Caterina e
la cattolicità italiana
Premessa introduttiva
I
riferimenti agli scritti cateriniani ai quali attingo per questa mia conferenza
sono le Lettere indirizzate a diverse
persone costituite in autorità, sovrani di Stato e governanti di città.
Utilizzo la pubblicazione delle Lettere
a cura di Padre Giuseppe Di Ciaccia[1],
il quale ha avuto una duplice buona idea: quella di renderle in italiano
moderno e quella di ordinarle a seconda delle varie categorie di destinatari,
sicchè è semplicissimo andare a trovarle. Le Lettere che maggiorate interessano il nostro assunto sono le
seguenti: 123, 168, 268, 311, 377.
Già
l’illustre studiosa di Caterina, Giuliana Cavallini, si era accorta che, per facilitare
la lettura degli scritti della Senese, occorreva
abbandonare l’italiano di Caterina, per noi ormai ostico, ma forse per una
certa forma di timore reverenziale, la Cavallini non se la sentì di andare fino
in fondo, per cui l’italiano che viene fuori è una via di mezzo tra il
cateriniano e il moderno.
Ritengo
tuttavia che la scelta del Padre Di Ciaccia sia migliore. Penso che, se
Caterina vivesse oggi, si esprimerebbe col linguaggio di oggi e nutrirebbe
delle riserve circa il linguaggio mezzo medioevale e mezzo moderno della
Cavallini, un linguaggio, che, oltre a tutto, comporta un’infinità di note
esplicative, che invece il Padre Di Ciaccia ci risparmia.
Premessa
dottrinale
Prima di
addentrarmi nella trattazione specifica di questo tema, ritengo opportuno
esporre brevemente i princìpi e i criteri, ai quali Caterina si rifà per esprimere il suo pensiero e i suoi
insegnamenti riguardanti l’argomento di questa esposizione.
Diciamo
dunque che essendo Caterina membro della Famiglia domenicana, devo ricordare
che elemento essenziale dell’ideale domenicano è la predicazione e la promozione,
oltre che della sana dottrina della fede, anche quelle della giustizia e della
pace: fides et pax, si diceva agli inizi
dell’Ordine: pace come frutto della giustizia; pace che, come dice S.Agostino,
è la «tranquillità dell’ordine». Ma proprietà del saggio, ossia dell’uomo
giusto, come dice S.Tommaso, è l’instaurazione dell’ordine nella società umana.
L’ordine è
l’armonia e la giusta connessione, operate dalla ragione, delle parti o dei fattori del tutto, in
questo caso la società, affinchè essa, coi dovuti mezzi, raggiunga il suo fine,
che è quello della realizzazione del bene comune, nel mantenimento dell’unità
nazionale, nella promozione del progresso e della pace, nel coordinamento delle
componenti del corpo sociale organizzato nello Stato.
Ora, spetta
alla ragion pratica e in special modo alla virtù della prudenza e della fortezza
esercitate dai governanti, dettare le norme da seguire e farle eseguire,
affinchè la società sia ben ordinata, pacifica
e concorde e tutti possano compiere il loro dovere a seconda del loro stato
e condizione di vita, e sia così assicurata a ciascuno una giusta libertà.
Nella società
ben ordinata esiste altresì naturalmente e giuridicamente un duplice aspetto:
da una parte, l’applicazione del principio dell’uguaglianza o fratellanza umana, ossia il rispetto del valore
universale della persona come tale, quale che sia la sua individualità, la
condizione di vita, il sesso, l’età, il ceto, la nazione, la patria, la
cultura, la razza, la religione, la storia.
E dall’altra
parte, abbiamo l’aspetto della molteplicità, della varietà e della diversità,
che comporta una certa legittima e accidentale disuguaglianza tra individui e
ceti, sicchè la sostanziale inviolabile uguaglianza di fondo viene
concretamente determinata e realizzata dando a ciascuno il suo, secondo una stratificazione gerarchica di ceti sociali, per
la quale i migliori e più meritevoli hanno il diritto e il dovere di governare
il popolo a nome del popolo.
Il governatore,
infatti, come dice S.Tommaso, è il vicem gerens
multitudinis. Ossia, il bene che egli amministra, il bene comune, non è di sua
proprietà, ma, come ripete spesso Caterina, gli è «prestato» da Dio, al Quale
appartiene e del qual bene, che gli è stato affidato dal popolo da
amministrare, egli deve render conto a Dio. E questo è il principio della democrazia.
