Sul concetto rahneriano di Dio - Quinta Parte (5/5)

  Sul concetto rahneriano di Dio

Quinta Parte (5/5)

Influsso ontologistico

Vanamente Rahner vorrebbe assicurarci che non si tratta di ontologismo[1], chè invece proprio di questo si tratta. Esaminiamo infatti alcune proposizioni ontologistiche riportate dal Decreto del Sant’Offizio del 1861.

1. «L’immediata conoscenza di Dio, almeno abituale, è essenziale all’intelletto umano, cosicchè senza di essa non può conoscere alcunché; ed anzi è lo stesso lume intellettuale» (Denz.2841).

Ora Rahner parla di esperienza originaria trascendentale e preconcettuale di Dio presente in noi già da sempre, come condizione di possibilità di conoscenza concettuale delle cose. Che differenza c’è? Cambiano solo le parole.

2. «Quell’essere, che noi intendiamo in tutte le cose e senza del quale non intendiamo nulla, è l’essere divino» (Denz.2842).

Rahner, identificando l’essere col conoscere, forma senz’altro il concetto dell’essere divino, perché solo in Dio l’essere s’identifica col conoscere: ma poiché per lui in generale e quindi in tutte le cose l’essere è identico al conoscere, confonde l’essere con l’essere divino e quindi nella proposizione n.2 è colpito il suo pensiero.

3. «La conoscenza innata di Dio come dell’ente semplicemente implica in modo eminente ogni altra cognizione, cosicchè per mezzo di essa possiamo conoscere implicitamente ogni ente sotto qualunque aspetto conoscibile» (Denz.2844).

Ritroviamo qui esattamente la concezione di Rahner: conoscere l’essere vuol dire conoscere Dio, perché Dio è semplicemente l’essere, non l’ipsum Esse, l’Essere sussistente, ma l’essere in generale, quello che Tommaso chiama ens commune o ens in communi, l’essere che appartiene ad ogni cosa. E come per mezzo dell’essere conosciamo ogni cosa, così anche per Rahner, come per gli ontologisti, sulla base di una conoscenza originaria, immediata e innata di Dio conosciamo le cose perché Dio non è altro che l’essere delle cose.

Il ruolo della concettualizzazione

La concettualizzazione teologica e dogmatica per Rahner non rappresenta obbiettivamente e definitivamente il contenuto dell’esperienza trascendentale, ma ne è solo un’espressione o interpretazione inadeguata, soggettiva, relativa, mutevole e simbolica. La verità della conoscenza di Dio è data solo dall’esperienza trascendentale, per cui, quanto più il soggetto sa esprimere questa esperienza o sa iniziarsi a questa esperienza, tanto più sperimenta la verità divina.

Egli sostiene che noi con i concetti non conosciamo Dio in sé, ma solo Dio per noi[2], confondendo la coppia in sé-per noi (est-videtur) con la coppia quoad se-quoad nos. La prima coppia attiene alla conoscenza della verità: non è vero, come dice Rahner alla maniera kantiana, che noi conosciamo Dio come è per noi, ma non come è in sé. Invece noi Lo concepiamo nel modo che è consono al nostro modo di conoscerLo, per cui quoad nos, rispetto a noi Dio è certamente diverso da come Egli in rapporto a Sé, quoad se concepisce Se stesso. Noi, per esempio, distinguiamo in Lui l’intelletto dalla volontà; Egli invece è in Se stesso e vede Se stesso come una cosa sola intelletto e volontà.

C’è da chiedersi quale Dio sia raggiunto e contattato dall’esperienza trascendentale, della quale Rahner parla spesso, trascurando il fatto che nella vita presente non si può avere nessuna cognitiva esperienza di Dio. Un Dio del quale si abbia esperienza non è più il vero Dio, ma un fantasma della nostra mente. È un dio costruito da noi, un idolo per soddisfare i nostri comodi.

Da dove nasce questo Dio? Dal fatto che Rahner fonda la sua gnoseologia sull’identità di essere e conoscere, attribuendola falsamente a San Tommaso. Secondo Rahner Tommaso sosterrebbe «un’unità originaria di conoscibile e di conoscere, che dice di più del semplice mutuo rapporto tra due cose»[3] . E cita una frase di Tommaso: «intellectum et intellegibile oportet proportionata esse et unius generis»[4].

