Circa l’identità del popolo ebraico - Prima Parte (1/4)

 

Circa l’identità del popolo ebraico

Prima Parte (1/4)

                                                                                                                       La salvezza viene dagli Ebrei

                                                                                                                                                                  Gv 4,22

Tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio:

il Signore tuo Dio ti ha scelto

per essere il suo popolo privilegiato

fra tutti i popoli che sono sulla terra

Dt 7,6

 

L’identità del popolo ebraico è un mistero di fede

Risulta dalla rivelazione biblica che il popolo ebraico come entità etnica è prediletto da Dio fra tutti gli altri popoli, in quanto ha ricevuto da Dio la missione di essere mediatore di salvezza per tutta l’umanità e quindi esemplarmente santo fra tutti i popoli.

Dio quindi entra in una speciale comunione con lui, lo considera suo figlio prediletto, gli dona il suo Spirito e la sua legge di vita, è geloso di lui come uno sposo della sposa; non tollera che abbia altri amanti; gli si manifesta come modello di santità: «Voi sarete santi, perchè io sono santo» (Lv 19,2).

Una cosa stupefacente di questo popolo, che lo rende unico tra tutti gli altri popoli, è il fatto che esso sia sorto per iniziativa divina da un solo uomo, Abramo, al quale appunto Dio promise che da lui sarebbe sorto un popolo numeroso prediletto da Dio.

Cosa unica fra tutti gli altri popoli è altresì che questo popolo tragga il suo nome Israele dal suo fondatore Giacobbe e che si formi quindi nella storia su base familiare, per genealogia, fino a giungere a Gesù, che conferma l’elezione di questo popolo e allarga la sua missione all’evangelizzazione salvatrice di tutti i popoli. Così vediamo come per Israele vi sia uno stretto legame di sangue fra l’individuo, la famiglia e la nazione ovvero il popolo.

E difatti da Abramo, per il tramite del figlio Isacco e del nipote Giacobbe, ha origine quel popolo, che chiamiamo popolo d’Israele, dal nome impostogli da un angelo a Giacobbe dopo la famosa lotta con questo angelo (Gen 32, 23-33). È lo stesso angelo che impone a Giacobbe il nome Israele. «perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto» (v.29).

Che cosa significa questa paradossale lotta con Dio e vittoria su Dio? Essa pare una bestemmia. Eppure Giacobbe chiede umilmente all’angelo di benedirlo (v.27). Come farà più tardi Mosè, Giacobbe chiede all’angelo il suo nome, ma l’angelo si rifiuta di dirglielo. L’angelo, dopo una lotta durata tutta una notte, vuole andarsene, ma Giacobbe lo trattiene. Chiede all’angelo la sua benedizione e l’angelo gliela concede (v.27).

Ma poi chi è questo angelo? È un vero angelo, uno spirito creato o si tratta solo di una visione celeste che rimanda a Dio? Alla fine Giacobbe è convinto di aver visto Dio, pagando però questa conquista con un colpo ricevuto dall’angelo all’anca.  Dice infatti Giacobbe: «ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva» (v.31).

Che cosa significa questa lotta notturna? Giacobbe vince una lotta dettata dall’amore e dal desiderio ardente, tipico del popolo ebraico, di determinare la verità sul problema di Dio, fosse pure per negarne l’esistenza, come accadrà a Marx, a Bloch e a Freud o alla stessa giovane Etty Hillesum o Raissa Maritain.

Dio nel corso della storia ha affidato ad Israele questa missione messianica sulla base di due principali Alleanze: la prima con Mosè, per la quale Israele svolgeva presso gli altri popoli la missione di popolo guida verso il vero Dio; e la seconda con Cristo, per la quale Israele conservava il dovere di essere esemplarmente santo, ma, insieme con gli altri popoli, doveva edificare o radunare un nuovo popolo di Dio, la Chiesa, che non accoglieva più soltanto l‘Israele secondo la carne, ma formava un Israele secondo lo Spirito.

La Chiesa, quindi, non è guidata necessariamente da un ebreo, come lo era il popolo di Dio dell’Antica Alleanza, benché ciò non possa affatto escludersi. Costui tuttavia potrà essere di razza ebraica, ma si suppone convertito al cristianesimo.

Certo, in questi 2000 anni noi cristiani provenienti dal paganesimo, ai quali Dio ha voluto passare la guida di quella Chiesa che Cristo aveva fondato anzitutto per il suo popolo, siamo sempre stati meravigliati e anche sdegnati per l’ingratitudine e per l’ostinazione, con le quali gli ebrei, nella grandissima maggioranza, hanno sempre respinto e respingono il loro Messia e Signore, quel Dio incarnato morto per la loro salvezza, che era venuto anzitutto per raccogliere le pecore perdute della casa d’Israele, quel Dio che nei secoli precedenti aveva preparato la sua venuta per mezzo dei profeti.

Ci siamo sempre domandati: come mai le autorità giudaiche, che hanno messo a morte Gesù, autorità che esistono ancor oggi nel rabbinato, anche se la classe sacerdotale non esiste più, non hanno mai riconosciuto e a tutt’oggi non riconoscono di essersi sbagliate nel condannare a morte un innocente, ma non solo innocente, ma il loro stesso Signore e Salvatore?  Come abbiamo potuto noi pagani accorgerci dell’ingiustizia e non accorgersene le stesse autorità giudaiche?

Nel contempo, noi cristiani dobbiamo arrossire per aver gravemente disprezzato il popolo ebraico col qualificarlo col titolo orribile, infamante ed ingiusto di popolo «deicìda», quando in realtà, come ha riconosciuto solo di recente il Concilio Vaticano II, la responsabilità dell’assassinio di Gesù va solo alle autorità del tempo ed agli ebrei da esse ingannati. E se noi pagani abbiamo potuto scoprire la verità sull’uccisione di Gesù, è perchè siamo stati illuminati da ebrei onesti e coraggiosi, come Santo Stefano e gli apostoli, che hanno pagato con la vita la testimonianza circa la verità su Gesù.

Nello stesso tempo, noi cristiani dobbiamo riconoscere, umilmente addolorati e pentiti, che in questi 2000 anni spesso per non dire spessissimo abbiamo avuto nei confronti degli ebrei un atteggiamento di arroganza e di intolleranza[1], dimenticandoci che, come dice il Concilio, essi restano sempre a Dio carissimi e che Egli non cessa affatto di ricordare ad essi la sua alleanza con loro. 

San Paolo, dal canto suo, ben consapevole di queste cose, prevede che Israele manterrà la propria identità etnica fino alla Parusia. Dice egli infatti che quando tutte le genti saranno entrate nel regno di Dio, quella parte d’Israele che ancora non era entrata, vi entrerà (Rm 11, 25).

Indubbiamente molti si chiedono come ciò potrà verificarsi, considerando il fatto che a causa della bimillenaria diaspora, l’etnia ebraica, a contatto con popoli di altre razze, non ha potuto conservarsi pura in tutti i suoi individui, a causa di matrimoni misti. È comunque sorprendente come le comunità ebraiche nei vari paesi siano riuscite, nonostante queste bimillenarie traversie, a mantenere la propria identità.  Così è sempre stato possibile l’esistenza di ebrei con nomi non ebrei o individui di aspetto non ebraico, che tuttavia per genealogia sono ebrei.

Bisogna pertanto riconoscere che questo popolo, che nel 70 d.C., con la distruzione del tempio, fu soggetto alla prova durissima della cacciata dal suo territorio, che dette origine alla diaspora in parecchie nazioni, ebbe delle sagge guide nei rabbini, i quali sostituirono la classe sacerdotale estinta a causa della soppressione del culto nel tempio.

