La creazione divina secondo Gustavo Bontadini - Quarta Parte (4/5)

 La creazione divina secondo Gustavo Bontadini

 Quarta Parte (4/5)

La metafisica di Bontadini

Bontadini fa oggetto della metafisica l’essere inteso alla maniera di Parmenide, come uno, unico, univoco, atto d’essere, necessario, sussistente, eterno, totale, infinito, immutabile, immediatamente intuìto dal pensiero, anzi essere coincidente col pensiero secondo il principio parmenideo to autò to noèin kai to einai, il pensare e l’essere sono la stessa cosa, il principio dell’idealismo.

La metafisica bontadiniana si riassume nella sua nozione fondamentale di «unità dell’esperienza». Unità perchè l’essere è uno e perché essa è unità di esperienza sensibile e intellettuale, di scienza e di coscienza. 

Per questo la metafisica per Bontadini non è una scienza, ma un’esperienza. Si tratta sì di cogliere un valore primario qual è l’essere, universale, immutabile e necessario come nella scienza, ma in modo immediato e per esperienza, non in forza di un atto astrattivo e giudicativo dell’intelletto a partire dall’esperienza sensibile dell’ente materiale e mutevole, non un reale esterno e trascendente al pensiero, meramente intellegibile, ma intellegibile e sensibile ad un tempo, immanente alla coscienza, aperto all’orizzonte sconfinato dello spirito. Si tratta di quella che egli chiama «unità dell’esperienza»[1], una perché il suo oggetto è uno, appunto l’essere uno di Parmenide, e quindi essere tutto o, come lo chiama Bontadini, «intero»[2], «implesso originario»[3], «struttura originaria»[4], un unico ordine di originario ed originato, un tutto organico, le cui parti, ossia gli enti, stanno all’interno di questo tutto, perché al di fuori non c’è che il nulla.

Che rapporto ha questa metafisica col mondo fisico degli enti materiali, particolari, determinati e mutevoli? Non vi trova in esso l’essere, non vi trova la verità e la certezza, ma solo fenomeni, apparenze, parvenze, probabilità. È il mondo dell’essere che non è, che resiste all’esigenza di identità propria della ragione. È mondo reale, che non può essere contradditorio; eppure sembra tale e la ragione ha il compito di dissolvere o risolvere questa apparente contradditorietà appunto con l’affermazione della creazione, che per Bontadini è precisamente atto del Pensiero divino, identità assoluta, che, come tale, non può che negare la negazione e quindi condurre il reale empirico all’identità.

Pensiero che è autocoscienza. Si comprende allora l’ammirazione che Bontadini ha per Cartesio come iniziatore della metafisica critica, non fondata su di un ente fisico esterno alla coscienza, ma sulla coscienza di esistere. Bontadini accetta però la predicazione dell’essere alla terza persona, come si trova da Parmenide fino a San Tommaso e in quella che egli chiama «filosofia classica».

Osservo peraltro che se la metafisica è una scienza, e la scienza non parla del suo oggetto alla prima ma alla terza persona, non devo parlare di me, ma della cosa stessa, oggetto della scienza. E l’oggetto della metafisica è l’essere; non sono io. Il parlare di sé non spetta alla scienza ma all’autobiografia.

L’io non è oggetto di scienza se non l’Io divino, l’Io Sono, che è Essere sussistente, Colui Che È. Per questo è in maniera incongrua che Cartesio intitola «meditazioni metafisiche» un’indagine sul proprio io. Ma ciò non impedisce a Bontadni di assumere l’idealismo cartesiano per modello del sapere filosofico, senza abbandonare l’istanza realistica dell’essere, che anzi egli giudica meglio soddisfatta dall’idealismo inteso come sviluppo dell’ontologia parmenidea.

Per la prima volta nella storia del pensiero occidentale con Parmenide l’essere (einai) è fatto oggetto della ragione (logos) e dell’intelletto (nus). In India, viceversa, già da alcuni secoli prima di Parmenide, nelle Upanishad del Vedanta, la filosofia ha per oggetto l’essere (sat).