Tommaso intende dire semplicemente che affinchè l’intelletto possa conoscere l’ente, bisogna che esso appartenga allo stesso genere di ente al quale appartiene l’intelletto: l’intelletto umano, che si serve dei sensi, è proporzionato all’ente intellegibile-sensibile, l’intelletto angelico, che fa a meno dei sensi, all’ente puramente spirituale finito, l’intelletto divino all’ente divino. Invece Rahner interpreta quell’unico genere come se Tommaso volesse dire che

 «essere e conoscere derivano da un’unica radice, sono in un’unità originaria. Essere è per sé conoscere e conoscere è la capacità che ha l’essere, per la sua stessa costituzione, di riflettere su se stesso, è la sua soggettività»[5]. E più avanti: «l’essere è per sua natura conoscere e conoscibilità, autocoscienza»[6]. Secondo Rahner la concezione tomista affermerebbe che il «conoscere, nella sua essenza originaria, è essere cosciente, è la “soggettività”, che ha l’ente del proprio essere»[7]. E in conclusione: «la natura dell’essere dell’ente è conoscere ed essere conosciuto in una unità originaria, che abbiamo chiamato coscienza di sé, autotrasparenza dell’essere per se stesso e “soggettività”»[8] .

Osserviamo che non è affatto vero che essere e conoscere derivino da un’unica radice nella quale l’essere s’identifichi col conoscere. A meno che questo derivare non lo si intenda come riferito all’essere divino, nel quale appunto e solo nel quale l’essere s’identifica col conoscere, si deve dire che è il conoscere a derivare dall’essere come atto dell’ente spirituale. L’essere conoscente è solo l’essere spirituale. Ma esiste anche l’essere materiale, che non è affatto conoscente o autocosciente.

Sono evidenti in questa concezione dell’essere come «soggettività», ossia autocoscienza, le radici cartesiane mediate dall’Io penso kantiano e soprattutto dall’io assoluto di Fichte, nonché dal Soggetto di Schelling e di Hegel. L’essere, in questo quadro di pensiero, è l’essere-che-sono-io. Io sono dunque l’essere. Io sono in modo assoluto. Io sono dunque Dio, l’ipsum Esse. Non è possibile evitare questa conclusione panteistica.

Il metodo, il linguaggio e lo stile letterario di Rahner

Rahner rifiuta una mediazione analogica fra l’univoco e l’equivoco[9]. La sua ontologia conosce solo due piani: quello che chiama «categoriale», proprio dell’esperienza sensibile e della scienza sperimentale, ambito dei concetti univoci e quello «trascendentale», dove la concettualità diventa equivoca. Questo sarebbe il piano della filosofia e della teologia. Tra i due piani gnoseologici non vi è alcuna mediazione. Manca in Rahner una nozione analogica del conoscere come manca una nozione analogica dell’essere. Si prende gioco dell’analogia chiamandola «ermafrodito»[10]. Egli fraintende completamente la vera analogia intendendola così:

«Noi dovremmo dire qualcosa di Dio e poi però vedere che non possiamo propriamente farlo perché la comprensione originaria dei contenuti di tale affermazione deriva da altrove, da qualche cosa che non ha molto a che fare con Dio»[11].

L’analogia non è assolutamente questo. La nozione analogica di proporzionalità propria, che è quella che si adopera in teologia, è una nozione trascendentale, che conviene propriamente a Dio in significati proporzionalmente simili a Dio e agli analogati inferiori. Secondo Rahner invece la vera analogia sarebbe il

«protendersi di tutto il nostro movimento spirituale verso l’orizzonte illimitato – è precisamente, la condizione, l’orizzonte, il fondamento portante attraverso cui mettiamo a confronto e ordiniamo i singoli oggetti dell’esperienza. Tale movimento trascendentale dello spirito è l’elemento originario ed è appunto esso che indichiamo in altro modo con il termine di analogia»[12].

Per farla breve, l’analogia per Rahner non sarebbe altro che la sua esperienza trascendentale, una maniera sfrontata per propagandare le sue idee, coprendole con un nome prestigioso nei secoli, al quale ha tolto il vero significato di colonna del sapere metafisico e teologico per sostituirlo col brodo riscaldato dell’idealismo tedesco. L’analogia consisterebbe, secondo lui, nell’iniziazione o nella «mistagogia» del trascendentale, che dovrebbe tradurre in concetti l’esperienza trascendentale e guidare all’esperienza trascendentale di Dio.

Bisogna allora notare come nella teologia di Rahner, mancando i concetti analogici, si ripropone da una parte l’antico dualismo platonico, quando vuol distinguere, ma dall’altra l’altrettanto antico monismo evoluzionista eracliteo, quando vuole unire.

Si nota da una parte una ripugnanza idealistica per la materia, ma dall’altra la riduzione materialistica dello spirito alla materia. L’esistenza umana oscilla fra l’angoscia della deiezione luterano-heideggeriana e la boria gnostica dell’umanesimo hegeliano. Il divino oscilla tra il buio assoluto dell’inconoscibile e non-concettualizzabile e l’orizzonte umano dell’essere come essere pensato.

