Luigino vuole che gli empi la facciano franca

 Luigino vuole che gli empi la facciano franca

Pecca fortiter et crede firmius

Questa volta Luigino Bruni, nell’articolo di Avvenire del 6 settembre scorso È Bibbia il nome del Padre, dopo aver demolito il cristianesimo nelle puntate precedenti mettendosi a «convertire» Dio perché sia buono, pretendendo di «cambiarlo» perché lo lasci in pace, respingendo il concetto di sacrificio espiatorio, facendo l’elogio della mezza perfezione e della sete di Dio inappagata, soffocando il rimorso d’aver tradito il suo «primo patto»,  vanificando il concetto della colpa, sostituendo la beatitudine d’oltretomba con la felicità di quaggiù e convinto, nell’ultima puntata, che Dio lo salvi anche se lui non vuol meritare, questa volta tenta di ricostruire il cristianesimo sulle sue macerie facendo ricorso alla sua più miserevole contraffazione contemporanea, un astutissimo espediente escogitato ipocritamente da quegli empi che vogliono farla franca senza incorrere nei castighi divini, ma anzi godendosi – in questa vita, non nell’altra che non esiste - le delizie della cosiddetta «misericordia» del Padre, il quale – come ci assicura Luigino – perdona non dopo il peccato, ma mentre si pecca. Egli dice infatti come per avvertirci di un errore: «pensiamo che le parole di resurrezione siano quelle che iniziano dopo i peccati, dopo i tradimenti, dopo le cattiverie, dopo le maledizioni».

Non è così – ci dice Luigino – ma la misericordia del Padre consiste nel fatto che Egli ci perdona non perché, avendo peccato, ci castiga col rimorso della colpa commessa, ci ispira il pentimento e il dolore per aver peccato e meritato il suo castigo,  ci ispira la volontà di chiederGli perdono e confessare il nostro peccato, la volontà di correggerci ed i emendarci, senza perderci d’animo, e di essere perseveranti nel nostro cammino di conversione, di far penitenza e di riparare le offese a Lui e al prossimo.

Non occorre farsi dei meriti nelle opere di penitenza o in sacrifici espiatori alla ricerca della perfezione, nella speranza del paradiso. Niente di tutto questo. Si tratta semplicemente di godersi la vita perché siamo salvi, di ringraziare Dio per la sua misericordia, e perché non ci rompe le scatole con richiami, rimproveri, tormenti di coscienza, castighi ed annunci di sventura

Invece secondo Luigino, in ciò perfetto discepolo di Lutero, Dio misericordioso   ci perdona nel momento stesso in cui stiamo peccando. Quindi non si tratta affatto di sforzarci di smettere di peccare o di correggerci, cosa impossibile e pretesa ipocrita, come se potessimo farci dei meriti operando il bene ed osservando la legge, ma di continuare serenamente a peccare, senza badare alle inutili proteste della coscienza, godendo del piacere di un peccare, che non possiamo evitare, certi che Dio ci guarda contento, non si adira e ci segue amorosamente con tenerezza, compassione e benevolenza.

Infatti la grazia è gratuita. Non occorrono meriti, che sono in contrasto con la grazia, sono peraltro impossibili e servono solo alla vanagloria. Non occorrono sacrifici, perché Dio vuole la gioia e non il dolore. Nessuna pretesa di perfezione, perché siamo imperfetti per natura. Non esistono condizioni per essere salvati. Dio  ci salva. Punto e basta.

La misericordia confusa con l’approvazione del peccato

Luigino confonde l’intervento misericordioso di Dio che solleva e consola il misero mentre si trova nella sofferenza – a ciò infatti si riferiscono Victor Hugo e gi altri autori che egli cita – con un impossibile perdono divino del peccato nel momento in cui il peccatore lo commette.

Osserviamo che uno può commettere un peccato credendo in buonafede di far bene o senza sapere che è peccato o perché vinto dalla passione o dalla follìa. Questi sì che è oggetto della misericordia di Dio nel momento stesso in cui compie l’atto, ma solo perchè è scusato e resta interiormente innocente e senza colpa.

Ma pretendere di essere autorizzati da Dio falsamente misericordioso a peccare coscientemente e volontariamente alla presenza di un Dio che resta benevolo, chiude gli occhi e non si adira, è un gesto di arroganza che Dio giustamente non sopporta perché lo avverte come un disprezzo sommo per la sua bontà e un prendersi gioco di Lui, per cui tale gesto provoca giustamente l’ira divina al massimo del suo furore con quei terribili castighi che sono descritti nell’Apocalisse per la fine del mondo e la resa finale dei conti.

