Santa Caterina di Massimo Roncoroni

Santa Caterina di Massimo Roncoroni 

In sintonia con Caterina

L’illustre filosofo e teologo Massimo Roncoroni, Laico Domenicano, ha scritto uno studio bello, utile, dotto ed ampio, ancora inedito, dedicato alla spiritualità e alla personalità di Santa Caterina da Siena: «Intelletto d’amore e Caterina da Siena». Richiestomi dal caro Amico Massimo, Fra Tommaso nella Famiglia Domenicana, ben volentieri ne faccio una recensione, accompagnata dall’aggiunta di altre mie considerazioni, essendo anch’io da quarant’anni un appassionato studioso e devoto della grande Santa Senese.

Roncoroni focalizza l’attenzione, come recita il titolo stesso del suo studio, attorno al grande tema dell’intelletto d’amore, ossia l’intelletto amante, mosso dall’amore, indirizzato ad amare, illuminato dall’amore, sfociante nell’amore. È per eccellenza l’intelletto cristiano, nel quale, osserva l’Autore, l’intelletto è strettamente unito alla volontà, la carità è sposata alla verità, le parole alle opere, la contemplazione all’azione[1], il pensiero alla vita.

Roncoroni intende giustamente il concetto di «intelletto d’amore» come sorgente intellettuale fondamentale della dottrina cateriniana, per cui si ferma con molta attenzione a precisarne e chiarirne il significato con un opportuno rimando a Dante Alighieri. Intelletto d’amore vuol dire giudicare con amore e per amore, dovere assoluto di ogni cristiano, il quale basa la sua spiritualità – e Roncoroni fa bene ad insistervi – sulla sintesi di verità e carità.

L’Autore fa bene ad insistere sul cristocentrismo cateriniano, che tuttavia conduce al Padre nello Spirito Santo, quindi la spiritualità fortemente trinitaria di Caterina. Nel Dialogo è il Padre che parla a Caterina, mostrandole la via in salita per giungere all’unione sponsale col Figlio, col Quale mantiene un intimo e continuo contatto, iniziato con la visione mistica della fanciullezza, contatto fatto soprattutto di partecipazione alla sua Croce redentrice. Da buona Domenicana Caterina vede Cristo nella luce del Verbo, del Logos, per cui evoca la missione del Santo Padre Domenico, che «prese l’ufficio del Verbo».

Ma il Padre resta al di sopra di tutto nell’esercizio della sua Provvidenza. Riassume bene qui l’Autore il pensiero cateriniano:

«Da Dio, fondamento razionale assoluto, creatore di tutto ciò che riceve da lui l'atto di esistere, compresa l'anima spirituale a Lui anelante, proviene la manifestazione della presenza, sempre più universale nel cosmo e nella storia e, massimamente, nell'anima intellettiva e spirituale umana, della divina Provvidenza: segno del suo amore di Padre, per ogni creatura in genere e per la persona umana in specie».

Roncoroni fa convergere giustamente tutta la produzione letteraria di Caterina verso il Dialogo, composto nel 1378, due anni prima della morte, opera che si potrebbe chiamare la «Summa» della Santa Senese, il riassunto finale di tutto il suo cammino spirituale e di tutta la sua ispirata sapienza, che, come dice giustamente Roncoroni, le ha meritato il titolo di Dottore della Chiesa.

Non posso fare a meno di riportare qui, come ha fatto Roncoroni, il Proemio dell’Opera. In esso infatti la Santa ci dà in anticipo, con mirabile sintesi, uno squarcio su tutto il contenuto e gli intenti dell’Opera:

«Levandosi una anima ansietata di grandissimo desiderio verso l'onore di Dio e salute delle anime, esercitandosi per alcuno spazio di tempo nella virtù, abituata e abitata nella cella del cognoscimento di sé, per meglio cognoscere la bontà di Dio in sé, perché al cognoscimento seguita l'amore, amando cerca di seguitare e vestirsi della verità.

E perché in veruno modo gusta tanto ed è alluminata d'essa verità quanto col mezzo dell'orazione umile e continua, fondata nel cognoscimento di sé e di Dio, però che l'orazione, esercitandola per lo modo detto, unisce l'anima in Dio seguitando le vestigie di Cristo crocifisso, e così per desiderio, affetto e unione d'amore ne fa un'altro sé. Questo parve che dicesse Cristo quando disse: “Chi m'amerà e serverà la parola mia, Io manifesterò me medesimo a lui, e sarà una cosa con meco e Io con lui”; e in più luoghi troviamo simili parole, per le quali potiamo vedere che egli è la verità che per affetto d'amore l'anima diventa un altro lui e per vederlo più chiaramente.

Ricordomi d'aver udito da alcuna serva di Dio che essendo in orazione levata con grande elevazione di mente, Dio non nascondeva all'occhio dello intelletto suo l'amore che aveva a' servi suoi, anco el manifestava, e tra l'altre cose diceva: - Apri l'occhio dello intelletto e mira in me, e vedrai la dignità e bellezza della mia creatura ch'à in sè ragione. E tra la bellezza che Io ò data all'anima creandola alla immagine e similitudine mia, raguarda costoro che son vestiti del vestimento nuziale della carità, adornato di molte vere virtù: uniti sono con meco per amore. E però ti dico che se tu dimandassi me chi son costoro, risponderei –  diceva el dolce e amoroso Verbo –  sono un altro me; perché ànno perduta e annegata la volontà loro propria, e vestitisi e unitisi e conformatisi con la mia - . 

Bene è dunque vero che l'anima s'unisce in Dio per affetto d'amore. Sì che volendo più virilmente cognoscere e seguitare la verità, levando el desiderio suo prima per se medesima, considerando che l'anima non può fare vera utilità di dottrina, d'esemplo e d'orazione al prossimo suo se prima non fa utilità a sé cioé d'avere e acquistare la virtù in sé, domandava al sommo ed eterno Padre quattro petizioni.

La prima era per sé medesima. La seconda per la refomazione della santa Chiesa. La terza generale per tutto quanto el mondo, e singularmente per la pace de’ cristiani, e quali sono ribelli con molta irriverenza e persecuzione alla santa Chiesa. Nella quarta dimandava la divina Provvidenza che provvedesse in comune ed in particulare in alcuno caso che era adivenuto”.

Il fulcro della spiritualità cateriniana

Qui noi vediamo che sulla base dell’intelletto d’amore il fulcro della spiritualità cateriniana è il rapporto interpersonale di Caterina con Dio. Caterina ci ricorda che il destino di ognuno di noi si risolve nella scelta che facciamo tra la nostra volontà e quella di Dio. È l’alternativa tra quello che Caterina chiama agostinianamente «amore di sè»[2] e amore di Dio, riecheggiante l’agostiniano amor sui usque ad contemptum Dei, che si oppone all’amor Dei usque ad contemptum sui. In tal senso la dottrina cateriniana è una dottrina dell’amore[3], notoriamente concetto-chiave della spiritualità femminile.