Congiuntamente a ciò per la prima volta Parmenide enuncia il principio di identità, che dice essere ciò che è e non essere ciò che non è, per cui è impossibile e contradditorio che l’essere sia e non sia. Da qui il principio di non-contraddizione, primo principio della dimostrazione razionale, di immediata evidenza, formulato da Aristotele: non si può affermare e negare lo stesso della stessa cosa, corrispondente al comando di Cristo: il vostro parlare sia sì, sì, no, no, ossia dire essere ciò che è e non essere ciò che non è.

Si tratta del dovere morale della sincerità e del ripudio della doppiezza, che discende dal principio di non contraddizione, che non può essere negato senza cadere in contraddizione, quindi confermarlo come principio logico del giudicare e del sapere.

Ma quasi contemporaneamente a Parmenide Eraclito enunciò il famoso principio panta rei, tutto diviene e o polemos pater panton, il conflitto è il padre di tutte le cose, dove pare enunciato un principio esattamente opposto a quello di Parmenide: l’essere è il non-essere, per cui se Parmenide è il fondatore della metafisica che nega il divenire in nome dell’essere, la metafisica eraclitea nega l’essere in nome del divenire. Occorrerà Aristotele per chiarire che la vera metafisica non nega ne l’essere né il divenire, ma pone il primato dell’essere sul divenire. L’essere è il fondamento del divenire e conoscendo il divenire si arriva alla causa dell’essere.

Così Aristotele osservò che se da una parte era apprezzabile l’interesse di Parmenide per l’essere e per la sua identità ed era quindi giusto il principio di non-contraddizione, che egli faceva suo, la sua concezione univocista e non analogica dell’essere, che relega nel non-essere il molteplice, il divenire, il diverso e le differenze, è un follìa.

Al contrario, Hegel pensò di fondare una metafisica che invece di evidenziare la verità comune a Parmenide ad Eraclito, li giustapponesse l’uno all’altro nel loro contrasto di fondo: Parmenide, con l’affermare l’unità, l’immutabilità e l’identità dell’essere; Eraclito, nell’affermazione del divenire come essere che non è e quindi del reale come conflitto fra essere e non essere, dal che Hegel ricaverà la sua dialettica. È chiaro tuttavia, ed Hegel lo dice espressamente, che egli dà la preferenza ad Eraclito, per cui per Hegel l’essere è il divenire e il divenire ha il primato sull’essere. Dio stesso diviene e muta. Dio è Storia.

San Tommaso, invece, senza trascurare il divenire, dà il primato all’essere, che è lo stesso essere sussistente di Parmenide, ma purificato dalla tendenza monista e panteista. Commentando il concetto aristotelico dell’einai, Tommaso, come abbiamo visto, si accorge che lo Stagirita non riuscì ad afferrare la sussistenza dell’einai parmenideo, riducendo il concetto dell’essere alla sola copula del giudizio. Tuttavia riprende la critica di Aristotele a Parmenide in questi termini:

«Parmenide sembra riferirsi all’unità dell’essere secondo la ragione, ossia secondo la forma. Egli infatti argomenta in questo modo: tutto ciò che è al di fuori dell’ente è non-ente; e tutto ciò che è non ente è nulla. Nel che appare evidente che considerava quell’aspetto dell’essere per il quale l’essenza dell’essere sembra essere una sola (considerabat ipsam rationem essendi quae videtur esse unam); e, dato che non si può intendere che all’essenza dell’essere si possa aggiungere qualcosa per cui sia diversificato, è necessario che ciò sia estraneo all’ente.

Ora questo è il nulla. Per cui non si vede come l’essere possa diversificarsi. Noi infatti vediamo che le differenze diversificano il genere, ma stanno al di fuori di esso. Infatti le differenze non partecipano del genere. ... Per questo Parmenide s’ingannava, perché intendeva l’ente come avesse una sola essenza e una sola natura e come la natura di un genere; ma questo è impossibile. L’ente infatti non è un genere, ma si predica in molti modi circa i diversi enti»[5].

Accade così che per dimostrare l’esistenza di Dio Bontadini non parte dalla considerazione dell’essere esterno al pensiero, perché il pensiero è «intrascendibile», ma, secondo il modello cartesiano-gentiliano, partendo dalla propria coscienza dell’atto di pensare l’essere, perché Dio non è altro che l’essere assoluto; è l’essere parmenideo immediatamente presente alla coscienza.

