Il mistero dell’essere in Karl Rahner - Mistero dell’essere e mistero di Dio - Terza Parte (3/4)

 

Il mistero dell’essere in Karl Rahner

Mistero dell’essere e mistero di Dio

 
Terza Parte (3/4)

Trasparenza e misteriosità dell’essere in Rahner

Il sistema rahneriano, come quello di Hegel, risolve la totalità dell’essere nell’autocoscienza dello spirito. Tutto si risolve nel mistero dell’essere come spirito cosciente di sé, che comincia da sé (cogito cartesiano), esce da sé in quanto finito luminoso («categoriale») e torna a sé come mistero oscuro («trascendentale»). Ma il mistero dell’essere viene ad essere ad un tempo il mistero dell’io e il mistero di Dio. Dice infatti:

«Lo spirito è trascendenza. Lo spirito comprende in quanto, superando il suo oggetto abbracciato, anticipa la realtà assoluta, non contenibile. Si può definire chiaro l’obiettivo dell’anticipazione – verificantesi nella conoscenza del singolo oggetto afferrabile – della realtà incontenibile e contenente, si può sperimentare la sua ineffabile realtà data dalla sua oggettivazione come oscurità divina, oppure dichiararla luce, che illumina tutto il resto, poiché soltanto nella sua anticipazione il singolo oggetto si presenta limitato; in ogni caso, questa realtà anonima e sopracategoriale, anticipata dalla trascendenza dello spirito in maniera non completa, non è qualcosa di posteriore (l’oscurità per il momento ancora esiste, che piano piano bisogna illuminare), bensì la realtà originaria, la base,  ciò che come ultima condizione di possibilità trascendentale rende possibile innanzitutto quella chiarezza categoriale nella distinzione delimitante»[1].

Una nozione fondamentale del sistema rahneriano, fonte di tremendi equivoci, che lo minano alla sua base, è quello di «trascendenza», che egli non chiarisce mai sufficientemente, dando adito a due possibili interpretazioni, sulle quali egli gioca continuamente, per dar luogo al realismo e all’idealismo. Il verbo trascendere viene dal latino transcendo, che vuol dire oltrepassare, andar oltre verso l’alto, passare salendo, superare. Rahner poi lo usa in senso riflessivo, come autotrascendenza.

È il senso già usato da Sant’Agostino nel suo famoso transcende teipsum[2]. In Agostino il significato è chiaro: egli si riferisce allo sguardo della nostra ragione, la quale, trovando se stessa mutevole e quindi mancante di fondamento, insufficiente a se stessa, per trovare questo fondamento, deve salire oltre se stessa e raggiungere così quella luce infinita, che è Dio, ossia quella luce superiore che accende lo stesso lume della ragione, ossia Dio creatore di quella nostra ragione per mezzo della quale saliamo a Lui. È in altre parole lo stesso ragionamento che farà San Tommaso nel mostrare come la ragione, partendo dalla considerazione della contingenza delle cose, si eleva alla conoscenza dell’esistenza di Dio applicando il principio di causalità.

Rahner, invece, che confonde l’essere col pensare, intende l’autotrascendenza agostiniana, che è solo gnoseologica, in un senso ontologico, come se io per il fatto che mi elevo col pensiero e col mio desiderio a Dio, elevassi il mio stesso essere a Lui, cioè potessi sollevare, accrescere o aumentare il mio essere sino a diventare Lui, cosa semplicemente assurda, perché io non posso innalzarmi al di sopra del mio essere, se non è la causa stessa del mio essere che mi innalza.

Posso, invece, e questa è la meraviglia del pensiero umano, ampliare ed elevare il mio pensiero a pensare all’ente infinito, benché la capacità del mio pensiero, essendo un pensiero non autofondato, sia finita. Ed è questo e solo questo che intende dire Sant’Agostino, anche se egli usa l’espressione teipsum; ma è chiaro che egli intende riferirsi non all’essere, ma al pensar del soggetto.

