Dio non è ambiguo e non vuole un sacrificio umano - Seconda Parte (2/2)

    Dio non è ambiguo e non vuole un sacrificio umano

Ancora sul sacrificio di Abramo

Seconda Parte (/2) 
 

Prosegue D. Candido:

«Dal prosieguo del racconto si evince che Abramo ha capito - o ha voluto capire – di dover sacrificare Isacco. Stenderà infatti la mano armata sul figlio, prima di essere fermato dall’angelo (Gen. 22, 10-11). Ma avrebbe potuto fare diversamente e in un secondo tempo si sarebbe potuto giustificare appellandosi al senso letterale del comando di Dio: l’ambiguità dell’espressione divina glielo avrebbe consentito.

Ripeto che il comando divino non è per nulla ambiguo, ma molto preciso: sacrificare Isacco.

Forse il profondo silenzio di Abramo, durante i tre giorni della salita sul monte del sacrificio, può essere inteso come il travaglio dell’uomo di Dio nel dubbio della fede. Quel dubbio lo dilania, ma al contempo gli consente di formulare liberamente le forme della sua obbedienza. Proprio nel dubbio si rivela la portata del suo cuore, la capacità di essere obbediente a Dio. D’altro canto, il Dio biblico sembra chiedere un’obbedienza intesa come atteggiamento di un cuore che non trattiene nulla per sé, ma che sa restituire al Datore di ogni bene: e non va oltre. Le forme concrete di questa obbedienza restano libere, cioè legate al discernimento, alla generosità e alla creatività amorosa del credente. Dio non rinfaccerà: la sua stessa richiesta era volutamente ambigua, lasciando così ampio margine alle diverse interpretazioni. Qualunque cosa Abramo avesse deciso di fare, il Signore lo avrebbe approvato […]».

Abramo riceve un ordine molto chiaro, anche se egli in buona fede crede che sia un ordine divino. Siccome Abramo è disposto a credere in modo assoluto, trattandosi di credere in Dio, non ha nessun dubbio se obbedire o non obbedire, ma il suo cuore umile e generoso, benchè nell’angoscia, obbedisce senza esitare, sicchè già dal primo momento Abramo appare come padre nella fede.

Candido parla di “dubbio della fede”, ma questa espressione, in generale, è usata quando si è presi dal dubbio che Dio possa esistere, mentre in questo contesto ciò non è in discussione, semmai, secondo questa esegesi, il dubbio riguarda che cosa voglia veramente il Signore, quale tipo di sacrificio corrisponda davvero alla sua volontà.       

Ripeto che Abramo non ha alcun dubbio nell’obbedire a Dio. Il problema è che Abramo in un primo tempo non intende ciò che Dio voleva veramente, tanto è vero che egli viene illuminato dall’angelo, il quale, ordinandogli di non fare del male ad Isacco, lascia chiaramente intendere che Abramo stava per fargli del male, cosa che evidentemente non può convenire a Dio.

Attraverso l’angelo, Dio corregge il concetto che Abramo si era fatto di Dio e della sua volontà.

Ora se io ho capito quale sia l’azione buona da compiere rispetto a quella cattiva, se ho capito cosa vuole Dio da me, allora io sono davvero libero di scegliere tra bene e male, tra Dio e Satana, ma se la cosa non mi è chiara, e secondo Wénin-Candido, Dio stesso ha voluto che non mi fosse ben chiara, in che consiste la mia scelta libera, la mia libertà? Se ho fatto la scelta giusta, potemmo dire che “l’ho azzeccata”, se faccio quella sbagliata, ho comunque l’attenuante che non era ben chiaro quale fosse la scelta giusta…    

Tutta la tesi di Wénin-Candido ha il suo perno nel sostenere che l’ordine divino era ambiguo oppure offriva un’alternativa, cosa che ho già dimostrato priva di fondamento.

Torniamo a Wénin:

«[…] occorre ricollocare questo episodio nel suo contesto come le prime parole “dopo questi avvenimenti” invitano a fare […] Abramo ha aspettato questo figlio che Dio gli ha promesso da quando lo ha invitato a lasciare la casa del padre dicendo che diventerebbe una grande nazione, e immediatamente dopo che avrebbe una grande discendenza. Per ben 25 lunghi anni Abramo ha dovuto aspettare, pazientare come sottolinea il racconto contrassegnato dall’impazienza del patriarca […] tutta la storia di Abramo è così tesa verso la nascita di questo figlio che, a detta di Dio, deve essere il primo di una discendenza numerosa come la polvere della terra, come le stelle nel cielo. Questo figlio tanto atteso e finalmente donato, Dio può forse ora chiederglielo? Tanto più che poco dopo la sua nascita, Isacco è diventato l’unico figlio di Abramo in seguito all’allontanamento di Ismaele con sua madre Agar. Per Abramo il dilemma si pone quindi in questi termini: se sacrifica Isacco cosa avverrà della promessa di discendenza tante volte ripetuta? Sacrificando suo figlio ostacolerà forse il progetto di Dio?»

È possibile che Abramo si sia posto la suddetta angosciosa domanda. E come ha risposto? Obbedendo senza esitare a quella che credeva essere la volontà di Dio, cioè sacrificare suo figlio Isacco. Come mai Abramo ha potuto obbedire a Dio, che prima fa una promessa e poi la smentisce? Evidentemente perché Abramo è vittima di una concezione volontaristica di Dio, ossia di un Dio che, oltre che volubile, vuole anche un sacrificio umano.

L’angelo corregge Abramo su questi due punti: Dio è fedele e quindi non è affatto volubile, ma coerente, e pertanto conferma la promessa e proibisce il sacrificio di Isacco, perché Dio non vuole sacrifici umani.

