Discussione sulla pena di morte - Prima Parte (1/2)

 

Discussione sulla pena di morte

Prima Parte (1/2)

Mortificate quella parte di voi che appartiene alla terra

Col 3,5

Una svolta storica

Cominciamo col ricordo dei princìpi di fondo, che tuttora illuminano la complessità della questione, tali quindi da guidare la discussione. Il richiamo ad un’antichissima tradizione qui si potrebbe certamente fare[1], ma non è sufficiente né pertinente, perché possono esistere antichissime tradizioni, anche avallate dalla volontà di Dio, le quali, non essendo valori assoluti, per l’avvento di fatti nuovi, essi pure voluti da Dio, devono essere abbandonate per la realizzazione di un progresso morale nella linea della realizzazione escatologica del regno di Dio. E questo è proprio il caso.

Il punto da cui partire è la considerazione che Dio, autore della vita, vuole in linea di principio la promozione ordinata della vita in tutti i suoi gradi: vegetativo (piante), sensitivo (animali), razionale (uomo), spirituale (angelo), divino (Dio stesso e la sua grazia). Ora, però, che cosa è accaduto secondo la Rivelazione cristiana? Che col peccato originale, quest’ordine è stato sconvolto, per cui, in linea di massima, non in tutti i casi, il grado inferiore si ribella al grado superiore e il superiore opprime l’inferiore. In modo particolare, per quanto ci riguarda: la carne si ribella allo spirito ed abbiamo il lassismo, e lo spirito schiaccia la carne ed abbiamo il rigorismo. Il privato danneggia il pubblico e il pubblico opprime il privato.

Col peccato originale sono entrate nel mondo delle forze distruttive ed omicide, per cui, per salvare la vita, occorre ucciderle, occorre una «mortificazione». Sembra un paradosso: uccidere per salvare la vita; eppure, se ci ragioniamo, ci accorgiamo che è proprio così, per cui i veri nemici della vita sono proprio quei pacifisti imbelli e comodini che rifiutano la lotta e l’ascetica, scambiandola per repressione, odio e violenza.

Allora dovere morale fondamentale ed assoluto è quello della promozione della vita, ma della vita in tutti i gradi dell’ordine gerarchico voluto da Dio, e pronti ad eliminare ciò che si oppone non a qualunque vita, ma alla vita voluta da Dio. Da qui sorge il comandamento «non uccidere», ma anche uccidi ciò che produce morte. Ecco in generale, la «mortificazione» (Col 3,5).

Se dunque ci imbattiamo in un vivente che uccide, che dobbiamo fare? Il governante ha il compito di custodire il bene comune. Che deve fare contro le forze che tentano di distruggerlo? Abbiamo il dovere di amare la Patria. Ma se un esercito nemico ci assale, che facciamo? Se una nazione aggredita ci chiede soccorso che facciamo? Se lo straniero occupa un territorio patrio, che facciamo? Se gli immigrati islamici dichiarano di voler dominare l’Italia, noi che facciamo? Se il numero degli Italiani cala a vista d’occhio per la diffusione dell’omosessualità, che facciamo? Mons. Gian Carlo Perego, Vescovo di Ferrara, ha detto che si aprono spazi per popoli non italiani. Va bene così?

Abbiamo il dovere di dominare le passioni. Ma se avvertiamo un impulso all’omosessualità, che facciamo? Le diamo libero corso per non reprimere l’amore? Il medico ha il compito di promuovere la salute. Ma se s’imbatte in un virus mortale, per esempio il covid, che fa? Prepara un vaccino che lo uccida. Ha peccato contro il comandamento?

Da qui vediamo come il Quinto Comandamento vada rettamente interpretato. Esso significa: non uccidere l’innocente. Ma non esclude, anzi può richiedere che venga punito con la morte il criminale, ossia colui che fa uso della sua vita per uccidere[2].  

