Che rapporto intercorre fra lo Spirito Santo e il demonio? La dinamica del cristianesimo - Terza Parte (3/4)

 Che rapporto intercorre fra lo Spirito Santo e il demonio?

La dinamica del cristianesimo

Terza Parte (3/4)

Dio ha liberamente voluto essere piuttosto che non essere.

Il volontarismo di Schelling 

Hegel vede nell’Assoluto di Schelling l’unità nell’opposizione di oggettivo e soggettivo, di origine fichtiana («io-non-io»), che, tradotto nei termini del volere, è l’opposizione böhmiana del bene e del male. Dio, che può essere come non essere, fare il bene come il male, ha voluto essere ed essere buono, ma conserva in sè il non-essere e il male.

L’appunto che Hegel fa a Schelling, come è noto, è quello di non precisare concettualmente nell’essenza divina la sintesi delle differenze, come invece ritiene di aver fatto Hegel nella sua Logica determinando il concetto razionale dell’Assoluto come Idea, sintesi del reale e del razionale, ovvero come dialettica della contraddizione nell’identità, concezione che comporta la sintesi dell’essere col non-essere, del sì col no e del bene col male. Nella Scienza della Logica Hegel conduce l’idealismo nato da Cartesio e passato attraverso Kant, Fichte Schelling al suo massimo fastigio, per il quale l’Idea si fa Natura e la Natura si innalza (Erhebung) all’Idea, così come il divenire dell’essere si innalza al divenire dello Spirito, che è l’argomento della Fenomenlogia dello Spirito.

Hegel ritiene che al suo tempo la filosofia abbia scoperto l’essenza dello Spirito assoluto, scoperta che egli descrive in questi termini: 

 

in Dio «l’opposizione è la forma, come il momento essenziale del movimento dell’Assoluto. Quest’ultimo non è quiescente, né l’opposizione è l’irrequieto concetto, ché anzi l’Idea è quieta nella sua irrequietezza. Il pensiero puro ha proceduto sino all’opposizione fra soggettivo ed oggettivo; la vera conciliazione dell’opposizione sta nello scorgere che questa opposizione, spinta al suo assoluto estremo, si risolve da sé, come dice Schelling. Gli opposti sono in sé dentici e non soltanto in sé, poiché la vita eterna consiste appunto nel produrre eternamente l’opposizione e nell’eternamente risolverla»[1].

Ecco la conciliazione in Dio del paradiso con l’inferno – come vedremo in Von Balthasar -, dell’eterna affermazione con l’eterna negazione. L’inferno è l’eterna negazione di ciò che il paradiso afferma. Nel paradiso l’amore; nell’inferno l’odio. Ma osserviamo che in realtà Dio presiede a questa dialettica o dinamica eterna non barcamenandosi fra gli opposti, come crede Hegel, ma affermando la signorìa del sì sul no, la vittoria della vita sulla morte, il trionfo del bene sul male, la soggezione dell’inferno al paradiso, nel provvidente governo di tutto il creato, del paradiso come dell’inferno. Questa è la regalità di Cristo in cielo, in terra e sotto terra. 

Sulla scia di Böhme, Fichte, Schopenhauer ed Hegel, per Schelling lo Spirito assoluto, che egli chiama «Soggetto» o semplicemente «Assoluto», non è l’ipsum Esse, puro atto dell’essere, essere assoluto che non può non-essere, ma è potenza attiva di essere, ma è volontà sussistente, perché altrimenti, secondo Schelling, Dio non potrebbe essere libero. Dio esiste non perché non può non esistere, essendo la sua essenza il suo stesso esistere, ma perché ha voluto esistere, potendo anche non esistere. Tra l’essere e il non essere ha scelto di essere e lo mantiene non per necessità, ma per volontà.

