Ateismo e salvezza - Prima Parte (1/10)

 

Ateismo e salvezza

Prima Parte (1/10)

Lo stolto pensa: Dio non esiste

Sal 53,2

 

Se non credete che Io Sono,

morirete nei vostri peccati

Gv 8,24

Occorre prendere sul serio la questione dell’ateismo

Scrivo questo saggio perchè faccio mie e parole pronunciate da Benedetto XVI, nella memorabile lettera che egli scrisse ai vescovi il 10 marzo del 2009:

«Il vero problema in questo nostro momento della storia – scriveva quel Papa – è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più».

Si potrebbe dire per converso che l’umanità resta umana solo in quanto almeno implicitamente crede in Dio e viceversa diventa disumana nella misura in cui abbandona Dio. È impossibile amare l’uomo se non si ama Dio, così come non si può ottenere l’effetto se non si fa leva sulla causa. Parimenti, se c’è l’effetto, c’è la causa che lo produce: chi ama sincerante il prossimo, dà prova di amare Dio, è egli stesso una prova dell’esistenza di Dio, anche se forse si considera ateo, ma, come è stato detto, «crede di non credere». È quella che un tempo si chiamava «fede implicita».

Viceversa, si può credere in Dio senza che per questo sorga necessariamente l’amore per l’uomo, perché questo amore è effetto della nostra volontà, la quale può restare inerte, anche se conosciamo la verità. Nel contempo, se l’effetto agisce, vuol dire che esiste ed agisce la causa. Chi opera l’effetto, si fonda sulla causa. Se amiamo il prossimo non in un modo qualunque, ma nel modo giusto, senza svilirlo e senza adularlo, è segno che amiamo Dio.

Disprezza il prossimo chi odia Dio. Ciò appare evidentissimo dal caso di Nietzsche, il quale odia i deboli, i depressi, i poveri, gli emarginati, i derelitti, gli umili, i penitenti, gli oppressi, gli asceti, i miseri, i malati, i vecchi, gli handicappati. i non ariani, gli sventurati e i sofferenti perché è un ateo bestemmiatore che idolatra se stesso. Chi ama sinceramente l’uomo non può non basare questo amore sull’amore di Dio. Amare l’uomo come fosse Dio non è vero amore, ma idolatria. Invece, laddove vediamo che l’uomo è amato, chi lo ama è certamente un credente in Dio.

Per converso, l’odio per Dio si congiunge con l’odio per l’essere, dato che Dio è lo stesso Essere sussistente. L’odio per l’essere è il nichilismo. L’ateismo è associato al nichilismo. Odio per l’essere può voler dire diverse cose: concepire l’essere come divenire alla maniera di Eraclito, l’essere come contradditorio alla maniera di Hegel, l’essere come fondato sul nulla alla maniera di Leopardi, l’essere come qualcosa che dev’essere mutato dalla volontà come in Fichte, Marx e Nietzsche, l’essere come ciò che Sciva vuol distruggere, come nell’induismo e come Ariman nel manicheismo.

Tutto ciò vuol dire che, dato che l’uomo ha per fine la vita eterna, e questa vita eterna la acquista credendo in Dio rettamente concepito e mettendo in pratica i suoi comandamenti, l’uomo si salva dalla morte eterna solo mediante la fede in Dio, mentre chi rifiuta di ammettere l’esistenza di Dio rettamente concepito e di obbedire alla sua volontà, benché separandosi volontariamente da Dio ottenga ciò che ha voluto e in tal senso soddisfi la propria volontà, continua bensì ad esistere per sempre, ma privo per sempre del raggiungimento del suo vero fine ultimo e del suo vero sommo bene, quindi in uno stato di reale eterna infelicità o frustrazione, che ovviamente comporta una pena eterna, dato che la gioia eterna viene solo dall’eterna unione con Dio nella vita eterna.

