Lettera aperta a Bontadini circa la questione del dualismo

 Lettera aperta a Bontadini

circa la questione del dualismo

Caro Bontadini,

tu hai polemizzato a lungo contro il realismo, ossia contro quella concezione del pensare che sostiene:

1.    che da una parte ci siamo noi col nostro pensare e dall’altra ci sono le cose che pensiamo;

2.    che il reale esiste prima che lo pensiamo;

3.    che il reale è esterno al nostro pensiero, trascendente rispetto al nostro pensiero e presupposto al nostro pensiero e non è per se stesso da noi pensato, ma è pensabile prima che lo pensiamo;

4.    che il pensare è relativo all’essere, ma l’essere non è relativo al pensare;

5.    che l’essere non è estraneo al pensiero, ma distinto, proporzionato e assimilabile dal pensiero;

6.    che il pensare è trasceso dall’essere;

7.    che l’essere non coincide con l’essere pensato;

8.    che l’essere è esterno al pensiero e

9.    che il pensare raggiunge e coglie l’essere esterno senza uscire da se stesso, ma nel proprio intimo mediante il concetto.

Tu invece hai negato tutte queste cose e hai dichiarato essere pregiudizio e mera immaginazione la convinzione che «ci sia da una parte l’essere e dall’altra il pensiero, come due sfere o due ordini a sé»[1]. Ti chiedi poi «come le leggi d’un ordine – quello del pensiero – possano valere per l’altro, quello dell’essere (che è poi quello che conta di più), chi le metterà d’accordo?»; affermi poi che tale accordo è impossibile; aggiungi che in tale visione «il pensiero è stato messo in quarantena» e che «dovrebbe venire l’essere, lui a dirci che è d’accordo col pensiero»; «se l’essere ci parla, questo essere è sempre pensiero».

Ma, caro Bontadini, ti rendi conto di quanti spropositi hai detto nello spazio di mezza pagina? Innanzitutto è perfettamente vero che c’è da una parte l’essere e dall’altra il pensiero, come due sfere o due ordini a sé. La distinzione fra l’ente reale e l’ente ideale o di ragione, fra il pensiero e l’essere, fra l’ens reale e l’esse intentionale è già stata scoperta una volta per tutte da Aristotele.

Un conto infatti è una cosa, e un conto la rappresentazione o concetto della cosa. La cosa è oggetto del sapere ontologico o della scienza della realtà, della fisica, della metafisica, della teologia, dell’antropologia, della storia, della morale e delle varie scienze sperimentali, si tratti delle realtà materiali o di quelle spirituali; l’ente di ragione è oggetto della matematica, della logica, della mitologia e della creazione artistica e poetica.  

«Come – ti chiedi - le leggi d’un ordine – quello del pensiero – possano valere per l’altro, quello dell’essere (che è poi quello che conta di più), chi le metterà d’accordo?». E chi deve metterle d’accordo, se non noi accordando le leggi del pensiero a quelle dell’essere? Siamo forse noi i legislatori dell’essere? La logica, invece, certamente, è un’arte che abbiamo inventato noi per accordare il nostro pensare alla realtà, ma non possiamo pretendere di essere noi ad ordinare quel che sia il reale, che, essendo stato creato da Dio, spetta solo a Lui ordinare.

Ma anche lo stesso funzionamento logico della ragione non è fissato dalla nostra ragione, ma i suoi princìpi sono radicati nella natura stessa della nostra ragione, per cui nostra possibilità e dovere sono solo quelli di prender atto delle inclinazioni naturali della nostra ragione e metterle in opera saggiamente, così da condurle a compiere, mediante l’applicazione delle regole della logica, ciò a cui Dio le ha destinate, ossia il raggiungimento e l’espressione della verità. Mentre Dio è il creatore della ragione.

Come si fa a non vedere questo duplice ordine dell’essere? Non ti accorgi che l’ente di ragione dipende dall’ente reale ed è fondato su di esso, è funzionale ad esso, è un sostituto di esso, un rappresentante di esso, una riproduzione di esso prodotta dalla nostra mente? L’ente di ragione lo produci tu, ma l’ente reale lo crea Dio. La vedi la differenza? E la tua ragione che cosa è se non un ente reale, che non hai creato tu, un soggetto che esisteva già prima che tu lo pensassi e riflettessi su di esso?

La tua ragione ti ha preceduto nel tuo pensare, esisteva prima che tu la pensassi, è stata un presupposto al tuo pensarla, e quindi non esiste perché la pensi, ma puoi pensarla perché esiste indipendentemente dal tuo pensarla. Quindi un conto è la tua ragione in quanto da te pensata, e questo pensiero lo formi tu, e un conto è la tua ragione in se stessa e questa l’ha creata Dio.