Schelling non si rende conto che l’agire è atto d’essere e suppone l’essere. Nessun dubbio che Dio possegga il libero arbitrio. Ma Dio non potrebbe scegliere se prima non esistesse. Per questo è assurdo pensare che il suo essere sia effetto di libera scelta. Libera scelta di chi, se è vero che Dio non può esistere come causa prima di esistere come effetto? Che in Dio il volere coincida con l’essere, d’accordo. Ma questo essere non può non essere, perché deve spiegare l’esistenza del contingente. Ma se Dio non è necessario, sarà dunque contingente.  Ma come fa un Dio contingente ad essere Dio? Non diventa un semplice ente fra gli enti? Come fa a sostenerli tutti?

Dio certo è libero, ma è libero nei confronti dell’altro da sé, nei confronti della creatura, questa sì convertibile nel non-essere o nella malvagità. Ma Dio non può esercitare la sua libertà nei confronti del suo essere, che è ciò che condiziona l’esistenza del suo libero volere. Non ha senso parlare del volere di ciò che non esiste. Occorre esistere per volere. E non si può volere se non si esiste. Per questo il proprio esistere non può essere effetto del proprio volere.

Eppure per Schelling Dio non è essere, ma «potenza di essere», «voler-essere», volontà che, come dirà poi Hegel «vuole sé stessa». Assomiglia all’Io fichtiano, che pone il non-Io nell’Io. Ma qui sorge un pensiero orrendo, davanti al quale purtroppo Schelling non arretra, ma va avanti disinvolto: se Dio è potenza di scelta tra l’essere il non-essere, fra il bene e il male, dunque Dio è all’origine non solo del bene, ma anche del male. È, come dirà Nietzsche, al di sopra del bene del male.

È la tesi che fa propria Luigi Pareyson[2], il quale, però, non sentendosela di affermare che Dio pecca o è causa del peccato, si ferma a dire che, sì, il male è in Dio, ma originariamente bloccato e vinto dalla sua buona volontà. Secondo lui, in Dio c’è la possibilità e la radice del male, ma essa è stata da lui eternamente vinta e tacitata dalla sua irremovibile volontà di fare il bene.  Il volere divino conserva in radice la possibilità di scegliere fra il bene e il male, ma conserva la sua irremovibile volontà di fare il bene.

Ma ciò non basta per eliminare l’allucinante pensiero che in Dio ci sia il male. Per far ciò bisogna rendersi conto che, essendo Egli bontà infinita, non può avere nulla a che vedere con una volontà peccaminosa.

Schelling porta agli estremi questa impostazione volontaristica, arrivando a dire che Dio esiste perché ha voluto esistere. Ma va ancora più in là e si aggancia a Jakob Böhme, per il quale Dio ha la possibilità di fare il bene come il male.  L’ira divina opera il male, la misericordia opera il bene. Questa visione era già stata adombrata dalla sua distinzione fra l’ira e la misericordia di Dio: la prima per la quale Dio è malvagio e castiga, la seconda per la quale è buono e salva.

Il rischio di una concezione del genere, nella quale cadrà Hegel, è quello di concepire un Dio che entra in contraddizione con se stesso, in un eterno conflitto tra il suo essere e il suo non-essere, il Dio buono e il Dio cattivo. Hegel riduce il bene all’affermazione e il male alla negazione. Se l’essere per lui è essere-non-essere, ne viene la conseguenza che il bene è bene-male, ciò dappertutto e quindi anche in Dio. A parte il fatto che il male non è semplice negazione di bene, ma privazione, ossia non è un semplice limitare, ma il togliere il dovuto.

Anche il Beato Duns Scoto e ancor più Ockham erano preoccupati di salvaguardare questo indubitabile attributo del libero volere, ma ciò in loro, soprattutto in Ockham, fu a scapito dell’essere e quindi della stessa libertà di Dio, che pur credevano col loro volontarismo di difendere. 

E comunque non si sognarono neppure di porre l’esistenza di Dio come effetto della sua volontà, avendo sufficiente buon senso da capire che un agente non può agire prima di esistere, per cui, se agisce, si suppone che esista. E ciò anche nel caso di Dio, il cui essere coincide effettivamente col suo agire. Ma è un agire che si riferisce al governo del mondo e non a se stesso, cosa che non ha senso. Invece il volontarismo di Ockham si spinge fino ad ammettere che Dio può volere il bene e il male, mentre Scoto, ispirato da retta pietà e alieno dall’empietà, negava che Dio potesse volere l’adulterio al posto della fedeltà coniugale.