Già come
insegna Aristotele nella sua Politica,
in uno Stato ben ordinato, i migliori sotto il profilo politico (àristoi), i più saggi, i più colti e i più
forti, costituiti in autorità grazie al voto popolare, che è il segno della
democrazia, ossia i nobili e gli aristocratici, hanno il privilegio, l’obbligo e
la grave responsabilità, come insegna Pio XII, di guidare ed educare il popolo,
sollevarne le condizioni, promuovere il progresso economico, sociale e morale e
culturale della società, disciplinare e punire i criminali, nonché sostenere,
appoggiare e proteggere i meno favoriti e i più deboli e difendere la patria
dai nemici. È questo il fattore aristocratico dell’ordinamento sociale politico
e statuale.
Nella
società ben ordinata, grazie all’azione del buon governo ed alla collaborazione
dei cittadini, in ottemperanza alla legge naturale e divina, sono rispettati i diritti universali dell’uomo, che
costituisce il tessuto di quella fratellanza universale, che Papa Francesco sta
predicando attualmente.
Si tratta di
quella fratellanza, che peraltro, benchè corrisponda ad una profonda ed
inestirpabile esigenza morale dell’uomo, non è per questo un dato e un ideale pacifici
e scontati per tutti, a causa della debolezza e della malvagità umana, ma è un
difficile dovere ed ideale da perseguire e riparare costantemente perchè continuamente
minacciato e frustrato dal sorgere di contrasti e conflitti, che sono le conseguenze
del peccato originale.
Solo il
cristianesimo, con il suo ideale soprannaturale di fratellanza in Cristo, perché
figli del Padre, emerge al di sopra delle altre culture e religioni, nel
realizzare e sollevare alle più alte vette della virtù e della santità quella fraternità
umana, della quale in fondo tutti
sentiamo il bisogno, ma che senza la grazia divina, non può essere realizzata
che imperfettamente ed insufficientemente.
Si comprende
allora come il progetto cristiano della politica sia come un lievito che
fermenta la pasta del mondo e stimoli l’agire politico all’edificazione di un
umanesimo non solo «integrale», per dirla con Maritain o «plenario», come
diceva S.Paolo VI, ma addirittura escatologico,
proprio della futura resurrezione, il quale, per profondità, ampiezza e
sublimità di vedute e grazie ai mezzi spirituali usati, supera e corregge tutti
i progetti umanistici elaborati dalla filosofia del ’7-‘800, come quello
illuminista, quello liberale, quello massonico, quello positivista e quello
marxista, fino all’umanesimo heideggeriano.
Naturalmente
qui ho esposto per sommi capi la moderna dottrina sociale della Chiesa, che,
come ho detto, non era ancora impostata in questi termini all’epoca di Caterina. Tuttavia, questa
esposizione può essere utile, per capire i princìpi, i fini e i metodi della
politica cristiana di Caterina, dalla quale sarà poi ricavata, soprattutto a
partire da Leone XIII, la dottrina sociale della Chiesa.
Il concetto
cristiano di patronato
Che vuol
dire «Caterina Patrona d’Italia»? Il concetto di «patronato» oggi ha assunto
una valenza laica; ma esso ha un’origine cristiana, ed anzi biblica. Nel senso
biblico, quello che noi oggi chiamiamo «patrono» corrisponde a ciò che per la
Bibbia è una nobile creatura celeste, inizialmente un angelo o un arcangelo,
incaricata da Dio di proteggere creature personali inferiori, ossia gli uomini
o singolarmente o collettivamente, fino ai popoli ed alle nazioni. Così, per
esempio, l’arcangelo S.Michele è il patrono di Israele.
Per la Bibbia, invece, non esistono patroni
degli animali, delle piante e delle cose inanimate, come troviamo invece presso
le religioni pagane. Queste creature sono governate direttamente dalla
Provvidenza. Esiste dunque un rapporto interpersonale tra il patrono e colui o
coloro che sono assistiti e protetti dal patrono, cosa evidentemente impossibile
nelle creature inferiori.
Ma con
l’evento dell’Incarnazione e la fondazione della Chiesa e quella degli Stati
cristiani, anche una creatura umana dal paradiso, il Santo, può svolgere un
ufficio di patronato, che ovviamente non è alla pari di quello svolto da Cristo
e neppure alla pari, ma inferiore, di quello svolto dalla Madonna.