E perché nell’Apocalisse? Perché lì San Giovanni descrive e preannuncia il momento in cui Dio, dopo aver chiaramente avvertito nel corso della storia i peccatori per mezzo dei profeti e per mezzo delle sventure, e dopo aver pazientato a lungo, in attesa del pentimento, dopo aver loro  concesso loro tutto il tempo per pentirsi e di sfruttare i castighi per convertirsi, chiama alla resa dei conti.

La Bibbia infatti insegna che adesso è il tempo della misericordia e del perdono, nel quale i conti sono aperti, ma giungerà, non sappiamo quando e per questo occorre tenerci sempre pronti con i conti a posto, arriverà il tempo o «Giorno» della giustizia, che sarà il Giudizio universale alla fine del mondo, preannunciato appunto dall’Apocalisse e dallo stesso Vangelo, previsto dalle tre religioni monoteistiche: il cristianesimo, l’ebraismo e l’islamismo.

Dalla vendetta al perdono

Luigino nel suo articolo affronta un argomento importantissimo, che riguarda l’evoluzione e lo svolgersi nella storia del piano divino della salvezza: perché Dio ha voluto il succedersi di due alleanze, di due patti, di due testamenti, di due leggi, ossia il passaggio da Mosè a Cristo? Non poteva darci subito Cristo? Il Padre si è comportato come un grande educatore, il quale svolge a tappe la sua opera educativa: comincia con l’educazione del bambino, passa all’educazione del giovane ed infine all’educazione o formazione dell’adulto. L’Antica Alleanza non è sostituita, ma perfezionata dalla Nuova. Per questo l’Antico Testamento mantiene la sua funzione educativa per coloro che ne hanno bisogno, anche se vivono oggi.

Invece, il Nuovo è adatto a formare ad una vita morale e spirituale superiore coloro che vi sono preparati e disposti. Ma i princìpi basilari dell’Antico restano per tutti. Il Nuovo non toglie nulla all’Antico in questo campo, ma vi aggiunge la perfezione finale ed escatologica, alla quale Dio vuole indirizzare tutti. Luigino si trastulla della sete e dell’imperfezione con la pretesa nel contempo di gustare la pienezza della misericordia e l’abbondanza della grazia, che sono riservate al Nuovo.

Lo spunto per affrontare un tema così impegnativo è dato a Luigino dal fatto che l’autore del Salmo109 che egli commenta, invoca il ben noto principio biblico «occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24), principio al quale Gesù, come è noto, oppone il suo «non opponetevi al malvagio» ( M t 5,39), un precetto, che si collega bene con quello dell’amore per il nemico (5,43) e che s’inquadra in un contesto che si apre con l’avvertimento fatto da Gesù di non essere «venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma per dare compimento» (5,17) e  il comando che la giustizia dei discepoli sia  superiore a quella degli scribi e dei farisei (cf 5,20). E il lungo discorso morale di Gesù si chiude col comando finale: «Siate voi dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (5,48). Altro dunque che la mezza perfezione di Luigino!

Gesù evidentemente non intende rifiutare il principio fondamentale di giustizia della riparazione o della restituzione: chi ha rubato una certa somma, deve restituirla: chi ha tolto ad uno la buona fama, deve ridargliela, l’eretico che ha danneggiato la Chiesa, deve riparare. L’omicida certamente non può restituire la vita al morto, ma può essere soggetto alla pena di morte, e così via.

Gesù Cristo tuttavia introduce una perfezione morale più alta, la quale non s’accontenta di chiedere a Dio il castigo dell’oppressore, ma chiede il suo pentimento e la sua conversione. Su questo punto Luigino è fedele al Vangelo. E riconosce che la nuova etica del Vangelo non esclude la legittimità della permanenza dell’etica della punizione.  Quanto alla fine di Giuda, il Magistero della Chiesa non si pronuncia circa la sorte di chi si ha da temere che non si sia salvato. Essa c’insegna che non tutti si salvano, ma non ci dice chi e quanti sono i dannati. Essa si limita a canonizzare i santi ed è certo che Giuda non sarà mai canonizzato.                                                                                                       

Luigino parla poi della «preghiera del disperato». Se si riferisce a chi ha perduto le speranze nella giustizia umana, avendone sperimentato la fallibilità, posso comprenderlo. Ma questo «disperato» si rivolge a Dio e fa benissimo, in quanto non può non sperare che Dio stesso gli faccia giustizia, per cui egli, essendo perseguitato od offeso, fa bene a chiederGli una giusta vendetta.