Sappiamo quanta importanza il Concilio Vaticano II ha dato al problema dell’ateismo[1].  Ma ho l’impressione che un certo stile di dialogo fra credenti e non credenti abbia avviato un clima di convivenza cortese e tranquilla, che se da una parte ci fa piacere, tuttavia dall’altra dà l’impressione che credenti e non credenti abbiano perduto quel radicalismo speculativo e teoretico, una certa sana inquietudine che stimola alla ricerca della verità, la preoccupazione per la sorte eterna del fratello, quel bisogno di chiarire ed indagare, quell’interesse per le domande concernenti i princìpi primi e i fondamenti ultimi dell’esistenza, o la discussione circa il concetto stesso di causa prima e fine ultimo. Oggi non si nota su questi temi quella sana inquietudine», della quale più volte ha parlato il Papa come fattore, segno e stimolo di vitalità spirituale e ricerca della perfezione.

Chi oggi è veramente interessato a chiarire o a cercare la verità su Dio? A chiarire che cosa significa la parola «Dio»? A formarsi un concetto giusto di Dio? Chi crede che sia possibile parlare di Dio? Chi crede seriamente che tutto ciò che esiste dipenda, è governato ed è creato da Lui? Chi pensa che l’opposizione a Dio sia la rovina dell’uomo? O l’uomo può vivere bene anche senza Dio?

Chi comprende lo stretto nesso che esiste fra il problema di Dio e la domanda sull’essere? Chi si appassiona oggi per la verità dell’essere? Chi si pone oggi i problemi di Sant’Agostino, di San Tommaso, di Heidegger o di Severino? A chi interessa scoprire l’origine dell’universo, il fondamento del tutto, il senso e il perchè dell’esistenza, la causa prima, il fine ultimo? Chi si preoccupa di confutare gli errori concernerti le basi del pensiero e dell’essere? Chi è che dà importanza all’ateismo per sostenerlo o per combatterlo o per discuterlo? Queste sono le domande che sarebbe stato opportuno presentare al Sinodo dei Vescovi.

Molti si mostrano indifferenti e non interessati alla questione dell’esistenza e alla natura di Dio. Non si pronunciano. Sarebbero i cosiddetti «agnostici». Dicono di non sapere se Dio esiste o no. Il problema – dicono - è troppo difficile. Ma è proprio vero che non lo sanno? O è una scusa per regolare la loro vita come pare a loro?

Ad altri loro sembra una questione o troppo astratta o insolubile o incomprensibile. Che Dio ci sia o non ci sia a loro non interessa. Ben altri sarebbero i problemi della vita, quelli materiali, sociali, economici, ecologici, tecnologici e politici. Ma sono proprio sinceri nel dir così? È proprio vero che anche loro non devono fare i conti con Dio? Queste sono le domande che sarebbe stato opportuno presentare al Sinodo dei vescovi.

Oggi si sente spesso la distinzione fra credente e non-credente. Occorre distinguere che cosa si può intendere con «credente». Si può intendere uno che crede che Dio esista esprimendo un’opinione soggettiva, discutibile, che ammette l’opinione contraria. È la posizione kantiana: Dio può esistere, è un’ipotesi, ma non è certezza. Ad un argomento a favore se ne può opporre sempre uno contrario, senza che sia possibile giungere ad un risultato definitivo, tale da vincere tutte le obiezioni.

È la tesi anche del Card. Carlo Maria Martini, secondo il quale nella coscienza di ogni credente, c’è sempre un ateo che lo contesta, così come nella coscienza dell’ateo parla un obiettore che argomenta a favore dell’esistenza di Dio[2]. Ora in realtà, che Dio esista non può essere una semplice opinione, ma come si dimostra razionalmente, può e deve essere un vero sapere inconfutabile ed inoppugnabile, per cui, una volta raggiunta la certezza, non c’è motivo di rimettere in discussione ciò che si è acquisito, ma il dovere è quello di mantenersi fedeli alla propria convinzione a qualunque costo.

