Il mistero dell’essere in Karl Rahner - Mistero dell’essere e mistero di Dio - Prima Parte (1/4)

 

Il mistero dell’essere in Karl Rahner

Mistero dell’essere e mistero di Dio

Prima Parte (1/4)

                                                                          Per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero

Ef 3,3

Considerazioni generali

Un oggetto del nostro intelletto può essere chiaro o può essere misterioso. È chiaro se in esso comprendiamo tutto quello che c’è da capire. Sono queste le verità matematiche. Infatti gli enti matematici sono enti di ragione, perfettamente calcolabili, misurabili, controllabili e verificabili dalla nostra ragione.  Invece in tutte le altre scienze, che sono a contatto con la realtà esterna, da quelle sperimentali a quelle filosofiche e teologiche, l’oggetto presenta sempre un lato oscuro, attualmente impenetrabile, che stimola l’intelletto ad una ricerca e ad un’indagine che non hanno mai termine. Il filosofo procede di sillogismo in sillogismo con ragioni necessarie e dimostrative; il teologo cristiano produce argomenti di convenienza, che non sono necessari o dimostrativi, ma che mostrano l’armonia della fede con la ragione.

Il mistero, in generale, è un fatto empirico o narrato o un’asserzione teoretica o pratica, il cui contenuto è conoscibile ed intellegibile e in tal senso è  confusamente comprensibile, ma il suo contenuto attualmente non è esaurientemente e chiaramente comprensibile; infatti il suo contenuto  è nascosto e la ragione di detto contenuto è attualmente ignota, e per questo è attualmente un fatto inspiegabile o la cui causa è ignota, o è un’asserzione intellegibile, ma non attualmente dimostrata, benché possa essere dimostrata razionalmente.

Il mistero non è qualcosa di assurdo, di irrazionale, di impensabile, di contradditorio, ma è qualcosa di reale o di possibile, di pensabile e di conoscibile.  La ragione si arresta davanti al mistero non perché le si opponga, ma perché non riesce a vederne la ragione. Non ne comprende la causa, il motivo o il perché, ma non ha nessuna difficoltà ad ammettere che questa causa, questo motivo, questo perché esistano. Per questo la ragione sa che il mistero può essere svelato e può apparirne la sua razionalità, fino a ridurre il suo oggetto a qualcosa di evidente.

Il mistero può essere illustrato, manifestato, svelato o rivelato. Ciò può avvenire o per opera della ragione, quando si tratta di un mistero della natura o dell’uomo; o grazie a una rivelazione divina fatta all’uomo, quando si tratta del mistero di Dio.

Il mistero è un qualcosa di oscuro, ma non del tutto privo di luce. Esso ci illumina e può essere illuminato. Può essere svelato o restare oscuro. Può manifestare il suo contenuto o questo può restare nascosto. Esistono misteri della storia, circa i quali non abbiamo sufficienti mezzi per svelarli, sicchè rimarranno sempre per noi misteri. La natura ci presenta sempre nuovi misteri: svelato uno, ne appare un altro e così senza fine. Non arriveremo mai al fondo.

Il mistero dell’essere è distinto dal mistero dell’uomo e dal mistero di Dio. Il mistero della conoscenza dell’essere è il fatto che tutti sanno spontaneamente che cosa è l’essere senza che nessuno l’abbia loro insegnato, ma semplicemente partendo dall’esperienza delle cose. Il mistero dell’essere è il mistero della sua analogica intellegibilità, della sua unità nella molteplicità, della sua singolarità nella sua universalità, della sua diversificazione nella sua unità, della sua opposizione al nulla,

Il mistero dell’uomo è il mistero di una creatura materiale composta di anima spirituale e corpo, fatta ad immagine e somiglianza di Dio, fragile, peccatrice e mortale, eppur redenta dal sangue di Cristo, possibile erede della vita eterna, ente finito, eppure con una mente e un cuore capace di conoscere ed amare l’Infinito, disponibile ad ascoltare la parola di Dio e ad essere elevato per grazia ad una vita divina e a vedere Dio come Egli vede se stesso. È pero un mistero finito, anche se egli è mistero a se stesso, mai esaurientemente comprensibile.

