Cari Vescovi, parlateci di Dio - Prima Parte (1/2)

 Cari Vescovi, parlateci di Dio

Parte Prima (1/2)

Ad Aldo Maria Valli

Disce elevare ingenium, aliumque rerum ordine ingredi

Card. Tommaso de Vio, OP, detto il Gaetano

In mille faccende affaccendati

Un mio caro amico, Aldo Maria Valli gestisce da anni un sito web molto frequentato dal titolo suggestivo: duc in altum. Dispiace che egli svolga questo programma con un tono troppo duro verso il Santo Padre, che come Vicario di Cristo, certamente ci conduce in alto. Egli tuttavia ha ragione nel constatare con dolore, da buon cattolico, il clima di aridità, sonnolenza e sciatterìa spirituali che stiamo vivendo.

Assistiamo a un diffuso ripiegarsi dei pastori sul mondo e cedere ai suoi allettamenti sotto pretesto del dialogo, della cura dei poveri e della misericordia per i fragili e i sofferenti. Le figure dell’immigrato e dell’omosessuale sembrano occupare tutto lo spazio lasciando in ombra altri aspetti e bisogni più profondi del dramma umano del nostro tempo.

Abbiamo inoltre l’impressione che i pastori vogliano mescolarsi indiscriminatamente con la gente comune, apparire un fedele qualunque, nascondersi nella folla, col pretesto del voler esser fratello e non sembrare dei dominatori. A un certo punto nasce la domanda: che senso ha il loro essere Vescovi? Solo in fatto materiale di abitare in episcopio?

Non sentiamo più parlare di gerarchia ecclesiale. Eppure il Concilio parla di «Costituzione gerarchica della Chiesa»[1]. Infatti il sacerdozio e quindi l’Episcopato, che è la pienezza del sacerdozio, non si risolve nella semplice esecuzione di un determinato compito o servizio, come può essere quello del giornalaio, del postino o del droghiere. Certo il Vescovo ci annuncia la bella notizia della salvezza, ci trasmette il messaggio del Vangelo, ci inebria di quella divina droga che è la grazia. Ma Cristo ha voluto il sacerdozio come potere salvifico il cui detentore, l’Apostolo, ovvero il Vescovo, potesse parteciparlo in gradi e misure inferiori a suoi collaboratori, i presbiteri, i diaconi e i ministri, uomini e donne.

La Chiesa è dunque retta da un regime monarchico (il Papa) ed aristocratico (i Vescovi). Nel contempo però sono presenti elementi di regime democratico nel laicato e negli Istituti religiosi e negli stessi organismi della Curia romana, nelle conferenze episcopali e nel funzionamento del collegio cardinalizio. Il regime della Chiesa non può quindi essere lo stesso della società politica, ossia la democrazia, per la quale il popolo si sceglie i propri governanti.

La cosa importante da notare, di istituzione divina, è che il ministero episcopale è un potere implicitamente plurimo e graduato, partecipabile a livelli inferiori, comportante atti ed uffici diversi, alcuni riservati al Vescovo, altri che egli può partecipare o delegare ai ministri inferiori, come i presbiteri e i diaconi.

Cristo quindi non ha fondato la Chiesa nel senso che a un certo punto un gruppo di suoi ammiratori Lo ha scelto come capo che li rappresenti presso Dio, li soddisfi nei loro bisogni, li accontenti nei loro desideri e realizzi le loro esigenze. Come disse Egli stesso: «non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16).

La Chiesa non nasce dal basso, dall’uomo, ma dall’alto, da Dio; il piano che essa deve realizzare non è un progetto umano, ma un progetto rivelato da Dio; il fine da raggiungere non è semplicemente umano, ma divino; le forze per raggiungerlo, di conseguenza, non possono essere semplicemente naturali, ma devono essere soprannaturali, le forze della grazia.

Il fedele deve mirare a salire, certamente, non però nel senso di una scalata al potere, come avviene spesso in campo politico, ma una scalata verso la santità, verso il cielo. La grande ambizione del cristiano è il servire, non il comandare; e se comanda, lo fa per servire. Ma servire non si limita ad accontentare i bisogni terreni. Il servizio proprio del Vescovo è servire per aiutare a salire al cielo: duc in altum.

I Vescovi dicono di voler ascoltare. Va bene. Ma noi vorremmo anche ascoltare loro. Vogliono stare in mezzo a noi. Va bene. Ma noi da che parte andiamo? Lo sappiamo già da soli? E come lo sappiamo? Perché ce l’ha detto Rahner? Sembra quasi che non ci vogliano precedere. Ma non devono indicarci il cammino? Non devono aprirci la strada? Ci rappresentano Cristo o siamo noi che rappresentiamo Cristo a loro? Alla fine, questo darci tanta importanza, non ci sembra uno scarico di responsabilità? Vi siete impegnati per tanti anni per arrivare al posto in cui siete: che cosa avete scoperto nella vostra ascesa? Che cosa vedete da lassù? E come possiamo salire anche noi dove siete voi?