Senonchè però, Luigino, all’inizio del suo articolo, si mostra influenzato dal perbenismo buonista, quando, nel commentare il Salmo 109, si mostra turbato nel leggere l’invocazione a Dio fatta dal Salmista, evidentemente perseguitato da empi, che Dio lo vendichi delle offese subìte.

Luigino attribuisce all’uomo del passato gli ipocriti scrupoli di coscienza dei buonisti di oggi, che ritenendosi esperti nella misericordia di Dio e uomini tenerissimi, resterebbero a suo dire sconvolti e scandalizzati, da quei

«tremendi versetti 6-19, perché convinti che la Bibbia non debba ospitare tali parole cattive, perché non è possibile accostare alle Parole di Dio parole umane così lontane dalla natura di Jahvè».

Per Luigino, turbato nel suo buonismo, le imprecazioni del Salmista perseguitato sono parole «cattive», parole puramente umane, che non riconoscono la grandezza della misericordia di Dio.

 

Un barlume di resipiscenza

Il vizio di fondo di Luigino, che lo ha portato in questi ultimi mesi nei quali l’abbiamo seguìto in Avvenire, alla demolizione del cristianesimo, sostituito da un paganesimo amaro e gaudente, è la sua concezione sbagliata del bene e del male morali.

Per Luigino il bene non è l’amore di Dio, ma l’amore del proprio io e per conseguenza fare il male non vuol dire evitare il peccato, ma evitare la sofferenza. Infatti a chi è ripiegato su sé stesso e considera bene assoluto non Dio, ma il proprio io, siccome l’io è soggetto alla sofferenza, interessa sommamente evitare di soffrire, anche a costo di peccare, ossia di disobbedire a Dio. Così si spiega l’odio che Luigino prova per il sacrificio. Non gli importa niente che esso sia un atto di espiazione in Cristo per il peccato e dono di sé a Dio e ai fratelli. Quello che Luigino vede nel sacrificio è solo il dolore che gli procura e basta per lui questo per rifiutare il sacrificio.

Lo stesso dicasi della colpa[1], della quale egli fa una lettura freudiana, che tutto sommato deriva da Lutero: la colpa come  paterno castigo di Dio, non è la voce della coscienza, la quale, a nome di Dio, rimprovera per il peccato commesso. A Luigino non interessa niente aver peccato, tanto Dio è misericordioso e comprende; se egli ha tradito il primo patto, non se ne pente ; quello che odia è il disturbo, è il disagio che gli procura la coscienza e quindi la cosa che unicamente lo interessa non è pentirsi dei suoi peccati, tornare al patto della fanciullezza  e convertirsi, ma è eliminare questa fastidiosa geremiade della coscienza sostituendola e distraendosi, - la «distrazione» di pascaliana memoria – con i piaceri  della vita, col volo della farfalla o col lavoro quotidiano.

La conquista della vita eterna costa rinunce e sacrifici? Ebbene, siccome a Luigino interessa sommante evitare la sofferenza, e siccome rinuncia e sacrificio implicano sofferenza, mentre a Luigino non interessa farsi meriti per conquistare la vita eterna, anche perchè secondo lui la vita eterna non esiste, meglio godersi la vita presente – il volo della farfalla – evitando rinunce e sacrifici.   

Questa volta, però, dopo la lunga opera di demolizione del cristianesimo, Luigino sembra provvidenzialmente preso da un desiderio di ricostruzione o di riparazione e va a scegliere un valore cristiano oggi largamente sentito, ma purtroppo spesso falsato o frainteso: quello della misericordia.

Il suo gesto di commentare il Salmo 109, che giustifica la vendetta, è una scelta coraggiosa ed anticonformista. Qui Luigino sembra dimenticare il suo buonismo, Ma, ahimè! Quando si tratta di dare una valutazione del comportamento del Salmista e di Dio nei suoi confronti e nei confronti dei suoi offensori, fa un’enorme confusione, tira forzatamente in ballo la misericordia divina, che invece non c’entra nulla, come se l’offeso perdonasse i suoi offensori e questi fossero perdonati da Dio nell’atto stesso del loro peccato e quindi non in seguito al loro pentimento.