Essi ebbero cura di conservare una serie di valori sacri: le Scritture da loro commentate, la Legge mosaica, la sinagoga, il sabato, le preghiere, le istituzioni giuridiche, la circoncisione, l’istruzione scolastica, il calendario delle feste, le osservanze igieniche, la regolamentazione della dieta alimentare, le usanze familiari e sociali, le purificazioni rituali, i riti dei funerali e della sepoltura, le genealogie, la memoria storica, la speranza messianica. Tutto ciò è servito e serve ad Israele a mantenere la propria identità etnica, nazionale, culturale e religiosa.

Israele torna alla sua terra: lo Stato Ebraico

Altro fatto unico nella storia di tutti gli altri popoli, segno di vera protezione celeste, è il ritorno di Israele alla sua terra, la Palestina, dopo 2000 di esilio sparpagliato fra le nazioni, e dopo il terribile sterminio nazista, che pareva lo dovesse eliminare del tutto. Dio lo protegge, ma nel contempo lo sotto mette a dure prove per vagliarne la fedeltà. E la prova ha retto, perché tuttora in Israele esiste la fede mosaica, benché parte del popolo l’abbia abbandonata.

Il fatto che questo popolo, salvo frange accidentali o sporadiche di assimilati ad altri popoli, avesse mantenuto la sua identità permise ai nazisti di riconoscere facilmente chi erano gli ebrei, anche se molti avevano nascosto la loro identità sotto nomi non ebraici o se non erano di pura razza ebraica.  Infatti i nazisti, organizzatissimi con una teutonica meticolosità, degna di ben altra causa, andavano a setacciare e a spulciare i documenti anagrafici depositati presso istituzioni civili o religiose ebraiche e cristiane e scoprivano così la percentuale di sangue ebraico presente nei vari soggetti vagliati.

Negli ultimi secoli, comunque, è diminuita fra gli ebrei la pratica religiosa, cosicchè alcune guide spirituali, come per esempio Theodor Herzl nel sec.XIX, si impegnarono a determinare un’identità laica del popolo ebraico in vista di un suo ritorno in Palestina per la costituzione di uno Stato Ebraico, che, come è noto, si realizzò effettivamente nel 1948 col consenso delle Nazioni Unite, con capitale prima a Tel Aviv e poi più di recente spostata a Gerusalemme, la città di Davide.

L’affermazione herzliana della dignità ed identità del popolo ebraico è detta «sionismo». Essa si basa sul concetto di popolo ebraico come entità etnica semplicemente umana alla pari di ogni altro popolo creato da Dio, per cui sta alla base della fondazione e costituzione dello Stato d’Israele non come oggetto della fede ebraica, ma come opera della ragione.

Da qui la concezione laica dello Stato col conseguente riconoscimento del diritto alla libertà religiosa, per cui la comunità ebraica convive con pari diritto con le altre comunità religiose presenti nel territorio. Lo Stato d’Israele, quindi, non riconosce la propria legittimità come attuazione della promessa fatta ad Abramo, ma come entità morale basata sul diritto internazionale.

Lo Stato d‘Israele rivendica il proprio diritto ad occupare la Palestina non in base alla narrazione biblica relativa ad Abramo e a Mosè, ma in base alla documentazione storico-archeologica della presenza del popolo d’Israele in Palestina ab immemorabili. Tuttavia gli israeliani, ossia gli ebrei herzliani, sono contrastati nella loro tesi dagli storici palestinesi, di matrice per lo più musulmana.

È chiaro che, stando così le cose, tra israeliani e palestinesi è necessario l’accordo, al fine di evitare rivendicazioni territoriali. Di recente i palestinesi hanno fondato uno Stato Palestinese in quel territorio, che, secondo la narrazione biblica e la promessa fatta ad Abramo, apparterrebbe ad Israele.

Ma la moderna esegesi biblica ebraica e cristiana si domanda perplessa se può esser stata veramente volontà di Dio l’occupazione violenta di Israele a suo tempo di un territorio che era occupato da altri popoli.  Può Dio promettere ad un popolo una terra occupata da altri, sulla base dell’espulsione di questi altri dal territorio. Ma Dio non è il creatore anche di questi altri?

Qui oggi vediamo più che mai quanto è cosa delicata l’interpretazione della Scrittura, per non intendere come rivelazione divina e dato di fede, concezioni e pratiche che in realtà riflettono solo la mentalità del tempo nel quale l’agiografo è vissuto. Che Israele abbia diritto a una sua terra come tutti gli altri popoli non c’è alcun dubbio e la testimonianza biblica può essere utile.

Possiamo credere che gli ebrei, figli di Abramo, in buona fede abbiano cacciato gli occupanti della Palestina, convinti che fosse volontà di quel Dio che li aveva scelti come popolo prediletto. Ma è possibile, oggi come oggi, dimostrare con certezza agli Israeliani sionisti che i discendenti dei precedenti proprietari pretendono a buon diritto l’allontanamento degli ebrei dal loro territorio?

È, questa, una forzatura, che nasconde una sottile forma di antiebraismo. Conviene al diritto internazionale, come poi di fatto è avvenuto, legittimare il dato di fatto, ossia riconoscere agli ebrei e quindi agli israeliani, il diritto ad occupare la Palestina come territorio del loro Stato con capitale Gerusalemme.

Gerusalemme, Città santa delle tre religioni monoteistiche

e città escatologica.

La città di Gerusalemme ha una duplice finalità: una finalità meramente terrena, racchiusa nei confini della storia di quaggiù fino alla fine del mondo. Questa finalità, sulla quale Herzl ha concentrato la sua attenzione, riguarda il bene dello Stato d’Israele, ed è il valore attorno al quale ruota quel movimento ebraico politico-nazionale, che costituisce il sionismo, che sostiene il diritto di Gerusalemme a sedere nel consesso delle capitali di tutti i paesi del mondo sotto l’egida delle Nazioni Unite. E l’altra finalità invece è di ordine escatologico, oggetto della rivelazione biblica, e quindi oggetto di fede sia da parte degli ebrei che dei cristiani.

Nella visione ebraica Gerusalemme è la madre di tutti i popoli, i quali tutti devono radunarsi a Gerusalemme per adorare il Signore (Zac 14,17); a Gerusalemme affluirà la ricchezza di tutti i popoli (Is 66,12); a Gerusalemme affluiranno tutte le genti, per chiedere a Dio che indichi le sue vie, «poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 1, 2-3). Gerusalemme è paragonata da Isaia ad una madre che consola ed allatta i suoi  figli (Is 66, 10-13).

Perché Pietro ha voluto andare a Roma? Perché Cristo gli aveva fatto capire che per suo mezzo Egli avrebbe trionfato sull’Impero Romano. E difatti, dopo tre secoli di tenacia, di perseveranza, di fedeltà, di umiliazioni, di sacrifici, di martìrii, di fede, di speranza e di coraggio, nel 323 l’Imperatore Costantino gli avrebbe detto: «hai vinto, o Galileo!».  Dunque Pietro, cioè il Papa, alla fine del mondo, compiuta la sua missione, tornerà a Gerusalemme, perché è là che tutti i i salvati  devono convenire, come profetizza anche l’Apocalisse di San Giovanni.

Pietro è attualmente a Roma in missione; ma la sede originaria e definitiva di Pietro è Gerusalemme, secondo le profezie che dicono che non Roma, ma Gerusalemme è la città celeste nella quale tutti i predestinati un giorno troveranno la loro felicità. come profetizza Isaia:

«Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli su questo monte un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati.  Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coperta che copriva tutte le genti. Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, la condizione disonorevole del suo popolo la farà scomparire da tutto il paese, poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse; questi è il Signore nel quale abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, perché la mano del Signore si poserà su questo monte» (25, 6-10).

