Caterina e la cattolicità italiana


Caterina e la cattolicità italiana

Premessa introduttiva

I riferimenti agli scritti cateriniani ai quali attingo per questa mia conferenza sono le Lettere indirizzate a diverse persone costituite in autorità, sovrani di Stato e governanti di città. Utilizzo la pubblicazione delle Lettere a cura di Padre Giuseppe Di Ciaccia[1], il quale ha avuto una duplice buona idea: quella di renderle in italiano moderno e quella di ordinarle a seconda delle varie categorie di destinatari, sicchè è semplicissimo andare a trovarle. Le Lettere che maggiorate interessano il nostro assunto sono le seguenti: 123, 168, 268, 311, 377.
Già l’illustre studiosa di Caterina, Giuliana Cavallini, si era accorta che, per facilitare la lettura degli scritti della Senese,  occorreva abbandonare l’italiano di Caterina, per noi ormai ostico, ma forse per una certa forma di timore reverenziale, la Cavallini non se la sentì di andare fino in fondo, per cui l’italiano che viene fuori è una via di mezzo tra il cateriniano e il moderno.
Ritengo tuttavia che la scelta del Padre Di Ciaccia sia migliore. Penso che, se Caterina vivesse oggi, si esprimerebbe col linguaggio di oggi e nutrirebbe delle riserve circa il linguaggio mezzo medioevale e mezzo moderno della Cavallini, un linguaggio, che, oltre a tutto, comporta un’infinità di note esplicative, che invece il Padre Di Ciaccia ci risparmia.