Il fatto è che Luigino capisce che il v.28 del Salmo è quello conclusivo, ma ne stravolge completamente il senso a suo favore con quella disonesta disinvoltura, che ormai ben conosciamo dalle puntate precedenti. La traduzione esatta è: «maledicano essi, ma tu benedicimi, insorgano quelli e arrossiscano, ma il tuo servo sia nella gioia. Sia coperto d’infamia chi mi accusa e sia avvolto di vergogna come di un mantello» (vv.28-31).

Invece Luigino ne dà una traduzione sbagliata e per di più monca, che non fa capire il vero senso di quello che dice il Salmista. La traduzione è il seguente: «essi maledicano pure, ma tu benedici!», dando ad intendere che Dio benedica gli offensori, e invece Dio benedice il Salmista, come è chiarissimo dalle parole che seguono e che Luigino con vera disonestà – sciocca, peraltro, perché basta che il lettore verifichi sul testo biblico per accorgersi della truffa - si premura di tacere, perché contrasta con la sua idea luterana che Dio perdoni non dopo il peccato, ma nel momento stesso in cui viene commesso.

È la famosa o meglio famigerata «giustificazione forense»: secondo Lutero il peccato è un vero peccato, e resta peccato, anche dopo il perdono, perché Dio non lo calcola o computa come peccato, ma perché «distoglie lo sguardo e lo volge alla giustizia di Cristo». Ma che cosa conta se Dio guarda alla giustizia di Cristo, se poi il peccatore rimane ingiusto? Dov’è questa giustificazione? È solo una parola? Ma allora è una menzogna! Dunque questa «giustificazione forense» è solo un eufemismo.

Si dovrebbe dire chiaro è tondo: finzione o menzogna. Perché secondo Lutero Dio dichiara giusto uno che rimane realmente ingiusto. Infatti nel diritto esiste bensì la cosiddetta fictio iuris, che consiste nel far passare per giuridicamente avvenuto un fatto non avvenuto. Per esempio, un impiegato può avere diritto allo stipendio anche in caso che sia stato assente dall’ufficio per un dato periodo di tempo, purché non lo abbia superato; nel qual caso riceve ugualmente lo stipendio integro come se fosse stato presente in ufficio. Si finge che l’impiegato sia stato presente in ufficio. Non è una menzogna: è un semplice convenzione giuridica legata al contratto di lavoro.

Invece il considerare innocente uno che ha veramente peccato come se non avesse peccato non può essere assolutamente catalogato come fictio iuris, perché qui non si tratta di alcuna convenzione giuridica, ma di un fatto reale puro e semplice: il tal dei tali ha peccato. Dichiararlo quindi innocente non è una semplice fictio iuris, ma è una menzogna.

In altre parole, la fictio iuris è una dichiarazione che è legittima, se corrisponde ad una convenzione giuridica. Ma la giustificazione forense luterana è una dichiarazione che tiene per convenzionale ciò che è naturale. Invece essa in realtà non è una dichiarazione relativa a una convenzione, ma è una dichiarazione che non corrisponde alla realtà, quindi è una menzogna. Ciò dipende dal fatto che Lutero, alla maniera di Ockham, non considera il volere divino in campo morale come un volere relativo ai fini della natura umana, ma come un volere puramente positivo e convenzionale. Da qui la possibilità che Dio giudichi della condotta umana non sulla base di un giusto o ingiusto naturali, ma di un giusto o ingiusto dipendente dalla semplice volontà divina nella forma di una fictio iuris. 

In conclusione, lo sforzo ricostruttivo dei valori del cristianesimo da parte di Luigino è stato lodevole l’ultima volta con l’aver sviluppato il tema della grazia e della gratitudine a Dio, e questa volta con l’aver ripreso il tema della misericordia e della sete di giustizia. Ma restano ancora gravi lacune. L’altra volta Luigino ha trascurato di parlare del merito[2] ed è arrivato addirittura a dire che Dio salva anche chi non merita, eresia tipicamente luterana. Occorre invece dire che Dio salva donando la grazia di poter meritare.

Così questa volta è stato apprezzabile il recupero della visione di Dio come vendicatore di coloro che patiscono ingiustizia o sono perseguitati e non trovano in questa vita chi faccia loro giustizia. Ma Luigino ricade nell’eresia luterana quando pretende che, in nome di una «misericordia» che è una beffa della vera misericordia divina, Dio possa perdonare non dopo l’atto del peccato il peccatore pentito, ma l’atto stesso del peccato mentre il peccato viene compiuto. Ciò si risolve nella bestemmia di concepire un Dio che approva l’atto del peccare, facendone oggetto di misericordia anziché di sdegno.