Ciò suppone l’opposizione fra il «conoscimento di sé» e il conoscimento di Dio. Il che comporta a sua volta l’ascolto di Caterina di quanto le dice Dio: «sappi che Io Sono, mentre te per te non essere», cioè tu non esisti da te stessa e in forza di te stessa, ma perchè sono Io che ti faccio essere avendoti creata dal nulla. Tu da te stessa sei nulla. Sicchè tutto quello che sei, e sei a mia immagine e somiglianza, lo sei da Me.

Roncoroni fa bene a restare perplesso davanti alla difficoltà di Von Balthasar di accostare Caterina a S.Tommaso, un rapporto che invece, come riferisce lo stesso Autore, il Garrigou-Lagrange ha ben visto nella capacità della Senese di cogliere la peculiarità dell’esse tomistico, che del resto non è altro che quella nozione dell’essere che è implicita nel passo di Es 3,14, dove Jahvè rivela il suo Nome[4]. Ora, l’attitudine a riconoscere questo proprio esser nulla originario e che tutto quello che siamo, lo siamo da Dio, è per Caterina la virtù dell’umiltà, che lei chiama la «virtù piccola», non perché conti poco, ma perché rende «piccoli» davanti a Dio, è quell’infanzia evangelica alla quale è promesso il regno dei cieli, disponibilità all’ascolto, all’accoglienza della realtà così com’è, disponibilità all’obbedienza. È la virtù del realismo biblico e gnoseologico. Per questo per Caterina l’umiltà è obbedienza e l’obbedienza è umiltà. Chi è umile è obbediente e chi è obbediente è umile.

L’umiltà quindi, è la virtù fondamentale, la virtù-base, la condizione di possibilità di tutte le altre virtù, al vertice delle quali c’è la carità. Per questo Caterina ripete più volte che «l’umiltà è il buon terreno sul quale cresce l’arbore della carità». Viceversa l’orgoglio, l’«amor proprio» conduce all’odio e alla perdizione. Tuttavia Caterina non esclude che esista un sano amor di sé, corrispondente a come Dio vuole che amiamo noi stessi.

Dall’umiltà, che è apertura e obbedienza alla verità, scaturisce la fede. Così Roncoroni riassume la concezione cateriniana della fede:

«In tale immersione nella Luce d'Amore della propria origine, l'occhio dell'intelletto umano, illuminato dalla pupilla della fede in Cristo, può guardare nella profondità delle cose da credere, per riuscire a vederle come sostanza delle cose da sperare e argomento, “incontrovertibile”, di quelle, che non appaiono ancora nella loro luminosa pienezza di Gloria (Kabod).

Materia e forma di tale insegnamento - o dogmatica -  sono racchiuse in quell'unità ontologica e metafisica, ricca di misteriosa intelligibilità, la quale è degno Soggetto di ossequio razionale e ragionevole da parte dell'anima umana: affidabile fondamento, che tutto in sé comprende, nella Luce intellettuale dell'amore infinito del Padre». 

È ovvio altresì che la duplice conoscenza fondamentale del sé e di Dio mette in gioco l’intelletto d’amore – tema centrale dello studio di Roncoroni -, in quanto Dio e l’io sono oggetto dell’intelletto amante. Ma resta che per Caterina l’intelletto deve sfociare nell’amore, dove il primo amato dev’essere Dio. Da questo sommo e primo amore discende poi l’amore del prossimo. Ed è – come molte volte ripete Caterina riecheggiando San Giovanni – amando il prossimo che diamo prova di amare Dio.

La spiritualità cateriniana ha certo un timbro domenicano e possiamo dire addirittura metafisico-tomista – checché ne pensi il Von Balthasar -, ma non solo domenicano, bensì anche quello di altri Ordini religiosi. Essa, estremamente recettiva ed intelligentissima, nella sua insaziabile sete di imparare, in ciò domenicanissima, frequentando Religiosi di diversi Ordini, sapeva intuire ed assorbire il meglio e il proprio del carisma di ciascuno di essi, che si trattasse di Agostiniani, di Francescani, di Cistercensi, di Vallombrosani, di Olivetani, di Benedettini, di Certosini, di Carmelitani, di eremiti.  

Caterina era favorita in ciò dalla Chiesa del suo tempo, unita nella professione dell’unica fede, ma variegata dalla diversità delle Famiglie religiose, ognuna delle quali, senza strombazzare alcun «pluralismo» fasullo,  come facciamo oggi, in pratica era ben conscia e gelosa del proprio carisma, a differenza della Chiesa di oggi, dove non c’è più la fede, ma le «fedi», l’una in contrasto con l’altra, una Chiesa nella quale i cattolici sono mescolati agli eretici, i contemplativi fanno i parroci, i parroci insegnano teologia, i teologi fanno gli operatori sociali, gli operatori sociali fanno i teologi, i politici e i giornalisti si atteggiano a riformatori della Chiesa, i laici dettano legge ai preti e al Papa; i preti vogliono fare i laici. Il tutto in un clima di «dialogo» e «pluralismo» che coincidono col politeismo e il mercato delle pulci.

Fa bene pertanto Roncoroni ad accostare la spiritualità cateriniana a quella francescana[5] con riferimento al fatto che la Senese fu stigmatizzata come il Poverello d’Assisi. Francescana è la stessa riproduzione esistenziale di Cristo uomo-Dio mite vittima di pace e di amore, mentre la spiritualità domenicana vede il Cristo soprattutto come Verbo redentore fatto uomo.

Il primato dell’amore di Dio

Ma Caterina si guarda bene dall’insidia oggi frequente di risolvere la carità nell’amore del prossimo, dimenticando il primato dell’amore di Dio. La regola, allora dell’amore non è più la volontà di Dio, ma la volontà del prossimo, per cui, per accontentare questo, si è pronti a trascurare la volontà di Dio, come se il vero amore per il prossimo non fosse l’amarlo come Dio vuole che sia amato ed ottenere che egli faccia la volontà di Dio.

L’influsso del tomismo nel campo delle relazioni sociali si rivela in Caterina nel suo grande senso di umanità e stima per la dignità della persona umana, in special modo nella sua alta stima per l’intelletto e virtù annesse, come la scienza, la sapienza e la prudenza, il suo rispetto per la ragione, il libero arbitrio e la legge morale naturale, che guidano l’uomo nella sua condotta personale, regolata dalla prudenza, dalla fortezza e dalla temperanza, e nella sua condotta sociale, regolata dalla giustizia. Netta, nel contempo, è la consapevolezza del superiore valore delle tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, perfezionate dai doni dello Spirito Santo. 