L’essere dell’io, per Agostino, è creato e quindi non ha alcun potere di oltrepassare da sé i limiti del suo essere, se non è Dio stesso che lo innalza con la sua grazia. E per questo, per Agostino, la pretesa di innalzare se stessi, come si esprime Cristo stesso (Mt 23,12), non è altro che la superbia, è una spiritualità diabolica.

Rahner, invece, nel passo citato sopra, a causa del suo idealismo, inverte l’ordine dell’accesso del sapere umano al mistero divino. Bisogna dire invece  che esso non è oggetto dell’esperienza trascendentale previa ed originaria, sviluppo atematico del cogito cartesiano, ma si apre gradatamente, piano piano e sempre meglio, grazie al progresso dogmatico e teologico, alla comprensione dell’intellectus fidei, in modo tale che il cristiano, basandosi sul dato rivelato, mediante la ricerca teologica, dirada progressivamente il velo che pur resta sulla verità rivelata, fino a che nella visione beatifica contempla la verità svelatamente, benché in se stessa conservi sempre un infinito margine di mistero.

Rahner ha ragione nel dire che il mistero cristiano è un mistero infinito ed assoluto[3]. Egli riconosce che è oggetto della divina rivelazione e tuttavia lo ritiene totalmente oscuro e rivelato proprio in quanto nascosto, privo di qualunque intellegibilità, conoscibilità o comprensibilità. Per questo, appare non solo non dimostrabile, ma anche neppure indagabile, investigabile mediante la concettualizzazione o l’uso della ragione o della filosofia, quindi del tutto ineffabile ed inesprimibile. Non si tratta di conoscerlo imperfettamente o parzialmente; ma non lo si conosce affatto.

Egli infatti parte da un concetto idealistico del mistero divino, che confonde l’assoluto pensato con l’assoluto reale, per cui egli non comprende più come noi nel conoscere il mistero divino possiamo in parte conoscerlo e in parte non conoscerlo. Così per Rahner il mistero divino è sperimentato da tutti e sempre implicitamente e almeno inconsciamente[4] in forza della struttura essenziale del soggetto conoscente, in forma atematica e preconcettuale come esperienza trascendentale dell’io, dell’essere e di Dio, come condizione di possibilità del dato rivelato concettuale e dogmatico custodito dal magistero della Chiesa.

Rahner, in quanto teologo, non prende in considerazione la questione dello svelamento dei segreti della natura o dei misteri della storia umana o il mistero di svelare l’autore di un delitto. Per lui, in campo teologico, esiste un unico mistero, del tutto incomprensibile, «senza nome» e «senza volto», ed è il mistero di Dio. Per lui Dio è il mistero incomprensibile ed inconoscibile. Secondo lui esiste l’Inconoscibile e questo è Dio.

È chiaro che, vedendo le cose a questo modo, ci si domanda allora che ne è della prospettiva biblica di conoscere il «nome di Dio», di «vedere il volto di Dio», di vedere Dio «faccia a faccia», svelatamente «così com’è». È chiaro che qui Rahner si sente a disagio e cerca di sostituire la visione beatifica con l’amore. Ma è chiaro che l’operazione non riesce, giacchè è chiarissimo l’insegnamento della Scrittura, circa il quale Benedetto XII nel 1336 definì addirittura il dogma della visione beatifica (Denz.1000)[5]. 

Dio non è neppure l’essere tout court, ma è l’ipsum Esse. Werner Beierwaltes, in un suo dotto studio[6], ha mostrato la connessione con l’idealismo dell’assioma Deus est esse, esse est Deus. Bisogna invece dire che l’essere non è, come tale, divino o assoluto, come credeva Parmenide. L’essere è analogico, è uno e molteplice, è identico e diversificato. C’è l’essere necessario e l’essere contingente, l’essere finito e l’essere infinito, l’essere creato e l’essere increato, l’essere relativo e l’essere assoluto, l’essere causato e l’essere incausato, l’essere umano e l’essere divino, l’essere reale e l’essere intenzionale, l’essere possibile e l’essere attuale, tutti ben distinti fra loro, senza confusione e senza separazione, e così via.