L’impressione che abbiamo da molti anni (ho ormai 81 anni) è che i Vescovi, salvo rare eccezioni, in cose di fede non si pronunciano, non si espongono, non compaiono, non pubblicano, non intervengono, non commentano, ignorano, fanno finta di non vedere, non vogliono aver noie, temono di essere derisi dalla maggioranza modernista. Quasi non passa giorno che non si abbia notizia di qualche scandalo, corbelleria o eresia. Eppure tutto procede tranquillo, come niente fosse. O forse non si rendono conto della gravità di certe situazioni. O non si sentono in grado di affrontarle.

Sembra che abbiano timore di esprimersi da soli e che si sentano sicuri solo ad esprimersi assieme. Più che aprire un cammino rischiando, sembrano presi dalla preoccupazione rassicurante e non rischiosa di registrare quello che è già stato detto o votato dalla maggioranza. Da qui le varie conferenze episcopali ed assemblee di Vescovi, da qui i frequenti convegni e i numerosi documenti comuni a vari livelli. Senonchè questi documenti comuni spesso mancano di incisività e si limitano a ripetere e divulgare insegnamenti già noti del Magistero.

C’è indubbiamente il fatto che l’informazione è dominata da una mentalità laicista e secolarista che è sorda se non ostile alle espressioni della cultura cattolica e in special modo a quelle che possono essere le idee dei Vescovi. Esprimo tuttavia la mia ferma opinione che quotidiani come Avvenire e L’Osservatore Romano dovrebbero dare molto più spazio al pensiero dei Vescovi e dei Cardinali.

Il Vescovo e il Cardinale, in collaborazione col Papa, hanno come loro uditorio naturale non solo e non tanto la loro diocesi, ma la Chiesa intera. Già il teologo si rivolge alla Chiesa. Con ben maggior ragione e autorità lo fanno il Vescovo e il Cardinale, i quali, cum Petro et sub Petro, sono veri maestri della fede.  Vorremmo vederli più attorno al Papa nel parlarci di Dio, delle grandi sfide della Chiesa di oggi, delle sue chances, delle sue sofferenze e delle sue gioie, delle sue speranze, dei suoi dubbi e delle sue certezze.

Abbiamo in Italia 250 Vescovi e nella Chiesa 120 Cardinali. Certamente molti faranno pubblicazioni e anche interessanti. Ma come mai così raramente i loro articoli appaiono su Avvenire e L’Osservatore Romano?

I giornalisti cattolici e i vaticanisti non mancano. È prezioso il servizio che essi rendono nel farsi interpreti e canalizzatori di esigenze, proposte, domande, disagi, turbamenti, che emergono da vari settori della Chiesa. Essi stessi, quando, come Valli, sono animati da zelo per il bene della Chiesa, suggeriscono dei sentieri, offrono degli stimoli, ricordano valori trascurati. Ma essi - e lo riconoscono essi stessi -, non potranno mai sostituire la parola alata del Vescovo. E questa sembra mancarci.

60 anni fa l’Episcopato mondiale dette una splendida prova di sé con la elaborazione dei documenti del Concilio Vaticano II. Ma da allora pare che tra di loro si creata una mentalità per la quale non se la sentono più di esprimersi da soli, come è sempre usato nella storia della Chiesa: basti pensare ai grandi Vescovi dei primi secoli e a tutti i Santi Vescovi che hanno costellato la storia della Chiesa nei frangenti e nelle svolte più importanti.

La forza dottrinale della Chiesa sta nell’Episcopato attorno al Papa. Il Papa è efficace nel suo insegnamento e nella sua pastorale nella misura in cui ha Vescovi che collaborano con lui. È inefficace invece quando è isolato nel suo insegnamento e, peggio ancora, quando  si trova a dover a che fare con un corpo di teologi, i quali, anziché sostenere e spiegare gli interventi pontifici, si credono in diritto o in dovere di formare una specie di magistero alternativo di carattere progressista.

Oggi che abbiamo un Papa progressista, parrebbe che il Papa non fosse più isolato, ma avesse ritrovato l’appoggio dei teologi. Ma in realtà le cose non stanno così. Gli astutissimi modernisti si atteggiano a sostenitori e difensori di Papa Francesco, ma in realtà, approfittando di certe sue debolezze ed ingenuità, lo strumentalizzano diffondendo un cattolicesimo eretico, che non rispecchia affatto i veri insegnamenti del Papa.