Affermi poi che il suddetto accordo fra pensiero ed essere è impossibile; che nella volontà di accordo «il pensiero è stato messo in quarantena» e che «dovrebbe venire l’essere, lui a dirci che è d’accordo col pensiero»; «se l’essere ci parla, questo essere è sempre pensiero».

Qui tu affermi in poche righe una serie di stoltezze. Infatti, se l’accordo è impossibile, è impossibile la verità del conoscere. In secondo luogo il pensiero è annullato non nella tesi che esso è vero se è accordato all’essere, ma proprio se si dichiara impraticabile il suo accordo con l’essere.  In terzo luogo, non è il nostro pensiero a avere il diritto che l’essere si accordi con lui – ciò è esclusivo diritto del pensiero divino -, ma è il nostro pensiero che ha il dovere di accordarsi con l’essere. In quarto luogo, l’essere sarà pensiero, se lo avremo pensato, ma non può essere pensiero prima di pensarlo o se non lo pensiamo. È pensiero solo nella mente divina. E qui di nuovo usurpi un potere divino.

Devi moderare le tue pretese. Ringrazia Dio e lodaLo per averti concesso la quasi divina facoltà di pensare, ma non voler sostituirti o pareggiarti con Dio nella potenza del pensiero. Lascia a lui il pensiero creatore ed accontèntati del pensiero riproduttore, che è già grandissima cosa che ti assimila al creatore.

Possiamo sì ordinare in qualche modo il reale al nostro pensiero nell’attività morale e nell’operare artistico, ma la materia del nostro operare morale ed artistico non è effetto del nostro pensiero, ma solo del pensiero e del volere divino, creatore della materia.  «Se l’essere ci parla, questo essere è sempre pensiero»? Sarà pensiero, in quanto pensato, ma in se stesso, fuori di noi, resta distinto dal nostro pensiero ed è pensiero solo nella mente divina.

Vuoi risolvere tutto nel pensato? E come fai a considerare pensata una realtà prima che tu la pensi? Non puoi pensarla e non pensarla allo stesso tempo. Puoi certo pensarla come non pensata, ma essa in se stessa non può essere ad un tempo pensata e non pensata da te. Non dirmi quindi che non la pensi e non la pensi, perché non ha senso. A meno che tu non ti consideri onnisciente, ma tu sai bene che questo è un attributo proprio soltanto del pensiero divino. Tutto l’essere nel tuo pensiero? Non ti sembra un po’ troppo?

Tu hai negato che la verità del conoscere dipenda dal fatto che il nostro pensiero, essendo misurato e regolato dalla realtà esterna sensibile che ci circonda, si adegua, nel concepirla, alla realtà stessa, ed hai sostenuto invece che il nostro pensiero è vero per se stesso e da se stesso, mediante la semplice riflessione su se stesso o autocoscienza, come dice Cartesio, senza il dovere di commisurarsi con qualcosa al di fuori di sé o davanti a sé o al di sopra di sè, che non esiste. Il pensiero non deve fondarsi su nulla di esterno o trascendente a lui, ma solo su se stesso. Hai detto pertanto che «il pensiero non ha bisogno di garanzie: esso è già per se stesso la garanzia del proprio valore, la propria misura, la propria fondazione»[2].

Quanto dici è del tutto falso. Il nostro pensiero non si sostiene da sé, non è regola e principio a se stesso, non è fondato su se stesso, non è vero per se stesso e da se stesso, questo è solo il pensiero divino, ideatore e creatore dell’essere, ma il tuo pensiero è vero solo a condizione che accolga umilmente la realtà a lui esterna, da lui indipendente e a lui presupposta e vi si adegui riproducendola fedelmente ed obbiettivamente in se stesso nel concetto.

Se non fai questo, non sei  nella verità, ma nell’errore. Allora sì che l’essere è separato dal tuo pensiero, Allora sì che l’essere ti è estraneo. Allora sì che caschi nell’aborrito dualismo. Allora dovresti accorgerti che l’essere non coincide con l’essere pensato. Caro Bontadini, ricordati che il tuo pensiero non è infallibile. Ed è anche limitato.

Certamente nel pensare tu immanentizzi ed interiorizzi il reale nella tua anima. Ma sempre qualcosa di esso resta fuori. Non potrai mai dire che l’oggetto è totalmente compreso e capito dal tuo intelletto, non potrai non riconoscere che qualcosa di esso non hai capito e che ti è oscuro, salvo che non sia un ente matematico o logico o un dato di coscienza, in quanto in quel caso, essendo un ente prodotto dalla tua stessa ragione, essendo interno al tuo spirito, a contatto diritto cin esso, non può non essere totalmente compreso e chiaro per la tua ragione.