Nel corso
dei secoli la Chiesa stabilisce o riconosce o ufficializza via via una
molteplicità infinita di patroni delle più svariate comunità o associazioni,
dalle nazioni, ai popoli, alle città, alle diocesi, alle parrocchie, alle
confraternite, alle associazioni laicali o pubbliche, agli istituti religiosi, persino
alle forze armate, fino alle famiglie e alle singole persone. Il proprio Santo onomastico
è una forma di patrono.
Anche
l’Italia ha la sua patrona: S.Caterina. Perché proprio lei? Perché ella, tra
tutti i Santi italiani, si è distinta per il suo amore per la Chiesa italiana e
per la sua straordinaria e saggia opera di pacificazione e riconciliazione,
mediante la predicazione, l’esempio e il sacrificio di se stessa, di varie
entità politiche o signorili o comunali, sempre al fine di raccogliere tutte queste
entità attorno alla Sede di Pietro.
In che
consiste l’italianità di Caterina? Che concetto si era fatto dell’Italia? Che
significava allora essere italiani? Che cosa era l’Italia per lei e la cultura
del suo tempo? A parte il fatto scontato, come usava da tempo antichissimo, di
chiamare «Italia» la penisola a forma di stivale, che si affaccia sul Mar
Mediterraneo, tutti non avevano difficoltà a vedere l’unità d’Italia in alcuni dati
sociologici evidenti, ossia nella lingua, nella religione e nell’etnia comune, salvo
lievi differenze, in quanto entità nazionale, avente le sue nobili radici
storiche nell’Impero Romano e nella millenaria presenza in lei della Sede di
Pietro.
Nel contempo
ci si rendeva ben conto della varietà delle storie, dei dialetti, dei caratteri
umani, degli usi, dei costumi e delle tradizioni locali, cosa che però era tutto
sommato una ricchezza, che non comprometteva l’unità di fondo. Problema più
difficile a quei tempi era quello di comprendere l’identità dell’Italia: in cosa i popoli e nazioni si distinguono gli
uni dagli altri, quali sono i loro propri e peculiari pregi e difetti? Si tratta di quella che solitamente
si chiama «coscienza nazionale».
La prima
nazione a formarsi questa autocoscienza, in modo anche eccessivo, sembra essere
stata la Francia di Filippo il Bello, proprio nel momento in cui Papa Bonifacio
VIII affermava con estremo rigore e una certa albagia la supremazia del Papa su
tutte le nazioni cristiane, cioè su tutta Europa. Questa era pure la convinzione
di Caterina.
Occorrerà
l’‘800 perché si diffondano in Europa un forte interesse e una vasta
speculazione storico-sociologica su quella che è l’indole propria di ciascun
popolo europeo. Questa presa di coscienza ai tempi di Caterina non esisteva
ancora, né in lei né nei suoi contemporanei. La sua italianità è certo
rilevabile, emerge, ma ella non ne era consapevole. La vive inconsciamente.
Anche un
Dante o un Petrarca, che pure sentono il tema dell’Italia, non pensano a mettere
in luce la sua peculiarità culturale, ma si limitano a collegarla alle sue
antiche e gloriose radici classiche e romane. Meno che mai, poi, pensano ad
un’unità politica, come invece si comincerà a fare dai primi decenni dell’ ‘800.
Sulla stessa linea è Caterina.
La presenza
dello Stato della Chiesa, che, occupando un terzo dell’Italia, la divideva in due,
impediva allora a chiunque, compresa quindi anche Caterina, di concepire qualunque
anche vago progetto di unità politica nazionale, il che non vuol dire che non
si sapesse che lo Stato della Chiesa non era per nulla una struttura essenziale
della Chiesa. Dante, però, accennando alla famosa creduta donazione di Costantino,
uscì nel famoso lamento: «Ahi, di quanto mal fu causa!». In Caterina certamente
non c’è nessun riferimento a Costantino, e tuttavia ella era molto zelante
nell’esortare gli ecclesiastici a guardarsi dall’avarizia e dalla sete di
potere.
La vita
politica ai tempi di Caterina
Oggi il
contributo che il politico cattolico dà all’edificazione del bene comune
temporale si ispira alla dottrina sociale della Chiesa, che ai tempi di
Caterina non esisteva ancora. Fonte di ispirazione, allora, erano le vicende
narrate dalla Sacra Scrittura, i Proverbi biblici, il Nuovo Testamento, gli
insegnamenti dei Santi e dei profeti.