Oppure col termine «credente» si può intendere l’uomo di fede, colui che crede in Dio, che ha fiducia in Dio o che crede a ciò che Dio rivela. È l’uomo religioso, l’uomo pio. Viceversa il non-credente sarà l’ateo e l’empio.

Definizione di «ateismo»

Partiamo, per la nostra discussione, da una definizione generale sulla quale ci troveremo tutti d’accordo. L’ateismo è la negazione dell’esistenza di Dio sulla base del rifiuto volontario di riconoscere la sua esistenza. L’ateo ha la pretesa di dimostrare che Dio non esiste; ma in fondo sa che le sue ragioni sono fasulle.

Può esistere però, come nota il Maritain[3] uno pseudoateismo, che consiste nel fatto che colui che nega l’esistenza di Dio equivoca sul nome Dio, partendo da un concetto sbagliato di Dio, per cui quel Dio che nega, non essendo il vero Dio, suppone che il soggetto sia in realtà teista senza averne coscienza esplicita, anche se almeno implicitamente, tutti sanno che Dio esiste e che a Lui devono render conto del loro operato sapendo che è in gioco il loro destino eterno.

L’ateismo, come dice Gian Franco Morra, non è una teoria ma un postulato pratico. Non è un sapere, ma un non voler sapere. Non è una cosa saputa, ma una cosa voluta, per sentirsi autorizzati a disobbedire a Dio. Ecco subito un punto importante, al quale forse molti non pensano: l’ateo sa che Dio esiste, ma non vuole pensarci perché vuole fare la sua volontà e non quella di Dio. Simone de Beauvoir diceva: «so benissimo che Dio esiste. Il mio ateismo è che a Dio non ci voglio pensare». Questo non è solo l’ateismo della de Beauvoir, ma ogni ateismo.

Nessuno ignora in buona fede che Dio esiste come io posso ignorare quante sono le isole dell’arcipelago filippino. Sicchè nessuno al momento della morte può presentarsi a Dio dicendo: «Scusami, o Dio, ma non sapevo che Tu esistevi. Non sapevo che peccando offendevo Te. Ti prego allora di non incolparmi dei miei peccati!».

Cominciamo allora col considerare l’uso della parola Dio. Constatiamo che oggi alcuni non la usano mai. Perchè? Perché la ritengono riferita a qualcosa che non esiste. Oppure perché ritengono che sia una parola che non ha senso. Altri, forse, non la usano perché non sanno usarla, non sentendosi in grado di usarla a causa del mistero ineffabile ed incomprensibile al quale essa si riferisce.

Altra questione riguardante la parola Dio è la seguente: ad essa in ebraico corrisponde El, in tedesco Gott, in sanscrito Brahman o Deva[4], in cinese Tien[5]. Come facciamo a sapere che tutti questi nomi si riferiscono alla stessa cosa? Perché con essi si esprime sempre qualcosa che concepiamo essere l’origine o fondamento o ragione o principio o causa o scopo o fine di tutto, l’assoluto, l’eterno, l’infinito, l’onnipotente, il creatore.

Osserviamo inoltre che alcune cose materiali o fenomeni fisici, come il sole, il fuoco, la luce, il vento, la nube, l’acqua, la roccia si prestano a simboleggiare Dio. Anche alcuni animali o piante possono svolgere lo stesso ruolo. L’uomo, per la Bibbia, è immagine di Dio. Non così altre cose vili, grossolane, corruttibili o distruttive, come la terra, la materia, il caos, il fango, la polvere, il sottosuolo, il terremoto, la tempesta. Se ciò avviene in alcune religioni, è segno di una religiosità idolatrica, barbarica e demoniaca.

La parola cielo può stare per Dio. Ciò si riscontra nella Bibbia (Shamaìm) e nella lingua cinese. Ciò si comprende perché il cielo per la sua vastità, luminosità, intellegibilità, ordine, regolarità, bellezza, solidità, imperscrutabilità, misteriosità, permanenza, potenza, altezza e profondità, ben si presta come immagine di Dio.