Anche l’essere umano non può essere ricondotto semplicemente all’essere, come fa Heidegger e Rahner al suo seguito, ma l’essere umano non è che l’essere preciso e limitato di una data precisa e limitata natura, che è la natura umana, per cui esistono altre infinite forme di essere, compreso l’essere divino, che sono ben distinte dall’essere umano.

Il monismo univoco-equivoco panteista, invece, di Parmenide, mescola tutto con tutto. È il caos totale. L’essere che nega se stesso è il nichilismo. E Rahner gli si avvicina col suo essere «incomprensibile», privo di qualunque identità intellegibile.

Rahner inoltre sbaglia nel chiamare Dio l’«abisso» (Abgrund). La Scrittura non chiama mai Dio con questo nome. L’ebraico tehòm designa invece la materia informe, creata da Dio, «coperta dalle tenebre» (Gen 1,1), ossia non illuminata e formata dalla forma, forma o luce che Dio crea per dar forma alla materia. Questo primato della forma sulla materia è espresso con le parole «lo Spirito di Dio (rùach Jahvè) «aleggiava sulle acque» (ibid.), simbolo della materia.

Alcuni esegeti, inoltre, hanno voluto collegare le parole «terra informe e deserta (tohù wa-bohù) e le tenebre (hosek) che ricoprono l’abisso (tehòm)» di Gen 1,2 col concetto greco di caos, ma questo non c’entra niente, perché il caos greco è un abisso originario, oscuro, d’oltretomba, tenebroso, orrido ed increato, mentre il tehòm biblico, come ho detto, non è altro che la materia dell’universo materiale. Se un collegamento col pensiero greco vogliamo farlo, il tehòm lo si può semmai paragonare alla materia prima (prote yle) di Aristotele, tenendo presente però che anche per Aristotele la materia non è creata, ma esiste da sè ab aeterno.

Inoltre, occorre fare molta attenzione al termine ebraico di «tenebra» (hosek, ofel, nesef, efah, alafà, arafel, salmauèt), perché è soggetto a significati molto diversi, per cui occorre tenerli presenti tutti e capire ogni volta qual è il significato.

Tenebra, infatti può essere: 1. la materia informe; 2. il buio o assenza di luce; 3. il simbolo dell’ignoranza, mentre la luce è simbolo della conoscenza; 4. il simbolo del falso opposto al vero simboleggiato dalla luce; 5. l’oscurità del mistero divino; 6. il simbolo dell’inferno o la malvagità delle forze del male. Dio può essere nella tenebra. Nel qual caso io sono al buio, non vedo nulla, ma so che Dio è comunque presente.

Ciò però non vuol dire che per la Scrittura la mente umana possa contattare o intuire Dio immediatamente o per esperienza diretta, possa pensare a Dio nella vita presente senza la mediazione di qualche immagine o concetto. Anche quando parla di Mosè che tratta con Dio «faccia faccia», la Bibbia sottintende sempre che anche Mosè facesse uso del concetto di Dio per pensare a Dio. È solo nella visione beatifica che sarà possibile vedere veramente Dio faccia a faccia senza bisogno di alcun concetto (Ap 22, 4-5). E tuttavia anche allora, e qui Rahner ha ragione, Dio resterà per noi infinito e insondabile Mistero in quanto la sua infinita essenza supera infinitamente la capacità finita della nostra visione.

Il fatto però che Dio sia misterioso non vuol dire che sia inconoscibile. Isaia lo dice chiaramente: «Tu sei un Dio misterioso, Dio d’Israele Salvatore» (45,15). L’enciclica Pascendi di San Pio X però esclude l’idea dell’Inconoscibile come rappresentazione della divinità o come attributo che possa indicare l’essenza di Dio. Dice infatti l’enciclica:

«Se si chiede in qual modo dal bisogno della divinità, che l’uomo prova in se stesso, si faccia poi trapasso alla religione, i modernisti rispondono così. La scienza e la storia, essi dicono, sono chiuse come fra due termini, non hanno la possibilità di passare più oltre» (dall’esperienza delle cose, come sostiene Rahner, non ci si eleva alla nozione sovrasensibile dell’essere, ma essa è ottenuta dall’esercizio dell’autocoscienza): «al di là di esse si trovano in faccia dell’Inconoscibile.

