel tutto è coincidenza di pensiero ed essere, non però come tempo e divenire, ma come puro essere eterno, per cui per Severino tutto non è divenire, ma tutto è eterno ed essendo l’Assoluto, tutto è bene così com’è. Il bene è la sintesi del bene e del male. La gloria è la sintesi della gioia e della sofferenza. La vita è la sintesi della vita e della morte. Il vero è la sintesi del vero e del falso. L’essere è la sintesi dell’essere e del non-essere. L’affermazione è la sintesi dell’affermazione e della negazione.

Davanti a questa mentalità, che oggi seduce molti nella Chiesa, nello stesso Ordine Domenicano e nella Compagnia di Gesù, una mentalità, che sotto colore della misericordia, della tenerezza, dell’accoglienza, dell’accompagnamento, dell’inclusività, della coscienza, della carità, della diversità, della libertà e del perdono, si rischia in molti di perdere la distinzione fra il vero e il falso, fra il bene e il male, il lecito e l’illecito, il male di colpa e il male di pena, il tollerabile l’intollerabile.

Si rischia di negare il dovere in nome del piacere, l’universale e l’oggettivo in nome del concreto e del soggettivo. È pertanto urgente che Domenicani e Gesuiti si stringano fra loro, nella reciproca complementarità dei loro carismi, in un patto solido e fraterno di azione energica per il bene della Chiesa lacerata fra il lassismo e il rigorismo, fra il lefevrismo e il modernismo.

I Gesuiti hanno rischiato di essere aboliti da Papa Luciani, il quale in precedenza aveva espresso a privati questa intenzione, se fosse stato fatto Papa, ma è stato fermato dalla morte. A fatica San Giovanni Paolo II lasciato in vita la Compagnia di Gesù, concedendole ancora una chance, che sottintendeva evidentemente la fine del rahnerismo.  Tuttavia i rahneriani sembrano non darsi per vinti.

Ma Papa Francesco ha parlato chiaro col suo storico discorso all’Angelicum. E questa voce viene proprio da un Gesuita, vero figlio di Sant’Ignazio, un Gesuita che però è il Papa e che la mafia di San Gallo, capeggiata dal Card. Martini, sperava che sarebbe stato un Papa rahneriano. Sempre il demonio s’illude di trionfare e sempre di nuovo resta scornato. Vince solo – diceva Santa Caterina da Siena – in coloro che vogliono lasciarsi vincere.

I Domenicani a tutt’oggi non corrono questo rischio, e tuttavia devono ricordare che la loro ragion d’essere ufficialmente nella Chiesa sussiste nella misura nella quale adempiranno all’ufficio di pugiles fidei et vera mundi lumina, come si esprime Papa Onorio III nella Seconda Conferma dell’Ordine dell’11 gennaio 1216[3]. Venendo meno a questo mandato o deviando da questo indirizzo, potrebbero continuare a vantarsi di possedere l’approvazione della Chiesa?  

Adesso tocca dunque ai Domenicani. Ecco il loro kairòs, ecco il momento favorevole della loro salvezza (II Cor 6,2). O adesso o mai più. Le Edizioni Studio Domenicano di Bologna (ESD) hanno pubblicato nel 2004 un’interessante raccolta dei discorsi degli ultimi Maestri dell’Ordine[4] a partire dal Padre Fernandez, Maestro dell’Ordine dal 1962 al 1974. Si tratta di indicazioni e direttive ovviamente utili per noi frati dell’Ordine. Esse stimolano ad un impegno fervoroso nella realizzazione dell’ideale domenicano nella situazione del mondo d’oggi, in ottemperanza alle ordinazioni del Concilio Vaticano II.

Ma in questi discorsi purtroppo non troviamo la messa in luce dei bisogni della Chiesa e dell’Ordine con quella precisione con la quale li ho messi in luce io in questo articolo. In particolare non si fa mai cenno alla presenza nell’Ordine della corrente di Schillebeeckx, che ha dato tanta preoccupazione a San Giovanni Paolo II, e in collegamento con ciò, non si evidenzia mai la grave questione dell’interpretazione autentica dei documenti del Concilio, e della necessità, più volte ricordata dai Papi, di interpretarli secondo la linea proposta dal Magistero pontificio e non in quella modernistica dei seguaci di Schillebeeckx e di Rahner.

