Il baratro della ragione secondo Kant - Tra la pusillanimità e la presunzione - Seconda Parte (2/2)

  Il baratro della ragione secondo Kant

Tra la pusillanimità e la presunzione

 

Parte Seconda (2/2) 

Il potere della ragione speculativa va ben oltre quanto crede Kant

La ragione umana è un potere sillogistico induttivo-deduttivo, analitico-sintetico di avanzamento e miglioramento della conoscenza, che, iniziando col contatto con le cose sensibili e i fenomeni, non si ferma ad essi, ma, continuando la sua ricerca delle cause, scopre un livello di realtà, che è il mondo dello spirito e della persona.

Ma interrogandosi ulteriormente sulla causa dell’esistenza del mondo spirituale, la ragione si accorge che la spiegazione è data dall’esistenza di una somma persona infinita, assoluta e creatrice di tutte le cose visibili e invisibili. E questa persona è Dio.

Ella trascende del tutto l’ideale trascendentale della ragione, del quale nessuno negherà l’esistenza e il valore altissimo, ma che non è altro che il patrimonio della metafisica e della logica congiunte assieme e non va affatto inteso come non so quale tentazione ad essere ipostatizzato in un’entità trascendente chiamata «Dio».

Che qualche imprudente possa andar soggetto a questa tentazione, è possibile, ma ciò avviene solo perchè non ha compiuto con la sua ragione il percorso giusto per arrivare al vero Dio. E soprattutto è sbagliatissimo credere con Kant che la pratica della teologia e della religione, comprese quelle rivelate come il cristianesimo, inducano dalla soggezione a una non so quale «apparenza trascendentale», per la quale la ragione umana naturalmente ma fallacemente sarebbe portata a concepire Dio come ipostatizzazione dell’ideale trascendentale.

Questa è una gravissima offesa che Kant arreca alla fede in Dio, alla religione, alla teologia e quindi allo stesso cristianesimo, una concezione falsa ed empia, che purtroppo è stata fatta propria dalla massoneria nella sua guerra contro la Chiesa. 

Kant invece ferma a metà strada il cammino della ragione speculativa impedendole di sfruttare fino in fondo il suo potere conoscitivo, così da impedirle di soddisfare in modo radicale alla sua insopprimibile e ragionevolissima esigenza di trovare il principio primo e la causa prima dell’esistenza delle cose e di Dio. 

Kant è preso da un infantile e volgare timore, segno di sensismo e di materialismo, che, se e quando la nostra ragione travalica il mondo dell’esperienza o se ne allontana, con ciò stesso essa si mette a fantasticare, non può dimostrare nulla, e dà per realtà cose insensate o enti chimerici della sua immaginazione.

Kant crede indiscriminatamente ed acriticamente che tutte le volte che la ragione abbandona il terreno dell’esperienza o afferma cose non empiricamente verificabili e non sperimentabili, elabori delle teorie infondate sotto i pretesti della più alta spiritualità. Ma in realtà egli fa di tutte le erbe un fascio e non distingue i casi nei quali effettivamente la ragione svagola nel fantastico o si trastulla in giochi dialettici o si perde nelle astrazioni, dai casi nei quali la ragione nell’indagare le cause delle cose, si accorge che al fine di spiegarle, essa deve ammettere l’esistenza di una realtà sovrasensibile, puramente intellegibile e spirituale.

E ciò non significa affatto che, con ciò stesso ogni volta la ragione si allontani dalla realtà per aggrapparsi a puri vuoti concetti scambiati per realtà, ma, quando segue un metodo rigoroso in vista di una ricerca seria, può afferrare valori e cose decisive per capire il senso della nostra vita, i nostri doveri morali e raggiungere i livelli più alti della scienza.

L’albagia della ragion pratica

La cosa curiosa, pertanto è che se Kant ha queste remore sul piano della ragione speculativa, non ha alcun problema ad ammettere come evidenti i valori morali. Ma non si accorge neanche del fatto che, se ha potuto descrivere la elaboratissima Critica della ragion pura, lo ha potuto fare perché sapeva muoversi benissimo nel mondo dello spirito e del pensiero. E allora che cosa ci viene a raccontare col negar valore al trascendimento dell’esperienza? Non si accorge di darsi la zappa sui piedi?