Nel contempo, è importante che la comunità internazionale favorisca l’accordo fra israeliani e musulmani circa l’amministrazione politica di Gerusalemme, così da favorire la vita tranquilla e pacifica all’interno di Israele e nei rapporti di Israele con gli Stati musulmani.

Nel medioevo i musulmani hanno costruito sulla spianata del tempio di Gerusalemme due splendide moschee, quella di Omar a quella di Al-Aqsa. Essi hanno voluto così ricordare l’amore speciale di Maometto per la Città Santa. D’altra parte gli ebrei più saggi si rendono conto che è idea assolutamente improponibile la ricostruzione del tempio, anche perché hanno capito che il sacerdozio di Aronne si estinse con la distruzione del tempio.

Da allora Israele non ha più pensato alla ricostituzione di quel sacerdozio levitico, che pur era stato voluto da Dio e che però, per evidente volere di Dio si era estinto. Il tempio può essere pianto, ma non rimpianto. Questo lo capiscono oggi anche i rabbini. Per questo, da allora la guida di Israele non è più stata la figura del sacerdote, ma quella del rabbino. Esistono ancora i farisei, come modello di osservanza delle pratiche giudaiche.

 Per questo, alcuni ebrei, se rifiutano Gesù come Messia divino, non lo respingono come rabbi, come del resto Egli stesso si presentava a tutta prima, come era chiamato e come permetteva che lo si chiamasse. È interessante come oggi in Israele esistono intellettuali fieri del fatto che Gesù fosse un giudeo. Cessata la classe sacerdotale, la guida dell’ebraismo è passata ai rabbini, mentre ai tempi di Gesù il rabbi aveva un ruolo molto modesto di guida popolare non ufficiale, ma spontanea. Per questo le autorità chiedono più volte a Gesù chi lo autorizza a fare quello che fa. Un rabbi, infatti, non poteva scostarsi dall’insegnar per filo e per segno tutto e solo quello che era insegnato dai sacerdoti, dagli scribi e dai farisei. Profeti non ce n’erano più da tempo, se si escludeva la figura discussa del Battista, il quale, peraltro, soppresso da Erode, non creava più particolari problemi alla classe dirigente.

Su questo tema, inoltre, dell’identità del popolo ebraico dobbiamo fare un’altra considerazione: Cristo ha dichiarato di essere venuto innanzitutto per la salvezza d’Israele, che era stato premurosamente e per secoli preparato da Dio a tale evento per mezzo dei profeti e della Legge mosaica.

Senonchè, però, come sappiamo. il Vangelo di Giovanni commenta amareggiato: «Venne tra i suoi e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,12). Il Messia è venuto e non è stato riconosciuto; anzi, è stato scambiato dalle autorità per falso Messia, seduttore, indemoniato, «uomo che si fa Dio», servo dei Romani, mago, blasfemo, disobbediente a Mosè, è stato punito dalle autorità con la morte. Alcuni ebrei ancor oggi continuano a ritenere che Gesù sia stato giustamente giustiziato. È interessante invece che il Corano rimproveri gli ebrei per avere ucciso un giusto, anche se per il Corano Gesù esagerava nella pretesa di essere Figlio di Dio.

Ma Gesù stesso osserva: «nessun profeta è accetto nella propria patria» (Lc 4,24).  Come mai la maggioranza del popolo e dei capi, nonostante tutte le prove di credibilità che Gesù aveva dato, non lo hanno riconosciuto? Perché non fu come si aspettavano che dovesse essere il Messia; oppure perché semplicemente immersi negli affari e nei piaceri di questo mondo, non lo attendevano, non erano interessati alla cosa. Ed anzi purtroppo molti sono rimasti scandalizzati, alcuni ipocritamente, altri sinceramente.  

In ogni caso Gesù è stato frainteso ed ancor oggi la maggioranza del popolo ebraico non riesce o non vuole vedere in Gesù il Messia. Altri non sono riusciti a riconoscerlo non per malizia, ma per limiti mentali o perché ingannati da impostori o perché vittime di false filosofie. Altri vedono nel Messia non un singolo uomo, ma lo stesso popolo ebraico. Altri ancora sono atei o del tutto secolarizzati. Altri seguono ideologie anticristiane come la massoneria o varie forme di gnosticismo o esoterismo. Ricordiamoci che filosofi irreligiosi, anche se non privi di istanze e valori spirituali, umanistici e morali, come Mendelssohn, Marx, Freud, Bergson, Buber, Bloch, Lévinas, Husserl erano ebrei.

Fine Prima Parte (1/4)

Padre Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 20 marzo 2023
Solennità di San Giuseppe

Nella visione ebraica Gerusalemme è la madre di tutti i popoli, i quali tutti devono radunarsi a Gerusalemme per adorare il Signore (Zac 14,17.

Gerusalemme è paragonata da Isaia ad una madre che consola ed allatta i suoi figli (Is 66, 10-13).

Perché Pietro ha voluto andare a Roma? Perché Cristo gli aveva fatto capire che per suo mezzo Egli avrebbe trionfato sull’Impero Romano. E difatti, dopo tre secoli di tenacia, di perseveranza, di fedeltà, di umiliazioni, di sacrifici, di martìrii, di fede, di speranza e di coraggio, nel 323 l’Imperatore Costantino gli avrebbe detto: «hai vinto, o Galileo!».  

Pietro, cioè il Papa, alla fine del mondo, compiuta la sua missione, tornerà a Gerusalemme, perché è là che tutti i salvati devono convenire, come profetizza anche l’Apocalisse di San Giovanni.

 
Immagini da Internet: Sull’arco di fondo della Porta Triumphalis del Colosseo, in corrispondenza dell’accesso occidentale al monumento, venne realizzato nel XVII secolo uno straordinario dipinto murale raffigurante una veduta ideale della città di Gerusalemme.
 

[1] Vedi le considerazioni di Maritain ne L’Eglise du Christ. La personne de l’Eglise et son personnel, Desclée de Brouwer, Bruges 1970, c.XII, II; Il mistero d’Israele, in Questioni di coscienza, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1980, pp.77-112; J.Journet, L’économie de la loi mosaÏque, pp.412-505 e La réintégration d’Israel, pp.505-518,  in L’Eglise du Verbe Incarné, Desclé de Brouwer, Bruges 1969, vol.III.