E i Vescovi che cosa fanno? A parte alcuni che criticano il Papa da posizioni preconciliari, la stragrande maggioranza tace. Alcuni appoggiano il Papa, ma lo interpretano in senso modernista. E il Papa che fa? Sembra non avere la forza per affrontare di petto questa situazione veramente difficile, che denota una divisione all’interno dell’Episcopato e dello stesso collegio cardinalizio.

È una divisione che si manifestò già durante i lavori del Concilio e che non solo non si è assopita, ma si è aggravata. Solo che adesso gli esponenti dei due partiti cardinalizi non escono allo scoperto, ma mandano avanti i teologi e i laici. Il silenzio dell’Episcopato fa pensare ad un’unanimità attorno al Papa, unanimità che in realtà non c’è.

Da che cosa deduco questo fatto? Dall’ostinata esistenza dei due partiti dei modernisti e dei passatisti, apertamente sostenuti da teologi, preti, religiosi e laici, ma che non potrebbero avere tanto influsso, arroganza ed audacia, se non fossero sostenuti nell’ombra da Vescovi e Cardinali.

È impressionante la quantità di pubblicazioni e di siti web che testimoniano in modi contradditori fra di loro il profondo disagio di un mondo cattolico agitato da un intreccio quasi inestricabile di polemiche e di litigi. Ed indubbiamente dietro a tutto questo movimento eccitato e sovversivo c’è l’ombra della massoneria, con le sue idee e il suo sostegno economico.

È qui la radice dei mali della Chiesa di oggi: si trova nell’Episcopato. Soffriamo oggi di una crisi dell’Episcopato, quale mai si è verificata in tutta la storia della Chiesa, se si esclude il periodo del donatismo, dell’arianesimo e della riforma di Lutero.

La virtù del pastore

Un grave errore oggi molto diffuso è l’enfasi eccessiva posta sulla pastorale, come se tutta la teologia si risolvesse nella pastorale, che è precisamente la tesi sostenuta da Rahner. A quest’errore si congiunge logicamente quello di ridurre tutta la prospettiva cristiana alla salvezza (non si sa sempre bene da che cosa) e alla vita fraterna in allegria, dimenticando che Cristo chiede al Padre per i suoi, al di là della remissione dei peccati, di poter conoscere il Padre (cf Gv 17,3). È Lutero che ha dimenticato la prospettiva contemplativa del cristianesimo limitando la vita cristiana al problema della salvezza e all’orizzonte della fraternità.

Parimenti lefevriani e modernisti hanno creato – con motivazioni in conflitto tra di loro - in molti la convinzione errata che il Concilio Vaticano II sia stato un Concilio soltanto pastorale, il che non è affatto vero, ma che tuttavia ha favorito quel pastoralismo spicciolo e miope, che ha finito per appiattire lo sguardo di molti sulla saporita quotidianità, inaridendo l’interesse per «le cose di lassù» (Col 3,2). Persino Hegel, che pure era un immanentista, parla di «elevazione» (Erhebung) dello spirito. Ma chi oggi parla più di elevazioni spirituali?

Dobbiamo ricordare che Gesù Cristo è il pastore che non si limita a verificare che le pecore si amino tra di loro, ma che si accorge dell’arrivo del lupo,  difende il gregge e lo guida a pascoli ubertosi. Fuor di metafora, Gesù ci è guida sì nel fare, ma in vista del vedere. Senza per questo cadere nello gnosticismo, dobbiamo ricordare che la prospettiva che ci offre Cristo, è quella di «conoscere la verità». (Gv 8,32).  La libertà e l’amore ne sono una conseguenza.

Se Cristo si raccomanda che ci amiamo fra di noi e che mettiamo in pratica i suoi comandamenti, non è perché tutta la nostra gioia stia nel gusto dell’agire o del fare, ma perché obbedendo al Padre, possiamo un giorno arrivare assieme a contemplare nell’amore il suo volto come figli del Padre.

La preoccupazione per l‘evangelizzazione è cosa santa, lodevole e doverosa. Ma dovrebbe esser chiaro che se previamente non ci è chiaro e certo che cosa dobbiamo annunciare, se non cominciamo col chiarire ed accertare quali e quanti sono i contenuti della fede, l’evangelizzazione diventa un  battere l’aria, un creare confusione ed equivoci, un propalare corbellerie o raccontare frottole, quando va bene, e non è affatto un annunciare il Vangelo, e quindi si risolve nel far danno e senza arrecare i benefìci della salvezza. La verità non sorge dall’azione e non è effetto dell’azione, ma si presuppone conosciuta dall’agente, che insegna appunto a metterla in pratica per arrivare alla contemplazione della verità.