Il mistero dell’essere divino è il mistero dei misteri, il mistero del suo essere sussistente, della sua assolutezza, attualità, semplicità, perfezione ed infinità, della sua infinita personalità, della sua totalità, autosufficienza ed autofondatezza, della sua sconfinata ed illimitata vastità, tuttavia precisa e determinata, della sua inesauribile intellegibilità.

Questo è il Mistero per eccellenza, il mistero infinito, mistero a noi rivelato da Cristo nella sua dottrina trasmessa ed interpretata dalla Chiesa da noi accolta nella fede, dottrina attinente all’essenza propria di Dio, che potremo vedere svelatamente in paradiso.

Come si rapporta la nostra ragione col mistero? Se si tratta di un mistero naturale, essa in linea di principio lo può svelare con le proprie forze, se riesce a scoprire la causa di un fatto misterioso o il motivo di un’affermazione misteriosa. Ma quando la nostra ragione si trova davanti al mistero divino, essa non è capace di comprenderlo fino in fondo, esaustivamente. Non è capace di ricondurlo a princìpi per essa evidenti, perchè essa stessa è effetto creato di questo mistero, ed evidentemente l’effetto con può contenere in sé l’entità della causa.

Pertanto la nostra ragione davanti al mistero divino si trova certamente illuminata, ma senza poter capire quel surplus infinito di essere che il mistero possiede al di sopra della nostra ragione. Essa non vede questo surplus, benché sappia che esiste. Se poi Dio stesso vuol rivelarle qualcosa del suo mistero, essa ragionevolmente crede alla verità di quanto Dio le rivela, sempre però nell’incapacità di dimostrarlo.

Il mistero divino secondo la Scrittura

Il termine mistero traduce l’ebraico raz o sod, che propriamente significa segreto, cosa o dottrina nascosta, che quindi può essere mostrata o rivelata o confidata solo a persone fidate in grado di apprezzarlo o preparate a conoscerlo e a farne buon uso. È prevista quindi un’eventuale iniziazione al mistero. Il mistero veterotestamentario è quindi legato al segreto e al silenzio dal quale deve essere circondato. Il mistero è comunque semplicemente legato al conoscere, non all’agire o al fare.

È solo nel Nuovo Testamento che appare il mistero come realtà divina misteriosa, sorgente di grazia, alla quale è possibile partecipare, sempre dopo una dovuta iniziazione ed aver dato prova di essere persone affidabili, sinceramente convinte della bontà di questo mistero, riservate nella comunicazione di questo mistero, perché il suo significato può essere frainteso dai profani, può essere deriso o sorgente di scandalo. Per questo Cristo raccomanda: «Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi» (Mt 7,6).

Esiste comunque però già anche nell’Antico Testamento l’idea di segreto nascosto (sod) come mistero nel senso di qualcosa di divino trascendente ed insondabile, come appare in Is 45,15. E quindi appare già qui il mistero in quanto riferito anche a verità divine imperscrutabili, appunto misteriose.

Per la Scrittura il mistero divino è conoscibile. È bensì ininvestigabile ed inesplicabile; non è però incomprensibile.  Indagare, pertanto, se fatto con pietà e modestia, procura una conoscenza fruttuosissima[1], che è la teologia.

Nella Sacra Scrittura il mistero divino è tema di trattazione soprattutto in Daniele e in San Paolo. Il nome di Dio è misterioso (Gdc 13,18). Egli opera «cose misteriose» (Gdc 13,19). La sapienza divina è misteriosa (Cf I Cor 2,7). Il saggio non si occupa di cose misteriose nel senso che ha l’umiltà di non volerle perscrutare così da violare il segreto (Sir 3,22). Dio svela i misteri (Dn 2,28). Agli apostoli Cristo confida il mistero del regno di Dio (Mc 4,11).