Questa maniera di dimostrare l’esistenza di Dio creatore ha altresì per Bontadini una forma «dialettica» e quindi puramente logica e non tiene conto della causalità efficiente e delle forze che agiscono nella realtà esistente, con i suoi dinamismi, i suoi processi concreti, le sue esigenze, le sue finalità.

Essa  è il segno della concezione idealistica della metafisica, propria di Bontadini, il quale dà certamente come oggetto del pensiero l’essere, ma si rifiuta di ammettere che l’essere è esterno al pensiero, lo trascende, ne è indipendente ed è il presupposto. Bontadini non risolve l’essere nel pensiero, ma tuttavia non riconosce un essere pensabile non ancora pensato. L’essere per lui è per essenza pensato. Ma allora, se l’essere è immanente al pensiero, non sarà più Dio, ma sarò l’uomo a creare l’essere.

Per Bontadini infatti il pensiero non si appoggia su di un essere esterno e trascendente, non ha bisogno di fondarsi su di esso e regolarsi su di esso, non ha bisogno di attingerlo, perchè già lo contiene per essenza. In questo senso Bontadini dice che

«il pensiero non ha bisogno di garanzie: esso è già per se stesso la garanzia del proprio valore, la propria fondazione. È una verità, questa, senza della quale non s’entra nel sacrario della filosofia: verità fondamentale e pregiudiziale ad ogni altra e, nello stesso tempo, come è ben confacente, semplice e irriducibile. Di modo che vincere il pregiudizio opposto non si può proprio con qualche dimostrazione sottile e complessa, ma solo con una lunga “meditazione”, che lavori a rimuovere l’immaginazione dalla quale nasce quel pregiudizio. E l’immaginazione è questa; che ci sia da una parte l’essere e dall’altra il pensiero, come due sfere o due ordini a sé»[6].

Invece è proprio così: da una parte ci sono io col mio pensiero e dall’altra c’è la realtà che mi sta davanti, sicchè il mio pensiero non è vero per se stesso, non è garantito da se stesso, ma ha bisogno di essere garantito dalla realtà, ossia dall’essere, e quindi sarà vero se si adeguerà alla realtà o all’essere così com’è.  Il pensiero contiene l’essere solo se si conforma all’essere. Altrimenti contiene fantasie, non contiene niente o prende per falso ciò che è vero o viceversa.

Invece per Bontadini pensare è essere ed essere è pensare. Egli pertanto finisce con l’identità di pensiero ed essere, che, per la verità non saranno l’essere e il pensare umani, ma l’essere e pensare divini. Allora si capisce la ritrosia a concepire la creazione come causazione dell’ente dal nulla. Infatti in tal caso il pensiero umano dovrebbe riconoscere di essere stato tratto dal nulla. Ma allora dove andrebbe a finire quell’identità di pensiero ed essere, che l’idealismo vorrebbe esser propria del rapporto fra pensiero ed essere? 

Così l’essenza della metafisica di Bontadini si riassume nel nome stesso che le ha dato: «unità dell’esperienza». Che significa? Significa l’esperienza dell’essere, ma come identità di pensiero e di essere, quindi unità dell’esperienza perché l’essere è uno; è uno e tutto, perché tutto è uno; è l’essere di Parmenide, unità di pensiero ed essere.

Così anche per Bontadini come per Parmenide l’essere è uno, immutabile, necessario, infinito ed eterno. Certamente Bontadini non nega la finitezza, la pluralità, la mutabilità e la diversità degli enti, ma spetta all’esperienza e non alla ragione cogliere queste infinite determinazioni dell’essere, mentre la ragione in esse si sente a disagio, perché in esse appare la contraddizione. La ragione, bisognosa di identità, si oppone a questa contraddizione e la risolve ponendo l’esistenza di Dio, e la creazione è appunto l’atto col quale Dio scioglie questa contraddizione e sottomette a sé il mondo.