Per la mancanza del principio analogico dell’unità dei diversi, Rahner non riesce a costruire una teologia unitaria, organica, articolata, ordinata, deduttiva e sistematica, come è fornita dalla tradizionale teologia scolastica, che, secondo lui, è finita, salvo poi ad aver promosso col suo prestigio, il fascino della sua personalità e la sua sterminata produzione, una turba immensa di devoti discepoli, che oggi dominano anche nelle stesse Facoltà di teologia pontificie. Quindi non ha superato la scolastica; ha semplicemente sostituito una cattiva scolastica alla splendida scolastica di San Tommaso d’Aquino.

La contraddizione tremenda della teologia rahneriana è che Rahner è costretto a formare un concetto di Dio nel momento in cui, sulla scia dei modernisti, nega al concetto oggettività, universalità, immutabilità, veridicità, certezza, rappresentatività intenzionale del reale, capacità di comprendere e mediare l’essenza della cosa. Quale concetto può venir fuori, se non l’assemblaggio raffazzonato dei termini più incoerenti?

Nelle migliaia di pagine dei suoi scritti Rahner parla un’infinità di volte di Dio, della sua esistenza, della sua conoscibilità, dei suoi attributi, delle sue opere, sulla base di un’esplicita dichiarazione dell’impossibilità o impotenza della ragione di formare un concetto di Dio.

Immaginiamo, anche con una certa compassione, il tormento romantico di quest’anima, che si vede costretta da un oscuro fato inesplicabile, da lui chiamato «Dio», ad usare uno istrumento di comunicazione – il concetto - del quale sa in partenza che non serve, un’anima destinata a fare uno sforzo simile alla fatica di Sisifo, che, salito sulla cima del monte rotolando un pesante macigno, se lo vede poi ruzzolare giù, per cui sempre deve ricominciare daccapo senza mai ottenere che il macigno resti sulla cima, un animo influenzato da uno spirito impuro a trascinare con sè nel vortice seduttore delle sue elucubrazioni trascendentali folle di ingenui aspiranti geni e rivoluzionari del pensiero.

Così il concetto in Rahner non è mai del tutto delineato e sicuro, ma sempre dubitabile, sempre rimesso in discussione, senza mai raggiungere una conclusione o una verità univoca e definitiva. Col pretesto del mutamento e dell’aggiornamento del linguaggio teologico reso necessario dal mutare dei tempi, egli finisce, alla maniera modernista, per mutare il significato dei dogmi.

 Gli unici concetti per lui assolutamente certi ed indiscutibili, assolutamente evidenti e che ripete quasi ossessivamente, concetti che viceversa sono proprio quelli che andrebbero discussi e confutati per il loro retroterra idealistico, sono quelli che stanno alla base della sua gnoseologia e della sua metafisica.

Così il periodare di Rahner riflette questo interiore tormento: un periodare interminabile, pesante, involuto, oscuro, prolisso, faticoso, sofistico, senza capoversi[13], complicato, contorto, astratto, con un mucchio di subordinate, che dice e non dice, afferma e smentisce, che insinua senza dirlo apertamente, che allude senza chiarire, colpisce e sparisce.

Si vede dall’incertezza e dai tentennamenti dell’espressione, che lo stesso Rahner non capisce bene quello che dice, e quindi par di notare un gusto del parlare fine a se stesso. Ha il tono del mistagogo che inizia i profani a chissà quali segreti, per poi, alla fine di un faticoso cammino, lasciar loro la bocca amara del vuoto e della delusione.

Si nota in Rahner uno sforzo espressivo quasi disperato, che alla fine non ha successo e ci lascia nel dubbio e nell’incertezza[14], dando agli ingenui, ai vanesi e ai semplici l’impressione di una straordinaria genialità e di un’insondabile profondità di pensiero. Alcuni lo hanno paragonato a un Padre della Chiesa o allo stesso San Tommaso.

Significativo è che a Rahner piaccia il concetto dell’asintoto, come di termine al quale ci si avvicina indefinitamente senza raggiungerlo mai. Pensiamo allo spasimo di questa bella intelligenza sciupata, che tende sempre di nuovo concettualmente al reale senza mai raggiungerlo, sempre chiusa idealisticamente nelle proprie idee, vantando peraltro un’esperienza interiore originaria, globale ed ineffabile dell’Assoluto, che è la sua famosa «esperienza trascendentale di Dio», che è il più grande bluff teologico del XX secolo.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 17 gennaio 2022

C’è da chiedersi quale Dio sia raggiunto e contattato dall’esperienza trascendentale, della quale Rahner parla spesso.

Da dove nasce questo Dio? Dal fatto che Rahner fonda la sua gnoseologia sull’identità di essere e conoscere, attribuendola falsamente a San Tommaso.

Tommaso intende dire semplicemente che affinchè l’intelletto possa conoscere l’ente, bisogna che esso appartenga allo stesso genere di ente al quale appartiene l’intelletto: l’intelletto umano, che si serve dei sensi, è proporzionato all’ente intellegibile-sensibile, l’intelletto angelico, che fa a meno dei sensi, all’ente puramente spirituale finito, l’intelletto divino all’ente divino.

