La polemica di Cristo contro l’ipocrisia - Terza Parte (3/3)

 La polemica di Cristo contro l'ipocrisia

Terza Parte (3/3)

 I sensi non ingannano, ma ci danno la verità sensibile

L’ipocrisia è la condotta morale viziosa che discende dal fatto che la volontà nega veracità ai dati dei sensi col pretesto che i sensi possono sbagliare, per cui pretende di trovare certezza non in ciò che le cose dicono ai sensi, ma in ciò che essa stessa decide di suo arbitrio. Il recupero del dato sensibile viene attuato attribuendo la sua verità non al dato in se stesso, ma alla forma a priori imposta dalla coscienza. È esattamente il procedimento di Cartesio nello stabilire la base della sua filosofia: rifiutarsi di ascoltare i sensi e ascoltare solo se stesso.

Perché parlo di ipocrisia? Perché nel Discorso sul metodo, Cartesio premette a quanto sta per dire sulla sua concezione del fondamento del sapere, l’assicurazione di aver voluto «dedicarsi unicamente alla ricerca della verità»[1]. E fa subito seguire tre considerazioni, che dovrebbero avere la funzione di preparare, introdurre e giustificare, come primo principio della ragione il famosissimo cogito, ergo sum.

Così similmente nelle Meditazioni metafisiche è comprensibile il bisogno dichiarato di Cartesio di una filosofia ben fondata e il suo disagio per tante opinioni che aveva assorbito nei suoi studi scolastici, opinioni delle quali avvertiva l’incertezza. Ma la decisione che egli prende di rimediare a questo disagio col «disfarsi di tutte le opinioni ricevute in sua credenza, per cominciare tutto di nuovo per stabilire qualcosa di fermo e di durevole nelle scienze»[2],  quella di una «distruzione generale delle sue antiche opinioni»[3], nonché quella di «attaccare i princìpi sui quali tutte le sue antiche opinioni erano poggiate»[4], comprese le certezze sensibili, quelle metafisiche e quelle teologiche, appare una decisione insensata, del tutto irragionevole e inadatta alla soluzione del suo problema, anzi controproducente, un problema serio, che è quello di tutti noi soprattutto in gioventù, allorchè siamo alla ricerca di solide basi da dare alla nostra vita. Vera saggezza è partire da ciò che già si sa e costruire su quello.

Quella di Cartesio è una visione puerile ed anzi assurda nel far sembrare il sapere come una specie di giocattolo, che si rompe, per cui occorre buttarlo via e acquistarne un altro. Il sapere è una cosa ben più seria: è una luce inestinguibile che, accesa da Dio all’età di ragione, deve accompagnarci per tutta la vita in sempre nuove conquiste, che confermano le verità sensibili e intellegibili, dalle quali abbiamo cominciato. Ed è anche una luce collettiva, un lumen publicum, direbbe San Agostino, che accompagna tutta l’umanità nel corso dei secoli e dei millenni nel suo faticoso ma stupendo cammino nella verità e verso la verità.

In realtà ognuno di noi è in possesso di certezze prime e indistruttibili, del senso e dell’intelletto, che fanno la base di tutto il nostro sapere. Esse sono state ormai stabilite dai tempi dei grandi filosofi greci, soprattutto Platone ed Aristotele, riconosciute e codificate e permangono come patrimonio universale dell’umanità. Esse sono state anche assunte dal cristianesimo come elementi razionali della dottrina della fede.

Dunque Cartesio da una parte mostra ignoranza e dall’altra parte presunzione esorbitante di credere di dover «cominciare tutto di nuovo per stabilire qualcosa di fermo e di durevole nelle scienze». Quello che c’era da fare al suo tempo, secondo le esortazioni della Chiesa, soprattutto per lui cattolico, era quello di affrontare i gravi problemi filosofici del suo tempo utilizzando la filosofia di San Tommaso d’Aquino, sull’esempio dei grandi teologi Domenicani e Gesuiti.