Ma da tale unità univoca discende che tutto è uno, tutto è eterno, tutto è necessario, tutto è immobile, tutto è attuale, tutto è tutto. Il possibile è attuale. Tutto è in atto, nulla è in potenza. Non esiste la potenza ma solo l’atto.  L’atto bontadiniano peraltro non è né l’atto-azione di Gentile e non è neppure l’actus essendi di Tommaso, ma è piuttosto l’attualità del possibile nella linea di Suarez, Leibniz e Wolff[7].

Nella metafisica bontadiniana, dipendente da Parmenide, non compare il tema importantissimo l’analogia dell’essere, principio fondamentale di distinzione nell’unire.  Bontadini mostra pertanto di non cogliere diversi tipi di analogia, come quella tra l’atto e la potenza, la materia e la forma, il reale e l’ideale, il pensare e l’essere, la creatura e il creatore.

Troppo preso dall’identità intenzionale di soggetto e oggetto propria del conoscere, identità che Aristotele non manca di segnalare, la sua nozione univocista e addirittura monista dell’essere non gli consente di vedere le distinzioni trascendentali evitando confusioni, separazioni o dualismi.

È chiaro che un concetto, per non essere equivoco, dev’essere uno e fisso, ma Aristotele ci ha insegnato che non esiste solo l’unità univoca di un concetto, ma c’è anche l’unità analogica; e questa è sufficiente per evitare l’equivoco e la contraddizione.

Dobbiamo inoltre tener presente che se vogliamo avere uno sguardo veramente filosofico e comprensivo sul reale, non troviamo solo l’identità ontologica dell’immutabile, ma anche quella del mutevole; non solo quella dell’eterno, ma anche quella del temporale; non solo quella dell’intellegibile, ma anche quella del sensibile; non solo quella dello spirituale, ma anche quella del materiale; non solo quella del necessario, ma anche quella del contingente.

A Bontadini manca il concetto eracliteo dell’essere come passare, fluire, scorrere (rein), che poi è il mutare, il cambiare, il progredire, quello che sarà il passaggio aristotelico dal non-essere all’essere e viceversa, il passaggio dal possibile all’attuale, dalla potenza all’atto o l’atto di ciò che è in potenza, la materia che cambia forma, quel «divenire», attorno al quale si arrabatta per anni in una intricata per non dire aggrovigliata discussione con Severino, ciascuno dei  due convinti di interpretare Parmenide l’uno meglio dell’altro, accusandosi reciprocamente di cadere in contraddizione o  vantandosi di mettere l’altro in  contraddizione con se stesso o di sapere come si può contraddire alla contraddizione e così via.

Osserviamo che il nostro pensare deve essere docile alla realtà. Non siamo noi i padroni dell’essere. La nostra ragione non è creatrice dell’essere, ma lo presuppone; l’essere ci è dato, non ce lo diamo da noi stessi. Per questo dobbiamo chiederci chi ci dona l’essere e non considerare l’essere come se lo producessimo noi col nostro pensiero.

Per questo, per essere nella verità non dobbiamo far dire alle cose quello che vogliamo noi, ma dobbiamo accettare l’essere così com’è, anche se non ci piace. Questo è il principio sacro del realismo, che ha sommo esponente in S.Tommaso. Non dobbiamo quindi con la nostra ragione respingere, né dobbiamo far violenza al diverso o al molteplice in nome dell’identico, così come dobbiamo evitare la doppiezza in nome del diverso o del molteplice. Pretendere precisione, univocità e chiarezza dove chiarezza non c’è e non è possibile, dove c’è l’oscurità o  il mistero, vuol dire essere poco intelligenti.

Osserviamo che la concezione parmenidea dell’essere induce a costituire una teologia nella quale tutto l’essere si risolve in Dio, per cui esiste solo Dio e nulla esiste al di fuori di lui. Dio quindi crea il mondo non nel senso che causi l’essere di enti a Lui esterni, un insieme di enti al di fuori di Lui, ma come parti del Tutto divino interne, quindi all’essenza divina. Da qui la conseguenza panteistica del’applicazione dell’idea parmenidea dell’essere in teologia, mentre la creazione non è altro che la negazione divina della contradditorietà del divenire, da cui la semplice dipendenza formale della parte dal Tutto.