Dio è nascosto, ma si rivela. Parla ai profeti per mezzo del suo Spirito. Ciò che Egli rivela ora può essere esprimibile, ed ecco il messaggio profetico; ora può essere ineffabile ed inesprimibile, secondo quanto racconta San Paolo parlando della propria esperienza:

«Conosco un uomo in Cristo, che, quattordici anni fa – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito in paradiso e udì parole indicibili, che non è lecito ad alcuno pronunziare» (II Cor 12,2).

Più volte il Salmista implora Dio di non nascondergli il suo volto (Sal 13,2; 27,9; 88,15; 102,3; 104,29; 143,7) e lo implora di rispondere e di parlargli, perché diversamente si sentirebbe perduto (Sal 28,1). Dio è misterioso, ma tace solo per coloro che non lo amano o chiedono cose cattive. In realtà Dio non tace mai e sempre si occupa di noi.

A tacere semmai sono i falsi dèi, gli idoli (Ab 2,18; Sal 115,5). Dio risponde sempre quando lo invochiamo[2]. Può essere misterioso quello che ci dice, ma non ci abbandona mai. Occorre saper riconoscere la sua voce, accettare la sua volontà e chiedergli cose conformi alla sua volontà.

Il fatto che Dio parli all’uomo significa che fra lo spirito dell’uomo e lo Spirito di Dio esiste una comunicazione di pensiero e di volontà in forza dell’universalità comunionale dello spirito, mentre il silenzio di Dio e l’ineffabilità della sua parola significano che certe sue parole e intenzioni sono talmente alte e misteriose, che non possiamo comprenderne appieno il significato e non possono essere espresse in parole umane.

Per la Scrittura Dio è certamente misterioso (Is 45,15)[3], ma non è semplicemente ignoto. Al contrario, l’uomo ragionevole sa che Dio esiste (Sap 13,5).  Soltanto lo stolto manca talmente d’intelligenza da negare che Dio esiste (Sal 14,1 e 53,2). Per questo, per la Scrittura nessuno ignora in buona fede che Dio esiste; al contrario, è inescusabile (Rm 1,21).

L’ateismo è scusabile solo se l’ateo scambia il vero Dio con un falso dio, per cui, respingendo questo falso dio, viene implicitamente a credere nel vero Dio. È possibile sbagliarsi nel concepire Dio, ma in ogni caso tutti da sé possono correggersi, perché tutti gli uomini devono render conto a Lui delle loro azioni e ciò sarebbe impossibile se qualcuno non sapesse chi è Dio.

È vero che l’angelo si rifiuta di rivelare a Giacobbe il suo nome (Gen 32,30). Tuttavia Dio nell’Antico Testamento dichiara che il suo nome è «Signore» (Elohim, Is 42,8) e a Mosè rivela il suo nome proprio: «Colui che è» (Es 3,14). Il nome di una persona, per la Bibbia, non è semplicemente una designazione anagrafica convenzionale, ma designa l’essenza stessa della persona che porta quel nome.

Dio è invisibile agli occhi del corpo, non a quelli dello spirito, perché Egli è Spirito. È addirittura visibile faccia e faccia. Tuttavia ciò non è possibile nella vita presente, dove nessuno lo hai mai visto. Soltanto Cristo, che ci ha rivelato il Padre, ci consente di vedere Dio (Gv 1,18)[4].

Per poterlo vedere, infatti, occorre morire (Es 33,20), ossia lasciare questa vita e salire al cielo. C’è qui qualcosa che fa venire in mente Platone, se non fosse che Platone non credeva nella resurrezione del corpo. Nell’Antico Testamento esistono episodi nei quali il popolo ha paura ad avvicinarsi alla presenza di Dio, perché Dio è sentito come un terribile sovrano, per cui il popolo affida a Mosè il compito di mediatore.