Direi che è proprio perché sacrificare Isacco contraddirebbe la promessa divina sulla discendenza, che Abramo non poteva procedere in quella direzione, se non fosse stato sicuro che era stato proprio Dio a chiederglielo.

Tuttavia teniamo presente che si tratta di una sicurezza soggettiva e non oggettiva. In altre parole, Abramo credeva in buona fede una cosa che in realtà Dio non può volere, ossia un sacrificio umano.

Prosegue Wénin:

«Ma se invece offrirà un semplice olocausto in presenza di Isacco, corrisponderà a ciò che Dio gli sta chiedendo? Sarà all’altezza della sua richiesta? […] Per chi ha familiarità con l’Antico Testamento, che il test si riferisca ad un dono è una cosa scontata […] un dono costituisce di per sé un test in quanto, indipendentemente dalla volontà del donatore, mette in atto un processo di manifestazione di una verità sconosciuta […] infatti il modo di ricevere manifesta qualcosa di colui che riceve a seconda che egli veda nel dono una cosa da possedere o un segno di benevolenza che invita a stringere o a coltivare un rapporto con colui che offre. In altre parole, nel regalo si può privilegiare l’oggetto o la relazione che il regalo, manifestandola, cerca di creare o di consolidare con colui che offre. Questo è il cuore del test di Abramo nell’ambito della relazione con Dio, stretta già da lungo tempo e che ha assunto la forma di un’alleanza ufficiale, se così posso dire, un anno prima della nascita di Isacco. Se Isacco è davvero un dono di Dio, come Abramo lo accoglierà? Lo accaparrerà tenendolo gelosamente come un oggetto che gli appartiene, che possiede, oppure vedrà in Isacco, nell’alleanza liberamente accettata, vedrà in Isacco un segno tra Dio e lui, un segno che è proprio un sacrificio visto che un sacrificio è un segno tra Dio e il fedele che lo offre.

Quindi Abramo lascerà che Isacco sia, tra Dio e lui, un segno della loro reciproca volontà di relazione in vista della vita? Ecco la scelta che il dono di Isacco mette davanti ad Abramo, una scelta che il test pone chiaramente in evidenza, poiché è essenziale capire che il test non ha nulla di arbitrario ma è inerente al dono stesso.

In fondo, facendo parlare Dio all’inizio della scena, il narratore non fa altro che drammatizzare questa caratteristica del dono, dandogli la forma di un’azione (in greco dramma) che potrà essere sviluppato in un racconto […] un altro aspetto cruciale del test concerne la sua paternità, la sua relazione con Isacco, aspetto che è ben messo in luce dalle letture di ispirazione psicoanalitica […] quando Dio dice “vattene verso la terra del Morìa su una delle montagne che io ti dirò” rinvia Abramo all’inizio della sua storia, quando Adonai gli disse “vattene dalla tua terra, dalla casa di tuo padre verso la terra che io ti farò vedere” […] ora Dio parla ad Abramo non più di suo padre ma di suo figlio, sottolineando che sa quanto gli sia attaccato, poiché dice di Isacco “tuo figlio, il tuo unico/unito che tu ami” e l’aggettivo qualificativo che Dio utilizza evoca il fatto che Isacco è unico agli occhi di suo padre, e che nello stesso tempo è unito a lui, forse ancora più unito in quanto è unico […] amerà Isacco fino al punto di permettergli di essere un figlio libero tagliando i legami con i quali lo tiene stretto a sé (da cui forse il dettaglio della legatura di Isacco proprio prima del sacrificio), oppure si aggrapperà a questo oggetto che ha colmato la sua attesa come aveva fatto suo padre che era anche lui possessivo rispetto ai suoi figli?

[…] La domanda è Isacco è per Abramo o per Adonai? È per suo padre o per questo Dio che sin dall’inizio del libro della Genesi non cessa di cercare di separare gli esseri per permettere loro di condurre una vita libera e feconda risolutamente aperta a possibili alleanze […] attraverso l’ambiguità stessa della richiesta Dio lascia ad Abramo l’intera responsabilità, l’intera possibilità di tenere il dono che è Isacco come un regalo che gli appartiene senza per questo fargli alcun rimprovero. Abramo è libero di scegliere, se farà salire Isacco sulla montagna per offrire un sacrificio con lui, non trasgredirà l’ordine divino anzi gli avrà dimostrato così la sua riconoscenza per il figlio accordato; tuttavia, se terrà suo figlio unito a sé rischia di diventare un padre come suo padre, un padre a cui l’ordine di Dio lo ha strappato all’inizio della sua avventura.

In linea di principio si può dire certamente che se noi evitiamo di compiere un sacrificio, ossia di offrire un dono a Dio, dimostriamo di essere egoisticamente attaccati alla creatura che dovremmo donare o dedicare a Dio. Nel caso però della vicenda di Abramo, il fatto che egli abbia conservato quel figlio, che in un primo tempo pensava di dover sacrificare, non va assolutamente inteso come corrispondente al desiderio egoistico di Abramo di tenere per sé una creatura, che invece avrebbe dovuto offrire a Dio. Infatti l’amore di un padre per suo figlio è cosa del tutto naturale e voluto da Dio. Da ciò si deve dedurre che il sacrificare il proprio figlio uccidendolo è del tutto contrario alla volontà di Dio. Per questo il messaggio divino inizialmente udito da Abramo di sacrificare il figlio non corrispondeva effettivamente all’autentica volontà divina, come appare chiaramente dal fatto che l’angelo gli ferma la mano che sta per uccidere.

A tale riguardo si potrebbe fare un riferimento a fatto che il Padre Celeste sacrifica il suo Figlio Incarnato. Uno forse potrebbe domandare: dov’è qui l’amore del Padre per il Figlio? Questa situazione è del tutto diversa da quanto successe ad Abramo, perché qui c’era l’ipotesi di un sacrificio umano assolutamente insufficiente per la salvezza dell’umanità, oltre ad essere un delitto, mentre nel caso di Cristo il Padre offre bensì un uomo, ma un uomo che è Dio e quindi capace col suo sacrificio di salvare l’umanità.