La metafisica di Bontadini si concentra sui temi dell’essere, del nulla, del divenire, della verità, dell’identità, della forma, dell’essenza, dell’esistenza, della totalità, dell’unità e dell’assoluto, ma trascura l’analisi dell’ente e della sostanza. Da qui l’ignoranza delle nozioni necessarie per capire il significato ontologico del divenire, come la distinzione fra atto e potenza, fra essere ed agire, fra sostanza e accidenti, fra materia e forma sostanziale, fra soggetto, essenza ed essere.

La gnoseologia di Bontadini

Per Bontadini oggetto del pensiero è certamente l’essere, essere che però intende alla maniera di Gentile come atto del pensare, quindi come essere pensato-in-atto-da-me pensante in atto, cosciente del mio essere pensante o meglio del mio essere-pensiero. Gentile, legato allo storicismo prassistico hegeliano, intendeva l’essere come divenire. Bontadini, a contatto con Parmenide, fece la scoperta dell’essere, pur mantenendo la gnoseologia idealista della coincidenza del pensare con l’essere.

In quanto per Bontadini l’essere è oggetto del pensiero, egli è realista e potremmo dire ontologista, sulla linea che va da Scoto va a Rosmini. Ma in quanto per lui l’essere è l’essere pensato, è idealista. Egli passa continuante dall’uno all’altro polo senza mai decidersi per l’uno o per l’altro, ma anzi illudendosi di averne fatta una sintesi. Credeva che l’idealismo moderno fosse una forma superiore di realismo rispetto a quello tomista, da lui giudicato ingenuo e «dualistico» per il fatto di distinguere il pensiero dall’essere e di parlare di una res extra animam.

Vittima del pregiudizio kantiano dell’impossibilità che l’intelletto speculativo trascenda il dato dell’esperienza, non è mai riuscito a capire la sua attività astrattiva metafisica e cioè come l’intelletto arrivi al concetto dell’essere partendo dalla conoscenza della quidditas rei materialis. L’essere non è colto dall’intelletto astraente, ma dall’«esperienza» («unità del’esperienza»).

Per lui o l’essere ci è dato immediatamente ed originariamente nella nostra coscienza nella sua purezza, universalità e totalità (l’«intero») o non è dato. Le cose, nel loro divenire, si trovano nell’orizzonte del non-essere. Sono e non-sono. Tutto è vanità, all’infuori dell’essere, che è tutto. Il limite non è un positivo, ma negazione dell’infinito, secondo l’assioma di Spinoza: omnis determinatio est negatio.

Tra l’essere e il non-essere non c’è via di mezzo. E va bene. Sarebbe offesa al principio di identità e non contraddizione. Ma il guaio è che nell’orizzonte dell’essere non sa vedere la differenza tra la potenza e l’atto, per cui per lui tutto è atto ed attuale ed ogni possibile è attuato. Il pensabile è il pensato. Non esiste la potenza di pensare perché il pensare è sempre pensare in atto. Questa è l’eredità di Gentile

Così si capisce perché per Bontadini «il Discorso sul metodo va considerato come il “manifesto” della filosofia moderna» o, come egli si esprime con tonalità lirica, «la melodia iniziale del pensiero moderno»[8], come se si trattasse dell’ouverture di quella meravigliosa ed entusiasmante sinfonia, che con Fichte, Hegel, Marx, Nietzsche ed Heidegger, ci ha regalato quel meraviglioso concerto che sono state le due guerre mondiali del secolo scorso.

Con tale concezione della filosofia moderna, da secoli fino ad oggi condivisa da molti, Bontadini dimostra di essere con essi vittima di un concetto cartesiano di filosofia moderna, concetto messo in giro nella storiografia del sentito dire, con enorme successo da tre secoli dai cartesiani per propagandare la filosofia del maestro sotto un titolo accattivante, ma ingannevole.