L’aspirazione e la speranza di vedere Dio appaiono già nell’Antico Testamento (Gb 19,26-27). La visione degli anziani che «videro Dio» (Es 24, 10s) esprime semplicemente un’esperienza contemplativa o estatica privilegiata. È vero che Mosè parla con Dio «faccia a faccia» (Dt 34,10), ma ciò vuol semplicemente dire che sapeva parlare con lui. In realtà, quando egli chiede a Dio di vedere il suo volto, la risposta di Dio è «vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Es 33,23). Le «spalle» si riferiscono a una persona, ma non sono il suo volto. Esse sono il simbolo della mediazione concettuale, con la quale soltanto nella vita presente possiamo conoscere Dio.

Quanto alla dichiarazione di Giacobbe «ho visto Dio faccia a faccia» (Gen 32,31), non va presa alla lettera, perché in realtà Giacobbe si accorge di essere alla presenza di Dio solo per mezzo dell’angelo. La visione immediata di Dio è solo il frutto della redenzione di Cristo (Gv 17,3).

Caratteri del mistero divino per la Scrittura sono la sua incommensurabile altezza e profondità. Dio è in cielo, al di sopra di tutto, trascende tutte le cose, nessuno può elevarsi alla sua altezza. L’uomo – come dice Sant’Agostino - può trascendersi e tendere là dove si accende il lume della ragione, può elevarsi col pensiero e il desiderio. Ma non può da sé raggiungere Dio. Non può superare i suoi limiti. Dio resta infinitamente al di sopra dell’uomo. Chi s’innalza, viene abbassato. Solo chi si abbassa, ossia l’umile, viene innalzato da Dio a Sé. Solo il Figlio è uguale al Padre, ma appunto perché è Dio.

Il mistero di Dio è rappresentato con l’immagine della nube. La nube c’impedisce di vedere il sole. Tuttavia sappiamo che dietro la nube c’è il sole. Così il mistero divino in sé è luminoso, ma ai nostri occhi mortali, alla nostra ragione oscurata dal peccato originale e dalle passioni indomite, si nasconde dietro una nozione confusa e indeterminata dell’assoluto, dell’infinito e dell’essere.

Tuttavia la nube può essere luminosa (Es 14,20). Il mistero, benché oscuro, illumina. Ma la nube per gli idolatri, come gli Egiziani, può essere anche del tutto oscura (Es 14,20). Il che vuol dire che l’oscurità del mistero non è necessariamente un dato oggettivo, ma può esser data dal fatto che il nostro stesso occhio può essere offuscato da cattive disposizioni.

Misteriosamente profondi sono i pensieri di Dio (Sal 92,6 e 139,17). Misteriosamente profonde ed insondabili sono le ragioni che muovono Dio a fare quello che fa. Misteriosamente profonde sono le basi e le fondamenta della terra e dell’universo: solo Dio le conosce.

A proposito del mistero divino Cristo dice che «non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato» (Lc 8,17). La rivelazione del mistero di Cristo è «la rivelazione del mistero taciuto per secoli» (Rm 16,25). Occorre «penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Cristo» (Col 2,2). Grande è il mistero dello sposalizio di Cristo e della Chiesa (cf Ef 5,31). La stessa vita cristiana è un mistero: «la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). «Il mistero dell’iniquità è già un atto» (II Ts 2,7). «Grande è il mistero della pietà» (I Tm 3,16). Per San Paolo il mistero è sinonimo anche di sacramento.

Misteriosi sono i giudizi e i decreti divini. Essi sono insindacabili ed inappellabili. Sappiamo che sono giusti, ma non sappiamo perché.  Perché Dio ha voluto non impedire il peccato, quando avrebbe potuto farlo? Perché Egli ha voluto dar corso nella storia alle conseguenze del peccato originale, quando avrebbe potuto perdonare ai progenitori e annullare il castigo? Perché ha chiesto a suo Figlio tanto sangue, quando ne sarebbe bastata una goccia? Perché salva questo e non quello, quando avrebbe potuto salvare tutti? Noli judicare, direbbe Sant’Agostino, si non vis errare.