Anche nelle poche occasioni nelle quali parlano di San Tommaso, non lo fanno con la forza sufficiente, richiesta dall’attuale congiuntura ecclesiale, dallo stesso Magistero pontificio e delle Costituzioni domenicane. Evitano di portare l’illustre esempio di Maritain, che invece è molto illuminante ed incoraggiante, lodato da San Paolo VI e San Giovanni Paolo II, esimio modello di tomista, che da decenni vado raccomandando e del quale ho tessuto l’elogio in un mio libro dedicato alla storia dei teologi domenicani[5].

Bisognerebbe che i nostri Superori parlassero con maggiore chiarezza. È giunto il momento della grande chance per l’Ordine Domenicano. La situazione della Chiesa è oggi molto più grave di quella del sec. XIII, cioè del tempo di San Domenico, col problema degli eretici catari. Ma nel contempo siamo in possesso oggi di una luce assai maggiore: quella che ci viene dal Magistero pontificio di oggi e dalla forza spirituale che la Chiesa con i suoi Santi, ha acquistato nel corso dei secoli che ci separano da quel periodo.

Dal canto suo, il Papa, col suo discorso su San Tommaso, vuole mettere noi Domenicani alla prova: o ci decidiamo a seguire l’Aquinate così come ci prescrive il Papa difendendolo dai suoi nemici o sarà la fine nostra, ma non della Chiesa, la quale si farà aiutare da tomisti trovati altrove.   

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 13 marzo 2023

 

Un teologo che, pur non essendo domenicano, era un eminente discepolo della sapienza tomistica, il Maritain, già prima del Concilio per decine d’anni dette prova di aver trovato l’equilibrio intellettuale auspicato dal Concilio, per il quale la certezza della verità dogmatica si sposava perfettamente con un’apertura misericordiosa nei confronti della modernità.

Ancor oggi noi Domenicani possiamo trovare in Maritain i criteri e l’esempio di quel rinnovamento intellettuale che il Concilio ci chiese, improntato a quella carità che sa congiungere sapientemente e fruttuosamente, secondo le circostanze, il momento della misericordia con quello della severità. Così ritroveremo in pienezza la peculiarità del nostro carisma.



 

Il Santo Padre, da vero e fedele Gesuita, con la sua autorità di Successore di Pietro, ci indica la strada per mettere le cose a posto: non Rahner, ma San Tommaso è il Doctor communis Ecclesiae.

È pertanto urgente che Domenicani e Gesuiti si stringano fra loro, nella reciproca complementarità dei loro carismi, in un patto solido e fraterno di azione energica per il bene della Chiesa lacerata fra il lassismo e il rigorismo, fra il lefevrismo e il modernismo.

Immagini da Internet


[1] La crisi della verità e il Concilio Vaticano II, Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo 1983.

[2] Opere classiche, esemplari sotto questo punto di vista, sono per esempio, per i Domenicani:  Les trois âges de la vie intérieure di Garrigou-Lagrange, La structure del’âme et l’expérience mystique di Ambroise Gardeil, il Trattato dei doni dello Spirito Santo di Giovanni di San Tommaso, la Teologia mistica di S.Tommaso di Tommaso di Vallgornera, la Teologia mystica mentis et cordis del Contenson, La contemplation mystique selon Saint Thomas del Joret; il Traité de la vie intérieure del Meynard; per i Gesuiti: Il De ascensione mentis et cordis di S.Roberto Bellarmino; la Pratica della teologia mistica di Michel Godinez, La Dottrina spirituale del Lallemant; I fondamenti della vita spirituale del Surin, il Direttorio mistico dello Scaramelli; il Manuale delle anime interiori del Grou; la Pratica dell’orazione mentale del de Maumigny; Les grâces d’oraison del Poulain; Dieu en nous di Raoul Plus, L’evoluzione mistica di Juan Arintero; la Teologia spirituale ascetica e mistica del de Guibert; gli Studi sulla psicologia dei mistici del Maréchal; Psicopatologia e direzione spirituale del de Sinéty.