20 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    avevo rimandato l'inizio della lettura del suo articolo sull'identità del popolo ebraico, fino ad arrivare al Triduo Santo, come meditazione prima del Venerdì Santo.
    Questa prima parte del suo articolo mi ha stupito (e non è solo una benevola adulazione da parte mia).
    Voglio sottolineare un passaggio del suo articolo riferito al cambiamento di atteggiamento della Chiesa nei confronti del popolo ebraico, prodotto a livello pastorale (non dottrinale, ovviamente).
    Mi interessano soprattutto gli echi di quel disprezzo preconciliare per il popolo ebraico che si è avvertito in molti passaggi della Liturgia preconciliare, e che, negli ultimi anni (dal 2007 al 2021) è tornato alla luce dopo l'ampio (e per me improprio o imprudente, pastoralmente parlando) permesso di Papa Benedetto XVI per l'uso di testi liturgici preconciliari. Del resto erano testi che, per i loro difetti, il Concilio aveva voluto riformare!
    Ho lavorato su questo, raccogliendo testi, sia della Messa che del Breviario (entrambi preconciliari) dove si nota quell'atteggiamento preconciliare nei confronti degli ebrei che il Concilio ha voluto cambiare.
    Purtroppo il progetto sconsiderato di papa Ratzinger nel 2007 ha consentito il riutilizzo di testi che esprimevano il modo in cui gli antichi riti presentavano il popolo ebraico.
    La dichiarazione conciliare Nostra Aetate, sui rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane, ha articolato una nuova visione degli ebrei e dell'ebraismo. È un fatto indiscutibile che nel campo pastorale dei rapporti ebraico-cattolici il Concilio rappresenta una rottura con il passato. E nessuno deve stupirsi che nella Chiesa ci siano rotture con il passato a livello di direttive pastorali (anche se non è possibile che la Chiesa abbia rotture a livello dogmatico). Il Concilio Vaticano II ha stabilito che la triste storia di disprezzo per gli ebrei e mancanza di rispetto pastorale per l'ebraismo, che aveva offuscato il passato della Chiesa, non avrebbe avuto continuità nel suo futuro.
    A questo proposito, la domanda che si pone è la seguente: è possibile che la liturgia preconciliare, prima di questo sviluppo storico, incarnasse l'antisemitismo che il Concilio Vaticano II ha cercato di lasciarsi alle spalle?
    Certamente la liturgia preconciliare si sviluppò all'interno di contesti storico-culturali segnati da una profonda ambivalenza verso l'ebraismo e spesso aperta ostilità verso gli ebrei. Pertanto, non sarebbe sorprendente se avesse tracce, o anche forti espressioni, di sentimento antiebraico. Tuttavia, fino a che punto questo è il caso, per quanto ne so, non è stato studiato o documentato a fondo.
    Ebbene, alla luce di quanto ho personalmente raccolto dai testi della liturgia della Messa del 1962, e dai testi del Breviario del 1962, quei testi antiebraici esistevano.
    Qual è il mio punto?
    Ebbene, questa questione del carattere antiebraico dei testi liturgici anteriori alla riforma promossa dal Concilio Vaticano II, sta segnalando un tema che, probabilmente, nella sua forse scarsa prudenza pastorale, Benedetto XVI non ha tenuto sufficientemente conto, concedendo così ampio permesso nel 2007 e negli anni successivi a ritornare sui testi liturgici che, ripeto, per i loro difetti, il Concilio Vaticano II aveva voluto riformare.

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    1. Caro Ross,
      vorrei precisare quanto segue.
      Nel Motu Proprio di Benedetto XVI del 2007 (https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20070707_summorum-pontificum.html) vengono indicati i testi del Messale Romano del 1962 di San Giovanni XXIII e del 1970 di San Paolo VI. Inoltre viene chiaramente indicato che anche San Giovanni Paolo II rende leciti il Messale Romano dal 1962, escludendo i testi precedenti. La stessa cosa avviene col Motu Proprio di Papa Francesco.
      È stato San Giovanni XXIII ad iniziare a cambiare o a togliere i riferimenti che potevano essere interpretati come antisemitici.
      Inoltre, bisognerebbe fare una ricerca storica per verificare il significato originale di alcune espressioni, come per esempio i “perfidi Giudei”, perché certamente quando sono stati formalizzate non avevano un significato negativo, che noi oggi ad esse attribuiamo.
      Quindi la inviterei a prendere in considerazione le posizioni di tutti i Papi del Concilio e del postconcilio, così che sia possibile scagionare Papa Benedetto e tutti gli altri Papi dall’accusa di avere permesso dei testi liturgici antiebraici.
      Purtroppo molti gruppi che desiderano o vogliono celebrare la Santa Messa nel rito di San Pio V, usano, senza alcun permesso ufficiale, dei testi precedenti al 1962. Questo potrebbe essere uno dei motivi che hanno indotto Papa Francesco ad intervenire col suo Motu Proprio.

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  2. Caro Ross, vorrei precisare quanto segue.
    Nel Motu Proprio di Benedetto XVI del 2007 (https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20070707_summorum-pontificum.html) vengono indicati i testi del Messale Romano del 1962 di San Giovanni XXIII e del 1970 di San Paolo VI. Inoltre viene chiaramente indicato che anche San Giovanni Paolo II rende leciti il Messale Romano dal 1962, escludendo i testi precedenti. La stessa cosa avviene col Motu Proprio di Papa Francesco.
    È stato San Giovanni XXIII ad iniziare a cambiare o a togliere i riferimenti che potevano essere interpretati come antisemitici.
    Inoltre, bisognerebbe fare una ricerca storica per verificare il significato originale di alcune espressioni, come per esempio i “perfidi Giudei”, perché certamente quando sono stati formalizzate non avevano un significato negativo, che noi oggi ad esse attribuiamo.
    Quindi la inviterei a prendere in considerazione le posizioni di tutti i Papi del Concilio e del postconcilio, così che sia possibile scagionare Papa Benedetto e tutti gli altri Papi dall’accusa di avere permesso dei testi liturgici antiebraici.
    Purtroppo molti gruppi che desiderano o vogliono celebrare la Santa Messa nel rito di San Pio V, usano, senza alcun permesso ufficiale, dei testi precedenti al 1962. Questo potrebbe essere uno dei motivi che hanno indotto Papa Francesco ad intervenire col suo Motu Proprio.

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  3. Caro padre Cavalcoli,
    vorrei precisare quanto segue.
    1. So benissimo che esistono gruppi passatisti che, volendo celebrare la Santa Messa nel rito di San Pio V, utilizzano, senza alcun permesso ufficiale, testi anteriori al 1962. Ma io non mi riferivo a questi casi, anzi ha citato il Messale Romano del 1962 e il Breviario del 1962.
    2. Non ho dubbi che sia san Paolo VI, sia san Giovanni Paolo II, sia Benedetto XVI, sia Francesco, abbiano ritenuto leciti i testi liturgici del 1962, ma sempre a titolo di “eccezione”, o permessi, o indulti , più o meno ampia o più o meno ristretta, a seconda dei casi. E questo perché in tutti i pontificati postconciliari, tutti i Papi hanno ritenuto i testi liturgici successivi al 1969 l'unica lex orandi (ecclesiastica) in vigore, dichiarando non in vigore il Messale del 1962 e il Breviario del 1962, sostituiti dal attuale Messale Romano e dall'attuale Liturgia delle Ore.
    3. La legislazione liturgica rientra nella disciplina ecclesiastica, stabilita dall'autorità pontificia per prudenti ragioni pastorali. Di conseguenza, nulla impedisce ai fedeli, salvo il dovuto rispetto e la stretta e obbediente osservanza dell'attuale disciplina liturgica, di poter criticare serenamente e rispettosamente le ragioni oi motivi di prudenza giudicati da un Pontefice nell'istituirla.
    4. La mia modesta opinione è che quanto ha risolto il benemerito papa Benedetto XVI nella sua lettera apostolica Summorum Pontificum, concedendo così ampie autorizzazioni ad avvalersi non solo del Messale del 1962, ma anche dei riti dei sacramenti (con l'eccezione dell'ordine sacramentale) e anche il Breviario del 1962, non hanno goduto di sufficiente prudenza. Quale che sia il valore della mia opinione, sta di fatto che papa Francesco si è pronunciato su un fatto ovvio: la decisione di Benedetto XVI è stata male interpretata da gruppi passatisti (tra cui cardinali, vescovi e sacerdoti) che hanno stabilito una sorta di "parallelismo rituale", tra due riti che né Benedetto né gli altri Papi si sono mai considerati "alla pari", e chi ha usato il Messale del 1962 o il Breviario del 1962 lo ha usato (salvo onorevoli eccezioni) come un modo per opporsi al Concilio Vaticano II, alla riforma liturgica del Vaticano II, e a tutto il magistero postconciliare.
    5. Non dubito che, come lei stesso afferma, san Giovanni XXIII avesse cominciato a modificare o eliminare riferimenti nei testi liturgici che potevano essere interpretati come antiebraici.