In realtà Cartesio, se vogliamo dire la verità storica, è un lontano ma autentico erede del soggettivismo protagoreo[9], dello scetticismo di Gorgia e dell’idealismo parmenideo. Se infatti per filosofia moderna intendiamo la filosofia oggi più avanzata nella conoscenza della verità, questa non è affatto il cartesianismo e l’idealismo tedesco uscito da esso, ma è il tomismo moderno dei Maritain, dei Gredt, dei de Tonquédec, dei Fabro, dei Congar, dei Sertillanges, dei Geny, dei Garrigou-Lagrange, dei M.-D.Philippe, dei Cordovani, dei Toccafondi, dei Boccanegra, dei Tomas Tyn[10], tanto per fare pochi nomi. 

È vero che l’idealismo, a cominciare da Cartesio, si presenta come una gnoseologia inoppugnabilmente capace di soddisfare meglio del realismo tomista alle istanze radicali e rigorose della scienza, della verità, dei diritti e dei poteri della ragione, del soggetto, della coscienza, della vigilanza, della riflessione critica e dello spirito. Tuttavia, i tomisti hanno dimostrato sin dal primo sorgere del cartesianismo[11] fino ai nostri giorni l’infondatezza di tali pretese e la perenne inconfutabile validità del realismo tomista.

Bontadini è convinto di tale inoppugnabile validità dell’idealismo e lo dichiara apertamente, affermando che l’idealismo è «inconfutabile», ma basterebbe osservare che l’idealista, nel momento in cui sostiene che la gnoseologia idealista è vera, suppone che esso che sia conforme alla realtà del conoscere, nel che dà prova di essere obbligato a fare il realista, perché appunto per questi la verità del conoscere è conformità del pensiero alla realtà, per cui per ciò stesso l’idealista si confuta da sè obbligato com’è ad usare il realismo per confutare il realismo e sostenere la verità dell’idealismo. Viceversa, è inconfutabile il realista, il quale riconosce francamente che il metodo è quello di adeguarsi alla realtà e non alle proprie idee.

Bontadini è convinto che l’idealismo sia nato con Cartesio come rimedio al fallimento del realismo:

«l’idealismo suppone l’esperienza realistica, suppone i reiterati tentativi di arrivare alla realtà ultima delle cose e la coscienza del loro insuccesso, e lo smarrimento di trovarsi al di qua della realtà, in umbra mortis: contro tale smarrimento l’idealismo reagisce, richiamando l’uomo alla realtà del proprio pensiero. Che è pensiero; e dunque valore, luce. Che è pensiero  e dunque pensiero di qualche cosa e perciò certezza, oltre che di se stesso, di questo qualche cosa, in quanto oggetto del pensiero. È a questo momento – il momento cartesiano, come ognuno intende – che sorge il concetto di una realtà che è in quanto è pensata o conosciuta: être objectif»[12].

Rispondiamo che l’esperienza realistica non è per nulla esperienza di trovarsi in umbra mortis, al di qua della realtà senza riuscire a raggiungerla. Si vede che Bontadini non ha capito nulla del realismo. Il realista, benchè abbia l’umiltà di riconoscere la sua fallibilità, è nella piena luce della verità, perché coglie la realtà ultima delle cose, che gli stanno davanti, di sotto e di sopra, cose indipendenti dal suo atto di pensare, cose create da Dio, attinte mediante la metafisica, partendo dall’esperienza sensibile e ne è assolutamente certo e cosciente, cose sensibili e spirituali, fino a Dio stesso, cose che gli sono rispettivamente immediatamente e mediatamente evidenti, circa la cui esistenza, essenza e verità non nutre alcun dubbio, e che sa benissimo di sapere, insieme col proprio io pensante, con assoluta certezza.

È chiaro che il realista è certo di pensare nel momento in cui pensa. Ma ciò che interessa al realista, prima che il suo pensare, ciò dove trova la certezza e verità originarie è l’attingimento della realtà esterna, sia pur per mezzo del pensare. E se è certo di pensare, questa è un’esperienza successiva alla certezza d’aver afferrato la realtà. È questa la certezza basilare, non la coscienza di pensare, perché se prima non avesse pensato e colto l’essere, non potfrebbe neppure aver coscienza d’aver pensato e colto l’essere.

Bontadini dichiara di voler rivalutare la gnoseologia classica, ma accusa i tomisti di non averne capito il significato radicale, che non comporterebbe il realismo della distinzione del pensiero da un essere al di là del pensiero, ma l’identità parmenidea del pensiero con l’essere (to autò to noein kai to einai).