Dinanzi a questo Inconoscibile, o sia esso fuori dell’uomo  o si celi entro l’uomo nei nascondigli della subcoscienza» (ecco la rahneriana trascendentale esperienza originaria preconcettuale dell’io, di Dio e dell’essere, il Vorgriff) «il bisogno del divino» (il rahneriano orientamento inconscio strutturale ed apriorico dell’esistenza umana verso Dio come orizzonte dell’autotrascendenza»), «senza verun atto previo della mente» (per Rahner l’esistenza di Dio non è dimostrata a posteriori ma apriori), «secondo che vuole il fideismo» (per Rahner la fede non è libero atto intellettuale mediato dalla ragione, ma incontro esistenziale con Cristo), «fa scattare nell’animo già disposto alla religione un certo particolar sentimento» (la rahneriana «esperienza di fede»); «il quale, sia come oggetto sia come causa interna, ha implicito in sé la realtà del divino e congiunge in certa guisa l’uomo con Dio» (n.11).

Per Rahner l’uomo è l’essere finito aperto all’essere infinito

in quanto autotrasparente e in quanto mistero[7]

Per Rahner sia l’uomo che Dio si pongono sul piano dell’essere e nell’orizzonte sterminato e diversificato dell’essere. Egli sa che l’essere abbraccia sia l’essere umano che l’essere divino, sia l’essere spirituale che l’essere materiale.

Rahner non distingue tuttavia l’essere dal pensare. Non tiene conto che solo in Dio il pensare coincide con l’essere. In Dio il pensante s’identifica col pensiero e con l’essere pensato. Occorre dire invece che nell’uomo l’essere umano, il pensiero e l’essere oggetto del pensare sono tra loro distinti. San Tommaso spiega con chiarezza queste differenze tra pensante umano e pensante divino, fra il sapere umano e il sapere divino, fra autocoscienza umana e autocoscienza divina:

«l’intelligere non è un’azione che emani verso qualcosa di estrinseco, ma è immanente nell’operante così come l’atto e la sua perfezione, in quanto l’essere è la perfezione dell’esistente. Come infatti l’essere consegue alla forma, così l’intelligere segue alla specie intellegibile» (il concetto). «Ora, in Dio non c’è una forma che sia altro dal suo essere, per cui, poiché la sua essenza è anche la sua specie intellegibile, ne segue necessariamente che il suo stesso intelligere è la sua essenza e il suo essere. E così è chiaro che in Dio l’intelletto, ciò che è inteso e la specie intellegibile sono la stessa e medesima cosa»[8].

Diversa è la nostra autocoscienza da quella divina:

«il nostro intelletto possibile non può esercitare l’operazione intellegibile, se non in quanto è perfezionato dalla specie intellegibile di qualcosa. E così intende se stesso per mezzo della specie intellegibile, così come intende le altre cose; è chiaro infatti che per il fatto che conosce l’intellegibile, intende il suo intelligere e per mezzo di questo atto conosce la potenza intellettiva. Dio, invece, è atto puro tanto nell’ordine degli esistenti quanto in quello degli intelligenti e quindi intende se stesso per mezzo di se stesso»[9].

Ora invece nell’uomo il suo essere non può coincidere col suo pensare, nè il suo pensare può coincidere con l’essere pensato, perché altrimenti non sbaglierebbe mai, giacchè l’errore sta nel fatto che il pensiero si scosta dall’essere o non si adegua all’essere. Invece per Rahner l’essere e il pensare sono per loro essenza divini.

Da qui viene la conseguenza che l’uomo che pensa è con ciò stesso divino. Rahner trascura il fatto che è solo in Dio che il suo essere coincide col suo pensare. Nell’uomo il pensare è solo l’atto intermittente di una potenza, l’intelletto, realmente distinta dall’essenza dell’uomo. Così in Rahner l’essere e il pensare umani sono inglobati nell’essere e pensare divini. Da qui il suo panteismo.