L’apertura che Caterina aveva verso il bene del prossimo – il senso di universale fratellanza, direbbe Papa Francesco – la rendeva sensibile non solo al bene dei singoli o dei gruppi, ma anche al bene comune della società e della Chiesa. Essa avverte chiaramente di essere investita da Dio, a somiglianza dei profeti, di una grandiosa missione storica[6] consistente nell’offrirsi, nell’operare e soffrire per la riforma della Chiesa, che essa intendeva come recupero della sua autentica missione di evangelizzatrice, umanizzatrice, santificatrice, strumento universale di salvezza. Fu così che Caterina generò un movimento di riforma anzitutto nella Famiglia Domenicana, movimento che dette copiosi frutti di santità per tutto il Quattrocento, fino al Savonarola e oltre, potremmo dire fino alla Riforma Tridentina.

Caterina ha inoltre una netta sensibilità politica in quel senso nobile ed evangelico che il Papa ha illustrato e raccomandato nell’enciclica Fratelli tutti. Per questo Pio XII la nominò Patrona d’Italia[7] e S.Giovanni Paolo II Patrona d’Europa[8]. E questa sensibilità sociale la apriva spontaneamente, alla luce della sua fede, al senso della comunione ecclesiale, passando con tutta naturalezza dalla pratica della fratellanza umana a quella della fratellanza cristiana. Al riguardo, c’ è stato chi ha parlato, per Caterina, di attitudine a quello che oggi chiamiamo «ecumenismo».

Ebbene, se da una parte non possiamo sorvolare sul fatto che anche Caterina, come del resto tutti Santi, è e resta una donna del suo tempo, che predicava la crociata contro i musulmani e non metteva in discussione la pena di morte contro gli eretici, non possiamo non notare in lei un senso di umanità, che la rende capace di vedere un barlume di bontà anche nel malfattore, nello scismatico e nell’eretico. È vero che essa chiama «demòni incarnati» i Cardinali seguaci dell’antipapa, ma solo perchè li considera responsabili, mentre essa è pronta ad un’immensa compassione per coloro che sono vittime dell’errore senza saperlo.

La consapevolezza dei suddetti due piani dell’agire umano, naturale e soprannaturale, fonda a sua volta la chiara distinzione, in Caterina, da una parte tra il piano dell’agire naturale, fondato in ragione, con i suoi ambiti propri delle relazioni umane, della famiglia, dell’amicizia, della giustizia sociale e politica, del bene comune e dello Stato, e dall’altra dell’azione cristiana ecclesiale, fondata sulla fede e sulla carità.

Nel dedicarsi agli altri Caterina mira sempre ad indicar loro la via del Vangelo; non li accontenta in un modo qualunque, ma sempre offrendo loro quel bene che è conforme alla legge divina e senza temere di scontentarli se le chiedono qualcosa che non sia secondo Dio, perché non sarebbe il loro vero bene. È esigente con chi può farcela, pietosa e comprensiva con chi non ce la fa. Disposta sempre ad obbedire ai prelati, ma non risparmia richiami anche severi verso quelli che non correggono i sudditi o per opportunismo o perché commettono i loro stessi peccati.

A servizio della Chiesa e del Papa

Caterina ha vivissimo il senso della sua appartenenza alla Chiesa. Con la psicologia propria della donna, essa non ha alcuna difficoltà a concepire la Chiesa come una famiglia allargata, dove il padre di famiglia è la Santissima Trinità, ossia il Padre celeste, che la guida per mezzo del Figlio Gesù Cristo, nella potenza e nell’amore dello Spirito, creatore della comunione ecclesiale. Caterina sa bene che Cristo ha affidato a Pietro la custodia dell’unità e della comunione ecclesiale, - «pasci i miei agnelli» -, le chiavi del regno dei cieli e il potere infallibile di confermare i fratelli nella fede.

Vedendo dunque nel Papa il Vicario di Cristo, Caterina, in forza del suo ardente amore per Cristo, e del suo essere domenicana, che le fa sentire uno speciale vincolo di obbedienza, riverenza ed amore per il Papa, sente il suo rapporto col Papa al centro della sua spiritualità ed un estremo bisogno di condividere, nel suo piccolo – che poi piccolo non è – non tanto la gloria dell’ufficio petrino di Maestro della Fede – Caterina sa che qui non ha che da obbedire – quanto piuttosto il peso della sua croce, che è la croce di Cristo.

Nello stesso tempo Caterina sa bene che anche il Papa è un peccatore come gli altri e forse a volte più di altri. Per questo essa, pur con ogni prudenza e rispetto per il loro alto ufficio, sa rivolgere anche ai Papi utili esortazioni e persino rimproveri affinchè sappiano compiere bene il loro ministero[9].   

Pertanto Caterina è una perfetta maestra in questa difficilissima arte di saperci condurre col Papa, conoscendo – difficile sapere come e da chi ha imparato - quali sono l’autorità, le facoltà, i compiti e i poteri del Papa, in accordo con la spiritualità domenicana, nata nel Santo Padre Domenico all’ombra del Papa, sotto la protezione, con la garanzia e l’avallo del Papa, col desiderio di essergli di aiuto, al comando e al servizio del Papa. Caterina non sa separare il Papa dalla Chiesa e la Chiesa dal Papa: non vede il Papa se non al servizio della Chiesa e la Chiesa se non guidata dal Papa. Dove c’è la Chiesa, lì c’è il Papa e dove c’è il Papa lì c’è la Chiesa.

E questa era l’impostazione di San Domenico: non gl’interessava il Papa come singola persona, quasi per adularne il potere, come fanno oggi i modernisti, ma gli interessava il Papa in quanto pastore della Chiesa. Gli interessava la Chiesa. E pure si guardava bene dall’opporre la Chiesa al Papa, come fanno tutti gli eretici, come se la Chiesa dovesse correggere il Papa. Se Lutero avesse imparato da Caterina come ci si atteggia nei confronti del Papa, sarebbe stato un vero riformatore e non avrebbe combinato tutti i guai che ha combinato.

Questa conoscenza e questo amore per il Papa, quale che sia, degno o indegno non importa, è ciò che permette a Caterina di sapersi condurre e destreggiare con tanta disinvoltura e con sommo rispetto per il «dolce Cristo un terra», tanto da poter attirare su di sé l’attenzione del Papa e da saper suscitare in lui tanta fiducia e ascolto, così da sapergli dare ottimi consigli, suggerimenti morali e sagge indicazioni pratiche, come avrebbe potuto fare un Cardinale o stretto collaboratore della massima fiducia.

Il modo o metodo o criterio col quale Caterina giudica un Papa e si relaziona con lui in fondo è molto semplice e di buon senso. Esso si basa sul distinguere nel Papa il Vicario di Cristo, maestro della fede, del quale ha il massimo rispetto, dall’uomo fragile e peccatore, che può avere una cattiva condotta morale e governare male la Chiesa. Caterina non contesta mai il Papa dal punto di vista dottrinale, però sa che anche un laico può richiamare il Papa a fare il suo dovere di buon pastore, promovendo e premiando i buoni e castigando i corrotti e gli eretici. Essa da questo punto di vista critica il Papa con franchezza ma anche con spirito filiale e di collaborazione, suggerendo rimedi e soluzioni, apprezzando i suoi lati positivi e facendo leva su di essi per esortarlo ad essere buon padre di tutti.

