Dio non esiste ma insiste. La teologia di John Caputo - Prima Parte (1/2)

 

Dio non esiste ma insiste.

La teologia di John Caputo

Prima Parte (1/2)

 

Da sempre Tu sei

Sal 93,2

 

Se non credete che Io Sono,

morirete nei vostri peccati

Gv 8,24

 

La teologia a briglia sciolta

 La Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna nei giorni 12-13 marzo scorso ha tenuto a Bologna un convegno sul tema «La Bibbia per la riforma della Chiesa». Uno dei relatori, Massimo Nardello, nel tenere una conferenza dal titolo «La normatività delle Scritture rispetto alla cultura nella teologia contemporanea», ha svolto un breve esame critico del pensiero del teologo americano John Caputo[1].

Il pensiero di questo teologo è interessante perché rappresenta una teologia basata non sul dato biblico, né sulla metafisica, nè sul dogma cattolico, ma sulla creatività poetica e sulla narrativa estrosa, cambiando senso alle parole senza rispettare le regole della logica, anche della grammatica, senza temere di cadere in clamorose contraddizioni, che lo portano a confutare se stesso.

Cominciamo da quest’ultimo punto. Egli afferma che il concetto metafisico, che pretende di formare un concetto di Dio

 

«imprigiona l’oggetto a cui si riferisce all’interno di una precomprensione che non ne rispetta realmente l’identità. … L’attribuzione di nozioni concettuali al divino è un tentativo di portarlo nell’ambito del pensabile e quindi un atto di idolatria»[2].

Detto questo, Caputo passa tranquillante a parlare di chi è Dio, definendolo, peraltro giustamente, come «l’Incondizionato, colui che ci chiama alla pratica dell’amore, colui che viene», supponendo evidentemente che i suoi concetti relativi a Dio non solo non imprigionano un bel nulla, non siano affatto degli idoli, ma siano perfettamente veri e giusti, sicchè con i suoi concetti Dio è perfettamente pensabile.

In secondo luogo nei passi citati da Nardello, Caputo manca di rispetto alle regole della grammatica. Infatti se qualcuno è incondizionato e chiama a sé l’uomo per spingerlo ad operare per il prossimo, evidentemente dev’essere un esistente, per poter far questo. Ma Caputo dice che costui, cioè nella fattispecie, Dio, «non esiste, ma insiste», insiste a chiamarci. Ora in buona grammatica e analisi logica, per avere una frase compiuta che abbia senso, il predicato non può stare senza il soggetto, e l’aggettivo (chiamante) non può stare senza il sostantivo (il soggetto esistente).

Similmente Caputo nega che Dio possa qualificarsi come ente, per cui dice che Dio è un «evento», ma siamo sempre lì: potrà mai accadere un evento che non sia l’evento di un ente, oltretutto un ente temporale? Che ne è allora dell’eternità e dell’immutabilità divine? Si può dare in grammatica e in analisi logica un’apposizione o un aggettivo (evento) senza il soggetto o il sostantivo che faccia da supporto? Sarebbero questi i «giochi linguistici» dei quali parla Caputo? Mettere a soqquadro la lingua e l’ordine dei concetti?

In terzo luogo Caputo nega il senso ovvio ed universale della parola «Dio» come «ente supremo», presente in qualsiasi vocabolario. Dio è ente supremo per Aristotele, per la Bibbia, per gli Antichi Romani, per Lucrezio, per San Tommaso, per Spinoza, per Kant, per la massoneria, per Voltaire, per Robespierre, per Confucio, per Maometto, per l’induismo, per Feuerbach, per Marx, per Stalin, per Lenin, per Freud, per Comte, per Nietzsche, per Einstein, per Hitler, per Bertrand Russell, per Heidegger, anche se è poi vero che c’è chi ne nega l’esistenza o lo intende con attributi sbagliati.

Se Dio non esiste, come può insistere? Insiste qualcuno che esiste, ma non insistere chi non esiste. Inoltre Caputo dice che è impossibile formare un concetto di Dio. Allora come fa a parlare di Dio? Che cosa ha nella mente quando dà giudizi su Dio e dice Dio è l’Incondizionato? È vero che Dio è l’Incondizionato; ma come fa dir questo se non in base a un concetto – giusto – di Dio? È vero che Dio ci chiama. Ma daccapo, come può fare questa affermazione se non perché ha in mente un giusto concetto di Dio?