Premessa dottrinale

Prima di addentrarmi nella trattazione specifica di questo tema, ritengo opportuno esporre brevemente i princìpi e i criteri, ai quali Caterina si rifà  per esprimere il suo pensiero e i suoi insegnamenti riguardanti l’argomento di questa esposizione.
Diciamo dunque che essendo Caterina membro della Famiglia domenicana, devo ricordare che elemento essenziale dell’ideale domenicano è la predicazione e la promozione, oltre che della sana dottrina della fede, anche quelle della giustizia e della pace: fides et pax, si diceva agli inizi dell’Ordine: pace come frutto della giustizia; pace che, come dice S.Agostino, è la «tranquillità dell’ordine». Ma proprietà del saggio, ossia dell’uomo giusto, come dice S.Tommaso, è l’instaurazione dell’ordine nella società umana.
L’ordine è l’armonia e la giusta connessione, operate dalla ragione,  delle parti o dei fattori del tutto, in questo caso la società, affinchè essa, coi dovuti mezzi, raggiunga il suo fine, che è quello della realizzazione del bene comune, nel mantenimento dell’unità nazionale, nella promozione del progresso e della pace, nel coordinamento delle componenti del corpo sociale organizzato nello Stato.
Ora, spetta alla ragion pratica e in special modo alla virtù della prudenza e della fortezza esercitate dai governanti, dettare le norme da seguire e farle eseguire, affinchè la società sia ben ordinata, pacifica  e concorde e tutti possano compiere il loro dovere a seconda del loro stato e condizione di vita, e sia così assicurata a ciascuno una giusta libertà.
Nella società ben ordinata esiste altresì naturalmente e giuridicamente un duplice aspetto: da una parte, l’applicazione del principio dell’uguaglianza o fratellanza umana, ossia il rispetto del valore universale della persona come tale, quale che sia la sua individualità, la condizione di vita, il sesso, l’età, il ceto, la nazione, la patria, la cultura, la razza, la religione, la storia.
E dall’altra parte, abbiamo l’aspetto della molteplicità, della varietà e della diversità, che comporta una certa legittima e accidentale disuguaglianza tra individui e ceti, sicchè la sostanziale inviolabile uguaglianza di fondo viene concretamente determinata e realizzata dando a ciascuno il suo, secondo una  stratificazione gerarchica di ceti sociali, per la quale i migliori e più meritevoli hanno il diritto e il dovere di governare il popolo a nome del popolo.
Il governatore, infatti, come dice S.Tommaso, è il vicem gerens multitudinis. Ossia, il bene che egli amministra, il bene comune, non è di sua proprietà, ma, come ripete spesso Caterina, gli è «prestato» da Dio, al Quale appartiene e del qual bene, che gli è stato affidato dal popolo da amministrare, egli deve render conto a Dio. E questo è il  principio della democrazia.
Già come insegna Aristotele nella sua Politica, in uno Stato ben ordinato, i migliori sotto il profilo politico (àristoi), i più saggi, i più colti e i più forti, costituiti in autorità grazie al voto popolare, che è il segno della democrazia, ossia i nobili e gli aristocratici, hanno il privilegio, l’obbligo e la grave responsabilità, come insegna Pio XII, di guidare ed educare il popolo, sollevarne le condizioni, promuovere il progresso economico, sociale e morale e culturale della società, disciplinare e punire i criminali, nonché sostenere, appoggiare e proteggere i meno favoriti e i più deboli e difendere la patria dai nemici. È questo il fattore aristocratico dell’ordinamento sociale politico e statuale.
Nella società ben ordinata, grazie all’azione del buon governo ed alla collaborazione dei cittadini, in ottemperanza alla legge naturale e divina, sono  rispettati i diritti universali dell’uomo, che costituisce il tessuto di quella fratellanza universale, che Papa Francesco sta predicando attualmente.
Si tratta di quella fratellanza, che peraltro, benchè corrisponda ad una profonda ed inestirpabile esigenza morale dell’uomo, non è per questo un dato e un ideale pacifici e scontati per tutti, a causa della debolezza e della malvagità umana, ma è un difficile dovere ed ideale da perseguire e riparare costantemente perchè continuamente minacciato e frustrato dal sorgere di contrasti e conflitti, che sono le conseguenze del peccato originale.
Solo il cristianesimo, con il suo ideale soprannaturale di fratellanza in Cristo, perché figli del Padre, emerge al di sopra delle altre culture e religioni, nel realizzare e sollevare alle più alte vette della virtù e della santità quella fraternità umana, della quale in fondo tutti  sentiamo il bisogno, ma che senza la grazia divina, non può essere realizzata che imperfettamente ed insufficientemente.
Si comprende allora come il progetto cristiano della politica sia come un lievito che fermenta la pasta del mondo e stimoli l’agire politico all’edificazione di un umanesimo non solo «integrale», per dirla con Maritain o «plenario», come diceva S.Paolo VI, ma addirittura escatologico, proprio della futura resurrezione, il quale, per profondità, ampiezza e sublimità di vedute e grazie ai mezzi spirituali usati, supera e corregge tutti i progetti umanistici elaborati dalla filosofia del ’7-‘800, come quello illuminista, quello liberale, quello massonico, quello positivista e quello marxista, fino all’umanesimo heideggeriano.
Naturalmente qui ho esposto per sommi capi la moderna dottrina sociale della Chiesa, che, come ho detto, non era ancora impostata in questi termini  all’epoca di Caterina. Tuttavia, questa esposizione può essere utile, per capire i princìpi, i fini e i metodi della politica cristiana di Caterina, dalla quale sarà poi ricavata, soprattutto a partire da Leone XIII, la dottrina sociale della Chiesa.