Il concetto di Dio è connesso con la nozione dell’essere

Da notare che il «nome», secondo la visione biblica, non è un semplice segno convenzionale o anagrafico, come usiamo noi oggi, ma indica ed esprime l’essenza o la funzione propria di una cosa, per cui l’«Io Sono» di Es 3,14 designa l’essenza o identità esclusivamente propria ed inconfondibile di Dio, il «volto» di Dio[6]. Nella Bibbia, Dio è rappresentato come un vegliardo, antico di giorni, seduto su di un di trono nei cieli, con mani e piedi (Dn 7,9-12), chiaramente tutti simboli di attributi divini.

Tuttavia, stando ad Es 3,14, per concepire rettamente e propriamente l’essenza divina, che comunque resta misteriosa, occorre far uso del concetto dell’essere, che tutti spontaneamente possediamo, ma occorre concepire Dio non come semplice essere, bensì come essere sussistente, come essere fatto persona, non come ciò che è, ma come Colui Che È.

Ciò vuol dire che teismo e ateismo sono legati alla questione dell’essere, ossia al problema della validità e della sensatezza della metafisica. Non si sfugge.  Negare o ignorare l’essere vuol dire nichilismo, come ha ben detto Severino. E quindi vuol dire ateismo, perché Dio è l’ipsum Esse. Chi crede di poter concepire Dio sostituendo il predicato dell’essere con altri, per quanto nobili, come può essere il mistero o l’assoluto o il bene o l’amore, è con ciò stesso sulla strada dell’ateismo.

In questo saggio non intendo tanto portare le prove dell’esistenza di Dio[7], quanto piuttosto puntare l’attenzione su quale dev’essere il giusto concetto di Dio, dotato di tutti i suoi attributi[8], stante il fatto che esistono concetti di Dio falsi o difettosi, tali o da celare l’ateismo o da condurre all’ateismo.

Questo si verifica, come vedremo, se il concetto manca di quegli elementi minimi ed indispensabili, al di sotto dei quali il concetto è talmente corrotto, da non conservare di Dio alcunché, si da diventare un puro idolo. Il valore dei teologi si misura in base alla perfezione del loro concetto di Dio. San Tommaso, per espresso riconoscimento della Chiesa, emerge fra tutti i teologi proprio per questo motivo. Il che non toglie che anche altri concetti di Dio meno perfetti, soprattutto se si tratta di Santi Dottori, siano salvifici e princìpi sicuri di una vita santa.

Presa dunque coscienza dell’esistenza di Dio, l’uomo s’interroga sulla sua natura e sui suoi attributi. Dimostrato che esiste una causa prima, causa creatrice del mondo, la ragione vorrebbe conoscere l’essenza di questa causa, ma si rende conto che ciò è al di sopra delle proprie capacità conoscitive.

Dio con la ragione si può conoscere non nella sua propria natura, ma indirettamente, per analogia attraverso i suoi effetti creati e in ciò la ragione è soddisfatta, perché di più essa non può fare. Il vedere Dio, il vederlo «faccia a faccia», ci assicura la Bibbia, è solo un dono della grazia, fruibile in cielo – la visione beatifica -, alla quale su questa terra ci prepara la fede che mediante Cristo ci rivela il mistero trinitario[9].

La Scrittura, del canto suo, propone una duplice serie di testi che sembrano in contraddizione fra loro, perchè da una parte il Salmista aspira a vedere Dio, mentre dall’altra in altri libri la Scrittura asserisce che Dio non lo si può vedere.

Nella Bibbia Dio non è carne, ma spirito. Eppure può diventare carne o farsi uomo, per dire che può assumere una natura umana in unità di persona divina, come è avvenuto in Cristo, pur restando Spirito.