Schelling dedica molta attenzione al demonio in rapporto a Dio e all’uomo nell’opera divina della creazione e della Redenzione nella sua opera Filosofia della Rivelazione[3]. Si rifà molto alla Scrittura, ma la interpreta in maniera gnostica ed idealista. Sulla scia di Böhme, egli, in una concezione sostanzialmente panteistica, inserisce il separator all’interno della Trinità e della opera della salvezza dell’uomo, senza tuttavia giungere alla sistemazione dialettica che sarà propria di Hegel.

Secondo lui il demonio non è una creatura, ma non è neppure increato. Non si capisce dunque a che livello dell’essere si trovi. Ci pare di trovarci davanti ad una concezione gradualistica o gerarchica del divino, simile a quella dei neoplatonici e di Ario. Infatti Schelling mostra simpatia per gli ariani.

Ma inoltre secondo Schelling Satana non sarebbe neppure una persona, ma un «principio» spirituale celato nell’uomo, che sarebbe emerso come volontà malvagia al momento del peccato originale. Nel contempo questo principio sovracreaturale par essere anche originato in Dio, sicché siamo daccapo con la concezione böhmiana del male originato da Dio e qui congiuntamente all’uomo.

L’azione di Satana viene quindi anche per Schelling ad inserirsi nell’azione divina dell’Assoluto come opposizione di soggetto ed oggetto e quindi di bene e di male, preparando così l’Assoluto hegeliano, che aggiunge a quello schellinghiano privo di determinazioni la determinazione concettuale dialettica del razionale identificato al reale.

La concezione hegeliana dello Spirito assoluto

Il magico potere del negativo 

Hegel si pone nella linea di Origene, alla cui spiritualità monistica è stato sensibile il protestantesimo sin da Lutero, la cui spiritualità è trinitaria come quella di ogni cristiano, ma nella quale viene meno la mediazione della apostolicità della Chiesa, per cui Lutero ruppe da una parte la disciplina ecclesiastica creando una Chiesa divisa tra lo Spirito (Lutero) e la lettera (i papisti), ma dall’altra mantenne fede nella forza unificante dello Spirito che agisce nella Chiesa e nell’anima del singolo cristiano in opposizione alle insidie del demonio.

Per questo resta in Lutero l’apprezzamento della dottrina paolina dell’opera ricapitolatrice di Cristo nello Spirito Santo (cf I Cor 15,28; Ef 1,10; Fil 2,11). In questo senso si può dire che Lutero si riallaccia all’escatologia origeniana, benché più immediatamente all’ecclesiologia agostiniana. Voglio dire che, se da una parte Lutero mantiene netta la distinzione agostiniana fra la città di Dio e la città di Satana, dall’altra però sembra vedere nel demonio un emissario di Dio, cosa che lo porta ad assegnare al diavolo un posto costruttivo nel piano della salvezza, cosa che lo avvicina ad Origene, senza giungere a ritenere con lui che i demòni vengono perdonati.

Questo sforzo di collegare Dio col diavolo, darà origine nei secoli seguenti a una cristologia che potremmo definire demono-cristologia, nella quale la forza del male in Dio si scarica sul Verbo Incarnato, Gesù Cristo, Mediatore fra il Padre e l’umanità peccatrice. Cristo, fatto peccato e soggetto alla pena dell’inferno, è pareggiato al diavolo e su di lui si scatena l’ira divina. 

Ma ecco che Cristo sulla croce diventa il polo negativo, ossia redentivo, dal quale sorge la negazione della negazione, ossia la salvezza, e il ritorno dell’Uno all’Uno diviso dalla negazione, ossia dall’opposizione bene-male, peccato-grazia, Padre-Figlio, mentre il fattore della sintesi tra Padre e Figlio è lo Spirito Santo. Tutto dunque è Uno nello Spirito. La Fenomenologia dello Spirito[4] di Hegel è la storia di questo farsi dello Spirito nel travaglio del negativo iniziando dall’opposizione Figlio-Padre sulla croce fino alla conciliazione fra il Padre e il Figlio nello Spirito.