Ma purtroppo qui ci par di constatare un gioco sleale. Nel campo della ragione speculativa, che è la via per la quale la ragione s’incammina verso Dio, egli sbarra la strada con l’ingiusta proibizione di superare il piano dell’esperienza ed accedere al mondo dello spirito.

Invece in campo morale, dove il soggetto ha una gran voglia di fare la propria volontà, eccolo a comprendere benissimo tutta la dinamica dello spirito, della coscienza, della verità, del bene morale, del fine e della forma dell’agire, dei rapporti fra intelletto e volontà, fra colpa e innocenza, fra l’intenzionale e il preterintenzionale, fra volontà e passioni, fra l’ideale e il reale, fra libertà e determinismo, fra legge morale e obbedienza al dovere.

Eccolo ammettere qui un Dio che non ti dà nessun comando perché la ragion pratica sa già da sé quello che deve fare, ma che fa comodo perché sostiene la ragione nel sentirsi sicura che ciò che fa è bene, un Dio molto simile al Dio di Lutero, che garantisce salvezza, purchè tu creda che ti vuol salvare.

Kant sa benissimo che cosa è lo spirito e lo dimostra da quanto ci dice nella sua filosofia. Spesso nella Critica Kant parla dell’attività dello «spirito», termine col quale le traduzioni italiane rendono il termine tedesco Gemüth, parola popolare intraducibile, dato il suo significato polivalente, che associa sentimento e intuizione, volontà e passione, senso e intelletto, immaginazione e concetto. Alcuni traducono con «animo».

È curioso che Kant non usi termine Geist, che è presente in Cartesio e Wolff e tornerà con Hegel. Eppure egli non è capace di dimostrare la spiritualità e l’immortalità dell’anima a causa delle sue remore fenomenistiche. Nel contempo, come non riconoscere quanto Kant è sensibile al dinamismo dello spirito nella Critica della Ragion Pratica? Kant è questo, bisogna prenderlo com’è, non lasciarsi turbare dalle sue furbizie, apprezzare una certa atmosfera di nobiltà che si nota nel giro dei suoi pensieri, la cura nell’indagine e nell’argomentazione razionale, anche se poi le dimostrazioni non tengono, l’elevatezza del pensiero di un filosofo spiritualista che stranamente afferma che l’intelletto non può oltrepassare il dato del senso.

La ragione kantiana è sull’orlo di un baratro

Gran parte della fama dovuta a Kant si riferisce alla cura meticolosa ed indefessa che egli ha posto nello studio della ragione umana, alla stima e al rispetto dei quali l’ha circondata, alla messa in luce della sua natura, del suo valore conoscitivo, della sua capacità, del suo metodo, delle sue funzioni, delle sue leggi, dei suoi atti, dei suoi princìpi, dei suoi poteri, delle sue illusioni, dei suoi fini.

Ma pochi o pochissimi, per non dire nessuno conoscono, segnalano, commentano o danno importanza ad una pagina della Critica della ragion pura, dove il filosofo nel corso di una lunga e tormentata discussione sulla questione della somma idea della ragione in rapporto alla relazione esistente fra il contingente e il necessario, improvvisamente interrompe il filo del discorso per uscire in una serie di strane affermazioni del tutto inaspettate, che danno l’impressione che Kant sia preso da una specie di delirio. Egli afferma infatti

«la necessità incondizionata di cui abbiamo bisogno come dell’ultimo sostegno di tutte le cose è il vero baratro della ragione umana. L’eternità stessa, per orridamente sublime che un Haller possa ritrarla, non fa a gran pezza sull’anima questa impressione vertiginosa. Non si può evitare, ma non si può nemmeno sostenere il pensiero di un Ente, che ci rappresentiamo come il sommo fra tutti i possibili, dica quasi a se stesso: Io sono ab aeterno in eterno; oltre a me non c’è nulla tranne quello che è per volontà mia; ma donde son Io dunque? Qui tutto si sprofonda sotto di noi e la massima come la minima perfezione pende nel vuoto senza sostegno dinanzi alla ragione speculativa, alla quale non costa nulla far disparire l’una come l’altra cosa senza il più piccolo impedimento»[1].