Per questo, come restiamo stupìti per la straordinaria saggezza di Caterina nel sapersi condurre col Papa, così restiamo stupìti nel constatare l’acuta percezione e la preoccupazione a volte spasmodica, tutta femminile, come una donna ha per la sua famiglia, che Caterina prova, sino a perdere la salute, per la situazione e i problemi della Chiesa e della società del suo tempo.

Caterina fu fautrice di pace e di riconciliazione, consigliera mirabile, consolatrice degli afflitti, ammonitrice dei peccatori, guida morale, trasfomatrice dei cuori, maestra di sapienza e di giustizia, suscitatrice di entusiasmi per le grandi imprese,  eccitatrice al coraggio e al sacrificio, stimolatrice all’uso dei talenti ricevuti, alla conversione, alla penitenza e alla ricerca di Dio, straordinaria nell’indicare a ciascuno il cammino da seguire, per quanto diverse fossero le persone alle quali si rivolgeva, come fosse il direttore spirituale di ciascuna, attenta al bene dei singoli, conoscenti, amici e familiari, come al bene comune dei singoli ceti, delle corporazioni, degli Ordini religiosi, delle città, dei Comuni, delle Signorie, dei Regni, della Chiesa. Stupisce come e con quanta esattezza fosse a conoscenza dei doveri nella Chiesa, propri ad ogni ceto: dal Papa ai cardinali, ai vescovi, ai teologi, ai sacerdoti, ai religiosi, ai laici; il che le permetteva di dire una parola adatta per ciascuno.

Stupiscono queste straordinarie disinvoltura, socievolezza, prudenza e sensibilità finissima sopratutto in una popolana del sec.XIV. Stupisce inoltre come in una situazione confusa e contradditoria della Chiesa del suo tempo, che presto sarebbe sfociata  in uno scisma, Caterina abbia potuto capire e soffrire tanto a fondo il dramma del suo tempo, ed elaborare soluzioni che avrebbero fatto riflettere governanti, uomini politici, ecclesiastici di vari ceti, sovrani, vescovi,  cardinali e lo stesso Sommo Pontefice.

Caterina si trovò ad avere a che fare con un Papa come Urbano VI, il quale, come è noto, per la sua divisività ed arroganza, dette occasione nientemeno che allo scisma d’Occidente, che si sarebbe estinto solo nel 1415, col Concilio di Costanza. Oggi abbiamo a che fare con un Pontefice, Papa Francesco, la cui condotta non è molto diversa da quella di Urbano VI, benché indubbiamente l’attuale Pontefice abbia maggior rispetto per la diversità delle religioni e delle culture e un maggior senso dell’universalità della fratellanza umana, come è attestato appunto dall’enciclica Fratelli tutti.

Senonchè, però, se Francesco è sensibile a questa fratellanza d’ordine umano, naturale e razionale, che accomuna tutte le religioni monoteistiche, sembra poco attento a risolvere i conflitti interni alla Chiesa, tra fratelli di fede, conflitti fratricidi, vanamente mascherati da un’apparenza di «diversità», di «pluralismo» e di falso dialogo, che non è certo un bell’esempio al mondo dell’amore reciproco che dovrebbe regnare tra i discepoli del Signore.

Caterina è una mistica? 

Roncoroni si domanda se la spiritualità cateriniana ha a che fare con l’esperienza mistica. E si dà a definirla seguendo alcuni Autori. Ma qui non sembra tener conto a sufficienza dell’insegnamento determinante di San Tommaso d’Aquino, limitandosi a rilevare l’aspetto intuitivo dell’esperienza mistica come percezione interiore affettiva e gustosa individuale di un concreto dato o evento della vita interiore di fede.

Tuttavia Tommaso fa presente che anche nell’esperienza mistica, in quanto atto intellettuale, non può mancare né il concetto, né il giudizio, che è la sintesi di due concetti – soggetto e predicato –, con la quale e nella quale noi assentiamo alla verità.

Ora l’intelletto già da solo, anche senza il concorso della volontà e quindi dell’amore, è capace di formare il giudizio, che Tommaso chiama «per modum cognitionis»[10] o «ex inquisitione rationis»[11] o «cognitio pure speculativa»[12]. Esso comporta la pura e semplice adaequatio intellectus et rei. Possiamo chiamarlo giudizio gnoseologico, che, quando è razionalmente fondato o dimostrato, diventa giudizio scientifico, pratico o speculativo.

Ora, però, nell’esperienza mistica interviene sempre il giudizio, che però qui si potrebbe chiamare dantescamente «intelletto d’amore», anche se Tommaso non usa questa espressione, ma si esprime in altro modo, che però fa capire che non è lontano da quello che intende Caterina e che Roncoroni chiama «intelletto d’amore».

Infatti l’Aquinate distingue questo semplice giudizio gnoseologico da un altro tipo di giudizio, che egli chiama «iudicium per modum inclinationis»[13] o «propter connaturalitatem»[14] o «cognitio affectiva»[15]. Altrove si esprime così: «cognitio divinae bonitatis seu voluntatis affectiva seu experimentalis, dum quis experitur un seipso gustum divinae dulcedinis et complacentiam divinae voluntatus»[16]. Altrove parla di una «cognitio veritatis affectiva», che è impedita dalla superbia.

Citando S.Gregorio Magno, S.Tommaso infatti osserva: «i superbi percepiscono col loro intelletto certi misteri (secreta), ma non possono sperimentare la loro dolcezza; e se ne conoscono il vero (quomodo sunt), non ne conoscono il sapore (quomodo sapiunt)». E cita Pro 11,2: «dove è l’umiltà, lì c’è la sapienza». È questo l’intelletto d’amore, che nasce dall’umiltà, la quale apre l’occhio dell’intelletto nell’ardentissima carità. Questo intelletto d’amore, nell’esperienza mistica vera e propria, per San Tommaso è dono della sapienza dello Spirito Santo, altrimenti è semplice effetto dell’esercizio della carità.

L’intelletto d’amore, quindi, intelletto amoroso del concreto, del Tutto nel contingente attuale, - almeno valutando la cosa con criterio tomistico - non è ancora, come sembra credere l’Autore, un’esperienza mistica. Che cosa manca? Occorre – insegna l’Aquinate – che il giudizio di fede, per quanto espresso con carità e per carità, per quanto mirante al concreto, sia ispirato dallo Spirito Santo e precisamente dal dono della sapienza[17].

Tommaso paragona poi l’esperienza mistica a un sentire, ma si tratta di un sentimento spirituale, non di sentire sensibile, così come io sento il caldo o il freddo. E se c’è di mezzo la spirito, c’è di mezzo il concetto, perché, come lo riconosceva lo stesso Hegel, laddove c’è lo spirito, c’è il concetto. È chiaro che se sento il caldo, non ho bisogno del concetto del caldo, dato che anche gli animali sentono il caldo, i quali non formano concetti[18].