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  4. 6. Non dubito che, come lei stesso afferma, nessuno dei Papi del Concilio e del postconcilio possa essere accusato di di avere permesso dei testi liturgici antiebraici.
    7. Ciò che affermo, però, è che sia alcuni testi del Messale del 1962 sia, soprattutto, del Breviario del 1962, contengono testi che possono essere interpretati come avversi o dispregiativi nei confronti del popolo ebraico. Infatti, per questo e per molti altri motivi, il Concilio Vaticano II ha ritenuto necessaria una riforma liturgica, che i Papi del Concilio e del postconcilio hanno compiuto e stanno compiendo, per lo stesso motivo per cui è ancora necessario attuare in pienezza le dottrine e le direttive del Concilio, come unico rimedio all'attuale situazione di crisi della Chiesa.
    8. In altre parole, nella questione qui sollevata (l'atteggiamento della Chiesa nei confronti del popolo ebraico) i Papi del Concilio e del postconcilio non hanno operato una completa epurazione dei testi antiebraici del Messale del 1962 o del Breviario del 1962. Non è stata necessaria una tale epurazione completa. Perché? Semplicemente perché né il Messale del 1962 né il Breviario del 1962 sono rimasti in vigore (salvo eccezioni), proprio perché sostituiti dall'attuale Messale e dall'attuale Liturgia delle Ore.
    9. Sulla base di quanto sopra, mantengo la mia modesta opinione (nella quale ovviamente posso sbagliarmi), che le ampie autorizzazioni e libertà concesse dal papa Benedetto XVI, di santa memoria, non sono state prudenti cosicché quei testi del 1962 (del Messale e del Breviario) poteva essere utilizzato da qualsiasi sacerdote e fedele senza che fosse effettivamente necessario il permesso. E tra i motivi del disagio c'è quello che ho qui citato: l'esistenza di testi interpretabili come antiebraici (a sostegno di questa tesi potrei fornire molti testi specifici).
    10. Infine, vorrei aggiungere un altro fatto, che negli anni successivi al 2007 ha aggravato la situazione. Sono convinto che una certa mancanza di predisposizione di papa Benedetto XVI ai compiti di governo (incapacità in una certa misura e modalità ammessa anche dallo stesso Ratzinger), abbia aggravato il problema, non potendo prevalere sulla strumentalizzazione operata da alcuni suoi "collaboratori", soprattutto nella Commissione Ecclesia Dei, per stabilire di fatto la consapevolezza nel Popolo di Dio di una sorta di "parallelismo liturgico" fittizio tra il novus ordo e il vetus ordo (Messale e Breviario), che non faceva che accentuare l'opposizione degli estremi pasadistas al Concilio Vaticano II, alla riforma liturgica e al magistero postconciliare.

    Sottopongo, come sempre, le mie modeste opinioni, alla sapientissima intelligenza ed esperienza del Padre Cavalcoli, che non smetto di considerare, ormai, in larga misura, attualmente mio maestro.

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    1. Caro Ross,
      apprezzo molto la sua disamina, che dimostra molta competenza in campo liturgico e una posizione equilibrata che evita gli opposti estremismi.
      Da parte mia devo confessare che non mi sento competente in campo liturgico, per cui le sue lodi mi creano un po’ di confusione.
      Sono pienamente d’accordo con lei nel ritenere che il Motu Proprio di Benedetto è stato troppo liberale, per cui i passatisti ne hanno approfittato per sentirsi confermati nelle loro posizioni.
      Per quanto riguarda espressioni antiebraiche nei testi liturgici, io penso che la cosa buona da fare sia quella di prendere atto con piacere che sono stati purgati, mentre ci procura molto dispiacere l’attaccamento dei passatisti a quelle espressioni. Preghiamo perché il Signore li illumini.

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    2. Caro padre Cavalcoli,
      prima di tutto, per favore, non pensate lei che io sia competente in campo liturgico. Mi sono semplicemente informato quest'ultima volta da alcune domande che mi sono venute in mente, cercando di spiegarle da una manciata di precisi principi di teologia che, francamente, ho imparato da lei in questi anni.
      D'altra parte, non è stata mia intenzione creare confusione con la mia lode, come insegnante di teologia, perché è proprio quello che sento. E spiego i motivi.
      Negli ultimi anni, la mia visione della fede cattolica, e in particolare la mia fede nella Chiesa cattolica, è stata illuminata da una manciata di saldi principi che lei ha sottolineato e spiegato. Per citarne alcuni: la distinzione nell'istituzione del Sommo Pontificato tra ufficio magisteriale (infallibile) e pastorale (fallibile), che è una distinzione che solo da lei ho trovato chiaramente spiegata, e sulla quale lei farebbe molto bene spiegarlo e basarlo, sempre più in profondità, se possibile. Altro principio: la distinzione tra lex orandi divina e lex orandi ecclesiastica, che mi sembra fondamentale per comprendere le radici della teologia liturgica. La distinzione nella considerazione del Dio Uno e del Dio Trino, come fondamento per il dialogo con le religioni non cristiane e per la costruzione di una vera fraternità umana (anche se non piena, perché non cristiana), ecc. Un'altra distinzione importante che ho imparato da lei è quella tra eresie ed eretici, che vale per una moltitudine di casi (un caso che lei ripeti sempre è quello delle valide istanze di un Lutero, nonostante le sue eresie, o quello delle valide istanze dei modernisti del tempo di Pio X, nonostante le loro eresie, ecc.). Questo, se il soggetto fosse la liturgia, mi ha portato, ad esempio, a leggere teologi come Andrea Grillo, da lei giustamente e opportunamente criticato a livello di teologia dogmatica, che senza sembrarmi un ottimo analista quando si tratta di disciplina liturgica. Insomma, gli esempi sarebbero tanti.
      Bene, avendo imparato tutto ciò che li devo. E questa non è semplice adulazione. È la pura verità.
      Non per questo non smetto di provare piccoli disaccordi con lei su alcune inezie che, mi sembra che siano soprattutto questioni terminologiche, ma non è il caso di commentare qui.
      Spero di aver chiarito la sua "confusione". Una proficua Settimana Santa, caro Padre Giovanni.

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    3. Caro Ross,
      parlando di “confusione” intendevo riferirmi all’imbarazzo che uno sente quando un amico gli fa delle lodi che gli sembrano esagerate. Ad ogni modo la ringrazio e non le nascondo che mi fanno piacere, non tanto perché riferite a me, ma in quanto sono il segno che io sto mettendo in pratica la mia missione di teologo domenicano al servizio delle anime.
      Per quanto riguarda i gradi di autorità del magistero pontificio, ne ho parlato tante volte e non mancherò di parlarne ancora. Eventualmente sarei disponibile a rispondere a qualche suo dubbio o domanda in merito a questo argomento, riferiti a problemi concreti.
      Per quanto riguarda eventuali suoi dissensi nei miei confronti, si esprima con la massima libertà e tranquillità, perché sono ben consapevole della mia fallibilità e si ha sempre da imparare dalle persone che ci correggono, soprattutto da persone sagge come lei, che dispongono di buoni principi e criteri di giudizio e di discernimento.
      Approfitto dell’occasione per farle i miei più sentiti auguri di Buona Pasqua.