In tal modo le considerazioni che Cartesio ci propone danno la netta impressione non di uno che cerca sul serio la verità, ma di uno che vuol prendersi gioco di noi. Mi limito alla prima e alla terza, che toccano il problema della veracità del senso. Nella prima egli ci racconta:

«pensai di rigettare come assolutamente falso tutto quello in cui potessi immaginare il minimo dubbio, allo scopo di vedere se non mi restasse dopo di ciò qualche cosa, che mi fosse interamente indubitabile»[5].

E che cosa è che generava in lui il dubbio, anzi la convinzione di falsità? L’esperienza sensibile. Aggiunge infatti:

«siccome i nostri sensi qualche volta ingannano, volli supporre che non vi fosse cosa alcuna che fosse tale quale ce la fanno immaginare»[6].

Ora bisogna dire che questa è una supposizione insensata, giacchè, come faccio io a riconoscere d’essermi sbagliato nel percepire qualcosa, se non facendo una più attenta verifica sensibile? Come faccio ad accorgermi di essermi ingannato se non perchè faccio riferimento al senso? Dunque se i sensi non mi danno la verità non ho neppure il criterio per accorgermi di sbagliare.

Le stesse considerazioni le troviamo nelle Meditazioni metafisiche a proposito della questione della veracità delle idee. Qui Cartesio dichiara:

 «fino ad allora avevo pensato di percepire, sebbene, veramente, non lo percepissi affatto, che a causa dell’abitudine di credere che vi erano delle cose fuori di me, donde procedevano quelle idee ed alle quali esse erano del tutto simili»[7]. Poco dopo precisa:

«Il principale e più ordinario errore che si possa trovare nei giudizi consiste in ciò, che io giudico che le idee, le quali sono in me, siano simili o conformi a cose che sono fuori di me»[8].

Anche qui possiamo fare un’osservazione analoga. Potremmo dire, caro Cartesio, ma tu non le vedi e non le senti le cose fuori di te? E se nella tua mente o nella tua memoria trovi l’idea o l’immagine di una cosa, non sei capace di verificare se la tua immagine o idea corrisponde o non corrisponde alla cosa esterna? Come fai a dubitare che queste cose esistano se le hai continuamente a portata di mano e come fai a dubitare di possedere idee che hai ricavato dalle cose? Certo ti puoi sbagliare nel concepire l’idea di una cosa; ma che ti ci vuole a fare una verifica o un controllo?

Come fai a sapere che la convinzione di poter farci delle idee delle cose così come sono sia un errore? L’errore è un’idea non adeguata alla cosa. Ma se credi che sia errato credere all’esistenza di cose esterne, tu vieni a sopprimere il criterio stesso in base al quale parlare di errore. O vuoi dire che giudichi in base a una cosa interna? Ma quale potrà essere questa cosa interna se non un’idea? Ma l’idea di una cosa da dove l’hai ricavata se non dalla cosa esterna? 

Il discorso allora si sposta su quanto ho detto a proposito di quanto hai detto nel Discorso sul metodo: non puoi dubitare o negare che i sensi ti danno una verità sensibile, perché è in forza di ciò che tu puoi giustamente constatare il fatto che ogni tanto essi ci ingannano. Ma che cosa ci segnalano i sensi se non l’esistenza di cose fuori di noi?

I sensi sono a contatto diretto con le cose sensibili presenti e le loro qualità sensibili; essi pertanto non formano un’immagine perché non ce n’è bisogno[9]. Pertanto ciò che abbiamo nel senso quando percepiamo il colore di una cosa non è diverso, come credeva Cartesio[10] da ciò che c’è nella cosa, ma non è altro che il colore di quella cosa.