Come osserva giustamente Hegel, solo lo spirito può opporsi allo spirito. A tal riguardo è molto importante per il nostro tema tener presente che Hegel concepisce lo Spirito come forza infinita del negativo («per sé»), che, posto dal positivo («in sé») trapassa nel positivo e torna nel positivo («in sé e per sé»).

«La vita di Dio – dice Hegel[5] - tende soltanto a far sì che lo Spirito riconosca stesso, che trovi sé stesso, che divenga per sé, che si ricongiunga con sé. Lo Spirito è sdoppiamento, estraniamento, ma soltanto per poter ritrovare sé stesso, per venire a sé stesso. Soltanto così Egli consegue la sua libertà; giacchè è libero non ciò che si riferisce ad altro, né da questo dipende».

Lo Spirito, per Hegel, è Vita che pone la morte, si ferma presso la morte, e risorge dalla morte. E tuttavia non coincide con l’evangelica «vita eterna» (paradiso) separata dalla morte eterna (inferno), ma è sintesi di vita e di morte, di paradiso e di inferno, di sì e di no, di bene e di male:

«Non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello Spirito. Essa guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Egli è questa potenza non alla maniera del positivo che non si cura del negativo; anzi lo Spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere»[6].

È qui evidente l’equivoco di origine luterana tra il peccare e il patire, posti entrambi sotto la categoria del «negativo». È l’equivoco tra il Cristo sofferente e il Cristo-peccatore, il Cristo-diavolo, tra il causare la morte e il patire la morte, fra il morire di Cristo che, come Dio, vince la morte mediante la croce, ossia mediante una morte subìta e l’idea che la morte come tale o l’uccidere (il «negativo») produca la vita (il «positivo»).

In Hegel il demonio non è l’oppressore, ma il liberatore dell’uomo. Così egli interpreta il racconto biblico del peccato originale[7]. Il serpente incitando alla disobbedienza, rende l’uomo cosciente di poter essere Dio. L’uomo diventa nemico di Dio e Dio nemico dell’uomo. Dio si aliena da sé nell’uomo peccatore, nel diavolo.

Tuttavia l’essenza di Dio è di dividersi e di riunirsi. Esce da sé e torna a sé. La negazione nega sé stessa e ricostituisce l’affermazione. Il Padre aliena se stesso nel Figlio. Il Figlio, Dio alienato da sé nel mondo, è rappresentato con la figura del demonio, paradigma dell’uomo peccatore, avversario di Dio. Dio nega se stesso in Cristo, il quale, fattosi peccato, ma negato dal demonio, ricostituisce l’unità di Dio con stesso come Spirito.

Lo Spirito e non il Padre, sembra avere in Hegel il primato nella Trinità, perché egli non la concepisce come una discesa del Figlio dal Padre e una risalita del Figlio al Padre, sicché il Padre ha il primato nella Trinità. Lo Spirito, nella visione cattolica, non porta a pienezza la Trinità, ma la nostra vita spirituale. Il Figlio dalla destra del Padre ci manda lo Spirito, che è anche lo Spirito del Padre, Spirito che ci guida e ci innalza al Padre.

Invece Hegel concepisce la Triade in evoluzione progressiva o nella storia verso una pienezza finale, a somiglianza della concezione di Gioachino da Fiore[8]: inizio dal Padre, passaggio al Figlio, superamento del Figlio nello Spirito, tema sviluppato da San Paolo. Nel primo paradigma Dio culmina nel Padre. Nello schema hegeliano Dio culmina nello Spirito; il che potrebbe essere plausibile, se non fosse che tutto è guastato dalla visione di Dio come Bene-Male. 