Inoltre si priverà anche della possibilità di vedere la sua storia di alleanza con Dio rinnovarsi in modo inatteso, quando renderà il dono ricevuto da lui […] così Abramo sceglie finalmente di non tenere il dono per sé, egli, come dirà il messaggero di Adonai, non risparmia Isacco (risparmiare in senso economico di tenere per sé, di trattenere per sé per assicurarsi l’avvenire perché non si sa mai che cosa possa capitare). Al contrario, non ha risparmiato suo figlio per lui lontano da Dio, tenendolo distante da questo Dio che magari lo vorrebbe. Al contrario, Abramo si mostra pronto a offrire a sua volta il dono che ha ricevuto da Dio, dimostra così che la sua relazione con Dio è più forte del desiderio di trattenere Isacco, di legarlo a sé. Nello stesso tempo, come dice Isacco mentre salgono la montagna, si affida a Dio, dimostra la sua fiducia».

In queste parole è ripetuto lo stesso ragionamento sbagliato di cui sopra, per il quale, se Abramo avesse trattenuto per sè suo figlio e non l’avesse ucciso, avrebbe dato prova di egoismo.

Ma se, come dice Wénin “Dio lascia ad Abramo l’intera responsabilità” e se Abramo “farà salire Isacco sulla montagna per offrire un sacrificio con lui, non trasgredirà l’ordine divino”, quali conseguenze si avrebbero avute nel momento in cui Abramo si fosse avvalso di questa opzione (quella e appunto che deriverebbe dalla traduzione letterale di Genesi 22, 2)?

Che il sacrificio di Abramo non avrebbe potuto essere prefigurazione del sacrificio di Cristo. E in tal caso in cosa sarebbe consistita la prova di Abramo preannunciata dall’incipit di Genesi 22? E come avrebbe potuto l’angelo voce di Dio esclamare “Ora so che tu temi Dio…”?

Ho già detto che nel comando divino non dobbiamo vedere una duplice proposta e quindi la possibilità da parte di Abramo di fare una scelta. Per conseguenza, Abramo in un primo tempo intende sacrificare il figlio, perché le formali e testuali parole di Dio erano il comando di sacrificare il figlio. È solo all’arrivo dell’angelo che Abramo interrompe l’azione che sta per fare, non certo di sua iniziativa e quindi non per libera scelta, ma sempre nella volontà di obbedire al comando divino che in questo momento è autentico, perché gli è rivelato dall’angelo, il quale gli mostra che Dio non vuole sacrifici umani.

Di fatto il sacrificio di Abramo si può considerare una prefigurazione del sacrificio di Cristo. Naturalmente di ciò Abramo non era assolutamente consapevole. È una considerazione che possiamo fare noi oggi, dopo il fatto del sacrificio di Gesù.

Certamente, se Abramo non avesse obbedito a quello che riteneva essere il comando di Dio, ciò entrava in contrasto col fatto di essere una prefigurazione del sacrificio di Cristo. Ma resta sempre il fatto che Abramo non aveva alcuna possibilità di scelta tra il sacrificare il figlio o sacrificare l’ariete. Egli era convinto di dover sacrificare il figlio. È solo l’angelo che gli fa capire ciò che Dio voleva veramente.

In che modo, con la scelta di non sacrificare Isacco, Abramo avrebbe dimostrato il suo timor di Dio? Perché avrebbe compiuto un semplice sacrificio animale assieme al figlio? Certamente no, dunque Dio sarebbe rimasto insoddisfatto nella mancata dimostrazione di timor di Dio da parte di Isacco.

Anche e soprattutto obbedendo al comando dell’angelo di sacrificare l’ariete Abramo dà prova di temere Dio.

Se l’angelo messaggero di Dio afferma che Abramo, tentando di compiere il sacrificio di suo figlio Isacco, ha obbedito alla voce di Dio, significa che la voce di Dio gli aveva comandato (ai fini della prova) di sacrificare Isacco. Punto. E non “anche”, in alternativa, di poter sacrificare un animale facendone partecipe Isacco, come viene proposto in questa interpretazione del sacrificio abramitico.

Abramo ha obbedito a Dio fin dall’inizio. Il che però non vuol dire che avesse veramente capito che cosa Dio voleva, perché io posso benissimo ottenere il merito dell’obbedienza anche obbedendo a ciò che io ritengo esser stato l’ordine del superiore, ma che non corrispondeva a ciò che in realtà il superiore intendeva comandarmi.

Dunque, la tesi fondamentale di Wénin-Candido, che Dio lascerebbe libero (pur nel tormento del dubbio) Abramo di scegliere tra le due opzioni, sacrificio di Isacco oppure sacrificio di un animale con Isacco presenziante, non mi sembra convincente.

Certamente non è convincente la tesi della opzione, ma non è neppure convincente la tesi tradizionale secondo la quale Dio avrebbe veramente voluto il sacrificio di Isacco. È vero che queste sono le parole testuali della Bibbia, ma una sana esegesi storico-critica, basata su di una sana teologia naturale, ci obbliga a rinunciare ad una interpretazione letterale, sia pure di lunghissima durata, per evitare di presentare un Dio che vuole un sacrificio umano, cosa che oggi più che mai ripugna alla nostra sensibilità teologica e alla nostra stessa fede.