Come fa Caputo a fare teologia se non crede all’esistenza di Dio? Che Dio è il suo Dio? Di quale Dio parla? Egli parla della teologia come «teopoetica», ma così confonde il teologo col poeta. Senonchè però di due funzioni dello spirito umano ben diverse.

Se Dio non esiste in sé fuori di noi indipendentemente da noi e dal nostro pensarlo, come si fa a parlare di Dio? Che senso ha parlare di Dio e assegnargli degli attributi, come pure fa Caputo? Come è possibile negare la possibilità di formare un concetto di Dio e ad un tempo concepire Dio come non esistente?

La teologia apofatica o mistica non è quella che nega l’esistenza reale extramentale di Dio. Questo è ateismo ed empietà. Essa non si basa neppure sull’idealismo del Dio come essere di coscienza, ma si basa sul realismo biblico che ammette la distinzione del pensiero dall’essere.

La teologia apofatica o negativa è quella che comprende che Dio è talmente grande che, sebbene lo possiamo concepire e sapere chi egli è, come si chiama e qual è la sua essenza o natura, tale natura, per quanto conoscibile, attingibile, intellegibile e pensabile, ci resta in se stessa incomprensibile e inabbracciabile, perché, essendo infinita, supera, oltrepassa o trascende infinitamente i limiti della nostra capacità di comprensione intellettiva, per cui la possiamo conoscere  nella vita presente solo indirettamente come la causa mediante l’effetto o mediante una nozione analogica dell’essere[3].

Il nome proprio di Dio, più adatto, quello di «essere», ce lo insegna Egli stesso. Comprendiamo anche noi che è il nome più adatto, giacchè che cosa c’è di più grande e di meglio dell’essere sussistente, assoluto, infinito ed eterno? La parola essere porta con sé altre parole, come ente, realtà, essenza, esistenza, causa, fine, sostanza ed altre, sicchè possiamo utilizzare la metafisica. Che fatica, tuttavia, davanti all’essere! Ci sentiamo smarriti, perduti. Ci pare, come diceva Hegel, di non afferrare nulla. Se prescindiamo da ogni ente che ci cade sottomano, che cosa resta? Non usciamo dalla realtà?

Facciamo fatica ad abbandonare la terra per guardare al cielo. Eppure Cristo ci ricorda che Egli non è di quaggiù, ma di lassù. Per questo San Paolo ci invita a pensare alle cose di lassù. Non si tratta di evadere dai nostri obblighi terreni, tutt’altro, ma di dare ad essi ragion d’essere e fondamento, in modo da compierli meglio e in modo illuminato, sapendo dove dobbiamo andare, sapendo che non dobbiamo fermarci sulla terra, ma salire al cielo con Cristo.

La teologia dunque è apofatica, perché rendendosi conto della limitatezza della nostra intelligenza e dei nostri concetti, anche rivelati, conclude nel silenzio, non trovando parole per esprimere ciò che sperimenta, intravede, sente e gusta. Per lei Dio non è nulla di ciò che la nostra mente nella sua limitatezza comprende come esistente, ma è infinitamente di più e del tutto misterioso. In tal senso Rahner ha ragione a chiamare Dio Mistero santo.

Non dobbiamo tirare fuori la scusa della teologia apofatica per evitare lo sforzo e la disciplina intellettuali necessari per pensare seriamente a Dio, alla nostra anima e a quella altrui. Altrimenti non saremo veri teologi, ma dei commedianti che prendono in giro se stessi, gli altri e, quel che è peggio, si prendono gioco di Dio stesso. È più dignitoso fare il buffone apertamente e per mestiere; allora si fa divertire la gente in modo sano. Ma trasformare la teologia in buffoneria vuol dire cominciare dal ridere per finire nella tragedia.

La mancanza di serietà e del senso del sacro è segno di superbia e di esibizionismo che portano alla perdizione per un misero e vano successo terreno. Pretendere di far teologia in queste condizioni di spirito vuol dire giocarsi la salvezza e ingannare il prossimo, ben lungi dall’operare a suo favore, come vorrebbe Caputo. Il problema dell’esistenza non si risolve con giochi di parole e boutades, ma con la serietà del chirurgo esperto che opera con sapienza e delicatezza il malato di cuore o al cervello.