Dio vuole che la vita sia impiegata per la promozione della vita. Invece purtroppo, a seguito del peccato originale, accade che una vita sia impiegata per produrre la morte. Questo vuol dire che non sempre la vita è un valore e merita di essere vissuta e rispettata: esiste una vita buona e una vita cattiva. Non qualunque vita merita di essere rispettata, ma solo quella vita che non è spesa per la morte. Una vita che procura la morte non è una vera vita, perché reca danno alla vita buona. E per questo merita di essere soppressa per salvare la vera vita. La ragione della pena di morte è tutta qui.

In tempi di buonismo mi azzardo a dire una cosa scandalosa per il buonista, ma la dico lo stesso, perché parlo a ragion veduta: l’inventore della pena di morte, se così posso esprimermi, è stato Dio stesso, quando, nel Genesi, avverte i progenitori, che se avessero mangiato del frutto proibito, sarebbero morti (Gen 2,16).  

È chiaro che Dio è il Dio della Vita, che non vuole la morte di nessuno. «Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?» (Ez 18,23). Dio preferisce la misericordia, ma a volte, come dice chiaramente la Scrittura[3] esercita la severità. Egli infatti non vuole che viva ciò che procura la morte. Se Dio lasciasse vivere il mortifero e l’assassino, si potrebbe dire che ama la morte. Ma è questo il vero Dio? Il Dio dei vivi non può essere nel contempo il Dio dei morti.

L’uomo o lo Stato, dal canto suo, deve togliere il peccato o il crimine per poter vivere serenamente. Allora deve uccidere il peccatore o il criminale? Non necessariamente, ma solo quando non trova altro modo di difendersi.

Chi procura la morte è già morto egli stesso. La pena di morte non è altro che il riconoscimento o la sanzione dello stato di uno che in realtà non è vivo ma morto. In questo senso, chi è privo della grazia divina, è «morto». Come dice Giovanni all’Angelo, cioè al Vescovo, della Chiesa di Sardi: «ti si crede vivo, ma sei morto» (Ap 3,1).

Inoltre, bisogna tener conto del fatto che nella persona umana si deve distinguere la vita fisica da quella spirituale. La vita fisica in se stessa è certamente buona e preziosa, ma non vale tanto quanto la vita spirituale. La prima mira al bene materiale, limitato e particolare; la seconda, al bene assoluto, universale, illimitato, divino.

La soppressione legale della vita fisica del criminale non va intesa come volontà di distruggere la persona, che di per sé è immortale, ma semplicemente come volontà di renderla innocua senza che ciò escluda assolutamente l’auspicio che essa possa conseguire la salvezza eterna. È proprio degli Stati atei concepire la pena di morte come eliminazione totale dell’individuo, mancando in essi la fede nell’immortalità dell’anima. Questi sì che sono attentati alla dignità della persona, al contrario della visione tradizionale cristiana della questione.

Inoltre occorre confrontare anche il bene fisico dell’individuo col bene della comunità. È chiaro che questo secondo bene è molto maggiore della vita fisica dell’individuo. Se dunque un criminale con la sua condotta reca danno al bene comune, il governante ha la facoltà di difendere il bene comune mediante la pena di morte per il criminale. L’individuo è membro e parte della comunità. Se la parte mette un percolo il tutto, il tutto ha il diritto e il dovere di rinunciare alla parte.

È vero che Dio, bene della persona, è superiore al bene comune della società o dello Stato e in tal senso la dignità della singola persona supera il bene comune temporale[4], per cui sotto questo punto di vista è il bene comune a dover favorire la vita spirituale della persona.

Da qui il diritto civile alla libertà religiosa e di pensiero, salva comunque sempre la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dello Stato. Tuttavia la legittima pena di morte è solo riferita appunto alla salvaguardia del bene comune temporale ed è chiaro che diventerebbe del tutto illegittima, un vero e proprio crimine, se pretendesse di punire la fede religiosa della persona.

Aggiungiamo che il diritto dell’individuo alla vita fisica è non è un diritto assoluto, come lo è per la persona il diritto a una sana vita spirituale. C’è chi non si fa scrupolo di trascurare la vita spirituale pur di salvare il benessere fisico. Dobbiamo invece esser pronti a subire qualunque danno fisico pur di non subire pregiudizio alla nostra vita spirituale. Il diritto alla vita fisica quindi è condizionato dall’uso che l’individuo fa di essa, a seconda che ne faccia uso o per vivere onestamente o per recar danno fisico o spirituale a se stesso o agli altri.