Un’ultima citazione da Candido:

«Nel dubbio su quanto gli stesse realmente chiedendo il Signore, Abramo ha scelto l’interpretazione più radicale: ha deciso di obbedire alla logica biblica secondo cui di fronte a Dio, nell’oscurità dell’incertezza, si prende la via della fiducia e dell’amore più grandi. Nel dubbio, il patriarca ha scelto l’obbedienza generosa e senza riserve […] Rivolgendosi direttamente ad Abramo, Dio qualifica subito Isacco come “tuo figlio” (in ebraico binka). Quello che può apparire un termine semplice e innocuo, nasconde forse il nodo da sciogliere. In altri termini, il problema vero è che Isacco non è solo l’unigenito (da Sara) e legittimamente “amato”, ma è percepito da Abramo come “suo” […] L’orizzonte è senza dubbio quello dell’affetto: ma, in chiave biblica, ogni affetto che si traduce in possesso rischia di non aprirsi al dono […] Il nodo comincia forse a sciogliersi se si ritorna all’espressione “tuo figlio”, con cui Dio all’inizio si era rivolto al patriarca. Con profonda schiettezza ci si può chiedere: ma Isacco è davvero di Abramo? Abramo è suo padre certo: ma questo equivale a sostenere che Isacco è “suo”?

Non c’è dubbio che un figlio appartiene al padre, ma nel contempo appartiene soprattutto a Dio che lo ha creato e quindi, come Dio glie lo ha donato, così Dio glie lo può chiedere, e il padre è tenuto ad offrirlo. Ma come? Uccidendolo?

Si delinea così il primo aspetto della prova biblica (cfr. Gen 22,1): essa è un indice rivelatore del cuore del credente. È il cuore di Abramo che viene messo a nudo. La vera obbedienza richiesta da Dio, infatti, non riguarda Isacco, non concerne cioè tanto il figlio donato, quanto piuttosto quello che il dono significa per colui che lo ha ricevuto. C’è in ballo la modalità di Abramo di essere padre: il vero sacrificio – se di sacrificio si vuol parlare – non riguarda il figlio, ma il padre nel suo essere padre (cfr. A. Wénin, L’uomo biblico. Letture nel Primo Testamento, EDB, 2005, pag. 63) […] Il dono, infatti, non è una res, un oggetto soltanto: il dono è la chiamata a una relazione. Di conseguenza, Dio non ha donato Isacco ad Abramo se non per certificare l’alleanza e la promessa (Gen 21, 1-4). In altri termini, il Dio biblico non dona per fornire all’uomo qualcosa che gli manca, ma per fare dell’uomo un suo amico […] Il patriarca si è trovato a un bivio: ritenere Isacco un suo possesso, e quindi trattenerlo legato a sé, oppure considerarlo come il segno della relazione con Dio, e quindi essere disposto a restituirlo aggiungendovi il plusvalore della sua rinuncia. In questo senso, il merito di Abramo è notevole, perché – se ci si può esprimere così – egli ha inteso Dio che gli chiedeva un’obbedienza assoluta, ha voluto capire che si trattava di sacrificare Isacco ed è stato pronto ad offrirlo guardando al figlio come un dono di Dio […] La dinamica obbedienziale biblica è dunque quella di chi si rifiuta, anche a costo di estremi sacrifici, di far diventare i doni personali qualcosa da afferrare o rivendicare, di conseguenza, un ostacolo alla relazione con Dio […] Questa prova divina, però, ha anche un secondo aspetto: non semplicemente rivela il cuore del credente, ma lo fa anche maturare. La prova misteriosamente non solo svela, ma anche educa. Così, nella dinamica del dono-Isacco apparentemente ripreso da Dio e reso nuovamente ad Abramo (Gen 22,12), il patriarca ha visto maturare il suo cuore: ha imparato cosa vuol dire gestire anche i beni terreni più preziosi come appartenenti a Dio. Ha imparato cosa significhi fare tutto nel nome di Dio. Come scrive J.D. Barthelemy:

“Abramo era il padre di Isacco, che aveva ricevuto da Dio stesso, ma avrebbe finito per abituarsi a credere di esserne il padre in un modo umano. Dio glielo riprende, e glielo rende nel momento stesso in cui Abramo ha posto il coltello alla gola; e in quel momento, Abramo impara ad essere padre nel nome di Dio, e non nel nome suo, a non appropriarsi anche del proprio figlio. E qui troviamo già una delle chiavi della storia biblica” (J.D. Barthelemy, Dio e la sua immagine (Jaca Book, 1980, pag. 97)».

In queste parole ci sono molte cose giuste. Quella tuttavia sbagliata è ciò che ho già detto e cioè quella di ritenere che Abramo sarebbe stato egoista se non avesse sacrificato il figlio.

Le considerazioni sulla paternità, che potrebbero essere estese alla genitorialità in senso lato, quando diventa iper-possessiva, trasformando un figlio o una figlia quasi in oggetto di proprietà, non rispettando così il suo diritto, quale persona creata da Dio unica e irripetibile, alla sua libertà di vita, possono essere del tutto condivisibili, ma non penso rivestano un ruolo primario nel racconto di Genesi 22. Sono importanti ma non determinanti.

Le considerazioni relative alla disponibilità che un padre deve avere a donare a Dio suo figlio sono certamente condivisibili, ma tale disponibilità non va assolutamente confusa con quella di compiere un sacrificio umano.

Pertanto, a mio parere, risultano piuttosto forzate affermazioni come:

«il problema vero è che Isacco […] è percepito da Abramo come “suo” […] La vera obbedienza richiesta da Dio […] non concerne cioè tanto il figlio donato, quanto piuttosto quello che il dono significa per colui che lo ha ricevuto», quasi che il Signore abbia lasciato credere al patriarca che volesse il sacrificio del figlio, inteso come “restituzione” del dono ricevuto, con l’intento principale di fargli capire (e farci capire) che… i figli non sono una nostra proprietà esclusiva.

Finiremmo così per approdare ad un’interpretazione decisamente riduttiva del sacrificio di Abramo.