Il concetto, nella conoscenza intellettuale, è superfluo solo per conoscere i contenuti di coscienza, ossia non gli oggetti che si trovano fuori dell’anima (res extra animam), ma quegli oggetti che sono nell’anima (res in anima). E questo perché? Perché il concetto serve per rendere l’oggetto esterno – e Dio è fra questi oggetti – adatto al nostro modo intellettuale di conoscere, secondo l’adagio quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur.

Ciò non toglie che possiamo concettualizzare anche i contenuti di coscienza. Per esempio possiamo farci un concetto dell’atto del pensare, ed allora abbiamo la critica della conoscenza; oppure possiamo farci un concetto del concetto o del pensato e allora abbiamo la scienza della logica. Solo nella visione beatifica, come insegna il dogma relativo definito da Benedetto XII nl 1336, la «visione faccia a faccia» (I Cor 13,12), l’intelletto vede Dio immediatamente senza che occorra il concetto, perché l’Essenza divina non è più solo un oggetto esterno alla coscienza, ma diventa anche oggetto di coscienza. Così la fede, che è conoscenza mediante il concetto, scompare ed è sostituita dalla visione diretta.

L’errore dell’idealismo consiste nel ridurre la conoscenza di Dio propria della vita presente, conoscenza mediata dal concetto ricavato dagli effetti creati della causalità divina, ad un semplice dato apriori della coscienza, quando non vien fatto coincidere con la stessa autocoscienza. Il Concilio di Viennes del 1312 condannò i beghini o beguardi, che sostenevano che noi possiamo avere la visione beatifica già nella vita presente (Denz.891-899), Essi erano i precursori di Hegel e di Gentile. Il concetto per loro non è necessario per cogliere un Dio esterno all’anima, perché Dio per sua essenza è già a priori - «già da sempre», dice Rahner - interno o immanente all’anima, pensato, intuìto o sperimentato dall’anima. L’idealismo tedesco nell’800 giungerà poi ad identificare lo spirito umano con lo Spirito Assoluto. È chiaro ce Caterina è lontana le mille miglia da questa visione eretica.

Quanto a Roncoroni, pur non partendo da una definizione tomista dell’esperienza mistica, si domanda se si può parlare di esperienza mistica per Santa Caterina e, dopo alcune pertinenti riflessioni, giunge alla conclusione che, se per esperienza mistica s’intende, come ha già detto, un’esperienza spirituale soggettiva della presenza di grazia di Dio nell’anima, per la quale il mistico non ha parole per esprimere quello che sente o prova, ebbene non si può parlare propriamente, per Caterina, di esperienza mistica.

Ora, dico che anche se l’Autore parte da una definizione non sbagliata ma insufficiente, concordo con lui nel risultato a cui giunge. Caterina non é stata una mistica, ma una profetessa e scrittrice spirituale. Di lei, infatti, sebbene intimissimamente e prodigiosamente unita a Cristo e docile agli impulsi dello Spirito Santo, non si può dire propriamente che sia una mistica, perché non si ritrova in lei l’esigenza, tipica del mistico, di tacere[19], ma, al contrario il bisogno impellente di esprimersi, di parlare, di comunicare e di scrivere. Ora questo è appunto il bisogno del profeta. Il profeta è un predicatore non necessariamente di verità teologiche contemplate, ma anche soprattutto un trasmettitore di quanto Dio ordina agli uomini di fare per la loro salvezza e di quanto Dio rivela circa i fini da raggiungere e le speranze da coltivare o gli eventi da attendere.

Roncoroni mette perfettamente in luce questo aspetto della personalità di Caterina. Essa certamente, dopo la Santa Comunione era capace di passare anche due o tre ore in silenzio e di orazione; aveva una straordinaria capacità di raccoglimento, di riflessione e di meditazione. Ma questo non fa ancora il mistico, perchè il silenzio serve al profeta e al predicatore solo per cercare e per chiarite che cosa deve dire. Famoso è l’effato domenicano silentium pater praedicatorum. Caterina, dunque, come dice giustamente l’Autore, non imposta la sua vita in senso contemplativo, caratteristica, questa, del mistico o del monaco. Infatti, non solo non si è fatta monaca, ma addirittura è restata laica, benché votata alla pratica della verginità per il regno dei cieli.

Il mistico, se parla, parla per dire che ciò che ha sperimentato è così sublime, incomprensibile ed ineffabile, che non ci sono parole, non ci sono aggettivi, non ci sono paragoni, non ci sono analogie, non ci sono metafore, non ci sono simboli, per esprimere quanto ha personalmente e quindi incomunicabilmente sperimentato. Caterina non si esprime mai in questo modo. Essa dice bensì di sentirsi in comunione intima col Mistero di Cristo, ma questa comunione non la lascia affatto senza parola, ma al contrario, per espresso comando di Cristo e desiderio di Caterina, ella si sente in dovere, proprio come tutti i profeti, di comunicare al prossimo quanto udito e compreso nell’ascolto della Parola di Dio.

Non che il mistico non abbia nella sua mente il concetto di Dio e dei suoi attributi di ragione e di fede. Tutt’altro: sono proprio questi concetti, lungamente meditati, che, in quanto rappresentazioni mentali della divina Realtà ardentemente amata, accendono nella mente e nel cuore del mistico lo slancio dell’amore mistico. Quindi l’idea rahneriana dell’esperienza mistica come «esperienza atematica» è il suo abbassamento allo stadio dell’emozione infraumana, perché laddove nel conoscere manca il concetto. non abbiamo l’uomo ma l’animale. Così non concordo col Maritain quando dice che nell’esperienza mistica i concetti «dormono». No! Sono più che mai svegli!

Indubbiamente il mistico si trova davanti alla Tenebra divina e verso di essa si slancia con un’ardentissima carità. San Bonaventura parla di una «Tenebra dove l’occhio assolutamente non vede»[20]. Certo il mistico, come del resto ogni creatura, non può comprendere il divino mistero. Eppure lo stesso Bonaventura parla di «mistiche visioni»[21]. Ma subito dopo invita ad «abbandonare ogni intellegibile cosa»: l’intelletto sembra come inerte, sospeso, inattivo.

Ma se l’intelletto non funziona, la mistica perde il suo carattere intellettuale, cioè umano, perché l’uso dell’intelletto caratterizza l’essere umano. Per questo Caterina ci invita spesso ad «aprire l’occhio dell’intelletto», il che vale anche per il mistico. Anche davanti al Mistero di Dio non c’è mai il buio assoluto, ma c’è sempre qualcosa da vedere. E con che cosa vediamo se non col concetto?

Caterina scrittrice 

Caterina, che non disprezza affatto la contemplazione, pur sapendo bene che essa è una pregustazione, nell’«intelletto d’amore», della beata visione del cielo; e che il carisma domenicano contempla la possibilità della vita contemplativa femminile ovvero della monaca claustrale, ha voluto comunque essere domenicana applicando quell’aspetto per il quale il Domenicano è proiettato verso la predicazione: contemplata aliis tradere. Non solo, ma come nota molto bene Roncoroni, Caterina ha sentito la necessità di scrivere.