Ma il
magistero pontificio non si occupava ancora dell’argomento, limitandosi a
evidenziare la differenza tra il ruolo del Papa e quello dell’Imperatore, col
sottolineare il primato dello spirituale sul temporale e il diritto-dovere dell’autorità
ecclesiastica, in casi particolarmente importanti, di evidenziare, basandosi
sul Vangelo, ciò che l’etica politica e la legge naturale richiedono per la
salvaguardia della dignità della persona umana, delle esigenze della giustizia
e del bene comune.
I Papi non
si curavano, allora, di determinare i doveri
e diritti del popolo e dei cittadini nella gestione dello Stato, che non
fossero il dovere della loro obbedienza ai governanti e il diritto dei sudditi di
essere garantiti, soddisfatti e protetti dal sovrano nei loro legittimi interessi.
Ma il popolo non era il protagonista della vita politica, come avverrà nelle
democrazie moderne, a partire dal sec.XVIII. Il protagonista sono il sovrano, aiutato
dalla classe nobiliare, sovrano «per grazia di Dio», e per l’investitura
feudale del Sommo Pontefice, che, come si era espresso Bonifacio VIII, impugna le
«due spade», mentre erano facoltà e compito del sovrano concedere e riconoscere
i titoli nobiliari. Questo era il clima storico-politico, nel quale visse
Caterina.
Inoltre, non
c’era il problema odierno di come collaborare con i non-credenti, perché la società
civile, totalmente cattolica, era sotto
il controllo della Chiesa. Per cui, la correzione del cattivo costume politico
o il rimedio alle ingiustizie, venivano fatti o dai Papi o dai sovrani
temporali o dai profeti sempre in riferimento a criteri ispirati alla dottrina
cattolica o al Vangelo.
Nel nome
della SS.Trinità era formalmente ed esplicitamente svolta anche la politica
ufficiale, erano conferite le cariche pubbliche ed erano sottoscritti gli
accordi, i patti e le convenzioni persino economici. Ciò può farci capire la
disinvoltura con la quale Caterina, rivolgendosi a sovrani e governanti, anche
a proposito di guerre, affari e scontri politici, atti criminosi, economia,
commercio o condanne a morte sempre mette in campo la SS.Trinità.
Invece, come
è noto, ai tempi di Caterina, l’opposizione tra guelfi e ghibellini non metteva
in gioco l’opposizione fra cattolico e non-cattolico, perché tutti erano
cattolici, ma il contrasto tra Papato ed Impero, caratterizzato da
un’incresciosa ed estenuante competizione a causa delle mire temporalesche del
Papa, che era addirittura a capo di uno Stato tra i più importanti d’Europa, e
un Imperatore, che, per quanto cattolico, faceva sempre fatica a capire che lo
spirituale dev’essere al sopra del temporale, e la politica non deve comandare
sulla religione. Caterina, pur senza entrare nel merito di questa enorme
questione, distingue assai bene il compito del sacerdote da quello del governante
laico o del politico.
La maternità
spirituale e profetica di Caterina nel campo della politica
Una qualità
propria della donna è quella di impostare l’attività politica sul modello della
vita familiare, per la quale essa ha più propensione dell’uomo, mentre questi è
più portato a svolgere l’attività politica sulla base di un ideale politico. Ne
nasce la conseguenza che la donna sa impostare l’attività politica con un tono
di familiarità e di maggior dolcezza, senso della concretezza delle persone e
delle situazioni, che smussa le spigolosità e le durezze, e riempie di
contenuto l’astratto, più proprio del pensare maschile.
La donna è
madre ed ha il tatto e la morbidezza della madre, anche quando, in possesso di
una carica o di un ufficio, si rivolge ai colleghi politici o parlamentari. Alcuni
decenni fa, nella Sala Paolo VI in Vaticano, presenti 700 Vescovi focolarini di
vari paesi del mondo, ebbi modo di verificare in modo eccezionale il valore di
questo carisma femminile nell’ascoltare la parola infiammata di una delle donne
del nostro tempo maggior dotata del linguaggio della sapienza, Chiara Lubić, coscientemente discepola di Caterina. Chiara ebbe
un’espressione che non compare negli scritti di Caterina, ma che rispecchia
perfettamente la sua spiritualità: parlò della necessità per il cristiano di essere
un’«anima-Chiesa».