Il fatto che dei giudizi divini non conosciamo il motivo non vuol dire che non ce l’hanno. Siamo noi che non lo conosciamo. Non può essere bene per Dio ciò che per noi è male, se amiamo il bene, e viceversa. A chi ragiona male appare irragionevole il modo divino di ragionare. È scandaloso per gli scandalosi ciò che Dio vuole, non per i giusti. È stolto per gli stolti ciò che Dio pensa, non per i sapienti (cf I Cor 1, 20-25).

Se Dio non fosse conoscibile, tutta la nostra vita non avrebbe senso. Rahner ha ragione nel dire che il nostro stesso essere è un tendere a Dio. Il suo errore sta nel non distinguere l’inclinazione naturale dall’atto del volere. Infatti, sono gli enti inferiori all’uomo a tendere per essenza a Dio. L’uomo è sì chiamato da Dio a tendere a lui. E tuttavia l’uomo, possedendo il libero arbitrio, benché creato per raggiungere Dio, può anche non tendere verso di Lui e credere, illudendosi, di trovare la sua felicità scegliendo come fine della sua vita un bene diverso da Dio. Rahner, invece, lega talmente la tendenza a Dio all’essenza stessa dell’uomo, che sembra che chi non tende a Dio, come il peccatore, non sia più un uomo. Per questo Rahner, per evitare questa assurdità, sostiene che tutti tendono a Dio[5] e si salvano.

Se invece Dio è conoscibile, vuol dire che è concepibile[6], è oggetto dell’intelletto. Per questo la Scrittura contiene molti insegnamenti su chi è Dio e quali sono i suoi attributi; distingue idee vere e idee false su Dio. Distingue il culto del vero Dio dall’idolatria.

Un aspetto del mistero divino per la Scrittura è il fatto che il mistero è un qualcosa di mirabile e di nuovo, in precedenza ignorato. La sua conoscenza può essere continuamente approfondita e riserva per noi sempre aspetti nuovi. Amiamo sentircelo ripresentare negli aspetti già noti: ciò ci conforta, perché per la fragilità della nostra mente e le prove della vita, saremmo tentati a metterlo in dubbio. La sua conoscenza conferma quindi quanto già sappiamo di esso; ma, indagando su di esso, scopriamo in lui sempre nuovi orizzonti che ci riempiono di gioia e di meraviglia. Chi sa predicare il mistero non annoia mai perché presenta di esso sempre nuovi aspetti.

Il mistero divino, per la Scrittura, in quanto verità rivelata da Dio, è verità divina assolutamente certa, molto di più delle nostre certezze umane, razionali e sensibili. Esso, quindi, non è assolutamente in contrasto con la verità naturale razionale da noi conosciuta e dimostrata, ma si trova in armonia con essa, perché Dio è la sorgente sia della verità naturale che di quella soprannaturale. Abbiamo inoltre il potere di accertarci e di verificare se un dato annuncio presentatoci come mistero rivelato è o non è un vero mistero divino. Esistono infatti misteri falsi, come le cosiddette «profondità di Satana» (Ap 2,24), dove la mistica è un pretesto per la lussuria, la violenza, l’autoesaltazione. Tali erano i misteri pagani.

Riguardo alla conoscenza del mistero di Dio, la Scrittura respinge la superbia, per la quale il soggetto si chiude nella propria autosufficienza, che respinge la verità, per cui o cade in una falsa umiltà, che genera un’ignoranza affettata, e abbiamo l’agnosticismo; o si erge a una falsa sapienza, per la quale il soggetto pretende di possedere una conoscenza esaustiva, e abbiamo lo gnosticismo. Il saggio, invece, è l’umile, che si adegua alla realtà del mistero, riconoscendo ad un tempo la propria ignoranza e fallibilità, per quel tanto che del mistero gli è ignoto e il proprio sapere, per quel tanto che del mistero gli è comprensibile.