L’essere conoscente è solo l’essere spirituale. Ma esiste anche l’essere materiale, che non è affatto conoscente o autocosciente.

Manca in Rahner una nozione analogica del conoscere come manca una nozione analogica dell’essere.

Bisogna allora notare come nella teologia di Rahner, mancando i concetti analogici, si ripropone da una parte l’antico dualismo platonico, quando vuol distinguere, ma dall’altra l’altrettanto antico monismo evoluzionista eracliteo, quando vuole unire.

Significativo è che a Rahner piaccia il concetto dell’asintoto, come di termine al quale ci si avvicina indefinitamente senza raggiungerlo mai. Pensiamo allo spasimo di questa bella intelligenza sciupata, che tende sempre di nuovo concettualmente al reale senza mai raggiungerlo, sempre chiusa idealisticamente nelle proprie idee, vantando peraltro un’esperienza interiore originaria, globale ed ineffabile dell’Assoluto, che è la sua famosa «esperienza trascendentale di Dio», che è il più grande bluff teologico del XX secolo.

Immagini da internet:
- Sogno di Giacobbe, di Luigi Garzi


[1] Corso, op.cit., p.96.

[2] Ibid., p.84.

[3] Uditori, op.cit., p.70.

[4] Proemio al Commento alla Metafisica di Aristotele.

[5] Uditori, op.cit., p.70.

[6] Ibid., p.71

[7] Ibid., p.72

[8] Ibid., p.73

[9] Corso, op.cit.., pp.104-106.

[10] Ibid., p.105.

[11] Ibid.

[12] Ibid., p.106

[13] La sua tormentatissima esposizione della nozione della morte come pienezza della libertà, come un fiume in piena che ha rotto gli argini, occupa aggrovigliatamente intere pagine senza un solo capoverso e senza dar respiro alla lettura. Vedi Sulla teologia della morte (Morcelliana, Brescia 1972): da p.36 a p.43 e da p.81 a p.87.

[14] La sua amica Rinser glielo faceva notare.

10 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    riguardo l’influenza del cogito di Cartesio su Rahner, ho letto un intervento (*) che fece mons. Giuseppe Lorizio, professore ordinario di Teologia fondamentale alla Lateranense, nel 2009 sul quotidiano “Il Foglio”:

    “ricordo invece, proprio sul cogito cartesiano, una splendida risposta di Rahner che così ribaltava l’assunto: Cogitor ergo sum, sono pensato, dunque sono.”

    Desidererei chiederle:
    1) se anche a lei risulta che Rahner abbia proposto tale “correzione” del celebre assunto cartesiano;
    2) se in questa diversa formulazione, si ripeta egualmente l’errore di Cartesio, cioè la pretesa di voler recuperare l’essere, restando in qualche modo prigioniero del pensiero, per cui alla fine la realtà esterna all’io (il mondo e Dio) finisce per coincidere con ciò che pensiamo.

    (*) https://www.totustuus.it/il-Foglio-Discussione-su-Rahner-teologo-del-Concilio/

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    1. Caro Bruno,
      ho potuto appurare che quella espressione, che lei attribuisce a Rahner, in realtà deriva da Barth, il quale usa il passivo di cogito per dire che “io sono pensato da Dio”.
      Cf: https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/debitori_20060107
      Interpretato così, il principio è molto valido.
      Se invece si prescinde dal riferimento a Dio, come appare dalla formula che presenta lei, allora indubbiamente si ricasca in Cartesio, nel senso di risolvere l’essere nel pensiero. Inoltre, anche considerando il passivo cogitor, siamo obbligato a ritornare al cogito, inquantoché se io dico “sono pensato” sottintendo che io penso che sono pensato.

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  2. Caro Padre Giovanni,
    relativamente all’influenza dell’Idealismo sul concetto di autocoscienza in Rahner, lei ha scritto:

    “Comunque, che sia espresso in prima persona o in terza persona il principio idealistico è sempre quello: non è altro che l’enunciato dell’essenza di Dio per il quale l’io o l’essere umano attribuisce a Sé l’Autocoscienza divina, espressa dalla Scrittura appunto con la prima e la terza persona del presente del verbo essere: Io Sono ed Egli è.
    Invece bisogna dire che il Primo, l’Inizio e l’Assoluto nella realtà (ossia Dio) non è il semplice essere, ma come insegna San Tommaso sulla base Es.3,14, è l’ipsum Esse, l’Essere sussistente, fatto persona. E quindi non è la coscienza di essere; non è l’autocoscienza. L’autocoscienza è il ritorno del pensiero su se stesso. Essa quindi è punto di arrivo e non di partenza. Il punto di partenza dello spirito è la semplice apprensione o intellezione dell’essere. È solo dirigendosi su se stesso che lo spirito attua la coscienza di sé come pensato da sé.”