Se Dio non esiste e però ne parliamo, allora vorrà dire che parliamo di un personaggio immaginario, un idolo inventato da noi? In realtà il vero Dio, il Dio reale lo troviamo come Qualcuno di esistente fuori di noi, al di sopra di noi ed esistente prima di noi, nostro creatore, o lo inventiamo così come la mitologia ha inventato Giove, Giunone, Minerva, Venere e Marte? Allora Dio è una nostra idea o è una realtà?

Il teologo naturale, con le sue argomentazioni e dimostrazioni, procedendo dall’effetto alla causa, ci fornisce le prove dell’esistenza di Dio. Il teologo come lo scienziato ha l’esclusiva preoccupazione della verità del sapere, ossia che il suo intelletto si adegui alla realtà di Dio e delle cose divine. Egli ci conduce al sapere e ci dice chi è Dio e quali sono i suoi attributi, quali le leggi morali volute da Dio, che l’uomo deve mettere in pratica per raggiungere il suo fine ultimo che è Dio. Il teologo ci aiuta a formarci un concetto di Dio e a stabilire gli attributi della natura divina, nonché a conoscere qual è la volontà divina sull’uomo al fine di condurlo alla felicità.

Il poeta invece ci porta ad ammirare, gustare e godere del parto della sua fantasia creativa. Il poeta non mira all’oggettività come lo scienziato o il teologo. Il teologo non parla del proprio io, ma delle cose come sono.

Il poeta esprime la propria originale soggettività. E ogni poeta ha la sua peculiare personalità, ha il suo stile. Il bello poetico o estetico è legato alla diversità dei gusti: a chi piace un poeta, a chi piace un altro. De gustibus non diputandum. È cosa normale nella poesia. 

È questo il bello della poesia. Il soggettivismo, che è proibito nella scienza, perché segno di falsità, è cosa normale nel poeta, perché qui la verità non è la verità universale astratta del teologo o dello scienziato, ma è la verità concreta, particolare o singola della personalità del poeta e del particolare messaggio della poesia, messaggio interessante per gli uni, non interessante per gli altri, affascinante per gli uni, disgustoso per gli altri, simpatico per gli uni, antipatico per gli altri. 

Al contrario, la scienza e la teologia devono dire cose oggettive, condivisibili da tutti perché universalmente e oggettivamente vere. Mentre ciò che conta nel sapere sono l’uniformità, l’unità e l’universalità, l’orizzonte e la caratteristica della poesia è la pluralità, la diversità, la varietà, la singolarità, l’originalità. Quella uniformità e ripetitività che vanno bene nel sapere teologico, sarebbero in poesia monotonia, cosa noiosa, mancanza di personalità e arido accademismo.

La novità nel sapere non è come quello del poetare. Nel poetare il nuovo è segno di creatività, di rigoglio spirituale, di inventiva, di genialità. Invece la creatività non avrebbe senso nel sapere e nella teologia. L’ingegnere che deve costruire un ponte, il medico che deve curare il malato non devono creare niente, ma devono conoscere le leggi della natura, altrimenti combinano guai.

Nel sapere il nuovo non è un mutare, come avviene nella poesia, ma è una deduzione, un’esplicitazione, è un chiarimento, un accertamento. Parlare di rivoluzione scientifica o filosofica o teologica non è lecito, se per rivoluzione intendiamo mutamento nei princìpi. Se invece con questa parola intendiamo un profondo rinnovamento e forte progresso, allora la si può usare.

Il nuovo nel sapere è una tesi confermata o verificata o dimostrata, è lo svolgimento di un dato che si mantiene identico - la luna è sempre la luna, anche se la conosciamo meglio oggi di 200 anni fa -. È   la migliore conoscenza di verità che sono sempre le stesse, è la soluzione di problemi in sospeso, è l’accantonamento di ipotesi od opinioni sostituite da una tesi certa dimostrata, è chiarificazione di verità già conosciute partendo da princìpi o verità assodati, certezze di ragione o di fede, evidenti e comunemente condivisi.

Inoltre i contenuti della poesia come tale sono cose che riguardano semplicemente la vita di questo mondo, le bellezze della natura, le cose quotidiane, l’amore e gli affetti umani, i sentimenti patrii, le epopee e leggende dei popoli e cose del genere.