Dio, inoltre, per la Scrittura, sembra poter essere anche oggetto[7] dei sensi: la vista, l’udito, il gusto, il tatto e l’olfatto. Vedi, per esempio: «al mattino fammi sentire la tua grazia» (Sal 143,8). Naturalmente non si tratterà del sentire materiale, dato che Dio è spirituale. Tuttavia, con questa immagine del sentire, la Scrittura vuol esprimere la possibilità del credente di un contatto cognitivo-affettivo con Dio sin da questa vita, benché non perfetto come sarà in cielo[8].

È chiaro che si tratta sempre di un conoscere di fede, quindi mediato dal concetto; e tuttavia il mistico, grazie al dono della sapienza, ha la sensazione ineffabile ed inesprimibile a parole di poter godere per un istante della presenza del Mistero divino. È questa mistica esperienza che ha prodotto lo stupendo distico che si recita a competa: Te corda nostra somnient, Te per soporem sentiant.

Rahner ha fatto notare come questa dottrina dei sensi spirituali sia stata sviluppata soprattutto dalla tradizione mistica orientale e in occidente da San Bonaventura[9]. Mentre il simbolo del gusto, espressione della sapienza, è comune alla spiritualità domenicana e a quella francescana, abbiamo una differenza fra di loro data dal fatto noto che mentre quella domenicana è di tipo intellettuale, rappresentata da San Tommaso, quella francescana, è di tipo affettivo, rappresentata da San Bonaventura.

Occorre però dire che Bonaventura, nell’interpretare l‘estasi di San Francesco nell’Itinerarium mentis in Deum (c.VII), si esprime in un modo che sembra che l’esperienza estatica comporti la sospensione dell’attività intellettuale, mentre altrove[10], parlando della tenebra divina davanti alla quale si trova l’intelletto, dice che «dicitur tenebra, quia intellectus non capit et tamen anima summe illustratur». «Non capit» non vuol dire non ci capisce niente, ma che non comprende esaustivamente, non capisce del tutto.

Bonaventura intende dire che l’intelletto concepisce qualcosa (cioè l’essenza di Dio), della cui essenza sa che è infinitamente più intellegibile di quanto esso ne capisca. In questo senso Dio appare a me come Tenebra, benché in se stesso sia Luce fulgidissima. Il difetto di Hegel non sta nel ritenere che Dio sia oggetto di concetto, ma nel pensare che lo stesso essere di Dio sia identico al concetto che ne abbiamo.

È chiaro che, conoscendo la verità su Dio, il mio concetto[11] corrisponde a ciò che Dio è. Ma ciò non vuol dire, alla maniera di Berkeley, che l’essere divino sia il mio esser percepito da me, ossia che l’essere divino coincida col mio concetto di Dio, o che l’essere divino sia il mio stesso concetto di Dio. Dovrei essere Dio stesso, per fare un’operazione del genere.

In corrispondenza alla suddetta diversità tra l’impostazione tomista e quella bonaventuriana, Rahner fa notare che mentre Tommaso per rappresentare la conoscenza di Dio preferisce il simbolo della luce del Verbo come Logos del Padre, Colui Che è, corrispondente alla vista, Bonaventura preferisce il simbolo della persona di Cristo, Verbo fatto carne, corrispondente al tatto.

Fine Prima Parte (1/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 5 aprile 2023

Il mistero della conoscenza dell’essere è il fatto che tutti sanno spontaneamente che cosa è l’essere senza che nessuno l’abbia loro insegnato, ma semplicemente partendo dall’esperienza delle cose.

Il mistero dell’essere è il mistero della sua analogica intellegibilità, della sua unità nella molteplicità, della sua singolarità nella sua universalità, della sua diversificazione nella sua unità, della sua opposizione al nulla.

Il mistero dell’uomo è il mistero di una creatura materiale, composta di anima spirituale e corpo, fatta ad immagine e somiglianza di Dio, fragile, peccatrice e mortale, eppur redenta dal sangue di Cristo, possibile erede della vita eterna, ente finito, eppure con una mente e un cuore capace di conoscere ed amare l’Infinito.