Quindi per Bontadini l’idealismo sarebbe la esplicitazione della metafisica classica, mentre il realismo creerebbe un dualismo fra pensiero ed essere, tale da porre l’essere come estraneo al pensiero e quindi irraggiungibile dal pensiero.  Bontadini ritorce contro i realisti l’accusa che essi fanno agli idealisti di chiudersi nell’idea senza raggiungere l’essere. Al contrario, dice Bontadini, l’idealista raggiunge talmente l’essere che esso si identifica col suo stesso pensare. Ma, come ho già rilevato, queste sono le condizioni del pensare divino, non di quello umano.

L’interpretazione aristotelica del divenire

Aristotele è il fondatore della fisica ovvero della cosmologia, perché è il filosofo che per primo ha fornito all’esperienza e alla ragione la fiducia e la certezza di poter conoscere scientificamente l’ente sensibile e mutevole, le leggi della natura fisica e del cosmo.  Memore della lezione di Parmenide circa l’identità dell’ente e della lezione platonica circa l’oggettività della conoscenza, Aristotele abbordò con coraggio e decisione il problema di fondare le scienze della natura e il risultato fu positivo, perché ci ha fornito le nozioni fondamentali necessarie allo studio della natura: l’analisi delle forme del divenire: la trasformazione, metabasis, metabolè o metamorfosis, il moto locale, kinesis katà topon, l’alterazione, alloiosis, l’aumento, auxesis, il decrememto, fthysis, la generazione, ghenesis  e la corruzione, fthorà, la dottrina dell’essenza (to ti en einai), dell’universale (kath’olu) astratto dalle immagini sensibili (eikasìa) e dall’ente individuale (tode ti), quella della sostanza (usia) materiale, sinolo (synolon), soggetto (ypokeimenon) di materia (yle) e forma (morfè), quella del divenire come atto di ciò che è in potenza e quella del tempo, come numero del divenire secondo il prima e il poi, nonché la dottrina delle quattro cause (aitìa), la materiale, la formale, l’efficiente e la finale, che andavano ad aggiungersi alla causa esemplare di Platone.

Ma le cose vanno ben diversamente in Bontadini. Benchè la questione del divenire sia fondamentale nella sua metafisica, non pare che egli si sia mai dato la pena di trattarne a fondo, come fece Aristotele al suo tempo. Se così fosse stato, suppongo che Berlanda, che ha dedicato uno studio di 600 pagine proprio su come Bontadini affronta l’argomento, non avrebbe mancato di informarci.

Invece Berlanda per pagine e pagine ci ripete fino alla noia come un ritornello il rilievo fatto da Bontadini al divenire di essere contradditorio, senza peraltro che si capisca mai se egli lo ritiene effettivamente contradditorio, come lo sollecita a fare Severino o se invece a lui sembra contradditorio senza esserlo veramente, come precisano il Padre Alberto Boccanegra[13] e Sofia Vanni Rovighi[14] e come sembra piuttosto credere lo stesso Bontadini.

Egli peraltro, per dimostrare questa contradditorietà, si limita ad osservazioni di carattere generico, ripetendo sempre lo stesso rilievo di contradditorità con ragioni ricavate da Parmenide di estrema ingenuità, per confutare le quali basterebbe rifarsi alle nozioni più comuni in uso nel linguaggio quotidiano, senza che occorra dedicare la propria vita alle ricerche metafisiche.

Leggiamo per esempio queste sue dichiarazioni riportate da Berlanda[15].

«Nel divenire, un certo essere, l’essere a, subisce un annullamento e ciò viola il principio di non-contraddizione. La contraddizione del divenire infatti non consiste nel fatto che l’essenza a esista e non esista, abbia e non abbia l’esistenza (giacchè essa l’ha nella prima battuta e non l’ha nella seconda), ma nel fatto che l’esistenza si identifica con la non esistenza. Ciò noi possiamo anche esprimere dicendo che l’essere è annullato conservando, così nella stessa semantica, il quod quid erat esse. Si scorge, allora che il positivo che s’identifica col negativo, il positivo di cui si predica il negativo è, propriamente, l’esistenza, l’actus essendi. L’esistenza non esiste: questo è lo scandalo del divenire».

