Da Hegel a Marx - Il passaggio storico dal panteismo all’ateismo attraverso Feuerbach - Quarta Parte (4/5)

 Da Hegel a Marx

Il passaggio storico dal panteismo all’ateismo

attraverso Feuerbach

Quarta Parte (4/5)

La teoria marxiana della verità

In Marx, come già in Feuerbach, si nota un recupero del realismo contro l’inganno dell’idealismo. Si dà fiducia all’esperienza sensibile, ritenendola capace di verità e non semplice opinione o parvenza. Marx si accorge che Hegel, riducendo il reale all’ideale, l’essere all’essenza, il concreto all’astratto, l’individuale all’universale, l’essere all’essere pensato, l’oggetto al soggetto, il sapere al sapere di sapere, perde di vista la realtà, che è esterna al pensiero e non si identifica col pensiero, col concetto, con l’idea.

L’errore di Marx, però, è quello di confondere lo spirituale con l’ideale e il reale col materiale. Da qui viene il suo ateismo antropologico, per il quale Marx, come Feuerbach, sostituisce l’uomo allo Spirito assoluto hegeliano. Per Marx non è lo spirito che pone se stesso, è fondato su se stesso, dipende da se stesso ed è l’ente supremo, ma è l’uomo in carne ed ossa, il Gattungswesen, nel quale egli distingue certo il materiale dallo spirituale, ma dove è chiaro che dà il primato al materiale, sicchè per Marx la coscienza dipende dalla materia non solo nel conoscere, ma anche nell’essere.

Nello stesso tempo Marx conserva il principio cartesiano, presente in Hegel attraverso Fichte, per quale l’io pone se stesso. Qui è l’uomo che pone se stesso mediante il lavoro. E dunque lo spirito pone la materia. Dunque, in conclusione, abbiamo sì una reazione realista all’idealismo di Hegel, abbiamo sì una rivalutazione della sensibilità sulle orme di Feuerbach, ma senza rinunciare al cogito fichtiano, che fa dipendere l’oggetto dal soggetto, il non-io dall’io, il reale dall’ideale. Resta in Marx la riduzione tipicamente idealista della cosa al concetto della cosa, del reale al razionale, della realtà alla logica e precisamente alla dialettica. Il libero e contingente diventa logico e necessario.

Abbiamo quindi un realismo incompleto, mezzo-idealista, ma nel contempo anche una reazione esagerata all’idealismo, che sostituisce il materialismo allo spiritualismo. Così la coscienza da una parte è l’assoluto, ma dall’altra dipende dalla materia. La volontà da una parte decide del reale, ma dall’altra è il riflesso sociale dei meccanismi dell’economia. Lo spirito da una parte continua essere il soggetto umano, ma dall’altra è una sovrastruttura della materia.

È vero che per Marx la verità non è prodotta dal soggetto, ma è riflesso e rappresentazione del reale esterno.  Da qui le accurate analisi marxiane dei fatti e degli eventi. E tuttavia, egli non riesce a liberarsi del tutto dal soggettivismo hegeliano-fichtiano, per cui per lui la rappresentazione del reale non sorge semplicemente dal contatto col reale e dalla conseguente teoria, ma da un rapporto dialettico-pratico col reale, per il quale il soggetto riflette sì il reale, ma nel contempo il soggetto influisce sull’oggetto mediante la prassi, in modo tale che la prassi sociale o di classe dà all’oggetto la sua completa costituzione. Per cui si fa dire alla realtà non ciò che essa è, ma ciò che si vuole che sia.

Già Kant aveva escogitato una simile teoria della conoscenza, con la differenza che mentre per Kant l’intelletto con le sue forme apriori plasma la materia dell’oggetto – il fenomeno - fornita dalla cosa in sé, che nella sua essenza extramentale resta ignota, per Marx la ragion pratica basata sull’esperienza, può benissimo conoscere la realtà esterna così com’è in sé, solo che, come in Hegel e ancor più in Fichte, la stessa realtà non è prodotto del pensiero, ma della prassi sociale.