Ciò che qui ci colpisce di più è la domanda insensata che dovrebbe farsi Dio – poiché è chiaro che di Lui si parla - circa la sua origine, come se l’Origine di tutte le origini dovesse avere un’origine. Kant si riferisce veramente all’Io divino o ad un’immagine sbagliata che ci facciamo noi? S’interroga seriamente? Verrebbe voglia di passar oltre infastiditi magari perdonando a Kant questa stranezza.

Infatti, se sappiamo che Dio è la Causa prima, l’Ente assolutamente necessario, l’Ego Sum Qui Sum, il Motore immobile, il fine ultimo, la Totalità dell’essere, l’Assoluto, l’Eterno, l’Infinito, Colui che tutto sostiene e da Cui tutto dipende, Colui che tutto causa e spiega, che cosa cerchiamo di più? Che cosa vogliamo al di sotto? Il baratro si apre davanti a chi non ammette l’esistenza di Dio ovvero dell’Io Sono, perché senza Dio nulla ha senso, nulla esiste. Ma come si può pretendere che Dio poggi su qualcosa, mancando il quale tutto svanisce. Che concetto si ha di Dio? Un Dio causato che Dio è?[2].

E poi che cosa è questa boriosa «ragione speculativa, alla quale non costa nulla far disparire l’una come l’altra cosa senza il più piccolo impedimento?». Come può la ragione speculativa, alla quale, secondo lo stesso Kant è possibile solo la conoscenza dei fenomeni, senza poterli trascendere nell’orizzonte dello spirito, avere improvvisamente il potere divino di far sparire le cose? Ha forse in mano la bacchetta magica della Fata Turchina?

Si rende conto Kant di cosa sta dicendo? Dove sono finiti il suo equilibrio e la sua moderazione? Dov’è la modestia e l’umiltà della ragione speculativa? Sembra di vedere qui un precorrimento della ragione hegeliana, che pone tanto l’essere che il non-essere, come meglio le aggrada.

Chi avrebbe pensato che nel moderato Kant ci siano già i germi della ragione hegeliana? Ma del resto, la ragione cartesiana, questa res cogitans, questa ragione sussistente in atto di pensare, che cosa è se non la ragione divina? E l’Io penso kantiano non è forse il cogito cartesiano? E l’Io sono cartesiano che cosa ha di diverso dall’Io Sono di Fichte e di Es 3,14? Sarebbe questa la modestia della ragione speculativa?

Eppure, come infatti Kant non si accorge che l’eventuale domanda che Dio dovrebbe fare a se stesso - «da dove vengo?» - non ha nessun senso, giacchè se Dio è l’Essere originario e la Causa prima, che cosa può esserci prima dell’essere originario e necessario? Se Dio per definizione è l’incausato e  necessario, che non ha bisogno di essere spiegato o giustificato  e il cui essere non è contingente, che senso ha chiedersi da dove viene? Se Dio, come riconosce Kant, è la risposta a tutte le domande, che senso ha domandarsi perché Dio esiste?

Eppure, dato il genio di Kant, sentiamo che non possiamo fermarci a quel giudizio di condanna; deve, Kant, aver voluto dirci con quella boutade, qualcosa di profondo, seppur errato, che per dovere di rispetto nei confronti di tale grande filosofo, o quanto meno filosofo che tanto grande influsso ha esercitato nella filosofia moderna, dobbiamo cercare di capire e interpretare.

Quello che è strano è che gli stessi kantiani e i critici di Kant non prendano in considerazione quel passo scabroso e vi stendano sopra un velo pudico, passando subito, come nulla fosse stato, ad altro argomento e forse illudendosi del fatto che Kant si esprime così in un modo assolutamente isolato, un apax legòmenon, senza tornar più sull’argomento e spiegarci che cosa ha voluto dire e come gli è venuto in mente di farsi un simile domanda. Come può infatti l’Io Sono chiedersi da dove viene? Penserà Fichte a parlare in modo degno dell’Io assoluto. Peccato che Fichte confonda questo Io col nostro povero io umano.

 L’impressione che comunque traiamo da questo testo sconcertante è che esso segnali en passant una nascosta, intima disperazione o sfiducia nella ragione di luterana memoria, una specie di fessura o spiraglio al di là del quale si intravvede appunto uno spaventoso baratro, una fessura, che però Kant richiude subito spaventato o imbarazzato egli stesso, quasi pentito per aver detto troppo,  per riprendere il suo solito tono, e continuare a procedere con la solita meticolosa e compassata calma, come se nulla fosse accaduto.