    Giorgia Salatiello, professoressa emerita presso la facoltà di Filosofia della Gregoriana, sostiene (*) che il tema dell’autocoscienza, Rahner l’abbia recuperato proprio a partire da San Tommaso, per poi ripensarlo:

    “il tema dell’autocoscienza come ritorno completo del soggetto su di sé, che Rahner rielabora originalmente muovendo da san Tommaso, e che ci pone di fronte ad un soggetto che è sempre presente a se stesso e che non si disperde nel mondo anche quando lo conosce od agisce su di esso”.

    Si può parlare, anche in questo caso, di un travisamento o manipolazione che Rahner effettua del pensiero dell’Aquinate?

    (*) https://www.osservatoreromano.va/it/news/2021-02/quo-043/una-visione-ottimista-br-dell-umano.html

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    1. Caro Bruno,
      la Salatiello interpreta l’essere tomistico allo stesso modo di Rahner, confondendolo col concetto idealista di essere, che identifica l’essere con l’autocoscienza. Invece, per Tommaso, l’essere è distinto dall’autocoscienza in quanto nell’autocoscienza noi abbiamo coscienza di noi stessi in quanto conoscitori dell’essere e sulla base del fatto che lo abbiamo già conosciuto.
      Quindi, per noi uomini, l’autocoscienza contiene l’essere solo a patto che in precedenza abbiamo esercitato la conoscenza dell’essere extramentale per mezzo dei sensi.
      È solo Dio che è autocoscienza identica all’essere, di cui ha coscienza, perché Dio non ha bisogno di riempire la sua coscienza di un contenuto ontologico attinto da una realtà esterna a Lui, perché Egli è il creatore di questa realtà esterna, proprio in base alla sua autocoscienza che contiene l’idea stessa dell’ente, che Egli crea al di fuori di Sé.
      Evidentemente la Salatiello non tiene conto del fatto che Padre Fabro, già nel 1974, smascherò la falsità dell’operazione rahneriana tesa a confondere la concezione tomista dell’essere con quella idealista.

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  3. In un altro testo, la Salatiello dettaglia il suo pensiero sul rapporto tra San Tommaso e Karl Rahner:
    “l’apertura al mondo si configura come un’”uscita” da sé con la quale il soggetto si unisce intenzionalmente a tutte quelle realtà con le quali egli non coincide, potendole, in tal modo, conoscere, ma proprio qui si rivela ciò che è capacità solo umana, ovvero la possibilità di non “disperdersi“ nell’esteriorità, poiché lo stesso atto che consente di uscire da sé riconduce all’interiorità con un movimento riflessivo per il quale la conoscenza è, simultaneamente e inseparabilmente, coscienza di sé come centro da cui l’atto promana. (“Quelle cose che sono le più perfette fra gli enti, come le sostanze intellettuali, ritornano alla propria essenza con un ritorno completo”, Tommaso D’Aquino, q. 1, a. 9, c). L’acquisizione della consapevolezza della personale soggettività, cioè, non è data immediatamente, ma, a partire dalla presenza a sé, “Il ‘ritorno in sé’ è nell’uomo…sempre anche un ‘esodo nel mondo’ e attraverso il mondo” (Rahner, Uditori della parola, p. 159; Corso fondamentale sulla fede, pp. 33-43).
    […] “L’intelletto poi per prima cosa apprende lo stesso ente; e secondariamente apprende di intendere l’ente; e in terzo luogo apprende di tendere all’ente”, (Tommaso, Summa Theologiae, I Pars, q. 16, a. 4, ad 2). La volontà che si autodetermina liberamente, ma anche il desiderio e l’affettività sono, così, le distinte, ma non separabili dimensioni nelle quali il sé si rende trasparente a se medesimo, cogliendosi come il nucleo originario da cui scaturisce l’apertura dell’esistenza, poiché “L’uomo, nel mostrare col pensiero e con l’azione chi egli è, conosce se stesso, si ‘percepisce e si ‘comprende (Rahner, Uditori della parola, p. 80). […] la riflessione, come ritorno completo su di sé, permette, con lo stesso atto, la conoscenza della verità, poiché in essa il soggetto non soltanto si rivela capace di formulare un giudizio vero, cioè secondo verità, ma riconosce la sua capacità di farlo, intendendo, appunto, la verità delle sue affermazioni (“(la verità) è conosciuta dall’intelletto in quanto l’intelletto riflette sul proprio atto”, Tommaso, Quaestiones disputatae de veritate, q. 1, a. 9, c.).
    […] Con l’apertura alla verità si dischiude una nuova prospettiva, nella quale il sé non costituisce più l’esito ultimo dell’intero movimento, in quanto sia gli oggetti conosciuti che lo stesso conoscente sono assunti nell’ambito dell’essere, che è il solo a partire dal quale possono essere affermati esistenti e, dunque, conosciuti come veri (Cfr. Rahner, Uditori della parola). L’autocoscienza, pertanto, vista come un processo dinamico e mai definitivamente concluso, è, nello sesso tempo e indisgiungibilmente, autotrascendimento, cioè un pervenire a se stessi che non si configura mai come chiusura in sé, ma che è, al contrario, la condizione di ogni possibilità di uscire da sé per incontrare tutto ciò che esiste nello spazio dell’umana esperienza.
    […] nel momento in cui il soggetto, tornando coscientemente a se stesso, coglie il carattere finito dell’esistenza personale che, proprio per il suo limite, rinvia a ciò che è al di là di ogni limitazione (Salatiello, L’ultimo orizzonte. Dall’antropologia alla filosofia della religione. Pontificia Università Gregoriana, 2003). Muovendo da qui, l’originaria presenza di sé a sé si rivela anche come implicita ed altrettanto originaria presenza dell’Assoluto e, in tal modo, l’indagine antropologica rende possibile l’inizio di un altro discorso, ovvero quello della filosofia della religione che, appunto, “è la conoscenza che l’uomo può raggiungere sul suo esatto rapporto con Dio, l’Assoluto” (Rahner, Uditori della parola, p. 33)”.