Per questo, mentre è sacra e inviolabile la dignità della persona, in quanto immagine di Dio e in relazione con Dio bene assoluto - del resto l’anima è immortale e non la si può uccidere -, la vita fisica di un individuo che dovesse recar grave danno alla vita spirituale delle persone o al benessere della comunità, perde il diritto all’esistenza fisica e può meritare dal governante, ossia dal custode del bene comune, la decisione della sua soppressione.

Inoltre, occorre tener presente la differenza insegnata dalla Rivelazione cristiana, fra il presente stato di natura decaduta e il futuro stato di natura gloriosa. Nel presente stato, per salvare i valori superiori, occorre rinunciare o sopprimere quelli inferiori, quando ostacolano o impediscono i superiori. Questo vale sia per la vita della persona che per quella della comunità. Quelle che sono le pratiche ascetiche o i voti religiosi della persona, sono i provvedimenti penali dello Stato. Come il religioso mortifica quegli impulsi sensibili che lo frenano nella libera affermazione del suo spirito, così lo Stato deve eliminare quelle forze che mettono in pericolo la sua tranquillità e il suo benessere.

Viceversa, nel futuro stato della risurrezione gloriosa, gli impulsi sensibili della persona saranno pienamente sottomessi alle esigenze dello spirito e l’individuo sarà pienamente al servizio del bene comune, per cui non occorrerà più alcuna pratica ascetica che debba mortificare le passioni, né la comunità avrà più bisogno di difendersi da individui pericolosi.

Ragioni a favore della pena di morte

Vi sono casi di eccezionale gravità – incitamento alla sovversione e al rovesciamento delle istituzioni, appartenenza ad associazioni a delinquere o pericolose per lo Stato, apologia dell’odio, organizzazione di migrazione illegale, insurrezioni, terrorismo, devastazioni, turbamento dell’ordine pubblico, stragi, epidemie indotte, attentato alla legittima suprema autorità dello Stato - nei quali la comunità deve intervenire d’urgenza, per non essere distrutta o ridotta in condizioni di vita insopportabili, casi nei quali la comunità si trova terrorizzata dal terrorismo o soffocata dalla tirannide o sedotta da abili impostori che sconvolgono le basi morali della convivenza civile.

Un fenomeno criminoso gravissimo, che merita di essere represso con la massima severità, è oggi quello delle organizzazioni criminali, vere trafficanti di uomini, le quali gestiscono i viaggi malsicuri o addirittura mortali di migliaia di persone disperate e sfruttate economicamente, provocando un fenomeno migratorio clandestino ed irregolare di enormi proporzioni, che finisce per creare disordini e diffusione della delinquenza nei paesi ospitanti, non assicura ai migranti quella vita dignitosa che vien loro falsamente promessa e sottrae mano d’opera ai paesi di provenienza.  

Tutto ciò naturalmente non deve frenare ma anzi accentuare l’accoglienza dei migranti, ma richiede nel contempo un urgentissimo intervento repressivo nei confronti delle bande criminali.

Se invece il criminale non obbliga la comunità a simile intervento d’urgenza, ma nell’insieme la comunità resiste all’attacco criminale, è certamente bene e doveroso limitare a pene temporanee o all’ergastolo la pena del delinquente.

La Chiesa sin dagli inizi, alla scuola del divino Maestro, mite ed umile di cuore, Signore della Vita, e vincitore della morte, principe della pace, Cristo «nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo» (Ef 2,14), ha insegnato il rispetto per la vita umana e bandito ogni forma di odio, violenza e crudeltà, ma ha promosso anche la difesa del debole e del povero dall’oppressore, ha approvato il castigo dell’assassino, la difesa della comunità contro i fautori di discordie e divisioni.