Indubbiamente la conoscenza di Dio, come ci dà l’esempio Cristo stesso e in generale la Scrittura, può essere favorita dall’uso di metafore, racconti, parabole, simboli, paragoni, immagini e miti, che sono strumenti e linguaggio propri del poeta o del letterato o del narratore. 

Il teologo costruisce sistemi concettuali i quali, cogliendo l’immutabile, l’eterno e l’incondizionato, restano per sempre e possono essere sempre migliorati o approfonditi. Il teologo cattolico, sulla base dei dati di fede, trae da essi conseguenze teoretiche e pratiche che ci consentono di approfondire quanto Cristo ci ha rivelato e la Chiesa ci propone a credere, nonchè di chiarire le leggi e gli obblighi dell’etica cristiana in vista della nostra salvezza e santificazione.

Così Caputo ha un concetto errato della teologia apofatica o negativa e per conseguenza ha un concetto errato della mistica, che si basa sulla teologia apofatica. Questa non esclude affatto la metafisica e l’impiego delle nozioni trascendentali dell’ente, dell’identità dell’essere, dell’essenza, dell’esistere, del vero, del bene, e le grandi categorie della sostanza e degli accidenti.

Al contrario, la teologia apofatica, per essere un discorso saggio e sensato, seppur contrario alla presunzione razionalistica, suppone tutte queste nozioni indispensabili all’esercizio del pensiero e assolutamente vere. Il vero teologo apofatico, ossia il mistico, dice solamente che le perfezioni ontologiche illimitate ed analogiche significate dalla metafisica e dal normale senso comune, si realizzano in Dio in un modo infinito, tale che noi siamo obbligati a negare non le nozioni stesse, il che sarebbe assurdo, perché allora le nostre parole non avrebbero senso, ma il modo finito col quale noi concepiamo quelle nozioni, dato che la nostra capacità di comprendere è finita.

Quindi non sono le nozioni della metafisica che non hanno senso, come stoltamente credono i materialisti, gli empiristi e i positivisti, ma non hanno senso i discorsi come quelli di un Caputo, che prima fa uscire la metafisica dalla porta e poi è obbligato a reintrodurla di soppiatto dalla finestra per non fare la figura di uno che parla a vanvera o gioca con le parole come il bambino di tre anni che gioca con le costruzioni.

In tal modo il teologo apofatico continua a parlare di Dio ed evidentemente, se ne parla, deve dire qualcosa di intellegibile, deve dire che cosa intende con la parola «Dio» e deve per forza predicare di Dio qualcosa positivamente, altrimenti non si capirebbe di che cosa stia parlando e confuterebbe se stesso.

E difatti lo stesso Caputo, se vuol essere un vero teologo, se non vuol scherzare con le cose sante, e vuol prenderle sul serio; se gli sta veramente a cuore la salvezza delle anime e della sua e non prenderle in giro, non può fare a meno di concepire Dio con certezza come l’Incondizionato.

Del resto si vede benissimo che, nonostante la sua negazione della nozione metafisica di esistenza, egli concepisce Dio come persona, se è vero che per lui Dio ci ama, ci chiama e ci vuole a sé impegnati nell’amore per il prossimo.

Lo stesso suo concepire Dio come «evento» è un chiaro riferimento al mistero dell’Incarnazione, al fatto storico di Cristo, all’evento e all’avvento di Gesù redentore e salvatore. al Dio-per-me di Sant’Agostino e di Lutero. Tutto ciò è ottimo e perfettamente cristiano. C’è però una differenza tra Agostino e Lutero: che per Agostino Dio è per me affinchè io sia per Lui.

Agostino infatti sa bene che se io non posso esistere senza che Dio mi mantenga in essere, Dio, dal canto suo, in quanto Dio, Essere assoluto e autosufficiente e autofondato, non ha bisogno di nessuno per esistere, è puro esistere, è appunto incondizionato ed esisterebbe da sé anche se non avesse creato il mondo.

Invece purtroppo il Dio di Caputo sembra essere il Dio di Lutero, sotto pretesto che si è dato all’uomo in Cristo; sembra essere un Dio funzionale all’uomo, come un barista è al servizio del cliente, come se l’uomo fosse più importante di Dio, o come se esser uomo fosse essenziale a Dio. Allora in tal caso, come apparirà inizialmente con Cartesio e più chiaramente con Kant ed Hegel, non sono io ad essere creato da Dio, ma sono io che pongo l’esistenza di Dio, per affermare il mio io.