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    4. Caro padre Cavalcoli,
      la sua "confusione" era stata intesa nei termini che lei descrive. Pertanto, ho voluto subito chiarire i motivi del mio elogio. Purtroppo in questi tempi, così pieni di ipocrisie e di interessate lusinghe, queste cose vanno chiarite.
      Riguardo ai suoi insegnamenti teologici sul magistero pontificio, posso assicurarli che nel volerli trasmettere ad altri, non ho avuto poche difficoltà, e mi hanno accusato di essere una mia invenzione, o chiedendomi quali teologi li sostengono, o quali sono le fonti della rivelazione su cui mi baso e, sullo sfondo, generalmente noto che la velata accusa dietro quando mi dicono questo è che io sono un papolatra che difende l'indifendibile: il magistero di papa Francesco (criticato dai rappresentanti del pasattismo, che sono appunto con cui parlo, perché, come penso succeda anche a lei, i modernisti non si degnano di dialogare con i difensori del dogma).
      Con piacere trasmetterò i miei dubbi o domande, se dovessero sorgere, in merito a questo argomento, facendo riferimento a problemi concreti.
      Per quanto riguarda le piccole discrepanze, li ringrazio e accetto il suo invito ad esprimerle liberamente.
      Ho capito da tempo che le questioni liturgiche, anche se sono teologia liturgica (e non mera disciplina liturgica) non sono l'area della sua specialità. Me ne sono pienamente reso conto semplicemente considerando i pochi articoli che lei ha scritto su argomenti liturgici, in confronto con altri argomenti di dogmatica o di sistematica teologica.
      Devi però tenere presente che, secondo me, i pochi articoli che hai scritto sulla liturgia (sia a Riscossa Cristiana nei tempi immediatamente successivi al Summorum pontificum, sia ora nel suo blog, dopo Traditionis custodes) sono stati per me molto illuminanti, perché li ha scritti per sua competenza dogmatica o sistematica. Così, ad esempio, i suoi articoli sul progresso liturgico, o sul rapporto tra lex orandi e lex credendi, o sulla distinzione tra lex orandi divina e lex orandi ecclesiale, sono stati per me estremamente importanti, e li tengo sempre presenti.
      Certo, come li ho detto, sono sorte piccole discrepanze, o, per esprimermi meglio, è sorta la necessità di chiederli chiarimenti, o nuove distinzioni, che aiutino a comprendere meglio cose che lei stesso hai già espresso.
      Nel prossimo futuro li farò queste domande.
      Devo continuare a scrivere qui o devo farlo via e-mail?

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    5. Caro Ross,
      per quanto riguarda la conoscenza dei criteri per valutare i gradi di autorità della dottrina e della pastorale dei Pontefici, le indico alcuni dati bibliografici, che possono esserle utili.
      Un documento importante è il Motu Proprio Ad tuendam fidem di San Giovanni Paolo II del 1998 (https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/motu_proprio/documents/hf_jp-ii_motu-proprio_30061998_ad-tuendam-fidem.html). Lì troverà una importante aggiunta al Diritto Canonico, che determina un grado di autorità che non era citato in precedenza. Ed inoltre, in appendice, c’è un documento della CDF che illustra i tre gradi di autorità delle dottrine.
      L’esposizione dei gradi di autorità si trova anche in un buon trattato di apologetica o di introduzione alla teologia. Alcuni importanti autori sono il De Groot, Arialdo Beni e Settimio Cipriani, Reginaldo Schultes, e il Garrigou-Lagrange.
      Un altro libro utile, che le consiglio, è quello del Padre gesuita Sisto Cartechini, “Dall’opinione al dogma. Valore delle note teologiche”, ed. La Civiltà Cattolica, 1953.
      Questo trattato delle autorità delle dottrine è stato fondato nel sec. XVI dal teologo domenicano spagnolo Melchor Cano. Il titolo è “De locis theologicis”.
      In questo periodo il problema della autorità del Papa divenne molto acuto in seguito al sorgere delle eresie soprattutto di Lutero e di Calvino e poi dello scisma anglicano.
      Altro trattato importante è quello del teologo domenicano Yves Congar “La foi et la théologie”, ed. Desclée, Tournai, 1962.

      Per la continuazione della nostra conversazione, ritengo opportuno comunicare attraverso il blog, inquantoché noto che lei solleva problemi di interesse comune, per cui sono sicuro che i Lettori si troveranno interessati alla nostra conversazione e quindi potremo dare un contributo alla cultura cattolica.

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  5. Caro padre Giovanni,
    innanzitutto vi ringrazio molto per il vostro aiuto indicando una bibliografia per affrontare la questione dei gradi di autorità dei documenti dottrinali e pastorali dei Pontefici. Ho già ottenuto il libro di Sisto Cartechini!, e ho intenzione di tradurlo anche in spagnolo.
    Approfittando del suo invito per interrogarli sui miei dubbi sulla correttezza o inesattezza di alcune sue affermazioni, pongo ora il seguente problema:
    Lei ha più volte scritto (ora mi limito a ricordare, citando in modo generico) che vetus ordo e novus ordo si complementano a vicenda, e ha offerto vari argomenti a giustificazione della sua affermazione, tutti comprensibili, ragionevoli e anche condivisibili. Credo di capire che le sue intenzioni nel parlare in questo modo sono state rivolte più al dialogo con i pasattisti, per far comprendere loro le ragioni della riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Non dubito che lei abbia trovato anche qualche affermazione di Benedetto XVI a sostegno dell'esistenza di questa complementarietà tra novus ordo e vetus ordo. Per non dilungarmi qui, non riporto le citazioni di Benedetto o le sue, nei suoi vari articoli, dal 2010 o 2011. Mi limito a citare a memoria i suoi detti.
    Purtroppo però, a mio modestissimo parere, parlare in questo modo, senza fare le dovute precisazioni, non mi sembra la cosa più prudente da fare. Anzi, penso piuttosto che finiscano per fare del male, tanto più che sono state dette una decina di anni prima, più o meno, prima e dopo Traditionis custodes, in un periodo in cui, molto più intensamente di adesso, da alcuni settori, anche della Curia romana si propugnava un "parallelismo liturgico" tra il novus ordo e il vetus ordo, che non sono mai esistiti e, anzi, credo non possano esistere.
    Da parte mia, comprendo che l'unica logica a disposizione del Romano Pontefice per indirizzare una corretta pastorale verso particolari gruppi (parlo di cattolici, non scismatici) legati al vetus ordo, è la logica del indulto, che è stata quella che fu assunta da San Paolo VI e San Giovanni Paolo II, e ora ripresa da papa Francesco, e che, a mio avviso, è l'unica pastoralmente possibile. Mentre la logica della liberalizzazione, come quella del Summorum pontificum e dei documenti pontifici che l'hanno integrata, porta a ciò a cui ha condotto: a ritenere che il novus ordo e il vetus ordo siano ugualmente validi e vigenti e, in definitiva, un mero "optional" a disposizione sia del gusto (estetico?) del singolo fedele.
    Pertanto, e avvalendomi di due categorie tratte dalla filosofia del linguaggio, personalmente ritengo che la sua affermazione secondo cui novus ordo e vetus ordo "si complementano" non possa valere che a livello diacronico, cioè in una considerazione storica, lontana dalla realtà attuale e presente, che può essere considerata solo in modo sincrono, e qui, in modo sincrono, entrambe le forme del rito romano non possono coesistere o covivere, non possono essere covigenti.
    Tanto più che il novus ordo è scaturito da una riforma liturgica volta a correggere, migliorare e superare il vetus ordo. Sincronicamente si contraddicono a vicenda e, quindi, è praticamente moralmente impossibile che in tal caso i cattolici con tendenze passatiste (con alcune onorevoli eccezioni) non rifiutino la messa del Novus Ordo, rifiutino il Concilio Vaticano II e rifiutino il magistero postconciliare.
    La mia domanda, per ridurre le cose, è, e lo chiedo a un filosofo, metafisico e cosmologo: è valido utilizzare quelle categorie di diacronia e sincronia per fare una valutazione del problema liturgico in questione?
    Apprezzo qualsiasi aiuto su questo.