Per lui l’essere come tale è pensante ed è pensiero, è autocoscienza, è spirito, è res cogitans. L’essere è l’essere umano, come per Heidegger. Ma al contempo è anche l’essere divino. Come Hegel, infatti, Rahner non distingue l’essere reale da quello intenzionale, ma tutto l’essere è intenzionale, è idea, è coscienza, è pensiero, è concetto, è pensato, esattamente a come avviene nell’essere divino.

 Non ammette la distinzione fra essere intramentale ed essere extramentale, che invece occorre porre per spiegare la conoscenza umana. Come se la mente umana fosse identica alla mente divina, non ammette essere fuori del pensiero, non distingue il pensato mentale dal pensabile reale, ma tutto l’essere è nel pensiero o è pensato, mentre persino per la mente divina il mondo è al di fuori del pensiero divino. In Rahner la conoscenza è coscienza di sé, anche quando è conoscenza dell’altro da sé.

Rahner imposta male il problema dell’essere. Egli dice che «fa parte dell’esistenza umana»[10], inquantoché «ogni affermazione si riferisce a un ente determinato e si attua sullo sfondo di una precedente conoscenza, anche se implicita, dell’essere in genere»[11]. Afferma che nel sapere metafisico questa «percezione previa dell’essere in quanto tale, nella illimitatezza che gli è connaturale, fa parte della costituzione fondamentale dell’esistenza umana»[12].

Ora dobbiamo dire che anche ammessa e non concessa questa «percezione previa», essa, come atto di conoscenza, non coincide con l’esistenza umana e non è vero, come dice Rahner, che «l’esistenza umana costituisce sempre anche un’affermazione sull’essere in generale e sull’essere assoluto di Dio in particolare»[13]. È vero che tutti nostri concetti si risolvono nel concetto dell’ente e tutti sanno che cosa è l’essere, ma questo non vuol dire che per essere uomini dobbiamo tutti essere dei metafisici.

Il problema dell’essere sorge in coloro tra noi che vogliono andare al fondo delle cose, che si pongono i problemi radicali dell’esistenza, in coloro che s’interrogano sul senso della vita e dell’esistenza; sorge nei filosofi. Ma per tantissimi di noi, che pure fanno una vita normale, il problema dell’essere non è tale da non riuscire a vivere senza affrontarlo e risolverlo, anche se naturalmente anche loro sono chiamati a rispondere delle loro azioni davanti a quell’essere sommo e perfettissimo, che è Dio.

Lo constatiamo tutti che a moltissimi la metafisica non interessa o faticano a capirla o non ne afferrano il senso, ma ciò non costituisce necessariamente per loro una colpa, e non per questo – Dio ci guardi da un’idea simile! - debbono considerarsi meno uomini. Il pensare l’essere è sotteso certo ad ogni nostro pensiero, ma è sbagliato definire l’essere umano come pensiero dell’essere. L’uomo resta uomo anche quando non pensa o quando dorme o quando non ha ancor raggiunta l’età di ragione.

Altrove Rahner spiega che la suddetta precomprensione dell’essere, ossia il suo famoso Vorgriff, è un’esperienza preconscia, preconcettuale ed atematica, da lui detta «trascendentale» del sé, dell’essere e di Dio, della quale ho scritto molte volte negli anni passati. Tale esperienza sarebbe la condizione di possibilità di categorizzazione delle realtà empiriche, ignorando il fatto che se noi possiamo accedere alla metafisica, alla teologia e all’autocoscienza, ciò può avvenire proprio perché partiamo dalla esperienza delle cose sensibili e dalle scienze sperimentali.

Il fatto che la metafisica sia posta dall’uomo, che evidentemente appartiene all’orizzonte dell’essere, non giustifica per nulla l’idea che oggetto della metafisica debba essere l’essere umano, sicchè tutto l’essere, compreso Dio stesso debba racchiudersi al campo di visione, all’«orizzonte» della vista umana, e che quindi l’essere debba esaurirsi nell’essere umano. Ci si domanda che ne è in questa metafisica dell’essere divino, ben superiore all’essere umano e dove va a finire la differenza fra l’essere umano e l’essere divino, se l’uomo ha le stesse prerogative che spettano a Dio?