A noi però resta incancellabile la forte impressione e il ricordo di aver intuìto in quelle parole, che sembrano una specie di confessione o una sfida, più che una trombonata, ciò che sta dietro a tutta la baldanza e la sicurezza con le quali Kant parla abitualmente della ragione.

Per questo, quell’incidente, quelle parole che Kant, si solito così controllato, si è lasciato sfuggire, per quanto si trovino in due sole pagine di tutta la sua Critica della ragion pura nella sua stessa produzione filosofica a mia conoscenza[3], non possono non costituire elementi di giudizio per una valutazione complessiva del concetto kantiano di ragione.

Dunque, perché non tentare una spiegazione? Chiediamoci allora: perché «la necessità incondizionata di cui abbiamo bisogno come dell’ultimo sostegno di tutte le cose dovrebbe essere vero baratro della ragione umana»? La ragione sprofonda se viene meno l’Ente necessario, che spiega e giustifica tutti gli enti contingenti.

Ma perché il pensiero di tale Ente dovrebbe corrispondere allo sprofondamento della ragione nel nulla? Forse che Kant intende dire che tale pensiero è irraggiungibile? Non ha fondamento reale grazie a una dimostrazione razionale?

Immediatamente prima del brano riportato Kant pronuncia alcune parole che forse ci aiutano a far luce sul testo citato sconcertante. Dice Kant:

«Tutto il problema dell’ideale trascendentale si riduce a questo: o trovare per la necessità assoluta un concetto o, per il concetto di una cosa qualunque, trovare la necessità assoluta di questa. Se si può l’una, si deve poter anche l’altra cosa, perché come assolutamente necessario la ragione non conosce se non quello, che è necessario per il suo concetto. Ma l’una cosa e l’altra sorpassano affatto tutti gli sforzi estremi per appagare in questo punto il nostro intelletto, nonchè tutti i tentativi per appagarlo in questa sua impotenza»[4].

Kant intende semplicemente dire che tentare di dimostrare l’esistenza di Dio come Ente assolutamente necessario veramente esistente, che spieghi l’esistenza del contingente, è un tentativo che fallisce. Per quanti sforzi facciamo, la mostra ragione fallisce, mentre essa può essere avvinta da un’apparente certezza, che Kant chiama «apparenza dialettica»[5].

Egli infatti crede che la ragione speculativa non possa trascendere l’orizzonte dei fenomeni per elevarsi, mediante l’applicazione analogica del principio di causalità, alla conoscenza della sostanza spirituale infinita e incausata, che è Dio. Questa ritrosia di Kant nei confronti del sapere metafisico ottenuto per induzione dalle cose sensibili meraviglia, in quanto egli non ha alcun problema nel trattare di valori spirituali quali la ragione, l’intelletto, il pensiero, la verità, il sapere, la volontà, la legge morale, la virtù, la libertà.

Parla con tanta disinvoltura di Ente supremo, assolutamente necessario incondizionato, realissimo ed originario, di causa prima e di creazione. Ma nel problema dell’essenza di Dio non si tratta di ipostatizzare un’idea, ma di riconoscere come persona divina esistente quella che è realmente la personalità divina, Ente assolutamente necessario, creatore del mondo e dell’ente contingente.

Kant riconosce che del concetto di ente assolutamente necessario non possiamo fare a meno, ma tale necessità va limitata al concetto, che è l’ideale trascendentale della ragione, ossia l’idea della totalità della realtà, la somma idea della ragione, mentre è illecito credere che a questo concetto corrisponda un Ente realissimo qualificato come Dio. Dice Kant

«Qual è nelle prove dell’esistenza di Dio la causa dell’apparenza dialettica e tuttavia naturale, che connette concetti della necessità e della realtà somma realizza e ipostatizza ciò che pure può essere solo idea? La causa che rende inevitabile ammettere tra le cose esistenti qualcosa come in sé necessario e pure, nello stesso tempo indietreggiare innanzi a un tale Ente, come innanzi a un baratro? E come avviene che la ragione su ciò cominci a intendere se medesima e, dallo stato incerto di assenso timido e sempre daccapo ritirato, pervenga a una conoscenza tranquilla?».