Indubbiamente Dio può chiederci di restituirgli ciò che ci ha dato, ma questo va fatto nel rispetto della vita, perchè Dio è Dio dei viventi, non dei morti. E quindi questa restituzione, se si tratta di un figlio, non sarà mai un sacrificio umano, ma semmai sarà per esempio l’offerta che una madre fa di suo figlio a Dio nella speranza che possa farsi sacerdote.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 20 settembre 2022

 

 

Indubbiamente Dio può chiederci di restituirgli ciò che ci ha dato, ma questo va fatto nel rispetto della vita, perchè Dio è Dio dei viventi, non dei morti. 

E quindi questa restituzione, se si tratta di un figlio, non sarà mai un sacrificio umano
 

 



Immagini da Internet:
- Gregorio Lazzarini
- Tiziano Vecellio

11 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    a proposito della tesi di André Wénin sulla presunta comunicazione ambigua, da parte di Dio, che lascerebbe libero Abramo di scegliere tra le due opzioni che, comunque non sarebbero in contrasto col comando divino, desidero rilevare quello che, a mio parere, costituisce un ulteriore punto debole di tale tesi, oltre a quelli già da lei esposti.

    Ammettiamo per ipotesi (senza concederlo) che, come sostiene Wénin, la prova abramitica possa essere assimilata ad un test, similmente ai casi in cui, per usare le parole dello stesso teologo francese:
    «Il professore fa passare un test a uno studente perché non sa se lo studente ha integrato le competenze che il corso si propone di dargli […] ma quando si è verificato ciò che si voleva sapere, lo studente sa o non sa, lo scienziato vede se l’ipotesi è giusta o meno, il test si ferma».

    Ne consegue che devono esistere, necessariamente, una o più risposte “giuste” che permettono di superare con successo il test, e una o più risposte “sbagliate” che causano l’insuccesso di chi è stato sottoposto al test. Se fosse impossibile fallire il test, questo evidentemente, non avrebbe senso.

    Ora, se Abramo, dinanzi al comando di Dio è libero di scegliere, se sacrificare Isacco oppure sacrificare un animale alla presenza di Isacco, e se ambedue le opzioni possono essere, in qualche modo, accettate da Dio come risposte “giuste” al suo comando, mi chiedo: quale avrebbe potuto essere, invece (nella logica di Wénin), la risposta “sbagliata”, cioè il comportamento col quale Abramo non avrebbe superato positivamente il test?
    Credo che, in generale, ad una prova richiestaci da Dio, il comportamento non giusto da parte nostra, sia il rifiutarci di compiere la Sua volontà. Dunque, la risposta “sbagliata”, da parte di Abramo, sarebbe stata se questi si fosse ribellato, o quanto meno, si fosse rifiutato di compiere il sacrificio, disobbedendo così al comando di Dio.
    Ma questa risposta “sbagliata” sarebbe stata possibile solo se, alla coscienza di Abramo, fosse stato chiaro e inequivocabile che Dio gli avesse chiesto proprio il sacrificio di Isacco. Soltanto in tale drammatica situazione interiore avrebbe avuto senso, non giustificabile ma comprensibile per la fragilità umana, disobbedire a Dio.
    Altrimenti, se Abramo avesse invece percepito che vi fosse stata la pur minima possibilità di cavarsela con il semplice olocausto di un animale, avrebbe ragionevolmente tentato di percorrere questa strada, prima solo di pensare di non ottemperare al comando di Dio.
    La conseguenza logica di questa mia considerazione, se fondata, è che dovremmo allora escludere che, per Abramo, si sia posto il dilemma su quale tipo di sacrificio Dio gli stesse chiedendo.

    L’ipotesi di Wénin che, accanto al sacrificio di Isacco, venga prospettato ad Abramo “anche” il sacrificio di un animale, elimina di fatto, all’origine, la possibilità anche solo teorica, che Abramo possa incorrere in un comportamento sgradito a Dio, cioè esclude la possibilità di una risposta “sbagliata” alla prova/test cui Dio sottopone Abramo, ma in tal modo, rende priva di senso proprio la “prova” in quanto tale (ancor di più se assimilata ad un puro test come fa Wénin), che invece costituisce aspetto essenziale del racconto genesiaco sin dall’inizio (“Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo…”).
    E dunque, nel respingere la tesi di Wénin, siamo necessariamente ricondotti alla traduzione/lettura più tradizionale di Genesi 22, per cui Dio, nell’ambito della prova cui sottopose Abramo, chiese al patriarca, senza ambiguità alcuna, di offrire in olocausto il proprio figlio Isacco.

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    1. Caro Bruno,
      io ritengo che anche nell’ipotesi della scelta, ipotesi che noi scartiamo, Abramo di per sé avrebbe potuto rifiutare sia l’una che l’altra proposta.

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    2. Caro Padre Giovanni,
      riconosco di aver esagerato scrivendo che “l’ipotesi di Wénin… elimina di fatto, all’origine, la possibilità anche solo teorica, che Abramo possa incorrere in un comportamento sgradito a Dio…”.
      Indubbiamente, Abramo è sempre libero di disobbedire a Dio. Anche nell’ipotesi esegetica di Wénin, Abramo avrebbe potuto rifiutarsi di compiere qualsiasi tipo di sacrificio.
      Tuttavia, non possiamo fare a meno di domandarci che senso avrebbe potuto avere una scelta del genere?
      Abramo, dopo che aveva ricevuto da Dio tanti doni, dopo che il Signore lo aveva aiutato in tante difficilissime situazioni, dopo che gli aveva donato il figlio tanto atteso a lui e alla moglie ormai molto avanti nell’età, dopo che gli aveva promesso una grandiosa discendenza e stabilito con lui un patto, ecc… dopo che Dio aveva fatto tutto questo per Abramo… alla richiesta di un sacrificio che, secondo Wénin, avrebbe potuto assolvere anche con l’uccisione di un animale, Abramo avrebbe potuto disobbedire a Dio?