Non pretendere però di aver sempre ragione. Potrai, come dice Cartesio stesso, esser certo di avere certe idee, ma non potrai esser sempre certo che esse corrispondano alla realtà. Non è sempre detto che quell’essere pensato che hai in mente corrisponda all’essere reale fuori della mente.

Il realismo non comporta alcun dualismo, ma solo una dualità. Il soggetto e l’oggetto, io e e le cose, io e il mondo, io e Dio, io e gli altri, io e tu; posso dire anche: io e me stesso, quando ho fatto oggetto del mio pensiero, nell’autocoscienza, il mio stesso io o il mio stesso essere. Essere, che, daccapo, non esiste perché lo penso, ma lo penso perché esiste, per cui non è prodotto del mio pensiero, ma della volontà di Dio che lo ha creato. Certo dalla mia presa di coscienza che sto pensando, posso dedurre di esistere, come ha detto Cartesio. Ma quando io dico a me stesso: io sono, non penso all’essere assoluto, come faranno poi gli idealisti tedeschi, con la loro invenzione dell’Io trascendentale, che non credo che Cartesio avesse in mente, benché lo si possa ricavare dal suo sum. Lo si può ricavare se il sum lo si intende come cogito-sum, vale a dire se l’essere si fa dipendere dal pensiero. L’io allora si divinizza e diventa l’Io trascendentale degli idealisti.

Caro Bontadini, tu hai voluto trovare il dualismo dove non c’è, ossia nel realismo e non ti sei accorto di quanto peggior dualismo esiste nell’idealismo di Cartesio, che tu hai peggiorato, arrivando all’idealismo di Parmenide attraverso Gentile. Infatti, come fai a mettere d’accordo la naturale adaequatio intellectus et rei con la pretesa dell’io che si identifica con l’essere?

La tua famosa «unità dell’esperienza» che cosa esperisce se tutto è uno e uno è tutto, se pensare è essere ed essere è pensare, se  non c’è distinzione fra essere necessario ed essere contingente, fra io e Dio, fra esperienza sensibile ed esperienza spirituale e quindi non c’è distinzione fra spirito e materia?

Con tutto ciò hai voluto affrontare il problema della metafisica dell’essere, di Dio e della creazione. Senonchè sei passato dall’io sono di Cartesio all’essere parmenideo saltando il Tu sei dei Salmi della Scrittura. Cioè hai capito il valore dell’identità del pensiero con l’essere, ma non hai capito che Dio è Pensiero ed Essere sussistente, in quanto è Persona con la quale noi entriamo in dialogo nell’ascolto della sua Parola, nel culto e nella preghiera.

L’io e il Tu divino di Sant’Agostino non implica dualismo, ma dualità, e nella dualità non c’è niente di conflittuale, niente di falso o di male; essa dice invece armonia, reciprocità e amore. Tu invece oscilli fra l’io divinizzato e un essere parmenideo uno, necessario, eterno, immutabile e panteistico. Non ha senso voler sostituire il due con l’uno. Non bisogna confondere, ma unire ciò che è distinto. C’è spazio per entrambi. Va bene unificare il molteplice attorno all’uno. Occorre nel contempo evitare il conflitto laddove dev’esserci relazione ed accordo. Come puoi inoltre trovare la contraddizione nel divenire, che sono quei ea quae facta sunt, dai quali San Paolo risale per contemplare gli invisibilia Dei, colti dall’intelletto? (Rm 1,20).

L’essere non è oggetto immediato dell’autocoscienza, e tanto meno lo è l’essere assoluto, quasi fosse l’unico essere, visto poi come essere pensato. ma è l’essere, analogico per sua essenza, essere che è percepito ed affermato nella predicazione dell’essere nella copula del giudizio, astraendo dal’ente sensibile individuale, dall’ente fisico mutevole e sensibile e dell’ente quanto della matematica.

Caro Bontadini, apprezzo il tuo desiderio di fornire una prova rigorosa dell’esistenza di Dio, ma su di una base idealistica che cosa pensi di concludere? La questione dell’esistenza di Dio concerne il fondamento della realtà fisica che ci circonda, percepibile dai sensi, della quale avvertiamo la contingenza e il divenire, e per questo poniamo una Causa prima necessaria ed immobile, che è Dio. Ma questa prova, in conformità con la Scrittura (Sap 13,5 e Rm 1,20) l’ha già prodotta San Tommaso d’Aquino.