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    1. Caro Ross,
      sono contento che lei abbia trovato il libro di Cartechini e le auguro di cuore un buon lavoro in questo suo lodevole proposito di tradurlo in spagnolo.
      Per quanto riguarda il confronto tra Novus Ordo e Vetus Ordo, io ho sempre sostenuto l’obbligatorietà del Novus Ordo e quindi il primato di questo su quello. Primato non solo diacronico, ma anche sincronico.
      Per quanto riguarda il problema della complementarietà reciproca, io mi guardo bene dal mettere i due riti alla pari. E tuttavia mi permetto di fare un paragone, che forse può essere un po’ grossolano, ma che rende l’idea. Voglio dire che un valore inferiore può contenere degli elementi che un valore superiore non possiede. Per esempio, il cane ha un odorato di una finezza molto superiore all’odorato dell’uomo, benchè tutti sappiamo che l’uomo è superiore al cane. In questo senso parlavo di una reciprocità tra i due riti.
      Faccio un esempio per quanto riguarda il silenzio. Il silenzio del Vetus Ordo è diverso da quello del Novus Ordo. Nel primo si tratta del fatto che i fedeli non sentono quello che il celebrante pronuncia sottovoce, e questo fatto può essere piuttosto suggestivo e dare il senso del sacro, che sta davanti a noi, ma non può essere colto dai nostri sensi.
      Diverso invece è il silenzio del Novus Ordo. Qui tutti tacciono, per cui che significato ha questo silenzio? È quello tradizionale dell’ascolto della risonanza che la Parola di Dio ha nel nostro cuore, per cui credo che si possa parlare senz’altro di un silenzio mistico.
      Un aspetto della complementarità dei due riti si può rintracciare nel momento del canone, nel senso che un rischio del Novus Ordo, che invece si evitava nel Vetus Ordo, può essere quello che la celebrazione della Messa perda una certa sacralità a causa del troppo movimento o canti profanizzanti o acclamazioni inopportune.
      La sacralità della celebrazione della Messa può e deve essere mantenuta anche nel Novus Ordo, osservando bene le rubriche e favorendo nei fedeli un atteggiamento di adorazione. Inoltre potrebbe essere utile un tutor per i nuovi sacerdoti e una sorveglianza da parte del vescovo del luogo, in modo da evitare esagerazioni e profanazioni.
      Per quanto riguarda la superiorità del Novus Ordo, io trovo che essa sia di tipo eminentemente pastorale, soprattutto in riferimento al confronto con la liturgia protestante. Inoltre mi sembra che la novità importante sia la messa in luce dell’aspetto pasquale e quindi dell’elemento escatologico, cose che appaiono di meno nel Vetus Ordo, il quale giustamente sottolinea l’aspetto sacrificale della Messa, però forse lo faceva in maniera esagerata rispetto all’elemento pasquale.
      Per quanto riguarda il problema dell’indulto, non essendo io un liturgista, confesso che mi trovo in difficoltà ad esprimere un parere, ma se proprio dovessi esprimerlo io sarei più favorevole alla concessione di un vero e proprio permesso, a somiglianza del Motu Proprio di Benedetto, forse con alcune condizioni restrittive, come ha fatto Papa Francesco.
      Un’altra cosa che, secondo me, il Papa dovrebbe fare sarebbe quella di emanare un Motu Proprio che chiarisca il rapporto tra i due riti, in modo da favorire una convergenza fra le due correnti estreme dei passatisti e dei modernisti.
      Potrebbe essere utile una revisione del Novus Ordo, non in toto, ma su alcuni punti fondamentali, che hanno permesso un abuso o una dissacrazione, che potrebbe avere giustificato la nostalgia del Vetus Ordo, in modo da recuperare le cose buone del Vetus Ordo in armonia con le direttive del Concilio Vaticano II.
      Infatti tutte le persone pie si sono accorte delle possibili falle del Novus Ordo.
      Un esempio interessante del giusto atteggiamento nei confronti della Messa, è quello del Servo di Dio Padre Tomas Tyn (1950-1990), il quale, pur celebrando regolarmente nel Novus Ordo, celebrava anche nel Vetus Ordo al sabato mattina nella basilica di San Domenico, per richiesta del cardinale Biffi, vescovo del luogo, e per incarico dei suoi Superiori.
      (http://www.arpato.org/ - http://www.studiodomenicano.com/presentazione.htm)

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    2. Caro padre Giovanni,
      penso di aver capito il suo commento. Ma "quasi".
      Non potrei onestamente dirli la mia impressione del suo commento, se non mi spieghi cosa intendevi scrivendo: "...Primato non solo diacronico, ma anche sincronico".
      Gradirei una spiegazione al riguardo.

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    3. Caro Ross,
      col “primato diacronico” intendo riferirmi al fatto che il Novus Ordo è stato giudicato migliore dalla riforma liturgica, rispetto al precedente, altrimenti la Chiesa avrebbe continuato col Vetus Ordo. Il che però non vuol dire che il Vetus Ordo sia da abbandonare nel museo della Liturgia, perché è pur sempre una Messa valida e contiene alcuni aspetti che non si trovano nel Novus Ordo.
      Primato sincronico vuol dire che la Messa obbligatoria per tutti è il Novus Ordo. In questo senso esso primeggia sul Vetus Ordo, il quale certamente non è proibito, ma la cui celebrazione è soggetta a condizioni rigorose stabilite dall’attuale Motu Proprio di Papa Francesco.

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    4. Caro Padre Giovanni,
      da tutti gli articoli che ho letto scritti da lei sul tema del rapporto tra Novus Ordo e Vetus Ordo, posso anche testimoniare che hai sempre difeso l'obbligatorietà del Novus Ordo e, quindi, il primato di questo su Vetus Ordo.
      Posso capire (e anche condividere) quello che dici sul "primato diacronico" del Novus Ordo, e il motivo che hai brevemente affermato: la Riforma liturgica lo ha giudicato migliore del precedente Ordo. Direi addirittura che la Riforma liturgica ha deciso di sostituirlo con il Messale di Paolo VI.
      Ora, quello che dirai dopo "il Vetus Ordo continua ad essere una Messa valida", lo capisci nel senso che lei stesso ci hai spiegato nei suoi articoli. Vale a dire che i riti precedenti a quello attuale continuano ad essere validi purché basati sulla lex orandi divina. Tuttavia non valgono più come lex orandi ecclesiale, perché l'unica lex orandi ecclesiale è il Messale di Paolo VI e i suoi successivi aggiornamenti. E questo non è inteso in questo modo solo da Francesco, ma anche da Benedetto, perché continuo a concordare con quanto lei stesso ci ha spiegato interpretando le parole di Benedetto in SP che "il rito di san Pio V non era mai stato abrogato né poteva essere essere”, nel senso della lex orandi divina, ma non nel senso della lex orandi ecclesial, che è stata di fatto abrogata nel 1969 (il che non significa che il Papa non possa concedere il permesso o il indulto o l'eccezione a certi fedeli di usalo).
      Pertanto (pur non essendo né un liturgista né uno specialista in diritto liturgico), tendo a pensare che una volta accertato che esiste un'unica lex orandi ecclesiale (stiamo ovviamente parlando della Chiesa di rito romano), quindi, l'unico rito ecclesialmente vigente e licito è quello di Paolo VI, non i precedenti. E, contrariamente a quanto lei afferma, sono propenso a pensare che sia meglio, o più preciso, dire che i riti anteriori a quello attualmente in vigore sono di fatto vietati, proibiti, a meno che non vi sia specifica e personale autorizzazione (a persone fisiche o gruppi) data dal Vescovo (e attualmente con il consenso della Santa Sede). Non vedo come si possa esprimere diversamente.