Lo scrivere è un atto importante della persona, atto tecnico e morale ad un tempo, col quale la persona esprime e comunica ad altri il proprio pensiero per mezzo di segni visibili, convenzionali e permanenti, i segni del linguaggio, sicché la parola non svanisce col suono della voce che la proferisce, benché essa possa restare impressa nella memoria. Atto tecnico perché è produzione razionale di un’opera: la scrittura o lo scritto. Atto morale perché lo scrivere suppone un fine che può essere buono o cattivo. Un conto è scrivere per edificare e un conto è scrivere per ingannare.

Ma anche la parola col tempo si affievolisce, benché il messaggio contenuto nella parola possa essere trasmesso (tra-ditio) alle generazioni successive. Ma occorre che la tradizione sia fedele. Da una trasmissione indefettibilmente fedele, assistita dallo Spirito Santo, viene la Sacra Tradizionale Apostolica, da San Pietro fino a Papa Francesco. La parola scritta ha una sua permanenza dipendente dal materiale del quale fa uso, ma a sua volta può essere conservata se viene trascritta su altro materiale. Così è nata la Sacra Scrittura.

La Parola di Dio può essere predicata e trasmessa oralmente o può essere messa per iscritto. Così abbiamo la Tradizione e la Scrittura, le due fonti della Rivelazione divina. Cristo non ha scritto e non ha comandato di scrivere, ma di predicare. La parola è più vicina allo Spirito che non la scrittura.

La scrittura manifesta la parola; ma è la parola che interpreta la scrittura: «La lettera uccide, lo spirito dà la vita» (II Cor 3,6). Per questo Lutero sbagliò pensando che la Scrittura sia chiara da sé e non abbia bisogno dell’interpretazione della viva voce dei successori degli apostoli, ossia del Magistero della Chiesa.

Tuttavia ben presto gli apostoli hanno capito l’utilità ed anzi la necessità della scrittura. Dio stesso comanda ai profeti di scrivere (Ger 30,2; 36,2; Ab 2,2; Ap 1, 11.19). E Caterina rivive l’esperienza degli antichi profeti biblici o, se vogliamo, seppur per imitazione, l’esperienza degli Apostoli e degli Evangelisti. Riguardo allo scrivere Roncoroni si ferma a lungo a chiarire il significato artistico, morale ed umano dello scrivere. In particolare, si avvale di specialisti filologi, semiologi, esegeti e critici letterari, come il grande Francesco De Sanctis per interpretare lo stile, il vocabolario e i modi espressivi, soprattutto le metafore del linguaggio cateriniano.

L’ascetica cateriniana

Se Caterina non è una mistica né una contemplativa, non per questo essa col suo intelletto d’amore non fruisce di un’unione mistica e prodigiosa con Cristo suo divino Sposo, dalla quale nasce un «infocato desiderio» di lasciare le miserie di questo mondo per giungere dopo la morte e mediante la morte alla visione beatifica di Dio in cielo, mentre dall’appassionata e commossa contemplazione di Cristo crocifisso, che ha sparso il suo sangue per riscattarci dal peccato, ci risparmia l’ira divina e ci conduce al cielo, nasce in lei, nel pianto per i suoi peccati, un fortissimo moto di corrispondenza a tanto amore ed un’«ardentissima carità» verso Cristo, del quale vuole imitare l’esempio e rivivere la passione – il grande tema del «sangue» – e per conseguenza verso la Chiesa, verso quel prossimo e verso quei peccatori, per i quali Cristo ha versato il suo sangue, prendendo su di Lui il castigo del peccato, pagando per loro ed offrendo loro con la vita di grazia la possibilità di essere perdonati e di arrivare al cielo.

Roncoroni rileva che

 «“prima componente dell'amore” è, per Caterina, la virtù della pazienza, letteralmente e di nuovo, il saper “patire”, “”soffrire” per e con gli altri. Pazienza, che è “il mirollo dell'amore”, “la regina di tutte le virtù”, la condizione prima della loro possibilità di attuazione; in antitesi, l'impazienza, il non saper patire e soffrire per e con gli altri, è sempre sintomo di superbia, amor proprio elevato all'ennesima potenza e relativa disobbedienza alla volontà di Dio, che ci mette in condizioni nelle quali si richiede pazienza.

Dalla pazienza discende l'umiltà, e da questa la conoscenza di se stessi come nulla, in confronto a Dio, che è al massimo grado, e che, creandoci, dal nulla ci toglie, ponendoci nel non nulla. Pazienza e umiltà: le due radici dell'albero della vita cristiana».

A me pare che per Caterina sia la pazienza che discende dall’umiltà per il tramite della carità, sicché le virtù si succedono per via generativa in quest’ordine: l’umiltà, che è obbedienza alla verità, impegna l’intelletto, il quale genera la carità, che impegna la volontà, la quale a sua volta genera la pazienza come espressione della carità, giacché per Caterina la pazienza non è una semplice virtù naturale, ma è il patire con Cristo, che nasce dalla carità. Per questo l’impazienza è sintomo di superbia: perché manca quell’umiltà che nella carità porta ad accettare la Croce, che è la pazienza di Cristo. La pazienza, quindi, per Caterina, è il saper soffrire con Cristo e per Cristo e di conseguenza per i fratelli.

Roncoroni riassume molto bene la visione cateriniana del mistero della Redenzione:

«Amore, assoluto, infinito e incondizionato, irriducibile e invincibile di Dio per l'uomo in Cristo, in forza e grazie del Suo sangue, con il quale ci ha ricomperati, liberandoci dal mistero di iniquità del male e del peccato, che ci aveva tagliati fuori dall'amor di Dio; il Quale ci aveva posti in essere per puro e semplice Intelletto d'Amore».

Degna di nota al riguardo è l’attitudine di Caterina verso la sofferenza fisica legata ad una certa concezione del rapporto anima-corpo[22]. Qui Caterina interpreta l’etica paolina in base ad un’antropologia non tomista, ma agostiniana, che accentua talmente l’opposizione spirito-corpo, da far pensare addirittura al platonismo dell’anima che si libera dal corpo per poter giungere alla contemplazione eterna della celeste verità divina[23].

Caterina sembra non afferrare il fatto che il conflitto paolino carne-spirito non è da intendersi, come potrebbe apparire, soppressione della carne per far vivere lo spirito, ma processo graduale e metodico, col quale lo spirito, sostenuto dalla grazia e purificato da un’opportuna ascesi, purifica ed educa la sensibilità e l’affettività, recupera il dominio sul corpo perduto col peccato originale e fin da ora può gustare le primizie della futura resurrezione.

Particolarmente dura è la polemica di Caterina contro la lussuria, e ne ha ben donde, data la diffusione di questo vizio tra il clero di allora, benché allora almeno si restasse nel campo del rapporto naturale tra uomo e donna e fossero rari i casi di pedofilia e sodomia.