Certamente la Chiesa ha legittimato la pena di morte già in uso nell’Antico Testamento e tra gli stessi pagani. La Genesi narra che «il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato» (Gen 4,15). Tuttavia «il Signore gli disse: “chiunque ucciderà Caino, subirà la vendetta sette volte!”» (v.15). Qui Dio prevede il fatto noto a tutti delle catene dell’odio. D’altra parte dobbiamo ricordare la parola «a me la vendetta» (Rm 12,19).

Per questo la Chiesa ha sempre inteso la pena di morte non come vendetta emotiva, ma come ponderato e vagliato atto di giustizia, come sentenza di un regolare processo canonico[5], sicchè il giudice dev’essere ministro della giustizia divina.  L’animosità toglie al giudice la facoltà di essere imparziale, lo rende fazioso e lo fa peccare contro la giustizia. Sappiamo d’altra parte come per lunghi secoli i teologi abbiano giustificato col suddetto motivo, consenziente la Chiesa, la pena di morte per gli eretici.

Il ragionamento che i teologi facevano era il seguente: è più grave falsare quella dottrina che procura all’anima la vita eterna che non falsare la moneta, che riguarda il benessere della vita fisica. Dunque, se questo delitto merita la pena di morte, a maggior ragione lo merita il delitto di eresia. In tal modo la Chiesa ha ottenuto per secoli un’adesione di molti, seppure interessata, alla dottrina della fede.

Ma quanto, in tante anime, l’accettazione del Credo poteva essere convinta o non piuttosto motivata dal timore di incorrere nei rigori dell’Inquisizione? Ancora nel 1789 il Padre Vincenzo Pani, Commissario del Sant’Offizio e Teologo della Casa Pontificia dal 1792, pubblicava una dotta opera per dimostrare la convenienza della pena di morte per gli eretici[6].

Tuttavia nel 1804 Papa Pio VII dimise dall’incarico il Padre Pani e nel contempo decise di abolire la pena di morte per gli eretici. La carica di Teologo della Casa Pontificio rimase vacante fino al 1815, quando Pio VII nominò il Padre Filippo Anfossi, ma da questo momento le sanzioni per il delitto di eresia previdero solo pene temporali[7].

Oggi le eresie sono molto più diffuse che per il passato, ma la Chiesa preferisce un clima di libertà di pensiero e pene modeste piuttosto che la mano pesante di una vigilanza minacciosa, che genera facilmente una fede di convenienza[8].  Quello che oggi sarebbe necessario è una più premurosa presenza dei Vescovi, atta a correggere gli errori sostituendoli con la sana dottrina. Il Papa è lasciato solo ed è chiaro che da solo può ottenere ben poco.

Esistono peccati di fragilità ed esistono peccati di malizia. Nel primo caso il peccatore può convertirsi. Ma quando c’è la malizia, facilmente c’è l’ostinazione e il peccatore diventa incorreggibile e pericoloso. Con questi i Vescovi dovrebbero essere più energici.

Con quale animo il cristiano può giungere ad uccidere o a fare uccidere? Sia egli il giudice o il boia che esegue il mandato del giudice o il gioielliere minacciato con la pistola o il soldato in battaglia? La nostra risposta non può avere dubbi: col cuore animato dalla carità, per quanto ciò possa sembrare paradossale o addirittura ipocrita.

Eppure, a ragionarci su, le cose stanno rigorosamente così e non potrebbero non stare così: se è vero che tutte le azioni del cristiano sono mosse dalla carità e quindi devono esserlo anche quelle direttamente motivate dalla giustizia, dal compimento del dovere o dalla difesa della vita propria o della comunità, ne consegue che le suddette azioni del cristiano sono causate dalla carità ed espressione della carità.

Ma potrà il giustiziato, potrà il rapinatore, potrà il soldato nemico capire il senso dell’azione del cristiano? Potrà sentirsi amato? La cosa, certo, è estremamente improbabile e potrebbe avere del miracoloso, ma non è necessario che ciò avvenga per conferire sincerità all’atto di carità di colui che è strumento della giustizia divina. Santa Caterina, come è noto, persuase Toldo ad accettare la decapitazione per amore di Cristo con amore verso il boia che gli dava l’occasione di andare in paradiso.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 29 agosto 2023

 

In tempi di buonismo mi azzardo a dire una cosa scandalosa per il buonista, ma la dico lo stesso, perché parlo a ragion veduta: l’inventore della pena di morte, se così posso esprimermi, è stato Dio stesso, quando, nel Genesi, avverte i progenitori, che se avessero mangiato del frutto proibito, sarebbero morti (Gen 2,16).  