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    1. Caro Bruno,
      rispondo alle sue domande. Lei riferisce:
      1.«In un altro testo, la Salatiello precisa il suo pensiero sul rapporto tra San Tommaso e Karl Rahner:

      “l’apertura al mondo si configura come un’”uscita” da sé con la quale il soggetto si unisce intenzionalmente a tutte quelle realtà con le quali egli non coincide, potendole, in tal modo, conoscere, ma proprio qui si rivela ciò che è capacità solo umana, ovvero la possibilità di non “disperdersi“ nell’esteriorità, poiché lo stesso atto che consente di uscire da sé riconduce all’interiorità con un movimento riflessivo per il quale la conoscenza è, simultaneamente e inseparabilmente, coscienza di sé come centro da cui l’atto promana. (“Quelle cose che sono le più perfette fra gli enti, come le sostanze intellettuali, ritornano alla propria essenza con un ritorno completo”, Tommaso D’Aquino, q. 1, a. 9, c). L’acquisizione della consapevolezza della personale soggettività, cioè, non è data immediatamente, ma, a partire dalla presenza a sé, “Il ‘ritorno in sé’ è nell’uomo…sempre anche un ‘esodo nel mondo’ e attraverso il mondo” (Rahner, Uditori della parola, p. 159; Corso fondamentale sulla fede, pp. 33-43)».

      Risposta – Per San Tommaso il contatto conoscitivo con le cose esterne non è affatto un disperdersi, ma comporta un’attuazione della sua capacità conoscitiva e il suo divenire intenzionale l’altro da sé. Che la percezione della verità della realtà esterna comporti per l’intelletto la coscienza di conoscere la verità e per concomitanza, la coscienza di sè, è vero. È vero anche che l’acquisizione della consapevolezza della personale soggettività, non è data immediatamente. Tuttavia non è data a partire dalla presenza di sé. Questa è la concezione rahneriana della conoscenza come autocoscienza. Per Tommaso l’acquisizione della consapevolezza della personale soggettività, è data dal ritorno riflessivo dell’intelletto sul soggetto (reditio completa) dopo aver contattato la realtà delle cose esterne mediante i sensi.

      2.«“L’intelletto poi per prima cosa apprende lo stesso ente; e secondariamente apprende di intendere l’ente; e in terzo luogo apprende di tendere all’ente”, (Tommaso, Summa Theologiae, I Pars, q. 16, a. 4, ad 2). La volontà che si autodetermina liberamente, ma anche il desiderio e l’affettività sono, così, le distinte, ma non separabili dimensioni nelle quali il sé si rende trasparente a se medesimo, cogliendosi come il nucleo originario da cui scaturisce l’apertura dell’esistenza, poiché “L’uomo, nel mostrare col pensiero e con l’azione chi egli è, conosce se stesso, si ‘percepisce e si ‘comprende (Rahner, Uditori della parola, p. 80).»
      Risposta – Il sé, ossia l’autocoscienza, per Tommaso, non è il nucleo originario da cui scaturisce l’apertura dell’esistenza, ma è l’io colto da se stesso, che corrisponde al risultato del ritorno su di sé (reditio completa). Il nucleo originario da cui scaturisce l’apertura dell’esistenza non è altro che l’intelletto, il quale, dopo che si è aperto all’esistenza grazie al contatto sensibile con le cose esterne, riflette su se stesso e coglie il sé.