Per questo è da notare che Hegel, benché leghi lo spirito alla libertà, all’amore e alla vita, non lo connette col bene. Infatti egli non parla mai dello Spirito “Santo”, come pure fa la Scrittura. Perché questo? La ragione è di carattere metafisico: perché per Hegel l’essere è divenire, che lui intende come essere-non-essere. Da qui il concetto dell’agire come agire bene-male.

Dunque Hegel non distingue uno spirito buono da uno spirito cattivo, ma lo spirito è buono-cattivo, sia Dio o sia il demonio. Tra Dio e il demonio, dunque, secondo lui, non c’è un’opposizione, ma una connivenza[9]. Ecco perché la visione hegeliana della realtà è ad un tempo ottimista, perché tutto è uno, ma anche tragica, perché il bene è sempre unito al male, anche in Dio. Non solo la giustizia, ma anche il peccato sono costruttivi.

Ecco perché Hegel, come sembra fare Lutero, sostiene che è peccando che si vince il peccato, perché il peccato ha in se stesso il principio della propria negazione, si autodistrugge, come dice anche Rahner. Per questo, nella visione di Lutero il peccatore è perdonato non perché si pente – cosa impossibile -, ma proprio perchè non si pente. Pretendere di pentirsi, per Lutero, è presunzione e ipocrisia. E poi non ce n’è bisogno, perché per chiunque ha fede, tutto è perdonato. Il credente è innocente anche se pecca. Il peccato non lo tocca e non lo turba.

Quanto all’essenza dello Spirito, Egli, per Hegel, è Dio stesso. Lo Spirito è la sintesi del Padre (essere) e del Figlio (logos) come amore, vita e azione, ossia come «possesso di sé nel suo altro»[10]. Ora, come si sa, per Hegel l’essere è divenire, come essere-non-essere e quindi come sintesi del contradditorio. Ma lo Spirito, in quanto sintesi trinitaria di essere, logos, e volontà, Dio incarnato, è pensare-volere nel tempo e nel mondo. Da qui il concetto dello Spirito come spirito umano, come storia, come autore e sintetizzatore dell’essere e del non-essere, del vero e del falso, del bene e del male. Hegel non fa che esplicitare le premesse böhmiane.

Egli dunque riprende l’opposizione interna a Dio del bene e del male, dello Spirito e del demonio. Per lui lo Spirito Santo si oppone bensì allo spirito malvagio, non però nel senso di un’opposizione della bontà divina alla malvagità della creatura, ma nel senso di un’opposizione interna alla stessa essenza dialettica di Dio, tra il momento tetico iniziale dell’infinito ossia del bene e quello antitetico del finito, ossia del male. Il demonio, per Hegel, non è altro che l’immagine mitica del negativo, ossia del male, che, opponendosi al bene, pone il positivo e con ciò stesso la sintesi del bene e del male, che costituisce l’essenza dell’Assoluto.

La triade agostiniana dell’esse-nosse-velle, immagine della Santissima Trinità[11], ricompare in Hegel non nel quadro dell’identità analogica aristotelica, ma dell’opposizione eraclitea di essere-non-essere, risolta dialetticamente nell’essere monistico, essere-pensiero parmenideo e nella ripresa del ciclo procliano, di origine platonica, della posizione-uscita-ritorno (stasis-exodos-epistrofè), presente anche in Origene.

L’essere, cioè Dio, è ciclo o circolo nel quale la fine è un ritorno all’inizio, è la riunificazione della divisione dell’Uno, senza però che gli opposti scompaiano, perché costituiscono l’Assoluto. E qui ritroviamo Böhme. Schelling, come abbiamo visto, non fà che riprendere questa teologia gnostica e panteista

Dio, bene assoluto, aliena o nega sé stesso ponendo il male. Il male nega se stesso ristabilendo il bene divino iniziale. Ma nel contempo il bene è inscindibile dal male, così come l’essere dal non-essere, perché la loro sintesi costituisce l’Assoluto o Totalità, che è Divenire, Coincidentia oppositorum, identità di essere e non-essere, di finito e infinito, di Dio e mondo, di reale e razionale, di Spirito e natura, di vita e di morte, di peccato e di grazia, di paradiso e di inferno.