Se diciamo che questa rosa è rossa, non intendiamo dire che percepiamo una certa sensazione, come effetto nel nostro senso di un «non so che nella cosa, di cui ignoriamo la natura»[11]. Noi conosciamo benissimo la natura del rosso sperimentandolo direttamente col senso della vista nella rosa rossa senza bisogno di alcuna mediazione rappresentativa. Non è vero, come crede Cartesio, che «la nostra ragione non ci fa percepire nessuna somiglianza tra il colore che noi supponiamo essere in quest’oggetto e quello che è nel nostro senso»[12]. per il semplice fatto che il senso non ci dà una «somiglianza» del sentito, ma ciò che sentiamo (il rosso) è esattamente ciò che è l’oggetto, ossia l’oggetto è rosso.

Dal che vediamo come già la sensazione espressa nel giudizio, è carica di un valore ontologico: l’esser rossa della rosa. Se la rosa non fosse rossa, noi non useremmo nel giudizio la copula «è» per dire che la rosa è rossa. Dell’immagine invece ha bisogno l’immaginazione e la memoria, che si riferiscono a cose assenti o nascose o passate.

Quindi qui il problema di Cartesio se le immagini che abbiamo delle cose sono o non sono fedeli alle cose o se suppongono cose esistenti fuori di noi non si pone. D’altra parte se un’immagine conservata nella memoria è la rappresentazione di una cosa che abbiamo sperimentato personalmente, possiamo essere sicuri che quell’immagine è verace.

La terza osservazione recita così:

«Considerando che tutti i medesimi pensieri, che abbiamo da svegli, ci possono venire anche quando dormiamo, senza che ve ne sia allora alcuno che sia vero, risolvetti di fingere che tutte le cose che mi erano entrate in mente non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni»[13].

Osservo che è vero che capita che nel sogno possono comparire gli stessi pensieri che abbiamo avuto allo stato di veglia ed è ovvio che mentre nel primo caso ad essi non corrisponde una realtà, nel secondo vi corrisponde. Ma questo non è un buon motivo per invalidare questi per il semplice fatto che non valgono quelli. Anche qui però nasce il sospetto che Cartesio non parli seriamente, quasi ad esprimere una sua incapacità a distinguere quando sognava e quando era sveglio.

Ad ogni modo, le parole che riassumono il già detto e introducono immediatamente al cogito, sono le seguenti:

«Subito dopo posi mente che, mentre in tal modo volevo pensare che tutto fosse falso, bisognava necessariamente che io che pensavo, fossi qualcosa»[14].

Ma potremmo dire: se dubiti di tutto, anche dell’indubitabile, come la veracità del senso, perché non dubiti anche del fatto che esisti come io pensante? E se sei certo di questo, come devi esser certo, perché non riconosci come certe le verità che sono certe?

Analisi critica della formula cartesiana

Inoltre qual è il contenuto del cogito? A che cosa pensa Cartesio se dice di dubitare di tutto? Capisco che si scopra pensante, ma pensante o non piuttosto dubitante su tutto? Ora il dubitare non è un vero pensare, ma un’oscillazione tra il sì e il no. Ed ecco comparire la doppiezza dell’ipocrisia.

La coscienza del nostro esistere è indubbiamente certissima e inoppugnabile. Ed è vero che se penso, significa che esisto. In tal senso raggiungiamo effettivamente l’essere reale. Ma il problema è che Cartesio intende il penso (cogito) come un «dubitare di tutto», cosa assurda, che annulla il pensiero, giacchè è un pensare senza oggetto e un pensiero senza oggetto non è pensiero, ma è un nulla.

D’altra parte, la nozione del pensiero non è la prima ed originaria nozione del nostro intelletto, non si presta a costituire la nozione primaria più certa ed universale della quale abbiamo bisogno per fondare tutto il nostro sapere. Ma questa nozione è la nozione dell’ente, colto inizialmente nelle cose materiali sensibili.

Per questo, se i sensi ci ingannassero, addio nozione dell’ente e addio conoscenza umana. Ora invece la nozione dell’ente come ciò che esiste in qualunque modo è una nozione basilare, intuitiva, naturale e spontanea, nota ed accessibile a tutti per la semplice riflessione sul verbo essere, che tutti fin da bambini usiamo nel parlare.