Il mistero dell’essere divino è il mistero dei misteri, il mistero del suo essere sussistente, della sua assolutezza, attualità, semplicità, perfezione ed infinità, della sua infinita personalità, della sua totalità, autosufficienza ed autofondatezza, della sua sconfinata ed illimitata vastità, tuttavia precisa e determinata, della sua inesauribile intellegibilità.

Il mistero di Dio è rappresentato con l’immagine della nube. La nube c’impedisce di vedere il sole. Tuttavia sappiamo che dietro la nube c’è il sole. Così il mistero divino in sé è luminoso, ma ai nostri occhi mortali, alla nostra ragione oscurata dal peccato originale e dalle passioni indomite, si nasconde dietro una nozione confusa e indeterminata dell’assoluto, dell’infinito e dell’essere.

Immagini da Internet: mosaici, Ravenna


[1] Come dirà il Concilio Vaticano I, Denz.3016.

[2] È falsa quindi la diceria pseuteologica che Dio abbia taciuto ad Auschwitz. Non ha taciuto per Santa Teresa Benedetta della Croce, per San Massimiliano Kolbe, per il Beato Tito Brandsma, per il Beato Giuseppe Girotti, per Etty Hillesum. Perché proprio per loro?

[3] Altra possibile traduzione: «un Dio che si nasconde». Ma è la stessa cosa. Nel sod c’’è sia il segreto che l’incomprensibile. È un contenuto intellegibile segreto, che, anche se manifestato, resta per noi misterioso.

[4] La teoria di Gregorio Palamas, per il quale in paradiso non vediamo l’essenza di Dio, ma solo le sue «energie», nasce da una confusione con l’essenza della grazia, la quale effettivamente è una partecipazione della vita divina, per cui in questo senso è vero che l’unione con Dio è mediata dalla grazia. Ma non bisogna confondere l’atto intellettuale del vedere con l’atto di essere del beato. La grazia riguarda l’esistere dell’intelletto, non il suo atto di vedere. L’identificazione del beato con Dio è intenzionale, non ontologica. Cf W. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, EDB, Bologna 2013.

[5] Nell’esperienza originaria preconcettuale ed atematica, che poi è l’autocoscienza dell’essere umano come essere.

[6] Parlare di un superamento dei concetti nella conoscenza di Dio è espressione equivoca e sconsigliabile. Se ci si riferisce al contenuto di fede del concetto, la cosa può andare, in quanto si tratta di una realtà divina, che oltrepassa la comprensione della ragione umana. Ma se ci si riferisce all’atto o al modo del concepire come tale, al concetto formale, esso non può essere superato se non dal Concetto divino, ossia dal Logos del Padre. Quanto poi a parlare di un’«esperienza trascendentale preconcettuale», come fa Rahner, essa non esiste. Prima del concetto non c’è che l’esperienza sensibile, dalla quale il concetto è tratto per astrazione. Il sapere trascendentale, poi, ossia la metafisica, è un sapere squisitamente concettuale, così come in generale è ogni conoscenza della realtà esterna alla mente, compresa quella trascendente divina.

[7] Quella che il Cusano chiama «dotta ignoranza».

[8] A questo proposito molti autori, compreso Rahner, parlano di un’esperienza della grazia. S.Tommaso fa notare che noi possiamo sapere di essere in grazia solo in modo congetturale, da alcuni sentimenti interiori, ma non possiamo in questa vita sperimentare la grazia in se stessa, perché, data la sua natura divina, sarebbe come sperimentare Dio, cosa possibile solo in cielo. Su questo argomento, vedi R. Gatrrigou-Lagrange, De gratia, LICE, Berruti, Torino 1950. Pp.252-258.

[9] La dottrina dei «sensi spirituali» nel medioevo. Il contributo di Bonaventura, in Teologia dell’esperienza dello Spirito, Nuovi saggi VI, Edizioni Paoline Roma 1978, pp.165-208.

[10] In Hexaëmeron, II, 32).

[11] Sulla dottrina del concetto, vedi la dotta esposizione di Maritain ne I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia, 1974, pp.453-485.

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