Occorre notare che se il teista, il credente è portato ad amare Dio come suo Signore creatore, l‘ateo odia Dio e lo considera un nemico, perché si oppone alla volontà dell’ateo di fare non la volontà divina, ma la propria.

Chiarimenti concettuali

La Bibbia afferma l’esistenza di Dio (Sal 14,1), l’essere di Dio (Es 3,14) e l’essenza di Dio (Cf I Gv 3,2). Dio esiste; Dio è; Dio è un’essenza. L’esistere si oppone al non-esistere, il nulla; l’essere si oppone al non-essere.  L’essenza si oppone ad un’altra essenza. L’essere si distingue in essere reale ed essere di ragione o rappresentativo, il concetto.  L’essere è il culmine dell’esistere, perché non è solo attuazione dell’essenza possibile, ma atto (energheia) dell’essenza come poter-essere (dynamis).

L’esistenza di Dio non è l’attuazione della sua essenza, perché essa non è una essenza possibile, che abbia bisogno di essere attuata nella realtà, come credeva Leibniz, perché si tratta di una esistenza che in forza dell’essenza è necessariamente in atto, esistenza che in Dio coincide con la sua essenza e il suo essere. Non vale quindi, come prova dell’esistenza di Dio, proposta da Leibniz, secondo la quale se Dio è possibile, allora esiste, perché questo, come vedremo, lo si sa solo dopo aver provato che Dio esiste partendo dalle creature.

Non bisogna ridurre l’essere (esse ut actus) all’esistere, ossia all’attuazione (esse in actu) di un semplice possibile, come avviene nella metafisica di coloro, come Suarez[10], che non vedono la distinzione reale fra essenza ed essere come fra potenza ed atto. Il possibile non coincide col potenziale: questo è già realtà. Il possibile invece è ancora nell’ambito del puro pensiero. L’atto d’essere non è il semplice esistere, ossia la semplice attuazione o attualità di un’essenza possibile nella realtà, ma è la perfezione ontologica dell’essenza. L’atto d’essere non aggiunge all’essenza soltanto l‘esistenza, ma la perfeziona nel suo essere.

Esistere non è ancora essere. Al disotto dell’essere c’è l’esistere. Al di sotto dell’esistere c’è il nulla. L’ente di ragione esiste, ma solo nel pensiero, non è ancora essere, come avviene nella realtà. Il pensare d’altra non sta sopra l’essere, come credono gli idealisti, ma è ordinato all’essere. La realtà, come dice Papa Francesco, primeggia sull’idea.

L’essenza è ciò che l’ente è o ciò per cui un ente è ciò che è. Di per sé è un puro possibile o pensabile. Può essere attuata nella realtà e così acquistare esistenza reale e diventare realmente esistente. Oppure può restare nell’orizzonte del semplice possibile. Dio esiste realmente: non è, come credeva Kant, un ente di ragione, un’idea. Non è solo pensabile, ma realmente conoscibile.

L’ente di ragione non è l’ente come tale, ma l’esser vero, l’essere relativo al pensiero o prodotto dal pensiero o regola o criterio del pensiero. Esso può essere chiamato anche «ideale». L’ideale cognitivo è rappresentazione del reale; l’ideale pratico è modello del reale.

Essere ed esistere sono connessi: l’essere comporta l’esistere, ma l’esistere non implica necessariamente l’essere, come è evidente negli enti di ragione. Il non-essere può esistere come ente di ragione: ente immaginario, intenzionale, matematico, logico, il nulla, il male, l’irreale, l’assurdo.

Solo il contradditorio non può assolutamente esistere, benché anch’esso possa essere pensato ed esistere quindi come concetto o ente di ragione. Finchè il pensiero è possibile, si può dare sempre il pensabile, anche se si tratta di ciò che non può assolutamente esistere.