Certamente anche Cartesio fa leva in ultima analisi sulla nozione dell’essere, Tuttavia egli non parte dalla constatazione che le cose sono, perché ciò cade sotto al dubbio. Ma allora che vuol dire quel sum? Che sono certo di esistere io. Ma che esistano altre cose fuori di me, devo dimostrarlo.  Cartesio deduce dal suo sum che esse esistono. Ma allora questo sum è il principio dell’essere? Così lo ha inteso Fichte. Inoltre quel ergo che cosa vuol dire? Penso ossia sono oppure, se penso significa che sono? Nel primo caso sembra porsi un’equivalenza di pensare ed essere e abbiamo l’idealismo.

Se invece vale il secondo senso, siamo nel realismo. Per poter pensare, bisogna essere. Anche la nozione di res cogitans sembra aprire al panteismo. Propriamente, ente pensante per essenza è solo Dio. Noi siamo enti che possono pensare, ma possono anche non pensare; e non per questo cessiamo di essere persone umane. Insomma, il cogito cartesiano è un principio di panteismo, che si sarebbe pienamente rivelato con Fichte. E l’ipocrita è appunto un superbo che si fa Dio.

Se occorre tuttavia essere psicologi o filosofi per raggiungere un concetto scientifico del pensiero, possiamo concedere a Cartesio che tutti noi ne abbiamo una nozione comune. che formiamo spontaneamente grazie alla stessa esperienza quotidiana del pensare. Ma dobbiamo anche riconoscere che detta nozione, toccando il campo dello spirito, non è di immediata comprensione e non ha la radicalità della nozione dell’essere, la quale è veramente quella primordiale e la sola degna di dar inizio e fondamento al sapere, alla certezza e alla verità, anche se è vero che tutti facciamo l’esperienza del pensare e sappiamo grosso modo che cosa vuol dire pensare.

Ma dovrebbe essere chiaro che innanzitutto noi conosciamo gli enti, le cose, la realtà esterna quotidiana e poi possiamo riflettere e aver coscienza di pensare le cose, possiamo pensare alle cose pensate, ossia alle nostre idee delle cose e così giungere alla coscienza di noi stessi.

Così l’autocoscienza non è il punto di partenza del sapere, ma è un punto d’arrivo; è il termine di un moto circolare dello spirito di completo ritorno su se stesso; è un moto, il quale, partendo dalla conoscenza diretta, apprende la realtà esterna, dopodiché, carico delle conoscenze e dei pensieri concepiti ed espressi, torna verso se stesso e il cerchio si chiude[15].

È solo l’autocoscienza divina che comporta l’identità del sapere dell’altro con il sapere di sé, perché Dio è identità di pensiero e di essere. Ma il nostro pensare è realmente distinto dal reale o dall’essere e chi, come l’idealista lo identifica, pretende di uguagliarsi alla Mente divina, non crede più di essere un semplice pensante, ma crede di essere il Pensiero.

Cartesio rovescia questo processo della conoscenza col metter prima ciò che è dopo, va dall’autocoscienza alla scienza, anziché dalla scienza all’autocoscienza, non tenendo conto che se noi abbiamo delle idee è perché abbiamo contattato sensibilmente le cose ossia gli enti, e quindi abbiamo formato la nozione dell’ente. Dunque è questa nozione e non il nostro pensare ad essere il punto di partenza del sapere e la certezza prima e fondamentale.

Cartesio, col suo stolto rifiuto della veracità del senso fa fallire in partenza il suo progetto di fondare la certezza e la verità del sapere. Se infatti  i sensi non ci dessero la verità sensibile, neppure l’intelletto potrebbe darci la verità intellegibile e pertanto diventerebbe impossibile la conoscenza e l’accesso a qualunque verità.

L’autocoscienza non sostituisce in noi una supposta inattendibilità dei sensi, ma essa è autentica e fondata solo come termine conclusivo del processo conoscitivo, che inizia col contatto con le cose esterne e riflette sull’origine delle idee e dei concetti ricavati dall’esperienza della realtà esterna.