Ma nel contempo Caterina non parla mai dell’onestà del piacere sessuale nel matrimonio. È dunque presente anche qui, così almeno sembra, un certo disprezzo per il piacere sessuale, sicché anche qui sullo sfondo non c’è S.Tommaso, ma Origene e dell’idea tomistica, biblicamente fondata, dell’amore fra uomo e donna nella resurrezione non c’è neppure l’ombra[24].

Così pure la verginità non è motivata, come insegna S.Tommaso[25], dal bisogno riferito alla presente vita mortale, di una superiore libertà spirituale, ma è vista come un precorrimento e una pregustazione  della futura liberazione dell’anima dal corpo e quindi dal sesso in paradiso. E accanto a questo disprezzo per il sesso non poteva mancare il disprezzo per la donna, tradizionalmente vista dai moralisti, ovviamente maschi, come emblema della tentazione alla lussuria. Da qui il fatto che Caterina chiama la lussuria «piacere femminile», storpiatura dell’espressione scolastica, usata anche da San Tommaso, di delectatio venerea. Per converso la temperanza sessuale è la virtù «virile», propria del maschio (virtus da vir=uomo).

Ma tutto ciò non impedisce affatto alla forte personalità di Caterina di affermarsi più che mai nella sua femminilità psicologica e spirituale, che è l’aspetto più sublime della femminilità. E così Caterina, forse senza accorgersene, si rivela prepotentemente nella più bella qualità umana della donna: la sua maternità, che non è necessariamente quella biologica, accessibile anche agli animali, ma che è quella spirituale, che ha il suo modello supremo nella Maternità cosmica ed universale della Beata Vergine Maria. Per questo Caterina a tutt’oggi è uno splendido modello di affermazione della donna nella società e nella Chiesa[26].

Ma a parte tutto ciò, tornando al discorso sul dualismo, corpo-anima, non si tratta di abbandonare la materia, essa pure creata da Dio come parte essenziale della natura umana, ma al contrario di renderla anch’essa viva grazie alla vita dello Spirito Santo. Non è dal corpo o dalle passioni carnali che provengono le tentazioni più sottili e pericolose, quelle della superbia, dell’ipocrisia, dell’invidia, dell’orgoglio, ma da quelle dello spirito. Del resto Caterina lo sa, come lo si vede bene dai suoi esempi e dalla sua predicazione dell’umiltà, dell’obbedienza, della giustizia e della carità. Ciò non toglie, tuttavia, in lei una certa antipatia o diffidenza per la corporeità e tutto il mondo della sensibilità, delle emozioni, delle passioni e dei diletti fisici.

Con una precisazione, però: che Caterina separa nettamente la sofferenza fisica in lei da quella negli altri, la salute e il benessere fisico in lei da quelli degli altri. Per quanto riguarda il bene degli altri, essa si prodiga con grande generosità per alleviarne le sofferenze, senza badare alle proprie, benché nel contempo li esorti a soffrire con Cristo, in Cristo e per Cristo.

Ma per quanto riguarda lei stessa, è presa da un tale bruciante desiderio di patire con Cristo «strazi, scherni, obbrobri e vituperi», per espiare i peccati propri e quelli che si commettono nella Chiesa e nel mondo, che essa pare perdere a volte la moderazione di questo desiderio e sembra che esso in qualche modo si mescoli con quella forma di disprezzo dualistico per il corpo e per il piacere fisico, che abbiamo visto sopra.

Allora la vediamo mescolare sofferenze mistiche, ascetiche ed espiative, come il patire le piaghe del Signore o il prendere su di sé la pena dei peccati del prossimo o l’accettazione di prodigiosi digiuni – non si tratta di anoressia ma di miracoli –  con sofferenze volontarie di dubbio valore, motivate da quel disprezzo schifiltoso per il corpo e per il piacere fisico, del quale ho parlato sopra.

Da qui vengono i numerosi suoi strapazzi, le fatiche immani, la mancanza di riposo o di ricreazioni corporali, il disprezzo per il piacere fisico, le penitenze esagerate – quali peccati doveva mai scontare, lei così innocente? - e il trascurare insomma nel suo insieme la salute, che gettano un’ombra di masochismo nel suo pur purissimo e intensissimo amore per la Croce e nel suo eroico sacrificarsi per gli altri.

E da qui proviene, credo, congiuntamente alla terribile e forse esagerata sofferenza morale per la condotta del Papa, per lo scisma, per l’inselvatichimento dell’Ordine domenicano, quel lento ed inesorabile consumarsi ed indebolirsi fisico di Caterina, che lo condusse alla morte ad appena 33 anni di età. Quando altri Santi del tempo di Caterina, anch’essi amanti della Chiesa, non la presero così sul tragico, ma trovarono pace nel vedere anche nelle immani sventure del tempo la permissione della Provvidenza, sembra che invece Caterina, con emotività tutta femminile, ci abbia fatto su una tale passione, da morirne di dolore, ma forse perché vedeva più a fondo degli altri e del resto essa fu ben lieta di offrire in sacrificio la propria vita per il bene della Chiesa e a gloria di Cristo.

L’alleviare la sofferenza negli altri è compito e dovere nobilissimo della cristiana misericordia: qui Caterina, come sanno tutti, è di splendido esempio. Ma sono cose doverose anche la ricerca e la tutela di un sano benessere personale, di adeguate condizioni economiche di sussistenza, il riposo dalla fatica, l’evitare gli sforzi eccessivi, la fruizione di un moderato piacere fisico, la cura della propria salute con sane ricreazioni corporali. Come dobbiamo rispettare la dignità umana negli altri, così dobbiamo farlo verso noi stessi. Per porsi al servizio degli altri occorre essere efficienti. San Paolo, dopo aver considerato il suo desiderio di lasciare questo mondo per essere con Cristo, si accorge che il prolungare la sua vita gli consente di fare dell’altro bene.

Caterina sembra invece confondere la misera condizione del nostro corpo nella vita presente col corpo come tale, per cui se è vero che l’anima può giungere alla visione immediata di Dio solo dopo aver lasciato il corpo, è però altrettanto vero – e questo San Paolo lo dice chiaramente – che il destino finale dell’uomo non è quello dell’anima separata, ma è la resurrezione del corpo. Se per avere la visione beatifica fosse necessaria l’assenza del corpo – come sembra credere Caterina – con la resurrezione del corpo la visione beatifica diventerebbe addirittura impossibile, cosa che è addirittura un’eresia.

Ma queste tracce di platonismo, assorbito inconsciamente dalle sprovvedute guide spirituali del tempo, entrano nello scotto che anche i Santi devono pagare come figli di Adamo, ma esse non intaccano la sostanziale bontà dell’antropologia cateriniana e se la Santa si fosse accorta delle incresciose premesse e conseguenze del platonismo, le avrebbe respinte con orrore.