Il concetto cristiano di patronato

Che vuol dire «Caterina Patrona d’Italia»? Il concetto di «patronato» oggi ha assunto una valenza laica; ma esso ha un’origine cristiana, ed anzi biblica. Nel senso biblico, quello che noi oggi chiamiamo «patrono» corrisponde a ciò che per la Bibbia è una nobile creatura celeste, inizialmente un angelo o un arcangelo, incaricata da Dio di proteggere creature personali inferiori, ossia gli uomini o singolarmente o collettivamente, fino ai popoli ed alle nazioni. Così, per esempio, l’arcangelo S.Michele è il patrono di Israele.
 Per la Bibbia, invece, non esistono patroni degli animali, delle piante e delle cose inanimate, come troviamo invece presso le religioni pagane. Queste creature sono governate direttamente dalla Provvidenza. Esiste dunque un rapporto interpersonale tra il patrono e colui o coloro che sono assistiti e protetti dal patrono, cosa evidentemente impossibile nelle creature inferiori.
Ma con l’evento dell’Incarnazione e la fondazione della Chiesa e quella degli Stati cristiani, anche una creatura umana dal paradiso, il Santo, può svolgere un ufficio di patronato, che ovviamente non è alla pari di quello svolto da Cristo e neppure alla pari, ma inferiore, di quello svolto dalla Madonna.
Nel corso dei secoli la Chiesa stabilisce o riconosce o ufficializza via via una molteplicità infinita di patroni delle più svariate comunità o associazioni, dalle nazioni, ai popoli, alle città, alle diocesi, alle parrocchie, alle confraternite, alle associazioni laicali o pubbliche, agli istituti religiosi, persino alle forze armate, fino alle famiglie e alle singole persone. Il proprio Santo onomastico è una forma di patrono.
Anche l’Italia ha la sua patrona: S.Caterina. Perché proprio lei? Perché ella, tra tutti i Santi italiani, si è distinta per il suo amore per la Chiesa italiana e per la sua straordinaria e saggia opera di pacificazione e riconciliazione, mediante la predicazione, l’esempio e il sacrificio di se stessa, di varie entità politiche o signorili o comunali, sempre al fine di raccogliere tutte queste entità attorno alla Sede di Pietro.
In che consiste l’italianità di Caterina? Che concetto si era fatto dell’Italia? Che significava allora essere italiani? Che cosa era l’Italia per lei e la cultura del suo tempo? A parte il fatto scontato, come usava da tempo antichissimo, di chiamare «Italia» la penisola a forma di stivale, che si affaccia sul Mar Mediterraneo, tutti non avevano difficoltà a vedere l’unità d’Italia in alcuni dati sociologici evidenti, ossia nella lingua, nella religione e nell’etnia comune, salvo lievi differenze, in quanto entità nazionale, avente le sue nobili radici storiche nell’Impero Romano e nella millenaria presenza in lei della Sede di Pietro.
Nel contempo ci si rendeva ben conto della varietà delle storie, dei dialetti, dei caratteri umani, degli usi, dei costumi e delle tradizioni locali, cosa che però era tutto sommato una ricchezza, che non comprometteva l’unità di fondo. Problema più difficile a quei tempi era quello di comprendere l’identità dell’Italia: in cosa i popoli e nazioni si distinguono gli uni dagli altri, quali sono i loro propri e peculiari pregi e  difetti? Si tratta di quella che solitamente si chiama «coscienza nazionale».
La prima nazione a formarsi questa autocoscienza, in modo anche eccessivo, sembra essere stata la Francia di Filippo il Bello, proprio nel momento in cui Papa Bonifacio VIII affermava con estremo rigore e una certa albagia la supremazia del Papa su tutte le nazioni cristiane, cioè su tutta Europa. Questa era pure la convinzione di Caterina.
Occorrerà l’‘800 perché si diffondano in Europa un forte interesse e una vasta speculazione storico-sociologica su quella che è l’indole propria di ciascun popolo europeo. Questa presa di coscienza ai tempi di Caterina non esisteva ancora, né in lei né nei suoi contemporanei. La sua italianità è certo rilevabile, emerge, ma ella non ne era consapevole. La vive inconsciamente.
Anche un Dante o un Petrarca, che pure sentono il tema dell’Italia, non pensano a mettere in luce la sua peculiarità culturale, ma si limitano a collegarla alle sue antiche e gloriose radici classiche e romane. Meno che mai, poi, pensano ad un’unità politica, come invece si comincerà a fare dai primi decenni dell’ ‘800. Sulla stessa linea è Caterina.
La presenza dello Stato della Chiesa, che, occupando un terzo dell’Italia, la divideva in due, impediva allora a chiunque, compresa quindi anche Caterina, di concepire qualunque anche vago progetto di unità politica nazionale, il che non vuol dire che non si sapesse che lo Stato della Chiesa non era per nulla una struttura essenziale della Chiesa. Dante, però, accennando alla famosa creduta donazione di Costantino, uscì nel famoso lamento: «Ahi, di quanto mal fu causa!». In Caterina certamente non c’è nessun riferimento a Costantino, e tuttavia ella era molto zelante nell’esortare gli ecclesiastici a guardarsi dall’avarizia e dalla sete di potere.
La vita politica ai tempi di Caterina