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    2. 3. «La riflessione, come ritorno completo su di sé, permette, con lo stesso atto, la conoscenza della verità, poiché in essa il soggetto non soltanto si rivela capace di formulare un giudizio vero, cioè secondo verità, ma riconosce la sua capacità di farlo, intendendo, appunto, la verità delle sue affermazioni (“(la verità) è conosciuta dall’intelletto in quanto l’intelletto riflette sul proprio atto”, Tommaso, Quaestiones disputatae de veritate, q. 1, a. 9, c.).
      Risposta – Esatto

      4, «Con l’apertura alla verità si dischiude una nuova prospettiva, nella quale il sé non costituisce più l’esito ultimo dell’intero movimento, in quanto sia gli oggetti conosciuti che lo stesso conoscente sono assunti nell’ambito dell’essere, che è il solo a partire dal quale possono essere affermati esistenti e, dunque, conosciuti come veri (Cfr. Rahner, Uditori della parola).
      Risposta – Noi non affermiamo gli esistenti a partire dall’essere, ma affermiamo l’essere a partire dagli esistenti. Infatti l’essere è l’atto dell’esistente. Se non cogliamo l’esistente, come facciamo a cogliere l’essere? Il nostro intelletto non intuisce l’essere immediatamente ed originariamente. Il nostro intelletto conosce originariamente ed immediatamente le cose sensibili mediante i sensi. Solo successivamente astraendo da questo essere concreto, conosce l’essere in generale.

      5. «L’autocoscienza, pertanto, vista come un processo dinamico e mai definitivamente concluso, è, nello sesso tempo e indisgiungibilmente, autotrascendimento, cioè un pervenire a se stessi che non si configura mai come chiusura in sé, ma che è, al contrario, la condizione di ogni possibilità di uscire da sé per incontrare tutto ciò che esiste nello spazio dell’umana esperienza».
      Risposta – L’autocoscienza nel trascendersi non perviene a se stessa, ma sale oltre se stessa nei piani superiori dell’essere fino a Dio. Essa è già pervenuta a se stessa appunto come autocoscienza. In questo atto il cerchio dell’autocoscienza si chiude perché è tornata al punto di partenza. Da ciò tuttavia può ripartire per un atto di autotrascendenza, a parte il fatto che la trascendenza (per es. Dio) appare nella coscienza.

      6. «Nel momento in cui il soggetto, tornando coscientemente a se stesso, coglie il carattere finito dell’esistenza personale che, proprio per il suo limite, rinvia a ciò che è al di là di ogni limitazione (Salatiello, L’ultimo orizzonte. Dall’antropologia alla filosofia della religione. Pontificia Università Gregoriana, 2003). Muovendo da qui, l’originaria presenza di sé a sé si rivela anche come implicita ed altrettanto originaria presenza dell’Assoluto e, in tal modo, l’indagine antropologica rende possibile l’inizio di un altro discorso, ovvero quello della filosofia della religione che, appunto, “è la conoscenza che l’uomo può raggiungere sul suo esatto rapporto con Dio, l’Assoluto” (Rahner, Uditori della parola, p. 33)”.
      Risposta – Va bene.

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  4. Caro Padre Giovanni,
    la ringrazio delle spiegazioni oltre che del corposo articolo ricco di preziose sollecitazioni.
    Le chiedo, se è d’accordo, di soffermarsi ancora su un punto che mi sembra essenziale per comprendere da dove origini la gnoseologia di Rahner. Lei, nella risposta (punto 4) sul testo della prof.ssa Salatiello, ha scritto:
    “Noi non affermiamo gli esistenti a partire dall’essere, ma affermiamo l’essere a partire dagli esistenti. Infatti l’essere è l’atto dell’esistente. Se non cogliamo l’esistente, come facciamo a cogliere l’essere? Il nostro intelletto non intuisce l’essere immediatamente ed originariamente. Il nostro intelletto conosce originariamente ed immediatamente le cose sensibili mediante i sensi. Solo successivamente astraendo da questo essere concreto, conosce l’essere in generale”.

    Ma nel momento in cui avviene la conoscenza sensibile di un ente, e istantaneamente lo si riconosce come esistente, possiamo escludere che nella mente umana fosse già presente, una sorta di “sfondo” … in cui poter collocare i singoli enti, man mano che vengono appresi, ovvero che sia strutturalmente presente un “orizzonte di senso”, corrispondente ad una precomprensione dell’essere in generale?

    In altre parole, ancor più povere: come è possibile che, non appena io vedo un oggetto, penso contemporaneamente che esista, senza che la mia mente non possieda già, una qualche irriflessa, preconcettuale nozione dell’esistere?