Cartesio pretende di dimostrare ciò che è evidente, cioè l’esistenza delle realtà sensibili e vorrebbe dare per evidente ciò che è falso. È falso infatti che il nostro sapere inizi con l’autocoscienza. Esso inizia invece col contatto sensibile con le cose sensibili esterne, dalle quali ricava, grazie ad un opportuno processo astrattivo, la nozione universalissima ed analogica dell’ente, ente che sì sono io, ma insieme con le cose del mondo, e sui cui rifletto mediante l’autocoscienza.

Conclusione

Giunti al termine di questa disamina, comprendiamo allora come, fondandoci sull’insegnamento di Cristo e le premesse filosofiche che ci offrono San Tommaso ed Aristotele, l’ipocrita risulta essere  una persona che può dar sfoggio di acume filosofico e sensibilità religiosa, apparentemente zelante per la verità e la giustizia, ma sostanzialmente egocentrica ed empia, un figlio di Adamo, che ha ascoltato l’antico serpente, un ribelle a Dio, che vuol sostituirsi a Dio nel regolare la vita propria e del prossimo. Essa pertanto fà propaganda di una dottrina della scienza e della verità, per la quale non è l’io che deve aprirsi all’essere e quindi a Dio, ma è l’essere e quindi Dio che cadono nell’orizzonte dell’io.

La sua ipocrisia consiste in un finto zelo per la verità, la giustizia e la libertà e addirittura per il culto divino e l’osservanza delle leggi divine, quando invece la sua vera mira è attirare l’uomo a quella esaltazione di sé e a quella soggezione a Satana, nelle quali egli è già implicato, e che gli attirano l’ira divina e il supplizio di un’eterna condanna.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato 10 dicembre 2022


Ciò che abbiamo nel senso quando percepiamo il colore di una cosa non è diverso, come credeva Cartesio, da ciò che c’è nella cosa, ma non è altro che il colore di quella cosa.

Se diciamo che questa rosa è rossa, non intendiamo dire che percepiamo una certa sensazione, come effetto nel nostro senso di un «non so che nella cosa, di cui ignoriamo la natura». Noi conosciamo benissimo la natura del rosso sperimentandolo direttamente col senso della vista nella rosa rossa senza bisogno di alcuna mediazione rappresentativa.

La sensazione, espressa nel giudizio, è carica di un valore ontologico: l’esser rossa della rosa. Se la rosa non fosse rossa, noi non useremmo nel giudizio la copula «è» per dire che la rosa è rossa. Dell’immagine invece ha bisogno l’immaginazione e la memoria, che si riferiscono a cose assenti o nascose o passate.

Immagine da Internet: Catharina Klein, Rose


[1] Il discorso sul metodo, Editrice La Scuola, Brescia 1957, p.59.

[2] Meditazioni metafisiche, Edizioni Laterza, Bari 1968, p. 70.

[3] Ibid., p.71.

[4] Ibid.

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] Ibid., p.95.

[8] Ibid,. p. 97.

[9] Cf J.Gredt, Elementa philosophiae aristotelico-thomisticae, Edizioni Herder, Friburgo in Brisgovia, 1937, vol.I, nn.686-690; P.Siwek, Psychologia metaphysica, Università Gregoriana, Roma 1956, nn.11-116; Roger Verneaux, Epistemologia generale, Paideia Editrice, Brescia1967, La sensazione, pp.174-191; Critica. De cognitionis humanae valore disquisitio, Università Gregoriana, Roma 1927, nn. 231-311.

[10] I princìpi della filosofia, in Cartesio, Opere filosofiche, III, Edizioni Laterza, Bari 1986, n.70, p.60.

[11] Ibid., come se il rosso fosse nella sensazione e non nella cosa.

[12] Ibid.

[13] Discorso sul metodo, op.cit., p.61.

[14] Ibid.

[15] François-Xavier Putallaz, Le sens de la réflexion chez Thomas d’Aquin, Librairie philosophique Vrin, Paris 1991.

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