Si rimane stupiti di come un filosofo della prestigiosa Università Cattolica di Milano, indubbiamente dotato di vivace attitudine teoretica, possa perdersi in simili ingenuità e semplicismi, per non dire sofismi, su di un tema di vitale importanza per la filosofia, per la fede cristiana e per la civiltà, qual è quello della creazione e dell’esistenza di Dio.

Fine Quarta Parte (4/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 gennaio 2023

La metafisica bontadiniana si riassume nella sua nozione fondamentale di «unità dell’esperienza». Unità perchè l’essere è uno e perché essa è unità di esperienza sensibile e intellettuale, di scienza e di coscienza. 

Per questo la metafisica per Bontadini non è una scienza, ma un’esperienza. 

Si tratta di quella che egli chiama «unità dell’esperienza», una perché il suo oggetto è uno, appunto l’essere uno di Parmenide, e quindi essere tutto o, come lo chiama Bontadini, «intero», «implesso originario», «struttura originaria», un unico ordine di originario ed originato, un tutto organico, le cui parti, ossia gli enti, stanno all’interno di questo tutto, perché al di fuori non c’è che il nulla.


Che rapporto ha questa metafisica col mondo fisico degli enti materiali, particolari, determinati e mutevoli? Non vi trova in esso l’essere, non vi trova la verità e la certezza, ma solo fenomeni, apparenze, parvenze, probabilità. 

È il mondo dell’essere che non è, che resiste all’esigenza di identità propria della ragione. È mondo reale, che non può essere contradditorio; eppure sembra tale e la ragione ha il compito di dissolvere o risolvere questa apparente contradditorietà appunto con l’affermazione della creazione, che per Bontadini è precisamente atto del Pensiero divino, identità assoluta.

Pensiero che è autocoscienza. Si comprende allora l’ammirazione che Bontadini ha per Cartesio come iniziatore della metafisica critica, non fondata su di un ente fisico esterno alla coscienza, ma sulla coscienza di esistere.

Ma l’oggetto della metafisica è l’essere; non sono io. Il parlare di sé non spetta alla scienza ma all’autobiografia.

Immagini da Internet:
- Gustavo Bontadini
-Platone e Ariatotele, la scuola di Atene, Raffaello Sanzio


[1] Cf Berlanda, op.cit., pp.365, 366; Studi sull’idealismo, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp.XV,34,36,37,63,101, 110,123, 125,127-129,135-137,143,144,204,232,233,236, 241; Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano, 1995, pp.99,129,138; Conversazioni di metafisica,I,Vita e Pensiero, Milano 1995, p.49.

[2] Conversazioni di metafisica, op.cit., pp.41,44,86,88,136,137; Conversazioni di metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp.168,170-174; Studi sull’idealismo, op.cit., pp.63,135.

[3] Berlanda, op.cit.,p.417.

[4]  Ibid.,p.364.

[5] Commento alla Metafisica di Aristotele, libro I, c.V, lect.IX,nn.138-139.

[6] Introduzione a Cartesio, Discorso del metodo, Editrice La Scuola, Brescia 1957, p.XVII.

[7] E.Gilson, L’être et l’essence, Vrin, Paris 1981, c.VI.

[8] Introduzione a Cartesio, Discorso sul metodo, Editrice La Scuola. Brescia 1957, p.XIV.

[9] Lo ha riconosciuto lo stesso Heidegger con insolita chiarezza nella sua opera Nietzsche, Edizioni Adelphi, Milano 1994, p.646.

[10] Vedi gli autori citati nel libro di Padre Luigi Fontana, Filosofia della verità, Editrice Asteria, Torino 1966.

[11] Vedi per esempio Giovanni di San Tommaso, i Salmanticensi, il Goudin, il Billuart e molti altri.

[12] Studi sull’idealismo, Vita e Pensiero, Milano 1995, p.277.

[13] L’unica svolta di Bontadini, op.cit., pp.472-480.

[14] Ibid.,p.435.

[15] Ibid., p.470.

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