Merito della filosofia moderna, secondo Hegel[12] è stata quella di comprendere l’Idea di Dio

 «come Spirito, come Idea che sa sé stessa: Per procedere dall’Idea che sa al proprio sapersi dell’Idea occorre l’opposizione infinita, che cioè l’Idea sia pervenuta a coscienza del proprio sdoppiamento».

Il vero concetto di Dio, cioè, secondo Hegel, è l’essere che diviene, ossia l’essere che nega se stesso, che unisce il sì al no e quindi è all’origine del bene e del male.

«Il pensiero puro – continua Hegel[13] – si è sollevato in Cartesio sopra questo sdoppiamento», non però nel senso di annullarlo, ma, secondo Hegel, come ha fatto Spinoza, nel senso di mostrare che «pensiero ed essere sono opposti ed identici». Da qui la conseguenza nella prassi che bene e male sono opposti ed identici. In tal modo, spiega Hegel, in Dio,

«l’autocoscienza conosce la sua relazione positiva come sua relazione negativa, la negativa come positiva, cioè conosce queste due attività opposte come identiche, vale a dire il pensiero puro o essere come identità con sé e questa come sdoppiamento».

Hegel pone un concetto dialettico di Dio perchè riduce idealisticamente l’ontologico al logico. È vero che tra il concetto del bene e il concetto del male c’è una relazione, che però è soltanto di ragione, logica o pensata, ma non è reale. Egli confonde pertanto la relazione reale con una relazione logica.

Sul piano del pensiero o della logica è vero che bene e male si richiamano a vicenda, perchè concepiamo l’uno per mezzo dell’altro. Ma sul piano della realtà il male non ha alcuna relazione al bene, perché ne é la negazione ontologica. Invece, chi assume una mentalità hegeliana, che si chiude nella pura logica e non guarda alla realtà, si fa l’idea che il male non escluda il bene e il male sia necessario al bene, ma che il male sia semplicemente un altro bene, diverso da questo bene; oppure che sia un male per te, ma non per me.

Si riduce così l’aut-aut all’et-et e non si distingue più il male dal bene. È questo il principio del buonismo: tutto è bene. Il male non esiste. Dio stesso, che è buono, ammette e approva il male come il bene, il vero e il falso, la giustizia e il peccato, perché tutto, in fondo, è vero, giusto e buono.

Il buonismo tragico di Von Balthasar

È molto nota la tesi che viene riferita a von Balthasar, secondo la quale l’inferno esiste, ma è vuoto. Essa trae spunto da un suo libro di successo «Sperare per tutti», nel quale egli non sostiene categoricamente che tutti si salvano, ma che però la cosa è possibile e che pertanto, come esorta lo stesso titolo del libro, è lecito ed è bene sperare che tutti gli uomini si salvino.

Ora, bisogna dire con franchezza che questa speranza è infondata e non è affatto autorizzata né dalla Scrittura, né dalla Tradizione, né dal Magistero della Chiesa. Oggetto della speranza cristiana può essere un qualcosa che umanamente parrebbe irrealizzabile, ma in ogni caso il contenuto è sempre ciò che attiene direttamente o indirettamente alla nostra salvezza e non a quella degli altri o dell’intera umanità.

Come risulta infatti dall’autentica dottrina della fede, oggetto della speranza teologale, basata sulla fede ed animata dalla carità, è la propria salvezza eterna, come dice il Profeta Michea: «spero in Dio mia salvezza». Oggetto della speranza cristiana è il futuro conseguimento di quei beni eterni che Cristo ci promette come premio della perseverante osservanza dei suoi comandamenti e come meta del nostro cammino di fede.  Dice il Catechismo della Chiesa cattolica:

«La speranza è la virtù teologale per la quale desideriamo il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo» (n.1817).

Come insegna il Concilio di Trento:

 

«i giusti devono, per le buone opere compiute in Dio, attendere e sperare da Dio l’eterna retribuzione grazie alla sua misericordia e il merito di Gesù Cristo, se agendo bene e custodendo i precetti divini persevereranno fino alla fine» (Denz.1576).