La donna,
nei suoi interessi e nei suoi messaggi, sa oltrepassare benissimo l’ambito
della famiglia e spaziare negli ambiti più vasti dello spirito, fino a
possedere, come Caterina, e come la Lubić, il dono della profezia. Ma anche in
queste circostanze non dimentica mai il suo essere madre, giacchè, come ebbe a
dire S.Giovanni Paolo II, essa è «madre dell’uomo».
Se tutto
questo è vero, non si può far a meno tuttavia di restar stupiti di come una
giovane popolana senza istruzione e senza nobili natali abbia potuto, nello
spazio di pochissimi anni, conquistarsi tanta fama, stima e addirittura
venerazione presso ogni ceto sociale, laico ed ecclesiastico, fino ad ottenere
fiducia e prestigio addirittura presso il Papa, soprattutto se teniamo presente
in quale bassa considerazione era tenuta la donna nel sec.XIV, oltre tutto una
povera popolana.
Si ben
comprende allora come Caterina sia stata anche oggetto di disprezzo, di scandalo,
di insulti e di calunnie da parte di coloro, anche ecclesiastici, che, corrotti
ed infedeli al loro dovere, si sentivano punti dai forti richiami della Santa,
la quale non faceva nomi, ma si sarebbe potuto capire benissimo a chi si
riferiva. Finissima intuizione politica, che non si limita alle prediche in
astratto, ma colpisce i mali concreti, pur nel rispetto delle persone.
Asse portante
della sua azione politica è la congiunzione della giustizia con la
misericordia. Non si tratta di una semplice politica laica, che insiste
nell’applicazione della legge o nel far
applicare la legge; ma è una politica cattolica, nella quale la misericordia va
oltre le esigenze della giustizia, dove
la giustizia non giunge.
Abilissima è
Caterina nel dosare ora la giustizia, ora la misericordia. Ella esorta insistentemente
i pastori ad adempiere da una parte al dovere della misericordia verso i miseri,
ma d’altra parte a far prontamente ed energicamente giustizia contro i
malfattori, altrimenti questi, fatti spavaldi per essere rimasti impuniti,
peccano di più. Impossibile, d’altra parte, fare misericordia agli oppressi, se
non si puniscono gli oppressori. Questi non possono sperare di farla franca col
pretesto che Dio perdona. Infatti, il voler fare i furbi con Dio non ha altro
risultato che accrescere il fuoco dell’ira divina.
Quello che altresì
stupisce ed è estremamente edificante in Caterina, nel campo della sua
predicazione e comportamento pratico, è come ella sa far scendere la dottrina
sociale, la sua parola e la sua passione per la giustizia e per la pace, la sua
preoccupazione per il bene comune, il suo amore per l’Italia e per le patrie
tradizioni, insomma la sua azione civile e politica, dai vertici della sua contemplazione
mistica.
In Caterina,
tutta l’azione morale e quindi anche quella politica, nasce dall’«ardentissima
carità», carità che va innanzitutto verso Dio, amato in sè e per sé e non per
nostro vantaggio («Dio in sé e non Dio-per-te»), anche se è nel nostro sommo
interesse amare Dio, perché è il nostro Salvatore.
La Santa
Senese manifesta la sua maternità politica, oltre che nei viaggi, anche nelle
numerose Lettere inviate a Re,
sovrani, governanti e Signori di città. Stupisce il piglio deciso e a volte
sbrigativo, ma sempre sostanzioso e ragionato, delle sue esortazioni, dei suoi
avvertimenti e dei suoi rimproveri; e stupisce altresì come ella trovi ascolto
nei suoi lettori, segno che ella, con straordinario intuito, soprannaturale
saggezza e rara efficacia, sa dire a ciascuno la parola giusta nel momento giusto.
Le Lettere nascono certamente anzitutto
dalla sapienza e dalla prudenza di Caterina, dal suo cuore materno, da
ispirazioni celesti, ma nel contempo da un
intenso rapporto sociale. Dunque congiunzione di intensa vita spirituale,
addirittura mistica, con un’enorme capacità di relazioni sociali e di
comunicazione umana. Questa è la politica di Caterina.
Ma, oltre a
ciò, Caterina è ben lontana da quel Dio tutto ripiegato sull’uomo, sotto il
pretesto della misericordia divina, Dio che sarà concepito due secoli dopo da
Lutero, per cui pare che Egli non sarebbe Dio, se non si occupasse dell’uomo,
il che compromette la libertà dell’opera creatrice divina, mentre tende a fare
dell’uomo, col pretesto dell’Incarnazione, una specie di componente essenziale
della natura divina.