Questo è il motivo per il quale in passato la Congregazione per la Dottrina della Fede stava al primo posto fra tutti i dicasteri della Curia Romana. È proprio perchè i Papi si rendevano conto dell’importanza dell’evangelizzazione, che essi tanto tenevano a farsi aiutare da quel dicastero che nel campo della fede distingueva il vero dal falso, promoveva il vero e condannava il falso, chiariva ciò che era oscuro, dava certezza nell’incertezza, risolveva i dubbi, incoraggiava le buone iniziative. Quel primo posto occupato dalla CDF significava condividere la preoccupazione somma di Cristo che gli uomini giungano alla conoscenza della pienezza della verità, ossia alla visione beatifica, ovviamente mettendo in pratica le verità morali nell’esercizio della carità. Ma Cristo subordina la verità morale alla verità speculativa.

Certamente non è aleatorio il rischio di perdersi in questioni teoriche, o polemizzare in inutili sottigliezze per avere il gusto di prevalere sull’altro e far sfoggio del proprio sapere. Ma sarebbe profondamente ingiusto accusare di simile errore la CDF, chè invece l’accusa è meritata se diretta contro tanti teologi presuntuosi, faziosi ed orgogliosi che sono sempre esistiti ed oggi esistono più che mai, anche se tuttavia è vero e da tutti riconosciuto, a partire dagli stessi ultimi Papi, che in passato il Sant’Offizio ha esagerato nella severità.

Ma il fenomeno impressionante, mai accaduto in passato, che oggi si nota nella Chiesa, è il pullulare indisturbato di una moltitudine di errori ed eresie, vecchi e nuovi, che si pretende porre sotto il nome cattolico. In passato gli eretici uscivano spontaneamente dalla Chiesa, rifiutando il nome cattolico e le dichiaravano guerra apertamente, mentre i Vescovi, i Papi e i Concili si premuravano di segnalarli ai fedeli e di scomunicarli assieme i ai loro seguaci, cosicchè per i fedeli non era difficile distinguere i cattolici dagli eretici. Adesso gli stessi eretici, sia passatisti che modernisti, si ritengono loro i veri cattolici, la vera Chiesa è la loro, escludendo tutti coloro che non la pensano come loro, siano Vescovi, Papi e Concili.

Papa Francesco che soluzione ha adottato per questa crisi? Egli ha chiara la percezione che sono venute meno le basi umane, razionali e morali del cristianesimo. L’umanità, che pure ha raggiunto livelli altissimi nella scienza, nella medicina, nella tecnica e nell’organizzazione economica e politica, dopo secoli di ideologie nichiliste, distruttive e laceranti, si trova adesso sul baratro dell’autodistruzione, come ne abbiamo il segno evidente nella guerra in Ucraina.

Francesco dedica tutte le sue forze a parlare ogni giorno a noi fedeli, anche a livello ecumenico, di Dio e di Cristo, ma, parallelamente a questa pastorale, ne attua un’altra, di tipo esclusivamente umanistico, finalizzata a proporre valori umani universali ed affratellanti, a ricostruire l’uomo, distrutto dalle false ideologie dei secc. XIX-XX e dalle conseguenti guerre mondiali. Qui arriva anche a non nominare né Dio né Cristo, con scandalo dei passatisti e sogghigno compiaciuto dei modernisti e dei massoni. Eppure non si tratta altro che della messa in pratica di una famosa profetica sentenza del grande e venerabile Pio XII, che ebbe a dire: è tutto un mondo che occorre rifare, da subumano ad umano, da umano a cristiano.

Fine Prima Parte (1/2)

P.  Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 24 luglio 2023


 

Il Vescovo e il Cardinale, in collaborazione col Papa, hanno come loro uditorio naturale non solo e non tanto la loro diocesi, ma la Chiesa intera. Già il teologo si rivolge alla Chiesa. Con ben maggior ragione e autorità lo fanno il Vescovo e il Cardinale, i quali, cum Petro et sub Petro, sono veri maestri della fede.  Vorremmo vederli più attorno al Papa nel parlarci di Dio, delle grandi sfide della Chiesa di oggi, delle sue chances, delle sue sofferenze e delle sue gioie, delle sue speranze, dei suoi dubbi e delle sue certezze.

Immagine da Internet: Portogallo, 2 agosto 2023

https://www.vatican.va/content/francesco/it/events/event.dir.html/content/vaticanevents/it/2023/8/2/portogallo-omelia.html



[1] Cost. Dogm. Lumen Gentium, c.III.

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