Affermare che Dio esiste (Sal 14,1) non è lo stesso che affermare che Dio è (Es 3,14). L’esistere non è l’essere. L’esistere è l’atto del possibile; l’essere è l’atto della potenza ovvero del poter-essere. L’attuale è la realizzazione del possibile; il reale è l’atto della potenza.

Dio è l’unico ente ad essere predicato senza predicato nominale, perché è in modo assoluto ed infinito. Egli non è questo o quello, ma l’essere nella sua totalità. Egli è il suo stesso essere ed ha per essenza quella di essere. Come diceva il Beato Rosmini, Dio non ha l’essere, ma è l’essere. La sua essenza è determinata dal fatto stesso si esistere e di essere.

Quanto invece all’esistere, può essere predicato da solo per ogni ente. Perché questa differenza col predicato dell’essere? Perché mentre l’essere è diversificato e molteplice, pur cui si dà l’esser questo o quello, l’esistere è un semplice positivo che si oppone al negativo senza bisogno di qualificazioni o determinazioni, che appartengono all’essenza.

Se per ente intendiamo ciò che ha un’essenza attuata dall’essere, come tutti gli enti che noi conosciamo, Dio non è un ente o, se vogliamo, è un ente specialissimo, altissimo e perfettissimo per il fatto che è un ente la cui essenza coincide col suo essere. Quindi, più che essere un ente, è lo stesso essere sussistente (Es 3,14).

Un conto è Dio e un conto è il concetto di Dio. La Bibbia dice: «lo stolto pensa: Dio non esiste» (Sal 14,1). Un conto è il pensiero e un conto è l’essere. Ciò che lo stolto pensa non corrisponde a ciò che è. Ossia è un pensiero falso. Il pensare mette in gioco l’opposizione del vero e del falso. La nozione dell’essere non è quindi ancora sufficiente a fondare la nozione della verità. In ciò Heidegger sbaglia.  Perché esista la verità occorre il rapporto del pensiero con l’essere.

Tuttavia è vero che la svelatezza (aletheia) dell’ente al pensiero gli consente di giudicare e fondare la possibilità di dire oil vero o il falso. E se l’ente è nascosto, non per questo diventa falso o non-ente, come sembra credere erroneamente Heidegger. La verità non è solo quella rivelata, ma anche quella nascosta o perché la ignoriamo o perché supera la nostra comprensione.

La verità può essere senz’altro sinonimo di realtà, di vera realtà. Abbiamo allora la verità ontologica, per cui conoscere la verità viene a coincidere col conoscere la realtà. La realtà che sta davanti all’intelletto, l’ob-jectum, il posto-davanti, è certamente il fondamento oggettivo della verità, ma l’ente è vero solo in quanto o sta davanti al pensiero o è determinato dal pensiero. Quindi la verità suppone il primato della verità del pensiero (gnoseologica) su quella dell’essere (ontlogica).

L’ente infatti si presenta sì come vero all’intelletto; ma la verità è prima nell’intelletto che nell’ente, perché, come si è detto, essa suppone l’intelletto che si adegua all’ente o che adegua l’ente a se stesso. O l’idea si adegua al reale o il reale rispecchia l’idea.  La verità non può esistere nè esclusivamente nel giudizio dell’intelletto, perché sennò il reale si ridurrebbe idealisticamente al pensato o all’idea. Ma non può neppure appartenere solo al reale, sennò questo sarebbe irraggiungibile dal pensiero[11].

Prima Parte (1/10)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 3 novembre 2023


 

L’ateismo, come dice Gian Franco Morra, non è una teoria ma un postulato pratico. Non è un sapere, ma un non voler sapere. Non è una cosa saputa, ma una cosa voluta. 

Ecco subito un punto importante, al quale forse molti non pensano: l’ateo sa che Dio esiste, ma non vuole pensarci perché vuole fare la sua volontà e non quella di Dio. 