      In via puramente teorica, possiamo rispondere di sì, ma realisticamente dobbiamo riconoscere che si tratta di una possibilità talmente remota, talmente improbabile che finisce per inficiare l’aspetto della “prova”, sottolineato dall’incipit di Genesi 22, che resta fondamentale per l’intelligenza di tutto l’episodio del sacrificio abramitico.
      E questo ritengo sia un punto debole, non banale, dell’esegesi di Wénin, nel proporre la libertà di scelta per Abramo tra i due tipi di sacrifici.

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  2. Se da un lato condivido in buona parte le sue critiche al pensiero di Wénin, dall’altro confermo il mio dissenso rispetto alla sua tesi che il comando di sacrificare Isacco sia frutto di un fraintendimento da parte di Abramo.
    Non c’è dubbio che Dio non voglia sacrifici umani, e l’intervento dell’angelo in Genesi 22,12 (“Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente!”) lo certifica in modo inequivocabile.
    Ma questo non significa che, all’interno della prova, e sottolineo, limitatamente allo spazio della prova, Dio non possa aver comandato ad Abramo di recarsi sul monte nel territorio di Mòria per offrirgli il figlio in olocausto.
    Come ho cercato di argomentare in miei precedenti interventi sul blog, la “prova” è una dimensione a parte, con un suo spazio e un suo tempo ben delimitati, e non riguarda la realtà e la vita diciamo così… “normale”, rispetto alla quale è come una provvisoria parentesi.
    Per fare una similitudine, per quanto poco cogente… con la vita pratica: immaginiamo che in fase di progettazione industriale, si decida di sottoporre a “prova” la resistenza di un determinato materiale. Durante tale prova quel materiale verrà sottoposto gradualmente a sollecitazioni sempre maggiori, sino al suo limite di resilienza, superato il quale collasserà. Terminata la prova, se, nelle realizzazioni industriali (ovvero nella vita “normale”), si deciderà di utilizzare quel materiale, si dovrà prestare grande attenzione affinché esso non sia sottoposto al grado di sollecitazione che, durante la prova, ha portato al suo collasso.
    Fuor di metafora, ciò che può essere “giusto” all’interno della prova (spingersi sino all’estremo limite), può non esserlo affatto nella realtà “normale”, al di fuori della prova.
    Il fatto che, in Genesi 22.1, Dio comandi il sacrificio di un figlio quale prova “estrema”, significa che Dio ci sta comunicando che vuole che, nella nostra vita, si compiano sacrifici umani? Assolutamente no, perché quel comando ha un suo senso solo all’interno della prova di Abramo. E di questo il lettore viene subito informato dall’incipit del capitolo.
    Di conseguenza, affermare che non si possa accettare il comando di Genesi 22 come proveniente da Dio, perché significherebbe che Dio sia favorevole ai sacrifici umani, è, a mio avviso, errato.
    Quel comando divino, valido per la durata della prova, che richiede di affrontare un percorso fisico / spirituale, di tre giorni (“va' nel territorio di Mòria […] su di un monte che io ti indicherò”), con l’idea di dover sacrificare il proprio figlio amato, chiede, essenzialmente, che l’uomo si disponga all’obbedienza.
    Fino a che punto, Dio può chiedere tanto all’uomo? Fino al punto che, a insindacabile giudizio divino, avrà dimostrato quanto è grande la sua fede obbedienziale. Allora la prova potrà concludersi poiché significa che veramente quell’uomo ama Dio:
    «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15).
    La conclusione della prova abramitica si risolve nella comunicazione, che Dio fa al patriarca, di non volere la morte di Isacco poiché era stata comandata con l’unico fine di poter affermare che “Ora” «so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito […] perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni […]» (Gn 22,12;16-17).
    Dio, comandando, nell’ambito della prova, il sacrificio di Isacco, vuole davvero la morte di Isacco? Certamente no, visto che pone fine alla prova proprio fermando la mano di Abramo.
    Dio, comandando, nell’ambito della prova, il sacrificio di Isacco, intende dunque avallare i sacrifici umani, oppure provare sino all’estremo la fede di Abramo? La risposta mi sembra scontata.
    Pertanto, tra la verità che Dio non voglia sacrifici umani e il comando di Genesi 22,1 (nell’ambito della prova), non sussiste vera contraddizione.

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    1. Caro Bruno,
      io direi che la proibizione di sacrifici umani è un precetto divino che vale sempre ed ovunque, non solo nella vita ordinaria, ma anche nei momenti di prova, e non è ammissibile che Dio pretenda da un uomo come prova di fede l’uccisione del figlio.
      Lo so che lei può obiettare citando la lettera del testo, ma come le ho detto e ripetuto, l’esegesi moderna, che ha assunto per comando stesso della Chiesa il metodo storico-critico, ha capito che in certi casi, se si fa una interpretazione letterale, si cade in concezioni teologicamente erronee.
      Sappiamo già dalla storia quali enormi inconvenienti nacquero in occasione del caso Galileo, proprio a causa di una interpretazione letterale, che l’esegesi moderna ha superato in modo del tutto ragionevole.
      Così similmente Papa Francesco, in forza della sua autorità apostolica, ha interpretato l’espressione letterale “non indurci in tentazione” nel senso di “non abbandonarci nella tentazione”.