Qualche segno di vita, dunque, Luigino lo dà, segno forse che all’Avvenire qualcosa si è mosso o che qualche vescovo o eminente teologo si è fatto sentire o è stato Luigino stesso, che h cominciato a riflettere sul baratro che gli si stava spalancando davanti.

Ora però i concetti da recuperare con maggior urgenza sono molti. Ne faccio un elenco senza pretesa di completezza.

1.Il concetto di Dio, da intendersi come Dio Altissimo e trascendente, non manovrabile dalla nostra volontà con metodi kabbalistici[3], ma un Dio infinitamente sapiente, immutabile, impassibile, provvidente, onnipotente, giusto e misericordioso, al quale dobbiamo sottometterci totalmente e fiduciosamente, un Dio da amare «con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze» al di sopra di se stessi e di ogni altra creatura, senza pretendere di cambiarLo secondo i nostri gusti, certi che Egli sa molto meglio di noi qual è il nostro vero bene, anche quando ci castiga o ci manda la sventura.

2. La virtù della fede teologale deve ritrovare la sua dimensione intellettuale, liberata dalla grave deformazione che la concepisce come emozione irrazionale atematica e pragmatica, fatta, come dice Luigino, «con le mani e i piedi»[4].

3. La Sacra Scrittura non è una semplice opera letteraria, come per esempio l’Iliade o l’Odissea, soggetta ad interpretazioni personali o che possa esser presa come spunto o materiale per nostri interventi creativi. Al contrario, essa è Parola di Dio, Verità assoluta ed eterna, da comprendere con intelligenza, da accogliere con umiltà e da mettere in pratica con fedeltà.

In special modo dobbiamo manifestare con esattezza, intelligenza e fedeltà ciò che dice la Scrittura, accogliendo l’interpretazione della Chiesa e non far dire alla Scrittura quello che piace a noi, ed evitando altresì di cambiare il testo sacro col servirci di traduzioni infedeli.

4. Altro concetto da recuperare con urgenza è quello della vita eterna. Lasciamo stare le farfalle e, volendo restare nel campo dei volatili, guardiamo semmai alle aquile, guardiamo alla nostra dignità umana, di creature fatte ad immagine di Dio per partecipare in Cristo e nella Chiesa alla grazia della vita divina delle tre Persone della Santissima Trinità.

Cerchiamo di vedere ed attuare nella vita presente un inizio ed una pregustazione della vita eterna, senza lasciarci intralciare dalle seduzioni di questo mondo. Guardiamoci dal considerare la vita eterna come un’«utopia»[5]. Invece la vita presente dev’essere animata dal dono della sapienza[6], che è la perfezione della carità. In special modo, guardiamoci bene dal negare esistenza della vita trascendente ed ultraterrena[7], come se il cristianesimo esaurisse la sua funzione nell’assicurarci la felicità solo in questo mondo.

5. Altro concetto o ideale fondamentale o fine supremo, attorno al quale ruota ed ha senso tutto il cristianesimo, articulus stantis et cadentis Christianismi, tanto per parafrasare un famoso detto di Lutero, è il concetto della perfezione. Si tratta, nella sua generalità, di un concetto già noto alla filosofia greca, soprattutto Platone: la telèiosis.

Perfezione viene da perficere, portare a compimento. Anche noi al termine della nostra vita, dobbiamo poter ripetere, pur nel nostro piccolo, le stesse parole di Gesù morente: consummatum est. Essere perfetti vuol dire aver portato a termine la propria missione.  Vuol dire aver raggiunto il proprio fine, ossia Dio. La perfezione cristiana è un lasciarsi perfezionare da Dio e un perfezionarsi con le proprie forze. Perfezionati dalla grazia, autoperfezionatisi con la buona volontà sostenuta dalla grazia.

Perfezione vuol dire completezza e integrità (Gc1,4). Perfetto è ciò a cui non manca nulla. Certo a noi quaggiù manca sempre qualcosa, abbiamo sempre sete. Occorre tuttavia ricordarci con fiducia la parola del Signore: «Siate perfetti, come il Padre vostro celeste è perfetto» (Mt 5,38).  Essa corrisponde al comando biblico «Siate santi, perché Io sono santo!» (Lv 11,44.45; 19,2; I Pt 1,16).   Dunque non una perfezione a metà. Non una perfezione rinunciataria[8]. Quaggiù, è vero, lottiamo continuamente contro l’imperfezione, dobbiamo accontentarci dell’imperfezione.