È chiaro che esistono precise condizioni per poter sperare ragionevolmente e con la morale certezza di salvarsi, e tra queste sono eminentemente l’adoperarsi incessantemente e fervorosamente per la salvezza altrui.  Il dovere di curare la propria salvezza non va quindi inteso nel senso di dire: io bado a salvare me stesso, degli altri me ne infischio, sono affari loro. Un discorso del genere è proprio quello che toglie le ragioni di sperare nella nostra salvezza.

Tuttavia è vero che se io posso e devo volere la mia salvezza ed operare per conseguirla, il mio operare per la salvezza altrui, per quanto io sia intenzionato a salvare gli altri, o sia persuasivo e convincente nel rendere la mia testimonianza ed abile nell’argomentare, non può avere l’efficacia di muovere la loro volontà, così come io ho il potere di muovere la mia. Se neppure Dio persuade colui che non vuol lasciarsi persuadere, figuriamoci che cosa posso fare io, debole e peccatore come sono!

Si sente il detto corrente: o ci salviamo insieme o non ci salviamo. Ora è evidente che dobbiamo lavorare insieme per la nostra e l’altrui salvezza. Ma non è affatto detto che in una famiglia, in una parrocchia, in un gruppo di amici, in un Istituto religioso ci si salva tutti assieme o non si salva nessuno. Questa è un’enorme sciocchezza ispirata ad una mentalità di gregge, grossolanamente socialista, mascherata da solidarietà fraterna, che non corrisponde affatto a quanto effettivamente accade nella dinamica della salvezza, così come è descritta per esempio da queste chiarissime parole dello stesso Signor Nostro Gesù Cristo riferentesi alla sua venuta finale: «Uno sarà preso e l’altro lasciato» (Mt 24,40).

Certo, nessuno c’impedisce, anzi è dovere di carità sperare la salvezza dei propri cari e degli stessi nostri nemici. Ma questo atto di carità, per quanto nobile e prezioso, non costituisce affatto l’essenza dell’atto della speranza teologale, ma ne è solo una derivazione sul piano della carità. Per questo non sono accettabili le seguenti parole di von Balthasar, per quanto animate da una fervente retorica e corredate da numerose citazioni bibliche, che tuttavia non sono ad rem:

«La speranza che solo al cristiano è concessa è la speranza nella salvezza di tutti gli uomini, ché anche la Chiesa è severamente tenuta a pregare “per tutti gli uomini»” (e di conseguenza a considerare la sua relativa preghiera logica e fruttuosa), perché “questo è ben fatto e grato nel cospetto del Salvatore Dio nostro, il quale vuole che tutti gli uomini si salvino ed arrivino al conoscimento della verità. Uno infatti è Dio, uno anche il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, il quale diede sé stesso in redenzione per tutti” (I Tim. 2, 1-6); il quale, innalzato sulla croce “tutti trarrà a sé” (Gv 12, 32), perché egli di là conserva “potere su ogni carne” (Gv 17, 2), per essere “salvatore di tutti gli uomini»” (I Tim. 4, 10), “per togliere i peccati di molti” (Ebr. 9, 28); “poiché la grazia di Dio Salvatore nostro apparve a tutti gli uomini” (Tt 2, 11), per cui la Chiesa è stata pensata per l’utilità “di molti, affinché siano salvi»” (I Cor 10, 33). Perciò può Paolo (Rm 5, 15-21) dichiarare annullato il rapporto di equilibrio fra peccato e grazia, timore e speranza, dannazione e redenzione»[14].

Ciò infatti che sappiamo dalla Rivelazione è che non tutti gli uomini si salvano[15] e che certamente nell’inferno ci sono i demòni. Se dunque le cose stanno così, lo sperare che tutti si salvino è evidentemente contrario alla dottrina della fede. Lo sperare per tutti e il pregare per tutti, tuttavia, li si può intendere non nel senso di tutti collettivamente presi, ma nel senso di «chiunque».