«Posta questa conoscenza dell’essere – prosegue Rahner[14] -, non è più l’uomo a dover, per dir così, essere “ricondotto” all’“essere”, ma è la conoscenza stessa dell’essere già esistente in lui, a dover essere “ricondotta” a se stessa».

Con ciò Rahner sembra voler ricondurre non l’uomo a l’essere, ma la conoscenza dell’essere ad autocoscienza dell’uomo come essere. Da qui Rahner deduce che «ogni problema metafisico circa l’essere in genere riguarda nello stesso tempo l’essere di colui che lo deve necessariamente porre: l’uomo. Perciò la metafisica è necessariamente e nello stesso tempo anche un’analisi dell’uomo»[15]. In tal modo la metafisica rahneriana non si eleva a Dio come essere creatore dell’uomo, ma all’uomo inteso come essere autocosciente di sé. E Dio dov’è?

Ma qui Rahner diventa chiaro:

 «Ciò significa che l’essenza dell’essere è conoscere ed essere conosciuto in una unità originaria, che noi vogliamo chiamare coscienza o trasparenza, (“soggettività”, “conoscenza”) dell’essere di ogni ente»[16].

Per Rahner l’ente è trasparente a se stesso come mistero. Quindi l’essere è ad un tempo trasparente e mistero a se stesso. Si rivela e si nasconde. È comprensibile ed è incomprensibile. Ora Rahner non sta parlando dell’essenza dell’uomo? Come mai passa a parlare dell’essenza dell’essere, presentandolo peraltro come spirito autocosciente? Qui evidentemente, con «essenza dell’essere» intende «essenza dell’uomo», se è vero che oggetto della metafisica è l’essere inteso come essere umano. L’essere è l’uomo e l’uomo è l’essere. È la concezione heideggeriana dell’uomo e della metafisica. Ma in fin dei conti, chiedendoci da dove deriva questa metafisica, non siamo forse ricondotti a Cartesio? Qual è per Cartesio l’oggetto della metafisica, se non il sum conseguente al cogito?

E difatti Rahner spiega subito sotto questa svolta antropologica della metafisica e questa antropologia metafisica dove dice che «l’essenza dell’uomo è l’assoluta apertura all’essere in genere: in una parola l’uomo è spirito»[17]. Rahner riconosce bensì l’essenza dell’uomo, in quanto ente sensibile, mutevole e immerso nel tempo e nella storia, finito e limitato, ma in quanto spirito, non pare distinguerlo dallo stesso essere divino, se, trattando dell’essere, intende l’uomo come intende l’essere ossia come autocoscienza, prerogative che appartengono solo a Dio, nel quale soltanto l’essere coincide col pensare e con la coscienza di sè.

Altrove Rahner dice che l’uomo è l’ente autotrascendente, il cui orizzonte è Dio. Per lui l’orizzonte della trascendenza umana, orizzonte rispetto al quale l’uomo è essenzialmente aperto, è il termine illimitato rispetto al punto di vista dell’uomo. Ma siamo sempre lì. Quale ente può avere Dio come orizzonte essenziale del suo sapere se non Dio stesso? Il nostro orizzonte, per quanto vasto, non potrà che essere sempre un orizzonte umano, dal quale certamente possiamo partire e sul quale possiamo basarci per elevarci a Dio, il quale però, se è Dio, causa del nostro orizzonte, non potrà che essere al di là e al di sopra di questo orizzonte. Solo Dio può avere Dio come orizzonte del proprio sapere.

Rahner sa che l’uomo può concepire l’infinita vastità dell’essere. Può concepire la totalità infinita dell’essere. Tuttavia non distingue essere, essere divino ed essere umano, ma riduce tutto all’essere, come Parmenide. Questa nozione dell’essere non può essere analogica, ma è necessariamente una nozione univoca ed equivoca ad un tempo: univoca, a causa dell’identificazione dell’essere con l’essere divino; equivoca, perchè in queste condizioni per operare le differenze, per esempio la differenza fra Dio e l’uomo, non resta che la contraddizione, come avviene in Hegel, per cui l’uomo sarà la negazione di Dio e Dio la negazione dell’uomo: o l’ateismo o il panteismo.