Occorre altresì discernere ciò che è perfetto, per poterlo raggiungere e mettere in pratica (Rm12,2). L’uomo perfetto è colui che possiede il dono dello Spirito Santo (I Cor 2). Bisogna arrivare allo stato di uomo perfetto (Ef 4,13). Bisogna essere perfetti in Cristo (Col 1,28). Non facciamo quindi, dell’imperfezione il nostro ideale! S.Paolo ci dice in che consiste la perfezione di quaggiù: nel tendere alla perfezione (Fil 3,12), nel bere ogni volta che abbiamo sete nell’attesa di essere definitivamente e pienamente saziati in cielo[9].

 Nel cristianesimo il concetto di perfezione si riempie di significati e contenuti nuovi, divini e soprannaturali: imitare addirittura la perfezione di Dio! E non si tratta tanto di realizzare un’idea, quanto piuttosto di imitare un modello concreto: la persona e la vita di Cristo. Vivere e morire con Cristo, per risorgere con Lui alla vita eterna.

 Tuttavia è chiaro che il modello che offre Gesù va inteso con saggezza ed intelligenza, per cui la prospettiva della concretezza non va intesa come rinuncia alla funzione ideativa ed astrattiva del pensiero, proprio al fine di comprendere quella concretezza della persona, della vita e dell’insegnamento di Gesù nel suo significato universale ed immutabile, sovrastorico ed eterno.

6. Il conseguimento della perfezione evangelica è il fine che si propone l’opera divina divina della giustificazione. In tal senso, Lutero aveva ragione nel dire che il credo nella giustificazione è l’articulus stantis et cadentis Ecclesiae. E dire giustificazione vuol dire il frutto del sacrificio di Cristo.

Luigino, sviato purtroppo dal fraintendimento freudiano del concetto di sacrificio[10], lo considera una forma di autolesionismo[11], perché egli considera male assoluto non il peccato, ma la sofferenza, per cui non se la sente affatto di affrontare la sofferenza per vincere il peccato, in ciò andando contro lo stesso Lutero, che resta qui cattolico, per cui mantiene perfettamente il valore salvifico della croce di Cristo. Quello che manca a Lutero è il riconoscimento che il cristiano unisce i suoi sacrifici, Messa compresa, alla croce di Cristo.

Alla luce di questi splendidi ideali rivelatici da Nostro Signore Gesù Cristo, e degli esempi dei Santi, vorrei esortare Luigino in questi termini: recupera, caro Luigino, il primo patto, la prima alleanza, il patto stretto col Signore nella tua fanciullezza, scuotiti di dosso la polvere e il fango del mondo, lasciati rimproverare dalla tua coscienza, senza distrarti con i godimenti del mondo. La coscienza è la voce di Dio.

Bevi a larghi sorsi come cerva assetata, l’acqua della sapienza. Bevi l’acqua che ti dà Cristo e non avrai più sete. Quaggiù certo sempre di nuovo occorre tornare a bere. Quaggiù è bella la sete, perché ti attende l’acqua. Ma l’acqua non è fatta per avere sete. La sete è fatta per aver la gioia del dissetarsi. Non possiamo godere d’aver sete, se non perché speriamo di poter bere.

Basta con le mezze misure, basta con le mezze perfezioni. Dònati tutto a Dio. La gioia dell’unione a Gesù crocifisso non può essere barattata con le gioie del mondo. Sei fatto per l’Eterno, non per l’effimero. Riallaccia il patto che hai tradito e che sei ancora in tempo a rifare più stretto di prima, ricco delle nuove esperienze che hai fatto successivamente. Una sorgente di acqua viva ci viene offerta: è Gesù stesso che ci offre quell’acqua per la quale non avremo più sete.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 8 settembre 2020


Il Ritorno del figliol prodigo è un dipinto a olio su tela (262x206 cm) di Rembrandt, databile al 1668 e conservato nel Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo.

Immagine da internet 


[1] Avvenire del 19 luglio.

[2] Avvenire del 30 agosto.

[3] Avvenire del 3 maggio, del 21 giugno e del 2 agosto.

[4] Avvenire del 2 agosto.

[5] Avvenire del 21 giugno.

[6] Avvenire del 21 giugno.

[7] Avvenire dell’8 agosto.

[8] Avvenire 1 marzo.

[9] Avvnire del 5 luglio.

[10] Vedi per es. Massimo Recalcati, Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017. Il sottotitolo potrebbe essere: «per la vita comoda».

[11] Avvenire del 15 marzo.

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