Per questo Marx, pur continuando, almeno da giovane, a far filosofia, dice apertamente di voler sostituire la politica alla filosofia. E di fatto, poi, nella maturità, con la pubblicazione del famoso Il capitale, pur valendosi delle basi filosofiche che aveva posto, cesserà di filosofare per dedicarsi totalmente all’economia politica e all’edificazione del partito comunista insieme con Engels.

Pertanto non esiste nel marxismo una teoria fine a se stessa, puro specchio del reale, come nel platonismo, nell’aristotelismo, nel brahmanesimo e nella Bibbia, perché la felicità umana non è posta nel vedere il reale né tanto meno Dio, che non esiste ed è solo un parto della nostra immaginazione, ma è posta nel fare e nell’azione sociale. Si tratta solo di realizzare se stessi e dominare la terra, senza mirare a inesistenti fini trascendenti o celesti, che superino l’uomo, perché non c’è niente al di sopra e di più importante dell’uomo non come individuo ma come umanità, tema, questo, già feuerbachiano.

 Volendo usare un’espressione di San Giovanni, ma in tutt’altro senso, non si tratta di vedere, ma di fare la verità. La differenza con Giovanni è data dal fatto che Giovanni si riferisce alla messa in pratica di una verità morale precedentemente conosciuta, mentre Marx vuol dire che la verità, che è solo pratica e non speculativa, la si conosce nel momento in cui la si produce. Il vero, per lui, non è una cosa da contemplare, ma un’opera da fare. La verità non è solo effetto del sapere, ma anche dell’azione. Si conosce solo quello che si produce. Non si tratta di possedere verità astratte ma beni materiali concreti. In ciò il comunista non si differenzia affatto dal capitalista. Il loro ideale comune è l’avarizia, con la differenza che mentre il comunista finge di essere altruista, il capitalista dice apertamente che dei poveri se ne infischia.

Questa visione prassistica della verità da cosa dipende in Marx? Dalla stessa concezione marxista dell’uomo, per cui, come in Fichte, l’uomo non è creatura di Dio, ma produce se stesso[1], Marx precisa che ciò avviene nella prassi politica collettiva, quindi prassi non individuale, ma di classe o di partito.

Per questo la verità non è adeguazione del pensiero a ciò che Dio ha fatto e tanto meno a un’inesistente Parola di Dio, ma è conoscenza di ciò che l’uomo fa, secondo l’adagio di Gianbattista Vico: verum ipsum factum. L’uomo conosce solo ciò che egli stesso fa. Qualunque scienza dev’essere antropologia ed antropologia sociale. La teologia e la metafisica sono vuote astrazioni, sono favola ed illusione, sono un isolarsi dalla comunità; bene che vada, anche quando non distraggono l’uomo dai suoi doveri sociali e terreni, sono un vagare tra le nuvole, uno scambiare la fantasia per realtà.

Ma allora la verità, per Marx, se non esclude in modo assoluto l’adaequatio a un dato esterno, tuttavia in fin dei conti, la stabilisce l’uomo stesso nel momento in cui agisce in base a scopi politici prefissati, e la trae da ciò che egli stesso fa nel momento in cui agisce. L’agire non è regolato dal sapere, ma il sapere nasce dall’agire, peraltro con la pretesa di essere vero ed oggettivo sapere del reale e non il sapere soggettivo del saputo teorizzato dall’idealismo. Per Marx non si tratta di conoscere un ideale astratto, ma il reale concreto e storico, solo che questo «reale» egli si prende la libertà di determinarlo egli stesso per mezzo della volontà e dell’azione come se egli fosse un dio.