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    2. Lei replica al mio commento “non è ammissibile che Dio pretenda da un uomo come prova di fede l’uccisione del figlio”.
      Ho forse io sostenuto che il significato della prova, a cui Dio sottopone il patriarca, si riduca nel chiedere semplicemente ad Abramo di uccidere tout court Isacco?
      No, io ho scritto invece:
      «Quel comando divino, valido per la durata della prova, che richiede di affrontare un percorso fisico / spirituale, di tre giorni (“va' nel territorio di Mòria […] su di un monte che io ti indicherò”), con l’idea di dover sacrificare il proprio figlio amato, chiede, essenzialmente, che l’uomo si disponga all’obbedienza. Fino a che punto, Dio può chiedere tanto all’uomo? Fino al punto che, a insindacabile giudizio divino, avrà dimostrato quanto è grande la sua fede obbedienziale […]
      Dio, comandando, nell’ambito della prova, il sacrificio di Isacco, vuole davvero la morte di Isacco? Certamente no, visto che pone fine alla prova proprio fermando la mano di Abramo».
      In altre parole, il racconto genesiaco ci dice che Dio non pretende “davvero”, cioè sino all’ultimo, che un uomo uccida il proprio figlio come prova di fede, ma vuole che Abramo lo creda possibile fino ad un certo punto, in cui Dio svelerà il significato della prova.
      Nel giudicare quel comando divino non possiamo non considerarne l’intenzione che lo muove, che, chiaramente, non è la volontà che Isacco muoia, ma che tutti noi conosciamo quanto è grande la fede di Abramo (Dio nella sua preveggenza già lo sa). Se abbiamo compreso qual è l’intenzione del comando divino, nell’ambito della prova, e come Dio voglia che termini tale prova (in modo incruento), come possiamo affermare che Dio “pretenda” dall’ uomo l’uccisione del proprio figlio, a prova di fede? Al contrario di quanto afferma, mi sembra che sia proprio lei che voglia fermarsi al mero significato letterale delle parole del comando divino, estrapolando dal testo sacro e da tutto il contesto, soltanto le parole “Prendi… Isacco… ed offrilo in olocausto”, per sottoporle al tribunale della teologia dogmatica e delle ultime espressioni papali, ricavandone così contrasto e incompatibilità, per arrivare alla conclusione che l’intero comando di Genesi 22,1, non solo non possa esser preso alla lettera, ma debba essere profondamente reinterpretato. Senonché, a mio modesto parere, lei non si limita a reinterpretare quel comando in chiave simbolica, ma lo cambia radicalmente o, per usare le parole di Beauchamp “scrive un altro testo”.
      Un esegeta potrebbe sostenere che comandando di sacrificare Isacco, Dio non stia chiedendo il sacrificio cruento del figlio, ma che Abramo debba sacrificare il suo attaccamento possessivo ad Isacco che, da un lato, impedisce al figlio di realizzare liberamente la propria vita, dall’altro, incatena Abramo ad amare il dono più del Donatore. Non mi interessa ora entrare nel merito di questo tipo di esegesi, quanto rilevare che essa non mette in dubbio l’origine divina del comando, ma “si limita” a leggere l’Isacco da sacrificare, come l’”idea di Isacco” coltivata da Abramo, assieme al suo modo di vivere il dono ricevuto da Dio, che debbano essere sacrificati al Signore. È un esempio di reinterpretazione in chiave simbolica.
      Viceversa, lei, Padre Giovanni, dinanzi alla frase contenente il comando divino, propone una doppia trasformazione della stessa:
      1. “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco […] e offrilo in olocausto”, si deve leggere come “Prendi un ariete […] e offrilo in olocausto”;
      2. Si deve poi aggiungere, come sottinteso, “ma Abramo si convinse che Dio volesse che fosse il suo unigenito e amato Isacco a dover esser offerto in olocausto”.
      Al di là di tutte le problematiche poste dal fraintendimento di Abramo, a mio avviso, questa, si configura più come una “riscrittura”, che come una “reinterpretazione” del testo sacro.

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    3. Lei si appella all’autorità apostolica di Papa Francesco, il quale però nelle due occasioni che già le segnalai:
      • nell’Angelus del 22 dicembre 2013 (https://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2013/documents/papa-francesco_angelus_20131222.html
      • nell’udienza generale del 3 giugno 2020 (https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20200603_udienza-generale.html)
      dice chiaramente che fu Dio a chiedere ad Abramo il sacrificio di Isacco.
      Accettando la sua esegesi e nel contempo il suo riferimento al Dio che non vuole mai sacrifici umani, ribadito con enfasi da Papa Francesco, dovrei concludere che il Papa, nelle suddette due occasioni, si è contraddetto?