Oggi il contributo che il politico cattolico dà all’edificazione del bene comune temporale si ispira alla dottrina sociale della Chiesa, che ai tempi di Caterina non esisteva ancora. Fonte di ispirazione, allora, erano le vicende narrate dalla Sacra Scrittura, i Proverbi biblici, il Nuovo Testamento, gli insegnamenti dei Santi e dei profeti.
Ma il magistero pontificio non si occupava ancora dell’argomento, limitandosi a evidenziare la differenza tra il ruolo del Papa e quello dell’Imperatore, col sottolineare il primato dello spirituale sul temporale e il diritto-dovere dell’autorità ecclesiastica, in casi particolarmente importanti, di evidenziare, basandosi sul Vangelo, ciò che l’etica politica e la legge naturale richiedono per la salvaguardia della dignità della persona umana, delle esigenze della giustizia e del bene comune.
I Papi non si curavano, allora, di determinare i doveri  e diritti del popolo e dei cittadini nella gestione dello Stato, che non fossero il dovere della loro obbedienza ai governanti e il diritto dei sudditi di essere garantiti, soddisfatti e protetti dal sovrano nei loro legittimi interessi. Ma il popolo non era il protagonista della vita politica, come avverrà nelle democrazie moderne, a partire dal sec.XVIII. Il protagonista sono il sovrano, aiutato dalla classe nobiliare, sovrano «per grazia di Dio», e per l’investitura feudale del Sommo Pontefice, che, come si era espresso Bonifacio VIII, impugna le «due spade», mentre erano facoltà e compito del sovrano concedere e riconoscere i titoli nobiliari. Questo era il clima storico-politico, nel quale visse Caterina.
Inoltre, non c’era il problema odierno di come collaborare con i non-credenti, perché la società civile, totalmente cattolica,  era sotto il controllo della Chiesa. Per cui, la correzione del cattivo costume politico o il rimedio alle ingiustizie, venivano fatti o dai Papi o dai sovrani temporali o dai profeti sempre in riferimento a criteri ispirati alla dottrina cattolica o al Vangelo.
Nel nome della SS.Trinità era formalmente ed esplicitamente svolta anche la politica ufficiale, erano conferite le cariche pubbliche ed erano sottoscritti gli accordi, i patti e le convenzioni persino economici. Ciò può farci capire la disinvoltura con la quale Caterina, rivolgendosi a sovrani e governanti, anche a proposito di guerre, affari e scontri politici, atti criminosi, economia, commercio o condanne a morte sempre mette in campo la SS.Trinità.
Invece, come è noto, ai tempi di Caterina, l’opposizione tra guelfi e ghibellini non metteva in gioco l’opposizione fra cattolico e non-cattolico, perché tutti erano cattolici, ma il contrasto tra Papato ed Impero, caratterizzato da un’incresciosa ed estenuante competizione a causa delle mire temporalesche del Papa, che era addirittura a capo di uno Stato tra i più importanti d’Europa, e un Imperatore, che, per quanto cattolico, faceva sempre fatica a capire che lo spirituale dev’essere al sopra del temporale, e la politica non deve comandare sulla religione. Caterina, pur senza entrare nel merito di questa enorme questione, distingue assai bene il compito del sacerdote da quello del governante laico o del politico.
La maternità spirituale e profetica di Caterina nel campo della politica
Una qualità propria della donna è quella di impostare l’attività politica sul modello della vita familiare, per la quale essa ha più propensione dell’uomo, mentre questi è più portato a svolgere l’attività politica sulla base di un ideale politico. Ne nasce la conseguenza che la donna sa impostare l’attività politica con un tono di familiarità e di maggior dolcezza, senso della concretezza delle persone e delle situazioni, che smussa le spigolosità e le durezze, e riempie di contenuto l’astratto, più proprio del pensare maschile.
La donna è madre ed ha il tatto e la morbidezza della madre, anche quando, in possesso di una carica o di un ufficio, si rivolge ai colleghi politici o parlamentari. Alcuni decenni fa, nella Sala Paolo VI in Vaticano, presenti 700 Vescovi focolarini di vari paesi del mondo, ebbi modo di verificare in modo eccezionale il valore di questo carisma femminile nell’ascoltare la parola infiammata di una delle donne del nostro tempo maggior dotata del linguaggio della sapienza, Chiara Lubić,  coscientemente discepola di Caterina. Chiara ebbe un’espressione che non compare negli scritti di Caterina, ma che rispecchia perfettamente la sua spiritualità: parlò della necessità per il cristiano di essere un’«anima-Chiesa».