Fine Terza Parte (3/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 5 aprile 2023

Una nozione fondamentale del sistema rahneriano, fonte di tremendi equivoci, che lo minano alla sua base, è quello di «trascendenza», che egli non chiarisce mai sufficientemente, dando adito a due possibili interpretazioni, sulle quali egli gioca continuamente, per dar luogo al realismo e all’idealismo. Il verbo trascendere viene dal latino transcendo, che vuol dire oltrepassare, andar oltre verso l’alto, passare salendo, superare. Rahner poi lo usa in senso riflessivo, come autotrascendenza.

È il senso già usato da Sant’Agostino nel suo famoso transcende teipsum. In Agostino il significato è chiaro: egli si riferisce allo sguardo della nostra ragione, la quale, trovando se stessa mancante di fondamento, per trovare questo fondamento, deve salire oltre se stessa e raggiungere così quella luce infinita, che è Dio. È in altre parole lo stesso ragionamento che farà San Tommaso nel mostrare come la ragione, partendo dalla considerazione della contingenza delle cose, si eleva alla conoscenza dell’esistenza di Dio applicando il principio di causalità.


Rahner, invece, che confonde l’essere col pensare, intende l’autotrascendenza agostiniana, che è solo gnoseologica, in un senso ontologico, come se io per il fatto che mi elevo col pensiero e col mio desiderio a Dio, elevassi il mio stesso essere a Lui, cioè potessi sollevare, accrescere o aumentare il mio essere sino a diventare Lui, cosa semplicemente assurda, perché io non posso innalzarmi al di sopra del mio essere, se non è la causa stessa del mio essere che mi innalza.

Posso, invece, e questa è la meraviglia del pensiero umano, ampliare ed elevare il mio pensiero a pensare all’ente infinito, benché la capacità del mio pensiero, essendo un pensiero non autofondato, sia finita.

Immagini da Internet: mosaici Basilica San Marco, Venezia
 


[1] Sul concetto di mistero nella teologia cattolica, in Saggi teologici, Edizioni Paoline 1965, pp.403-404.

[2] Nel c. XXXIX del De vera religione.

[3] Cf il mio articolo LA “RIVELAZIONE ORIGINARIA” IN KARL RAHNER, Sacra Doctrina, 6, 1985, pp.537-559.

[4] Cf il mio articolo IL PROBLEMA DEL “PRECONSCIO” IN MARITAIN, Divus Thomas, 7, 1994, pp.71-107.

[5] Cf Andrea Vaccaro, Il dogma del paradiso, Edizioni della Pontificia Università Lateranense, Roma 2005.

[6] Platonismo e idealismo, Società Editrice Il Mulino, Bologna, 1987.

[7]Rahner ha trattato a più riprese della questione del mistero cristiano. Vedi per esempio, oltre ai libri già citati, il Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline 1978, pp.68, 80,81, 84, 91, 97, 98,100; A proposito del nascondimento di Dio, in Teologia dell’esperienza dello Spirito, Edizioni Paoline, Roma 1978; pp.349-374; Il problema umano del senso di fronte al mistero assoluto di Dio,in Dio e Rivelazione, Nuovi saggi VII, Edizioni Paoline, Roma 1981,pp.133-154. Una presentazione della mistica rahneriana si trova nel libro di Yves Tourenne, La théologie du dernier Rahner, Les Editions du Cerf, Paris 1995, soprattutto pp.151, 157, 193, 227-228, 239, 247,251, 262-263,265,270, 274, 361-363.

[8] Sum.Theol., I, q.14, a.4.

[9] Ibid., a.2.

[10] Uditori, op.cit., p.64.

[11] Ibid.

[12] Ibid., p.94.

[13] Ibid., p.129.

[14] Ibid., p.64

[15] Ibid., p.65.

[16] Ibid., p.66.

[17] Ibid.

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