È già abbastanza rigorosa e di più non potrebbe essere. Tu, invece, caro Bontadini, hai voluto assumere il concetto parmenideo dell’essere, credendo che fosse migliore di quello tomistico, ed invece è panteistico e non dà spazio all’ente contingente, oltre ad essere un concetto idealistico dell’essere come essere pensato. Quindi è successo che tu hai voluto accantonare il principio di causalità interpretando il problema dell’esistenza di Dio come se si trattasse di sciogliere una contraddizione, di mostrare, cioè, che il divenire sarebbe contradditorio se Dio non esistesse. In tal modo sei rimasto nell’orizzonte della logica, mentre il problema tocca la fisica e la metafisica.

Apprezzo tuttavia la tua lunga e faticosa discussione con Severino, che voleva trascinarti a perdere, come lui, la fede, ma tu, benchè impressionato dai suoi argomenti apparentemente solidi, ma in realtà sofistici, hai resistito ed hai conservato la fede.

Tuo Padre Giovanni

Fontanellato, 16 gennaio 2023

Tu hai dichiarato essere pregiudizio e mera immaginazione la convinzione che «ci sia da una parte l’essere e dall’altra il pensiero, come due sfere o due ordini a sé». Ti chiedi poi «come le leggi d’un ordine – quello del pensiero – possano valere per l’altro, quello dell’essere (che è poi quello che conta di più), chi le metterà d’accordo?».

Ma, caro Bontadini, innanzitutto è perfettamente vero che c’è da una parte l’essere e dall’altra il pensiero, come due sfere o due ordini a sé. La distinzione fra l’ente reale e l’ente ideale o di ragione, fra il pensiero e l’essere, fra l’ens reale e l’esse intentionale è già stata scoperta una volta per tutte da Aristotele.

La questione dell’esistenza di Dio concerne il fondamento della realtà fisica che ci circonda, percepibile dai sensi, della quale avvertiamo la contingenza e il divenire, e per questo poniamo una Causa prima necessaria ed immobile, che è Dio. Ma questa prova, in conformità con la Scrittura (Sap 13,5 e Rm 1,20) l’ha già prodotta San Tommaso d’Aquino.

È già abbastanza rigorosa e di più non potrebbe essere.


Tu, invece, caro Bontadini, hai voluto assumere il concetto parmenideo dell’essere, credendo che fosse migliore di quello tomistico, ed invece è panteistico e non dà spazio all’ente contingente, oltre ad essere un concetto idealistico dell’essere come essere pensato. 

Quindi è successo che tu hai voluto accantonare il principio di causalità interpretando il problema dell’esistenza di Dio come se si trattasse di sciogliere una contraddizione, di mostrare, cioè, che il divenire sarebbe contradditorio se Dio non esistesse. In tal modo sei rimasto nell’orizzonte della logica, mentre il problema tocca la fisica e la metafisica.



Immagini da Internet:
- Il Prof. Gustavo Bontadini intervistato da Padre Aldo Bergamaschi
- Stampa, Honoré Daumier
- Mario che legge, Ezechiele Acerbi


[1] Introduzione a Renato Cartesio, Discorso sul metodo, Sa Scuola Editrice, Brescia 1957. p.XVII.

[2] Ibid.

2 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    bella immagine di un ipotetico dialogo, non a livello di dialogo vero, ma dialogo vero tra le idee di Bontadini e le idee di realismo che lei esprimi con precisione e chiarezza.
    Mi ricordava una vecchia rivista cattolica pubblicata in Argentina, dove di tanto in tanto appariva una rubrica intitolata "Dialoghi alla Locanda alla Fine del Mondo", in cui il suo autore (non ricordo se si identificava o se rimase anonimo) immaginava o romanzava ipotetici dialoghi avvenuti alla "fine del mondo", cioè nell'aldilà, a volte tra Aristotele e San Tommaso d'Aquino, o tra Lutero e Kierkegaard, o tra Platone e Sant'Agostino, eccetera.
    Nel preparare questa rubrica, l'autore ha messo insieme testi reali di tali autori (con citazioni precise), creando così un dialogo tra i due pensieri, come se fosse realmente avvenuto.

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    1. Caro Ross,
      mi fa piacere che lei abbia gradito la mia lettera a Bontadini.
      Nel campo dello spirito si va al di là del tempo e dello spazio e siamo tutti presenti gli uni agli altri.
      Sento di voler bene a Bontadini, di comprenderlo come se ci fossimo realmente incontrati. Indubbiamente mi urta il suo idealismo, che mi sembra di notare un certo esibizionismo, ma più in profondità noto un animo nobile, che ha sofferto nel confronto con Severino ed è stato duramente messo alla prova, ma egli, benchè molto scosso dai sofismi di Severino, ha resistito ed ha conservato la fede.

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