Per vedere nella sua giusta luce la considerazione di Caterina per il corpo, basterebbe ricordare la sua adorazione per l’Eucaristia, nella quale non si potrebbe immaginare una sublimazione più alta della carne umana: «Caro te excaecaverat? – dice Agostino con la sua solita potenza espressiva – Caro te sanat!». E come non ricordare   l’adorazione cateriniana per il sangue di Cristo, tenendo presente che il sangue è la vita del corpo? «Il rosso delle mie labbra – essa dice – è lo stesso rosso del sangue di Cristo». Se questa non è resurrezione, che cosa è la resurrezione?

Conclusione 

Il lavoro di Roncoroni getta una sguardo profondo e preciso  nell’anima di Caterina giungendo con intuito sicuro di acuto filosofo e sapiente teologo alla sorgente originaria e nei recessi più intimi della spiritualità cateriniana, che è da rintracciare in una lucidità intellettuale di totale onestà e di straordinaria penetrazione metafisica, che dà l’impulso a un «infocato desiderio»: una volontà altrettanto forte, lanciata con estrema sicurezza, nell’«ardentissima carità» sorretta dalla grazia e dai doni dello Spirito Santo, verso il suo fine ultimo e sommo bene, che è il Dio trinitario, per precipitarsi da lassù come un torrente in piena in un’instancabile carità fraterna universale ed ecclesiale, ricca di toni umanissimi, di questa «mangiatrice d’anime» - per usare una sua espressione di straordinaria potenza -, che si alternano agli slanci verso il cielo appassionatamente cercato e desiderato.

Abyssus abyssum invocat. Dice Roncoroni:

«In Cate – così mi piace chiamarla con intimità d'affetto – ho anche incontrato la filo/SOFIA come amore di Sofìa, sintesi di affetto di bene e di intelletto di vero, nell'unico atto puro dell'INTELLETTO D'AMORE, che culmina e vive nell'Eucarestìa.

Codesto mio scritto ha forma e materia di testamento spirituale: contiene il nocciolo di tutto ciò che ho vissuto e pensato nella vita, che fino ad ora mi è stata data di avere (“che cosa avete che non abbiate ricevuto” = questo il mio assioma esistenziale fondamentale)». 

Queste affocate parole di Roncoroni, molto persuasive, in una lettera dedicata agli amici in appendice al libro, si direbbe la «bella brigata» di Roncoroni, sono di una straordinaria intensità e sincerità espressive. Danno l’impressione di un uomo che, dopo aver corso il pericolo di perdersi, adesso stringe tra le mani un tesoro, un Bene assoluto, faticosamente conquistato, e sua ragione di vita, del quale non intende assolutamente essere privato o lasciarsi derubare. Sono parole che fanno da eco e corrispondono con entusiasmo alla forza torrenziale d’amore dalla quale Roncoroni è stato investito e travolto a contatto con Caterina: alla proposta totale della Mamma, fra Tommaso ha risposto con una risposta totale.

Così possiamo immaginarci la risposta dei discepoli contemporanei di Caterina al fascino e alle ardenti profferte della Santa del Sangue di Cristo. A sei secoli di distanza Roncoroni ha saputo entrare in vivo contatto con Caterina come se l’avesse incontrata oggi in carne ed ossa. Ma tale è la potenza dello spirito e delle affinità elettive: trasformare l’eterno nell’adesso.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 10 novembre 2020

Santa Caterina da Siena 
(Immagine da internet)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] J.M. Perrin, Contemplazione e azione in Santa Caterina da Siena, Edizioni Sales, Roma 1966.

[2] LA VITTORIA SULL’“AMOR PROPRIO” IN SANTA CATERINA DA SIENA, I, Divinitas, 1, 2001, pp.3-16; LA VITTORIA SULL’“AMOR PROPRIO NELLA DOTTRINA DI S.CATERINA DA SIENA, II, Divinitas, 2, 2002, pp.115-140.

[3] Vittorio Bassan, La dottrina dell’amore in Santa Caterina da Siena, Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo 1961.

[4] Elena Zanardi, Ad immagine di Colui che è. La persona umana un Caterina da Siena, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2009.

[5] Cf AA.VV., Francesco e Caterina, Quaderni del Centro Nazionale di Studi Cateriniani, n,5, Roma 1991.

[6] Martino S. Gillet, La missione di Santa Caterina da Siena, a cura del Convento Domenicano di San Marco in Firenze, 1946.

[7] Cf il mio articolo su questo blog Caterina e la cattolicità italiana; cf Innocenzo Taurisano, Santa Caterina da Siena Patrona d’Italia, Libreria F. Ferrari, Roma 1940.

[8] Cf il mio articolo su questo blog Caterina e la cristianità europea.

[9] N.G.M. Van Doornik, Caterina da Siena. La donna che non tacque nella Chiesa, Cittadella Editrice, 1980

[10] Sum. Theol., I, q.1, a.6, 3m.

[11] Sum. Theol., II-II, q.45, a.2.

[12] Sum, Theol., II-II. q.162, a.3, 1m; II-II, q.97, a.2, 2m.

[13] Sum. Theol., I, q,1, a.6,3m.

[14] Sum. Theol., II-II, q.45, a.2; Rafael-Tomas Caldera, Le jugement par inclinaison chez Saint Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 1980; Marco D’Avenia, La conoscenza per connaturalità in San Tommaso d’Aquino, Edizioni ESD, Bologna 1992..

[15] Commento al Vangelo di San Giovanni, cap.17,25, lect.VI, n.2265, Ed. Marietti, Torino-Roma 1952, p.426.

[16] Sum. Theol., II-II, q.97, a.2, 2m.

[17] Sum. Theol., II-II. q.45.

[18] Sulla natura, l’origine, la formazione, la necessità, i limiti, l’oggetto e lo scopo del concetto, cf la mia tesi di dottorato in teologia all’Angelicum di Roma Il giudizio per affinità nel dono della sapienza, pars dissertationis ad lauream in Facultate Sacrae Theologiae apud Pontificiam Universitatem Sancti Thomae de Urbe, Bologna 1987.

[19] IL SILENZIO DELLA PAROLA. LE MISTICHE A CONFRONTO, monografia di Sacra Doctrina, 3-4, 2002.

 

[20] Itinerarium mentis in Deum, cap. VII, V,

[21] Ibid.

[22] Michele Fortuna-Giuseppe Di Ciaccia, La dottrina dell’anima in Santa Caterina da Siena, Monografia di Sacra Doctrina, ESD, Bologna 1995.

[23] È possibile notare questa tendenza ne Il Dialogo, a cura di G. Cavallini, Edizioni Cateriniane, Roma 1968, soprattutto alle pp.169, 182, 190, 349, 413, 422, 425. 439.

[25] Sum. Theol,, II-II, q.152.

[26] Gabriella Anodal, Santa Caterina da Siena Patrona d’Italia. Una sfida per la donna di oggi, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1990; vedi il mio articolo su questo blog Il messaggio di Santa Caterina oggi.

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