La donna, nei suoi interessi e nei suoi messaggi, sa oltrepassare benissimo l’ambito della famiglia e spaziare negli ambiti più vasti dello spirito, fino a possedere, come Caterina, e come la Lubić, il dono della profezia. Ma anche in queste circostanze non dimentica mai il suo essere madre, giacchè, come ebbe a dire S.Giovanni Paolo II, essa è «madre dell’uomo».
Se tutto questo è vero, non si può far a meno tuttavia di restar stupiti di come una giovane popolana senza istruzione e senza nobili natali abbia potuto, nello spazio di pochissimi anni, conquistarsi tanta fama, stima e addirittura venerazione presso ogni ceto sociale, laico ed ecclesiastico, fino ad ottenere fiducia e prestigio addirittura presso il Papa, soprattutto se teniamo presente in quale bassa considerazione era tenuta la donna nel sec.XIV, oltre tutto una povera popolana.
Si ben comprende allora come Caterina sia stata anche oggetto di disprezzo, di scandalo, di insulti e di calunnie da parte di coloro, anche ecclesiastici, che, corrotti ed infedeli al loro dovere, si sentivano punti dai forti richiami della Santa, la quale non faceva nomi, ma si sarebbe potuto capire benissimo a chi si riferiva. Finissima intuizione politica, che non si limita alle prediche in astratto, ma colpisce i mali concreti, pur nel rispetto delle persone.
Asse portante della sua azione politica è la congiunzione della giustizia con la misericordia. Non si tratta di una semplice politica laica, che insiste nell’applicazione della  legge o nel far applicare la legge; ma è una politica cattolica, nella quale la misericordia va oltre le esigenze della giustizia, dove  la giustizia non giunge.
Abilissima è Caterina nel dosare ora la giustizia, ora la misericordia. Ella esorta insistentemente i pastori ad adempiere da una parte al dovere della misericordia verso i miseri, ma d’altra parte a far prontamente ed energicamente giustizia contro i malfattori, altrimenti questi, fatti spavaldi per essere rimasti impuniti, peccano di più. Impossibile, d’altra parte, fare misericordia agli oppressi, se non si puniscono gli oppressori. Questi non possono sperare di farla franca col pretesto che Dio perdona. Infatti, il voler fare i furbi con Dio non ha altro risultato che accrescere il fuoco dell’ira divina.  
Quello che altresì stupisce ed è estremamente edificante in Caterina, nel campo della sua predicazione e comportamento pratico, è come ella sa far scendere la dottrina sociale, la sua parola e la sua passione per la giustizia e per la pace, la sua preoccupazione per il bene comune, il suo amore per l’Italia e per le patrie tradizioni, insomma la sua azione civile e politica, dai vertici della sua contemplazione mistica.
In Caterina, tutta l’azione morale e quindi anche quella politica, nasce dall’«ardentissima carità», carità che va innanzitutto verso Dio, amato in sè e per sé e non per nostro vantaggio («Dio in sé e non Dio-per-te»), anche se è nel nostro sommo interesse amare Dio, perché è il nostro Salvatore.
La Santa Senese manifesta la sua maternità politica, oltre che nei viaggi, anche nelle numerose Lettere inviate a Re, sovrani, governanti e Signori di città. Stupisce il piglio deciso e a volte sbrigativo, ma sempre sostanzioso e ragionato, delle sue esortazioni, dei suoi avvertimenti e dei suoi rimproveri; e stupisce altresì come ella trovi ascolto nei suoi lettori, segno che ella, con straordinario intuito, soprannaturale saggezza e rara efficacia, sa dire a ciascuno la parola giusta nel momento giusto.
Le Lettere nascono certamente anzitutto dalla sapienza e dalla prudenza di Caterina, dal suo cuore materno, da ispirazioni celesti, ma nel contempo da  un intenso rapporto sociale. Dunque congiunzione di intensa vita spirituale, addirittura mistica, con un’enorme capacità di relazioni sociali e di comunicazione umana. Questa è la politica di Caterina.
Ma, oltre a ciò, Caterina è ben lontana da quel Dio tutto ripiegato sull’uomo, sotto il pretesto della misericordia divina, Dio che sarà concepito due secoli dopo da Lutero, per cui pare che Egli non sarebbe Dio, se non si occupasse dell’uomo, il che compromette la libertà dell’opera creatrice divina, mentre tende a fare dell’uomo, col pretesto dell’Incarnazione, una specie di componente essenziale della natura divina.