[3] Pubblicato da Albertus Grech,O.P., De confirmaione Ordinis Praedicatorum. Historia synoptica, Melitae, Typis «Empire Press» 1916.

[4] Il titolo della raccolta è: Parole di grazia e di verità. Lettere dei Maestri Generali ai Frati e alle Suore dell’Ordine Domenicano.

[5] Teologi in bianco e nero. Il contributo della scuola domenicana alla storia della teologia, Edizioni PIEMME, 2000.

3 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    in più punti di questo articolo, lei ha confermato la sua stima per l'opera e l'eredità spirituale di Jacques Maritain.
    Desidero chiederle, cortesemente, un commento su questo recente articolo di Stefano Fontana, Consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che invece è assai critico sul filosofo francese:
    https://lanuovabq.it/it/maritain-pensiero-contraddittorio-e-superato
    La ringrazio anticipatamente

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    1. Caro Bruno,
      l’articolo di Fontana è una raccolta impressionante di equivoci e di fraintendimenti, che hanno origine dall’opposizione che il Maritain ha sempre ricevuto dalle correnti passatiste.
      Io conosco Maritain dal 1959 e da allora ho proseguito a studiare il suo pensiero, naturalmente in un modo critico, per cui col passare degli anni effettivamente ho notato alcuni difetti ed alcune oscillazioni nel suo pensiero, il quale negli anni ’20 si mostrò troppo conservatore e troppo contrario al modernismo, mentre a partire degli anni ’30 e fino alla fine della sua vita, nel tentativo di ricuperare i lati positivi della modernità, da una parte elaborò una teologia e una pastorale che sarebbe stata di stimolo alle dottrine del Concilio, ma dall’altra purtroppo cedette in qualche misura al soggettivismo moderno.
      Tuttavia questi difetti non devono essere ingranditi, perché il pensiero del Maritain è stato portato a modello sia da San Paolo VI che da San Giovanni Paolo II, per il fatto che Maritain, più di ogni altro tomista del ‘900, è riuscito a elaborare una nuova teologia e una nuova prassi cristiana ricavate da un vaglio critico tomistico nei confronti del pensiero contemporaneo.
      Quindi, se vogliamo cercare nella situazione odierna un maestro di sapienza, che ci aiuti a portare avanti la riforma conciliare, dobbiamo guardare proprio a Maritain, senza con ciò naturalmente escludere la presenza anche di altri maestri.
      Riconosco che oggi come oggi Maritain è seguito da pochi. Ma questo da che cosa dipende? Che è molto difficile realizzare quella sintesi tra progressismo e tradizione che rientra nel progetto del Concilio Vaticano II, sintesi che Maritain ha realizzato in maniera esemplare.
      Viceversa, la cosa molto triste e dolorosa della Chiesa di oggi è la ben nota sessantennale polemica fra passatisti e modernisti, che nell’opposizione delle loro idee hanno lo stesso atteggiamento fazioso, che reca grande danno e disagio alla Chiesa.
      Certo, il loro numero è grande, ma che apporto dà alla diffusione della verità e alla pace nella Chiesa e nella società? A parte alcuni valori, che essi accolgono, nell’insieme la lotta fra questi due partiti produce scandalo, divisioni, rancori, confusione, eresie, ribellioni al Papa e crisi di fede.
      Per risolvere questa drammatica situazione ed aiutare Papa Francesco nel creare la concordia fra queste due fazioni, non vedo altra via che mettere in pratica le indicazioni che ci vengono da Maritain, naturalmente con le dovute correzioni, con particolare riferimento a quell’ispirazione tomistica alla quale i Papi ci esortano pressantemente da otto secoli, ispirazione che deve guidarci per l’edificazione di una nuova cristianità, secondo la linea indicata dal Concilio Vaticano II.

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    2. Cf. https://www.laciviltacattolica.it/articolo/jacques-maritain-a-50-anni-dalla-morte/

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