    Insomma, è possibile salvare qualcosa dalle seguenti affermazioni di Rahner, o dobbiamo senz’altro respingerle in toto?
    “Ogni affermazione, infatti, si riferisce ad un ente determinato e si attua sullo sfondo di una precedente conoscenza, anche se implicita, dell’essere in genere
    […] In breve, il pensiero umano suppone sempre una conoscenza implicita dell’essere per poter cogliere il singolo ente” (K. Rahner, Uditori della parola, pag. 64, Borla, 1988)

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    1. Caro Padre Giovanni, la ringrazio delle spiegazioni oltre che del corposo articolo ricco di preziose sollecitazioni. Le chiedo, se è d’accordo, di soffermarsi ancora su un punto che mi sembra essenziale per comprendere da dove origini la gnoseologia di Rahner. Lei, nella risposta (punto 4) sul testo della prof.ssa Salatiello, ha scritto: “Noi non affermiamo gli esistenti a partire dall’essere, ma affermiamo l’essere a partire dagli esistenti. Infatti l’essere è l’atto dell’esistente. Se non cogliamo l’esistente, come facciamo a cogliere l’essere? Il nostro intelletto non intuisce l’essere immediatamente ed originariamente. Il nostro intelletto conosce originariamente ed immediatamente le cose sensibili mediante i sensi. Solo successivamente astraendo da questo essere concreto, conosce l’essere in generale”.

      1. Ma nel momento in cui avviene la conoscenza sensibile di un ente, e istantaneamente lo si riconosce come esistente, possiamo escludere che nella mente umana fosse già presente, una sorta di “sfondo” … in cui poter collocare i singoli enti, man mano che vengono appresi, ovvero che sia strutturalmente presente un “orizzonte di senso”, corrispondente ad una precomprensione dell’essere in generale?

      Risposta - L’atto d’essere si trova nell’ente concreto materiale che noi cogliamo con i sensi. Se noi non compissimo questa operazione sensibile, la nostra mente non potrebbe contenere la nozione dell’essere. Noi otteniamo la cognizione dell’essere cogliendo con l’intelletto l’essere concreto di questo ente. Se non facessimo ciò, come potremmo farci un concetto dell’essere? Infatti l’essere noi lo troviamo con l’intelletto allo stato di concretezza negli enti colti dai sensi. Solo allora il nostro intelletto può farsi un concetto universale dell’essere che vada bene per tutti gli enti in quanto proprietà comune a tutti.

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    2. 2. In altre parole, ancor più povere: come è possibile che, non appena io vedo un oggetto, penso contemporaneamente che esista, senza che la mia mente non possieda già, una qualche irriflessa, preconcettuale nozione dell’esistere?

      Risposta - Non appena io vedo un oggetto, penso contemporaneamente che esista, perché trovo l’essere in quella cosa e di quella cosa. Io l’essere non so che c’è per conto mio. Questo è solo il potere divino, creatore dell’essere. Ma so che l’essere c’è perché lo trovo nelle cose, senza che l’essere dipenda da me. Il che naturalmente non vuol dire che io trovi l’essere lì, in quell’oggetto per la prima volta, e che nel contempo io non possegga già la nozione dell’essere, ma la posseggo solo perché l’ho ricavata dall’essere di altre cose precedentemente conosciute.

      3.Insomma, è possibile salvare qualcosa dalle seguenti affermazioni di Rahner, o dobbiamo senz’altro respingerle in toto? “Ogni affermazione, infatti, si riferisce ad un ente determinato e si attua sullo sfondo di una precedente conoscenza, anche se implicita, dell’essere in genere.[…] In breve, il pensiero umano suppone sempre una conoscenza implicita dell’essere per poter cogliere il singolo ente” (K. Rahner, Uditori della parola, pag. 64, Borla, 1988)

      Risposta – Esiste certo la conoscenza dell’essere in genere, ma essa non precede ma segue l’esperienza sensibile del singolo ente o dei primi enti percepiti per la prima volta all’inizio della nostra attività intellettuale, quando siamo giunti all’età di ragione. Una volta che ci siamo formati la nozione dell’essere da queste primissime esperienze infantili, allora certamente la nozione dell’essere diventa lo sfondo abituale nozionale implicito e trascendentale di tutte le nostre conoscenze.
      Rahner non ha mai riflettuto sull’origine prima del concetto dell’essere nell’infanzia. Egli considera l’esperienza intellettuale dell’adulto come se noi fossimo nati adulti e dove la nozione dell’essere è effettivamente questo sfondo precognitivo trascendentale permanente e implicito. Ma il guaio è che partendo da questo falso presupposto in fondo cartesiano, imbastisce il suo sistema idealistico-panteista basato sulla nozione dell’essere come autocoscienza, perché si dimentica che noi l’essere lo troviamo inizialmente nelle cose e non nostro io. E quindi Dio non è il vertice di questa falsa autocoscienza, ma della realtà esterna e inizialmente colta dai sensi. Il Dio di Rahner non è altro che il vertice dell’io.

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