La gnoseologia marxiana, in fondo, a parte la sua struttura dialettica di origine hegeliana, è una forma di machiavellismo. Machiavelli non nega che la verità sia adeguazione del pensiero alla realtà; dice solo che, quando conviene al principe, gli è permesso ed anzi è suo dovere far passare per vero quello che non lo è.

Per questo il realismo marxista certamente si oppone, come già in Feuerbach, all’idealismo hegeliano dell’essere come essere pensato, ma deve convivere col principio della prassi, che è un’eredità fichtiana e vorremmo dire tratta dalla magia. Come il mago si propone di trasformare la realtà col suo potere magico, così Marx è convinto di poter trasformare il reale con le sue idee[2]. Del resto non parla forse lo stesso Hegel del «potere magico» del negativo? Per questo la gnoseologia marxista è dialettica: non è un puro sapere, ma è un fare-sapere, un saper che è un fare e un fare che è un sapere. Il Maritain nel paragonare il realismo marxista a quello tomista è troppo benevolo e non tiene conto di questo aspetto dialettico della concezione marxista del sapere e della verità.

La verità, precisa Lenin, rincarando la dose, non è mai imparziale; la verità per sua essenza, è sempre verità di parte, è verità di partito. Tutto sta a vedere qual è il partito che possiede la totalità della verità, e naturalmente questo partito è il «partito dei lavoratori», il partito comunista. Bisogna stare dalla parte del proletariato. Lì soltanto c’è la verità.

La verità, quindi, non è un dato oggettivo universale dell’umanità astratta ma è la verità concreta, storica e politica fissata dal partito, è la verità della sinistra; essa sta dalla parte degli oppressi, mentre il falso o l’inganno è a destra, dalla parte dei padroni, della conservazione e del clero.

Fine quarta Parte (4/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 20 dicembre 2021

La visione prassistica della verità da cosa dipende in Marx? Dalla stessa concezione marxista dell’uomo, per cui, come in Fichte, l’uomo non è creatura di Dio, ma produce se stesso. Marx precisa che ciò avviene nella prassi politica collettiva, quindi prassi non individuale, ma di classe o di partito.

Per questo la verità non è adeguazione del pensiero a ciò che Dio ha fatto e tanto meno a un’inesistente Parola di Dio, ma è conoscenza di ciò che l’uomo fa, secondo l’adagio di Gianbattista Vico: verum ipsum factum. L’uomo conosce solo ciò che egli stesso fa.

Ma allora la verità, per Marx, se non esclude in modo assoluto l’adaequatio a un dato esterno, tuttavia in fin dei conti, la stabilisce l’uomo stesso nel momento in cui agisce in base a scopi politici prefissati, e la trae da ciò che egli stesso fa nel momento in cui agisce. L’agire non è regolato dal sapere, ma il sapere nasce dall’agire.

Per questo il realismo marxista certamente si oppone, come già in Feuerbach, all’idealismo hegeliano dell’essere come essere pensato, ma deve convivere col principio della prassi, che è un’eredità fichtiana e vorremmo dire tratta dalla magia. Come il mago si propone di trasformare la realtà col suo potere magico, così Marx è convinto di poter trasformare il reale con le sue idee. 

Del resto non parla forse lo stesso Hegel del «potere magico» del negativo? Per questo la gnoseologia marxista è dialettica: non è un puro sapere, ma è un fare-sapere, un saper che è un fare e un fare che è un sapere.

La verità, precisa Lenin, rincarando la dose, non è mai imparziale; la verità per sua essenza, è sempre verità di parte, è verità di partito.

Immagini da internet: - Giambattista Vico - giochi di magia - Lenin


[1] «L’Io – dice Fichte – pone il non-io nell’Io».

[2] Già nella Kabbalà ebraica esiste l’idea di poter costruire un uomo artificiale, il cosiddetto Gòlem, facendo uso del Nome sacro di Jahvè. Vedi Gershom Scholem, La cabala, trad. di Roberta Rambelli, Roma, ed. Mediterranee, 1982.

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