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  3. In questo 2022, Vita e Pensiero, ha pubblicato “Parlare delle Scritture sacre” di Paul Beauchamp, presentato come uno dei più importanti esegeti dell'Antico Testamento del 900.
    Su Genesi 22, Beauchamp scrive:
    «Tutta l’istanza, e, se vogliamo, la sostanza di questa storia è che Dio si contraddice ordinando prima una cosa e poi il suo contrario. Ed è importante mantenere l’ardire di un racconto che attribuisce a Dio due volti così differenti, secondo le sue due fasi. Nella seconda fase apprendiamo che Dio non vuole la morte di Isacco, vuole la sua vita, la vita del figlio; che egli viva in unione col padre. È la verità, e di conseguenza dovrebbe bastare. È tuttavia non è sufficiente».
    Beauchamp ci sta dicendo che la verità che Dio non voglia la morte di Isacco è, paradossalmente, inseparabile dal comando iniziale che sembra contraddire tale verità, pena il non comprendere appieno il messaggio di Genesi 22. Prosegue Beauchamp:
    «Ci vuole anche la prima fase: Dio chiede l’offerta di Isacco in olocausto. Ci vuole perché è così facile andar ripetendo che Dio ci ama, credendo di sapere quello che significa! Anche Abramo avrebbe potuto dire «Dio, mio figlio e io siamo uniti dall’amore». Ma, così dicendo, avrebbe potuto credere che Dio fosse come lui. Ora, per rispondere con le parole di san Giovanni della Croce: «Se vuoi andare a quello che tu non sai, devi passare per “dove” tu non sai e per andare a quello che tu non vedi devi passare per “dove” che tu non vedi», cioè attraverso la notte.
    Fu necessario che Abramo imparasse che cosa significhi dire «Dio ama» passando per il punto in cui egli non vede più affatto cosa significhi tale parola perché non vede che il suo contrario, e, ciò nonostante, va avanti ancora passo dopo passo».
    Abramo è chiamato a purificare la sua fede, uscendo dalla logica puramente retributiva, per cui “amo Dio e gli obbedisco fintantoché, in questa vita, mi fa del bene”. Perché ciò sia possibile, è necessario che nella prova Abramo passi per la notte oscura… Affinché gli uomini imparino che qualsiasi dolore, disgrazia, ingiustizia possa loro capitare, mai dovranno rifiutarsi di aver fede e fare la volontà di Dio. Con le parole del cardinal Martini:
    «la prova di Abramo è, come ogni prova seria, un mettere l'uomo di fronte al caso limite, dove l'uomo mostra veramente ciò che è. La fede di Abramo viene provocata fino al limite estremo».
    Beauchamp prende poi in considerazione un tipo di esegesi che si avvicina alla sua, Padre Giovanni:
    «Si potrebbe, e lo si fa sovente, raccontare la storia in altra maniera: Abramo, condotto dalla sua fanatica generosità, impressionato dalla crudele generosità dei pagani, i quali realmente sacrificavano spesso un figlio al loro dio, decide di offrire Isacco immolandolo, ma Dio gli rivela che egli non vuole la morte. In questa forma, solo la seconda fase comporterebbe una parola di Dio».
    E il giudizio dell’esegeta francese è negativo:
    «Lettura “edificante”, ma mi sembra che questo risultato sia ottenuto solo dopo aver un po’ espurgato il testo, addolcito i suoi spigoli e, in definitiva… scritto un altro testo.
    […] Che contrasto con lo stile della Bibbia, per la quale «Abramo, Abramo […] offri in olocausto!» è una parola di Dio e «Abramo, Abramo […] non stendere la mano contro il ragazzo!» è una seconda parola di Dio. Infatti, Dio era con lui alla fine, perché era con lui all’inizio e nel mezzo della prova. È così se Dio è Dio. Abramo si ingannava credendo che Dio volesse la morte. Certamente. Ma la Bibbia preferisce vedere nell’errore di Abramo una parola di Dio, tanto è sicura che Dio parli in Abramo, che Dio sia presente in Abramo anche quando Abramo sembra lontano da Dio».
    In sostanza Beauchamp ci invita a non alterare la parola di Dio nella Scrittura, neppure se, aggiungerei, ci sembra non in linea col nostro schema teologico-metafisico.

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    1. Caro Bruno,
      dovrebbe essere chiaro che Dio non può comandare ciò che è peccato.
      Ora, un Dio che chiede ad Abramo di uccidere il figlio sarebbe un Dio che comanda di peccare. Per questo, come ho detto e ripetuto, una interpretazione letterale del testo è da respingersi, perché comporterebbe l’idea di un Dio, che comanda un peccato.
      In tal modo una esegesi storico-critica suggerisce una soluzione sul tipo di quella che ho proposto io.

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    2. Per quanto riguarda l’esercizio dell’amore, si tratti dell’amore divino o dell’amore umano, in ogni caso esso deve essere fondato sul vero bene.
      Ora, l’uomo ha il dovere di non uccidere, per il fatto che Dio stesso, Signore della vita, non vuole la morte dei viventi. Per questo ciò che Dio chiede veramente ad Abramo, come è rivelato dall’angelo, non è l’uccisione di Isacco, ma quella dell’ariete.
      Quanto ad Abramo, egli intende per errore in un primo tempo che Dio lo ami così da comandare l’uccisione del figlio, ma come narra il racconto biblico, Abramo viene illuminato dall’angelo su quello che è il vero amore, il quale non può assolutamente comportare all’omicidio, ma semmai richiedere il sacrificio di un animale.

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  4. Criticando la tesi di Wénin-Candido, lei ha scritto:
    «quello che assolutamente non possiamo ammettere è che Dio si sia espresso in maniera ambigua, perché se c’è un Essere che si esprime con inequivocabile chiarezza e precisione di significati, questo è proprio Dio, dato che Dio è la Verità sussistente e il principio di ogni onestà e lealtà del linguaggio, proibendo formalmente in Cristo di mescolare il sì e il no».

    Giustissimo. Ne consegue che il comando dato da Dio ad Abramo era necessariamente di “inequivocabile chiarezza e precisione di significati”. E come è possibile allora che Abramo lo abbia equivocato?
    Se Dio non si esprime mai in modo ambiguo, se dunque anche quel Suo comando era inequivocabile, come ha potuto Abramo fraintenderlo? Se lo ha frainteso, allora, conseguenzialmente, dovremmo dire che non era inequivocabile.
    E a questo punto, qualcuno potrebbe dire, Padre Giovanni, che la sua tesi finisce per contraddirsi.

    Forse, con un certo “teologismo”, si potrebbe replicare che il parlare di Dio è inequivocabile “in se stesso”, ma che l’uomo, ferito dal peccato originale e oggetto degli attacchi di Satana, può comunque, in taluni casi, equivocarlo.

    Abramo, quando riceve il comando di Genesi 22, aveva già, in precedenza, compiuto un sacrificio di animali su comando di Dio (Gen 15, 9-10) ma, in quel caso, le pratiche di sacrificio umano in uso all’epoca presso i cananei, non lo avevano minimamente influenzato. Come mai, tale condizionamento, così forte da fargli equivocare la parola divina inequivocabile, avverrebbe, nella coscienza di Abramo, solo in Genesi 22 e non anche in Genesi 15?

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