L’amore cateriniano per il prossimo e per la Chiesa, e quindi la carità sociale e politica, non è dunque l’amore per eccellenza, ma, per quanto prezioso e necessario alla salvezza, non è il primo, ma il secondo dei comandamenti, perchè sgorga dal primo, cioè dall’amore di Dio, da esso è motivato e per esso si giustifica, di esso è la prova e segno tangibile.  Se parte da Dio, conduce a Dio.
 Quindi è chiaro che per la Senese non vale il principio che si sente enunciare qua e là, secondo cui «la politica è la forma più alta della carità», per quanto tale principio sembri nobilitare la politica; ma esso è ingannevole, perché per esso si esagera nella stima per la politica, come se essa fosse il bene supremo dell’uomo, si fa della politica un idolo, che prepara l’avvento dei regimi totalitari. È chiaro che l’azione politica cristiana è animata e regolata dalla carità, non però nel senso di amare la società come se fosse Dio, ma in quanto il politico cattolico si dedica al bene comune, anche a rischio di grandi sacrifici e della stessa vita, per amore di Dio. Questo è lo stile di Caterina.
Un segno impressionante dell’ascendente che Caterina aveva saputo conquistarsi sul prossimo, era l’aver formato quella che ella chiamava l’«allegra brigata», un gruppo di seguaci entusiasti, soprattutto giovani, uomini e donne, in parte provenienti dalla fraternita domenicana delle Mantellate, alla quale ella apparteneva.
Questo gruppo di persone, oltre a fornire a Caterina un aiuto materiale e logistico, funzionavano come la segreteria di un partito politico, del quale Caterina era il dirigente e capo indiscusso. Raccolta di informazioni, collaboratori nella decisione delle lettere da scrivere, sostegno a Caterina in situazioni difficili, relazioni con autorità civili ed ecclesiastiche, difesa da accuse e  malignità, consiglieri nelle mosse da fare, avvisi di pericoli da evitare, conforto dell’amicizia e della devozione, esecuzione di ordini, inviati o ambasciatori di  Caterina, latori di messaggi, spiegazione dei medesimi al prossimo.
Il nostro pensiero va qui allo stesso Gesù Cristo, il quale, nei suoi spostamenti, era accompagnato dagli apostoli e da un gruppo di donne, che li assistevano. Caterina ha la netta consapevolezza, tipica della spiritualità domenicana, che la predicazione del Vangelo e la promozione della sua applicazione nel sociale, per essere credibile ed avere incidenza nella gente, dev’essere collettiva e comunitaria.
Che cosa avrebbe da insegnare Caterina oggi alla cattolicità italiana? Di farsi visibile e coraggiosa latrice e testimone del lievito evangelico nelle vicende e nelle problematiche della società e della Chiesa italiana. A differenza dei tempi della Senese, nei quali tutti erano cattolici e il coraggio consisteva semplicemente in un dovere di coerenza con la propria fede, oggi che viviamo in una società scristianizzata e secolarizzata, occorre che, imitando il coraggio di Caterina, la cattolicità – e questo è compito soprattutto dei laici – sia professata e visibile non solo negli ambienti della Chiesa, ma anche in quelli dello Stato, della politica, dell’economia, della cultura, della scienza e dell’arte.
La figura del cattolico mascherato o in mentite vesti o in incognito, cara al secolarismo degli anni ‘70-primi ‘80, dovrebbe ormai esser considerata superata, a meno che la testimonianza cattolica non voglia sparire e nascondersi, quasi vergognosa, nell’anonimato di una laicità onnipervadente, sincretista ed indifferenziata.
Se in una città come quelle svizzere, piene di banche, è quasi inutile segnalare dov’è la banca, mentre in un villaggio sperduto dello Zambia, dove la povertà è di casa, l’unico ufficio bancario deve chiaramente segnalato sul frontone d’ingresso della banca, Così sono convinto che se Caterina vivesse oggi, esorterebbe i cattolici a farsi vedere tra le formazioni parlamentari, in modo che non si dica quel che si dice dell’araba fenice, che tutti sanno che ci sia, ma dove sia nessun lo dice.

P.Giovanni Cavalcoli, OP    
Varazze, 30 gennaio 2019  

Conferenza tenuta nella cappella di Santa Caterina da Siena in Varazze (Savona) il 14 Febbraio 2019.


[1] Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1998, vol.III.

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