Fine Terza Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 16 maggio 2021


 Per Schelling Dio non è essere, ma «potenza di essere», «voler-essere», volontà che, come dirà poi Hegel «vuole sé stessa». 

Assomiglia all’Io fichtiano, che pone il non-Io nell’Io. 

Ma qui sorge un pensiero orrendo, davanti al quale purtroppo Schelling non arretra, ma va avanti disinvolto: se Dio è potenza di scelta tra l’essere il non-essere, fra il bene e il male, dunque Dio è all’origine non solo del bene, ma anche del male. 

È, come dirà Nietzsche, al di sopra del bene del male.

 

 

È la tesi che fa propria Luigi Pareyson, il quale, però, non sentendosela di affermare che Dio pecca o è causa del peccato, si ferma a dire che, sì, il male è in Dio, ma originariamente bloccato e vinto dalla sua buona volontà.

Secondo lui, in Dio c’è la possibilità e la radice del male, ma essa è stata da lui eternamente vinta e tacitata dalla sua irremovibile volontà di fare il bene.  

Il volere divino conserva in radice la possibilità di scegliere fra il bene e il male, ma conserva la sua irremovibile volontà di fare il bene.

 

 

 

Secondo Schelling il demonio non è una creatura, ma non è neppure increato. Non si capisce dunque a che livello dell’essere si trovi. Ci pare di trovarci davanti ad una concezione gradualistica o gerarchica del divino, simile a quella dei neoplatonici e di Ario. Infatti Schelling mostra simpatia per gli ariani.

Ma inoltre secondo Schelling Satana non sarebbe neppure una persona, ma un «principio» spirituale celato nell’uomo, che sarebbe emerso come volontà malvagia al momento del peccato originale. 

Nel contempo questo principio sovracreaturale par essere anche originato in Dio, sicché siamo daccapo con la concezione böhmiana del male originato da Dio e qui congiuntamente all’uomo.

Immagini da internet:
- Friedrich Schelling
- Luigi Pareyson
- Ario



[1] Ibid., pp.415-416.

[2] Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 2000.

[3] Bompiani, Milano 2002, da p.1279 a p.1341.

[4] Vedi il commento di J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia di Hegel”, La Nuova Italia, Firenze 1972.

[5] Lezioni di storia della filosofia, I, La Nuova Italia, Firenze 1995,p.33.

[6] Fenomenologia dello Spirito, I, Nuova Italia, Firenze 1988, p.26.

[7] Lezioni sulla filosofia della religione, Editore Zanichelli, Bologna 1974, vol. II, pp.328-335.

[8] Cf Massimo Borghesi, L’età dello Spirito in Hegel, Edizioni Studium, Roma 1995.

[9] Dunque il titolo del libro di Vito Mancuso: Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del Principe di questo mondo (Piemme 1996) non pare esatto o quanto meno bisogna distinguere: se pensiamo al suo panbuonismo, può andare; ma se pensiamo al suo pantragismo, il demonio balza in primo piano.

[10] Lezioni, op.cit. ibid.

[11] Anche San Tommaso d’Aquino organizza la Summa Theologiae secondo uno schema triadico: la prima pars tratta di Dio creatore, buono e provvidente (il Padre); la seconda, l’uomo creatura di Dio finalizzata a Dio (lo Spirito); la terza, il Mediatore fra Dio e l’uomo, il Verbo Incarnato. Anche in Tommaso è presente la dialettica dell’affermazione-negazione: 1. affermazione (creazione); 2. negazione (peccato); 3. negazione della negazione (la Redenzione del Figlio e la grazia dello Spirito con la vittoria sul demonio). Ma mentre Tommaso oppone il sì al no, Hegel li unisce. Confonde l’aut-aut con l’et-et. Per Tommaso Dio è contro il diavolo; per Hegel vanno d’accordo.

[12] Lezioni di storia della filosofia, 3.II, La Nuova Italia, Firenze 1981 p.413.

[13] Lezioni, op.cit., p.414

[14] Tratto da Solo l’amore è credibile.

[15] Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona.

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