 

È chiaro che Dio è il Dio della Vita, che non vuole la morte di nessuno. «Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?» (Ez 18,23). 

Dio preferisce la misericordia, ma a volte, come dice chiaramente la Scrittura esercita la severità. Egli infatti non vuole che viva ciò che procura la morte. Se Dio lasciasse vivere il mortifero e l’assassino, si potrebbe dire che ama la morte. Ma è questo il vero Dio? Il Dio dei vivi non può essere nel contempo il Dio dei morti.

L’uomo o lo Stato, dal canto suo, deve togliere il peccato o il crimine per poter vivere serenamente. Allora deve uccidere il peccatore o il criminale? Non necessariamente, ma solo quando non trova altro modo di difendersi.


Immagini da Internet
- La raffigurazione del Roveto ardente nella Cappella di Mosè, Basilica di San Marco, Venezia
- Vangelo


[1] Più volte il Papa ha ironizzato sul detto «si è sempre fatto così» come giustificazione del mantenimento di certe pratiche giuridiche o morali ormai superate. In realtà tale principio non è sempre sufficiente per giustificare l’obbligo di continuare a fare così. Se infatti applicassimo questo principio in maniera indiscriminata, ne uscirebbero intoppi gravi al normale progresso umano, come per es. se quando fu inventata l’automobile, se ne fosse proibito l’uso col motivo che fino ad allora si era viaggiato a cavallo; oppure se si fosse rinunciato di concedere alla donna un ministero nel presbiterio durante le ufficiature liturgiche col motivo che mai una cosa del genere fino ad allora era successa, e così via per tante altre cose. Il principio vale solo quando si riferisce a pratiche relazionabili solo a cose mutevoli, e non a valori perenni ed immutabili, per esempio l’amministrazione dei sacramenti o alla pratica delle virtù morali.

[2] Il Dizionario di teologia morale del Roberti-Palazzini, Editrice Studium, Roma 1957, alla voce MORTE (PENA DI), afferma che la pena di morte non è contro il diritto naturale, ma neppure richiesta dal diritto naturale. È una posizione saggia che concilia l’esigenza di una buona vita che discende dalla legge naturale con la considerazione realistica della malvagità della natura umana conseguente al peccato originale e la necessità di rimediare a questo stato, dando spazio nel contempo alla possibilità di una eliminazione escatologica della pena di morte.

 

[3] Per es. Tb 13,5: «Dio castiga e usa misericordia». Non è vero, quindi, come sostiene il Card.Kasper, che il Dio del Nuovo Testamento non castiga più. Vedi Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo, Queriniana, Brescia 2013, p.103.

[4] Cf J. Maritain, La persona e il bene comune, Edizioni Morcelliana, Brescia 1963.

[5] Gli storici moderni obbiettivi, anche non cattolici, ma non massoni, dei processi dell’Inquisizione, senza negare le avvenute ingiustizie e crudeltà che giunsero fino all’uso della tortura, riconoscono l’umanità con la quale veniva trattato il reo e il fatto che i procedimenti precorrono i pregi del moderno diritto penale.

[6] Della punizione degli eretici e del Tribunale della Santa Inquisizione. Lettere apologetiche divise in due tomi, Editore anonimo 1789.

[7] Notizie da Wikipedia alla voce TEOLOGO DELLA CASA PONTIFICIA.

[8] La Lettera che il Santo Padre ha scritto a Mons. Victor Manuel Fernandez nel conferirgli l’incarico di Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede rievocano brevemente con disapprovazione i metodi di quei tempi, benché sia chiaro che non dobbiamo colpevolizzare i responsabili, perché agivano in buona fede e vi sono stati tra di loro anche dei Santi.

2 commenti:

  1. errata corrige nota 8
    Mons. Miguel Fernandez rectius Victor Manuel Fernàndez

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