È evidente che se la ragione si accorge di aver ipostatizzato la semplice idea dell’Ente sommo senza aver argomenti tratti dall’esperienza delle cose per affermarne l’esistenza, si chiederà da dove viene questo fantasma e le parrà di precipitare in un baratro. Ma se bada alla realtà delle cose, ne scopre l’autore divino mediante il ragionamento metafisico, si troverà sul terreno saldissimo dell’assoluta certezza e pienezza.

Con questo equivoco tremendo per il quale la ragione prende per reale l’ideale e per ideale il reale, Kant, nonostante le sue pagine e pagine di interminabili sottili e complessi ragionamenti, non riesce ad uscire dal ginepraio, in cui si è cacciato, e s’illude di una soluzione fasulla laddove anche un fanciullo onesto dalla mente limpida, lo supera elevandosi laddove Kant con tutto il suo genio non riesce a salire.

Kant inverte il procedimento della ragione riguardo al problema dell’esistenza di Dio. Considera apparenza dialettica ciò che è verità certa, fondata sull’applicazione del principio di causalità, per il quale la ragione, constatando che gli enti oggetto dell’esperienza sono contingenti, ossia hanno l’essere per partecipazione, si accorge, per fondare la loro esistenza, di dover porre, come causa della loro esistenza, un Ente la cui essenza è quella di esistere, ossia un Ente che è Essere per essenza, creatore degli enti. Mentre d’altra parte considera come «conoscenza tranquilla» la fallace riduzione dell’esistenza di Dio alla somma idea della ragione, che non è altro che l’esito finale del cogito cartesiano.

P. Giovanni Cavalcoli        

Fontanellato, 23 luglio 2023

Ciò che qui ci colpisce di più è la domanda insensata che dovrebbe farsi Dio – poiché è chiaro che di Lui si parla - circa la sua origine, come se l’Origine di tutte le origini dovesse avere un’origine. Kant si riferisce veramente all’Io divino o ad un’immagine sbagliata che ci facciamo noi? S’interroga seriamente?

Infatti, se sappiamo che Dio è la Causa prima, l’Ente assolutamente necessario, l’Ego Sum Qui Sum, il Motore immobile, il fine ultimo, la Totalità dell’essere, l’Assoluto, l’Eterno, l’Infinito, Colui che tutto sostiene e da Cui tutto dipende, Colui che tutto causa e spiega, che cosa cerchiamo di più? Che cosa vogliamo al di sotto?

Il baratro si apre davanti a chi non ammette l’esistenza di Dio ovvero dell’Io Sono, perché senza Dio nulla ha senso, nulla esiste. Ma come si può pretendere che Dio poggi su qualcosa, mancando il quale tutto svanisce. Che concetto si ha di Dio? Un Dio causato che Dio è? 

È evidente che se la ragione si accorge di aver ipostatizzato la semplice idea dell’Ente sommo senza aver argomenti tratti dall’esperienza delle cose per affermarne l’esistenza, si chiederà da dove viene questo fantasma e le parrà di precipitare in un baratro. Ma se bada alla realtà delle cose, ne scopre l’autore divino mediante il ragionamento metafisico, si troverà sul terreno saldissimo dell’assoluta certezza e pienezza.



Immagine da Internet: La creazione, Il battistero di San Giovanni Battista, Firenze


[1]  Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 963, p.491.

[2] Sembrerebbero cose evidenti; eppure anche oggi c’è chi si fa la stessa domanda di Kant, credendo di fare una domanda intelligente che mette con le spalle al muro chi afferma l’esistenza di Dio come Causa prima. Può avere un qualche potere di seduzione il negare ce possa esistere una causa prima. Ma se si accetta il concetto di Dio come causa prima (esista o non esista), è assurdo chiedersi chi ha causato la causa prima. Al riguardo ho avuto una lunga discussione con un lettore del mio blog, senza che io sia riuscito a persuaderlo. Quello che fa meraviglia è che una domanda simile se la sia posta Kant.

[3] Preciso che, a parte il mio primo incontro con Kant al liceo nel 1963, è dal 1966 che ininterrottamente mi interesso di Kant.

[4] Ibid.

[5] Critica, op.cit., p.492.

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