D’altra parte Caputo, con la sua teologia decostruttivista del «forse», che tira in ballo persino Nietzsche, lascia alquanto perplessi e preoccupati, perché da una parte costruisce, ma dall’altra distrugge ciò che ha costruito.

Da qui la conseguenza modernista o postmoderna che, se la Chiesa vuol essere al passo della storia, se vuol progredire e non restare un pezzo da museo, non solo deve rinunciare a voler conservare l’identico, ma deve negare e superare, come insegna Hegel ciò che ha precedentemente affermato perché la verità non è nel sì contro il no, ma nella sintesi del sì e del no. Forse che sì e forse che no.

Stando così le cose, Caputo è proprio certo dell’esistenza dell’Incondizionato? Rinuncerebbe alla vita per lui? Che cosa risolve con questo sì e no? Sembra non decidersi: è per Dio o contro Dio? Con questo suo dire e disdire, con questo tentennare, Caputo non si accorge che si dà la zappa sui piedi? Perché un passo avanti e uno indietro? Dio non gli dà fiducia? «Gèttati in lui – dice Sant’Agostino -; non ti lascerà cadere!». Va bene dubitare di noi stessi, ma dubitare di Dio, vorrebbe dire sostituirlo con il nostro io. Ma il nostro io è capace di sostenere il peso di Dio?

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 19 marzo 2024


Se Dio non esiste, come può insistere? Insiste qualcuno che esiste, ma non insistere chi non esiste. Caputo dice che è impossibile formare un concetto di Dio. Allora come fa a parlare di Dio?

Il nome proprio di Dio, più adatto, quello di «essere», ce lo insegna Egli stesso. Comprendiamo anche noi che è il nome più adatto, giacchè che cosa c’è di più grande e di meglio dell’essere sussistente, assoluto, infinito ed eterno? La parola essere porta con sé altre parole, come ente, realtà, essenza, esistenza, causa, fine, sostanza ed altre, sicchè possiamo utilizzare la metafisica. Che fatica, tuttavia, davanti all’essere! Ci sentiamo smarriti, perduti. Ci pare, come diceva Hegel, di non afferrare nulla. Se prescindiamo da ogni ente che ci cade sottomano, che cosa resta? Non usciamo dalla realtà?

La teologia dunque è apofatica, perché rendendosi conto della limitatezza della nostra intelligenza e dei nostri concetti, anche rivelati, conclude nel silenzio, non trovando parole per esprimere ciò che sperimenta, intravede, sente e gusta. Per lei Dio non è nulla di ciò che la nostra mente nella sua limitatezza comprende come esistente, ma è infinitamente di più e del tutto misterioso. In tal senso Rahner ha ragione a chiamare Dio Mistero santo.

Se Dio non esiste e però ne parliamo, allora vorrà dire che parliamo di un personaggio immaginario, un idolo inventato da noi? In realtà il vero Dio, il Dio reale lo troviamo come Qualcuno di esistente fuori di noi, al di sopra di noi ed esistente prima di noi, nostro creatore, o lo inventiamo così come la mitologia ha inventato Giove, Giunone, Minerva, Venere e Marte? Allora Dio è una nostra idea o è una realtà?

Immagine da Internet: Dio Creatore, Michelangelo

[1] Avverto che i passi che citerò non sono sempre parole testuali di Caputo, ma comprendono anche ciò che Nardello riferisce, lasciando al Lettore, se crede, di verificare e distinguere sul testo dello stesso Nardello.

[2] Evidentemente Caputo non ha la minima idea di che cosa è veramente il concetto e in special modo di quelle che sono la natura, la modalità, la portata e i limiti delle nozioni metafisiche e teologiche. Per la dottrina del concetto, vedi J. Maritain, Les degrés du savoir, Descleée de Brouwer, Bruges 1959, pp.769-819.  Per la dottrina dell’analogia del concetto di ente, vedi Tomas Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009, Parte seconda. Per l’analogicità del concetto teologico, vedi  J.-H. Nicolas, Dieu connu comme inconnu, Desclée de Brouwer, Paris 1966, partie II, §II-III.

[3] Vedi Tomas Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Edizioni Feded&Cultura, Verona 2009.

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