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    5. In tutto il resto che spieghi, anzi luminosamente ed estesamente, sulla complementarità tra il Messale di Paolo VI e il Messale di Giovanni XXIII del 1962, sono perfettamente d'accordo: purché questa complementarità sia vista in una prospettiva diacronica, è diciamo storica, ma non in una complementarità sincrona. E questo soprattutto perché non pochi degli elementi (teologici) impliciti nel Messale del 1962 contraddicono gli elementi (teologici) impliciti nel Messale del 1970: una coesistenza sincrona per me è impossibile, perché, come ben sai, la liturgia è fonte e culmine della vita ecclesiale, che vive la sua fede così come si esplicita nel tempo, e ci sono aspetti del modo in cui la Chiesa attuale ha esplicitato la sua fede che sono andati oltre il modo in cui essa è stato esplicitato in precedenza (ci sarebbero molti argomenti: libertà religiosa, ecumenismo, rispetto degli ebrei, ruolo della donna, dignità della donna, rispetto della vita, ecc...).
      Un punto che credo non si debba dimenticare è che Papa Giovanni XXIII considerava il suo Messale del 1962 (VII forma dell'editio typica del Messale di San Pio V) come: PROVVISORIO (lo aveva già annunciato nel 1960), in attesa dell'"altiora principia" che il Concilio avrebbe stabilito da cui sarebbe scaturito il nuovo Messale.
      Infine, ho recentemente scoperto (per mio uso personale) che non conviene continuare ad usare le espressioni novus ordo e vetus ordo, perché danno l'impressione di un parallelismo liturgico, che purtroppo è stato prodotto da interpretazioni errate del Summorum Pontificum (soprattutto dall'Istruzione Universae Ecclesiae del 2011). Mi sembra che sia meglio dire, come espresso da papa Francesco, in TC, da un lato, il Messale di Paolo VI e successivi aggiornamenti, e dall'altro, il Messale del 1962.
      Penso che esprimersi in questo modo, evitando i termini vetus ordo e novus ordo, sia più in linea con l'indicare un effettivo primato del Messale di Paolo VI, che è stato proprio quello che i pasadisti non hanno compreso dal 2007 in poi.

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    6. Caro Ross,
      quanto lei dice sul novus ordo e sul vetus ordo mi sembra molto giusto e la ringrazio per le sue chiarificazioni.
      Devo riconoscere che finora ho usato due espressioni che possono generare equivoci. Non so chi le ha messe in giro. Ma dietro i suoi rilievi, devo riconoscere che ci sono state delle persone, le quali hanno usato il termine vetus ordo in un senso equivoco, perché con questo termine hanno messo assieme il messale di San Pio V con quello riformato di San Giovanni XXIII del 1962.
      In tal modo queste persone, con l’espressione vetus ordo, che si poteva riferire al messale di San Giovanni XXIII, hanno fatto passare di fatto il rito della Messa di San Pio V, la cui celebrazione è stata proibita da San Giovanni XXII, proibizione confermata da tutti i Papi successivi, fino a Papa Francesco.
      Quando io parlavo del vetus ordo, mi riferivo al messale di Giovanni XXIII, e non sapevo che invece queste persone si riferivano al rito di San Pio V, che era proibito.
      Il Servo di Dio Padre Tomas Tyn celebrava nel rito antico usando il messale del 1962, cioè con le indicazioni date da San Giovanni XXIII.
      Stando così le cose, accetto senz’altro il suo invito ad abbandonare l’espressione vetus ordo e novus ordo, per i motivi che ho già detto.
      D’ora in avanti mi propongo di parlare di “Messale del 1962” e “Messale di San Paolo VI”, sottintendendo i successivi aggiornamenti.

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    7. Caro padre Giovanni,
      la mia piccola nota terminologica sul novus ordo e sul vetus ordo è stata solo un commento laterale o complementare.
      Beh, non importa.
      Scusate, allora, se ho introdotto nel dialogo un tema liturgico (ma non solo liturgico) che ritengo di vivo interesse per trovare una soluzione definitiva al confronto con il tradizionalismo che ancora rifiuta il motu proprio TC.
      Grazie.

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    8. La Messa è l'offerta fatta a Dio dal sacerdote di un sacrificio divino nel quale ci nutriamo della vittima del sacrificio. Quindi è un rito sacro che si conclude in un pasto sacro. Offrire il sacrificio è l'ufficio proprio del sacerdote che agisce in persona di Cristo mediando fra Dio e il popolo, a nome del popolo, per il popolo, col popolo, il quale pertanto, uomo o donna, partecipa al sacrificio.
      La Messa, pertanto, ci dispone ad un incontro salvifico sacramentale col Dio Trinitario: col Padre, al quale il sacerdote offre il sacrificio, col Figlio, che il sacerdote offre al Padre in sacrificio, con lo Spirito Santo, il quale consacra la Vittima del sacrificio.
      Il rito della Messa, pertanto, è organizzato e strutturato in modo da farci percepire per mezzo di segni sensibili e di simboli significativi nel modo migliore possibile di trovarci alla presenza della sacralità mistica di questo augustissimo Mistero che opera sacramentalmente la nostra salvezza, rito che è rappresentazione e riattualizzazione del Sacrificio della Croce significato dall'Ultima Cena, che viene commemorata nella Messa, sicchè l'altare è ad un tempo una mensa. Noi ci inchiniamo e ci inginocchiamo perchè siamo alla presenza di Dio, ma poi ci sediamo per consumare il cibo eucaristico.
      Occorre inoltre notare che la Chiesa nella storia conosce sempre meglio il mistero della Messa. Il Concilio Vaticano II ne ha scoperto meglio l'aspetto pasquale, escatologico, comunionale ed ecumenico. In questo senso il rito del 1970 segna, come ha detto il Santo Padre, un "progresso irreversibile" e sostituisce il rito del 1962.
      Tuttavia nel Traditionis Custodes il Papa ha determinato le condizioni sotto le quali è lecito celebrare col rito del 1962. Non si può quindi parlare di "incompatibilità" fra i due riti, come se uno fosse buono e l'altro cattivo: sono semplicemente diversi, solo che quello del 1970 è migliore. Il meglio non è contrario al bene, ma al male. Il rito del 1962 non è cattivo, ma semplicemente meno buono. È chiaro che tra il bene e il meglio si deve scegliere il meglio, ma, se l'autorità lo permette, non è peccato scegliere il meno bene.
      Per quanto riguarda l’intenzione di Papa Francesco di giungere gradualmente a proibire tassativamente la celebrazione del rito del 1962, rileggendo sia il Motu Proprio che le risposte ai Dubia, ho dovuto mutare il mio pensiero e devo ringraziare anche lei, perché mi ha guidato a questa conclusione.
      Effettivamente un Papa può emanare disposizioni di questo tipo. In questo caso però, nelle direttive del Papa c’è un duplice aspetto. Egli dice infatti che il movimento liturgico che ha condotto al rito del 1970 è irreversibile. Chiaramente qui il Papa si riferisce al fatto che questo rito suppone il dogma della Santa Messa arricchito dalla riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II. Infatti, quando la Chiesa arricchisce un contenuto dogmatico, il buon cattolico deve accogliere questo progresso e non restare fermo alla precedente fase di sviluppo.
      Tuttavia nella Messa c’è anche l’elemento ritualistico, che può essere soggetto a modifiche. Da questo punto di vista non si può escludere che un Papa successivo all’attuale ricuperi alcuni elementi ritualistici del rito del 1962.

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    9. Caro padre Giovanni,
      li sono completamente grato per i suoi saggi commenti e li sono nuovamente debitore per così tanto aiuto.
      Dio vi benedica.

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