Simone de Beauvoir diceva: «so benissimo che Dio esiste. Il mio ateismo è che a Dio non ci voglio pensare». Questo non è solo l’ateismo della de Beauvoir, ma ogni ateismo.

Nessuno ignora in buona fede che Dio esiste come io posso ignorare quante sono le isole dell’arcipelago filippino. Sicchè nessuno al momento della morte può presentarsi a Dio dicendo: «Scusami, o Dio, ma non sapevo che Tu esistevi. Non sapevo che peccando offendevo Te. Ti prego allora di non incolparmi dei miei peccati!».

Immagine da Internet: Simone de Beauvoir

[1] Gaudium et spes, nn.19-21.

[2] Per una Chiesa che serve, Edizioni EDB, Bologna 1994, pp.469-460.

[3] Il Significato dell’ateismo contemporaneo, Morcelliana, Brescia 1954.

[4] Vedi Radhakrishnan, La filosofia indiana, Edizioni Asram Vidya, Roma 1993, vol.I, pp.58,60.

[5] Vedi la discussione sul nome di Dio in cinese in H. Küng, Esiste Dio? Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979, pp.659-60.

[6] Gilson ha fatto uno studio interessante sulla nozione di Dio che emerge dal famoso passo biblico in Introduction à la philosophie chrétienne, Vrin, Paris 1960.

[7] Questo tema è trattato da secoli già da un’ampia e collaudata letteratura, checché ne dicano i kantiani e seguaci. Vedi per es.: R.Garrigou-Lagrange, Dieu. Son existence et sa nature, Beauchesne, Paris 1950; Angelo Zacchi, Dio. Vol.II – L’affermazione, Editore Francesco Ferrari, Roma, 1946; Per Carlo Landucci, Esiste Dio? Edizioni Pro Civitate Christiana, Assisi 1957. Il volume di H. Küng Dio esiste? Arnoldo Mondadori, Milano 1979 ha il merito di presentare un’ampia informazione storica, ma quando si tratta di dare la risposta, abbraccia un atteggiamento decisionistico e volontaristico di «abbandono fiducioso nella realtà», inquantochè secondo lui «di Dio non esiste una prova logicamente vincolante» (pp.640-641).

[8] La migliore e più completa esposizione di tali attributi resta sempre quella di San Tommaso d’Aquino e dei suoi commentatori.

[9] L’aspirazione a vedere Dio è quindi un’aspirazione soprannaturale, che aggiunge al fine naturale della conoscenza naturale o filosofica della causa prima attraverso gli effetti, un più alto e supremo fine soprannaturale, che non sostituisce, ma perfeziona la felicità naturale procurata dalla conoscenza filosofica di Dio, come quella che ci prospettano Platone ed Aristotele e la stessa Bibbia nei libri sapienziali. Il de Lubac ha trattato a fondo con grande erudizione la difficile questione, ma per mettere in luce il fine soprannaturale, ha sottostimato l’importanza essenziale di quello naturale. Vedi Le mystère du Surnaturel, Aubier, Paris 1965. Cf anche J. Maritain, Alla ricerca di dio, Edizioni Paoline, Roma 1960, c.V.

[10] Cf Neotomismo e suarezismo.Il confronto di Cornelio Fabro,  a cura di Jesús Villagrasa, Edizioni dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma 2006.

[11] È questa l’idea sbagliata che Bontadini si fà del realismo gnoseologico chiamandolo sprezzantemente «gnoseologismo» o «dualismo gnoseologico». Egli crede infatti che la tesi realistica dell’essere esterno al pensiero comporti un essere estraneo e irraggiungibile dal pensiero, senza capire che il realismo assicura l’identità intenzionale di pensiero ed essere, per cui il rimedio che secondo lui assicurerebbe al pensiero di raggiungere il sapere, il reale e la verità, sarebbe l’idealismo dell’identità ontologica di pensiero ed essere. E non si accorge che è proprio riducendo la realtà alle nostre idee che falliamo nel cogliere la realtà.

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.