L’amore
cateriniano per il prossimo e per la Chiesa, e quindi la carità sociale e politica,
non è dunque l’amore per eccellenza, ma, per quanto prezioso e necessario alla
salvezza, non è il primo, ma il secondo dei comandamenti, perchè sgorga dal
primo, cioè dall’amore di Dio, da esso è motivato e per esso si giustifica, di
esso è la prova e segno tangibile. Se
parte da Dio, conduce a Dio.
Quindi è chiaro che per la Senese non vale il
principio che si sente enunciare qua e là, secondo cui «la politica è la forma più
alta della carità», per quanto tale principio sembri nobilitare la politica; ma
esso è ingannevole, perché per esso si esagera nella stima per la politica,
come se essa fosse il bene supremo dell’uomo, si fa della politica un idolo,
che prepara l’avvento dei regimi totalitari. È chiaro che l’azione politica
cristiana è animata e regolata dalla carità, non però nel senso di amare la
società come se fosse Dio, ma in quanto il politico cattolico si dedica al bene
comune, anche a rischio di grandi sacrifici e della stessa vita, per amore di
Dio. Questo è lo stile di Caterina.
Un segno
impressionante dell’ascendente che Caterina aveva saputo conquistarsi sul
prossimo, era l’aver formato quella che ella chiamava l’«allegra brigata», un
gruppo di seguaci entusiasti, soprattutto giovani, uomini e donne, in parte
provenienti dalla fraternita domenicana delle Mantellate, alla quale ella
apparteneva.
Questo
gruppo di persone, oltre a fornire a Caterina un aiuto materiale e logistico,
funzionavano come la segreteria di un partito politico, del quale Caterina era
il dirigente e capo indiscusso. Raccolta di informazioni, collaboratori nella
decisione delle lettere da scrivere, sostegno a Caterina in situazioni
difficili, relazioni con autorità civili ed ecclesiastiche, difesa da accuse
e malignità, consiglieri nelle mosse da
fare, avvisi di pericoli da evitare, conforto dell’amicizia e della devozione,
esecuzione di ordini, inviati o ambasciatori di
Caterina, latori di messaggi, spiegazione dei medesimi al prossimo.
Il nostro
pensiero va qui allo stesso Gesù Cristo, il quale, nei suoi spostamenti, era
accompagnato dagli apostoli e da un gruppo di donne, che li assistevano.
Caterina ha la netta consapevolezza, tipica della spiritualità domenicana, che
la predicazione del Vangelo e la promozione della sua applicazione nel sociale,
per essere credibile ed avere incidenza nella gente, dev’essere collettiva e
comunitaria.
Che cosa
avrebbe da insegnare Caterina oggi alla cattolicità italiana? Di farsi visibile
e coraggiosa latrice e testimone del lievito evangelico nelle vicende e nelle
problematiche della società e della Chiesa italiana. A differenza dei tempi
della Senese, nei quali tutti erano cattolici e il coraggio consisteva
semplicemente in un dovere di coerenza con la propria fede, oggi che viviamo in
una società scristianizzata e secolarizzata, occorre che, imitando il coraggio
di Caterina, la cattolicità – e questo è compito soprattutto dei laici – sia
professata e visibile non solo negli ambienti della Chiesa, ma anche in quelli dello
Stato, della politica, dell’economia, della cultura, della scienza e dell’arte.
La figura
del cattolico mascherato o in mentite vesti o in incognito, cara al secolarismo
degli anni ‘70-primi ‘80, dovrebbe ormai esser considerata superata, a meno che
la testimonianza cattolica non voglia sparire e nascondersi, quasi vergognosa,
nell’anonimato di una laicità onnipervadente, sincretista ed indifferenziata.
Se in una
città come quelle svizzere, piene di banche, è quasi inutile segnalare dov’è la
banca, mentre in un villaggio sperduto dello Zambia, dove la povertà è di casa,
l’unico ufficio bancario deve chiaramente segnalato sul frontone d’ingresso della
banca, Così sono convinto che se Caterina vivesse oggi, esorterebbe i cattolici
a farsi vedere tra le formazioni parlamentari, in modo che non si dica quel che
si dice dell’araba fenice, che tutti sanno che ci sia, ma dove sia nessun lo
dice.
P.Giovanni
Cavalcoli, OP
Varazze, 30
gennaio 2019
Conferenza
tenuta nella cappella di Santa Caterina da Siena in Varazze (Savona) il 14
Febbraio 2019.
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