Sulla questione del celibato ecclesiastico


Sulla questione del celibato ecclesiastico

 Il perché del celibato ecclesiastico

Come è noto, l’Instrumentum laboris per il Sinodo sull’Amazzonia propone l’istituzione di preti sposati per ovviare alla mancanza del clero e per un clero che sia vicino ai problemi delle famiglie. Ciò ha riavvivato l’ormai annosa discussione circa la convenienza o meno di un clero coniugato e, per conseguenza, circa il significato e il valore del celibato sacerdotale.

Come è noto, da un punto di vista dogmatico o in linea di principio non ci sono preclusioni a un sacerdozio coniugato: il celibato non è de essentia del sacramento dell’ordine. S.Paolo, nella Prima Lettera a Timoteo, esponendo i doveri del vescovo, raccomanda che «non sia sposato che una sola volta e che sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?» (I Tm 3, 2-5). 

Vi sono infatti oggi vescovi così incapaci nel governare la diocesi, che vien fatto di chiederci che cosa avrebbero combinato se si fossero sposati o se forse non avrebbero fatto meglio a limitare le loro aspirazioni al matrimonio, piuttosto che voler salire oltre, verso l’episcopato.

Ma i difensori del celibato, come è noto, rovesciano il ragionamento in questo modo e dicono: se uno si sposa, suo primo dovere è la cura della famiglia e si sa quanto assorbente sia questo dovere per un cristiano responsabile: il rapporto privilegiato con la moglie, l’educazione dei figli, l’amministrazione economica della famiglia, i rapporti con i parenti, i doveri verso la società civile e verso la Chiesa stessa, il che, se fatto bene, occupa un’abbondante fetta di tempo, che invece il sacerdote celibatario può impiegare nel suo ministero, se è sgravato da tutti quegli obblighi. 

Ma la ragione prima e più profonda del celibato è una ragione di carattere ascetico e spirituale: il bisogno che sente un’anima come quella del sacerdote, chiamata ad una più alta spiritualità e perfezione morale, ad essere più libera da quegli impulsi carnali, eccessivi e disordinati, che sono spinte al peccato, le quali, come rileva S.Pietro, nella condizione della presente natura decaduta, «fanno guerra all’anima» (I Pt 2,11) o quanto meno la illudono, ne offuscano la vista, la ostacolano e la distraggono dal suo slancio verso Dio, la rendono egoista e incapace del sacrificio e dello sforzo ascetico, la frenano e la restringono nel suo amore verso il prossimo, impedendole quella totale e libera dedizione della quale l’anima sente il bisogno e il piacere, e la incatenano alle vanità del mondo di quaggiù proibendole le gioie ben superiori dello spirito.

È da tenere altresì ben presente che questa ribellione della carne allo spirito, questa disarmonia del sesso con lo spirito, questa inclinazione o tendenza dell’attività sessuale a sottrarsi alla guida dello spirito dando l’illusione di fornire un piacere più appetibile di quello spirituale, non entra per nulla nel piano divino originario della natura umana e delle sue attività, ma è conseguenza del peccato originale ed è condizione permanente e quasi ineliminabile del presente stato terreno di natura decaduta, benché redenta da Cristo. 

Occorre dire che il costante e perseverante esercizio delle virtù, sostenuto dalla grazia, attenua gradatamente questo conflitto tra carne e spirito, ma quaggiù non lo toglie mai del tutto, se non in brevi e rari momenti ed in individui molto allenati o eccezionalmente dotati di doni di natura e di grazia, che  fruiscono già da questa vita, nell’«uomo vecchio», delle primizie e dei prodromi dell’«uomo nuovo» (Ef 4, 17-24) della futura resurrezione gloriosa. 

In questo conflitto gioca la concupiscenza, ossia lo stimolo della carne al peccato; ma anche lo spirito può avere la sua colpa, o perché  dà troppa corda alla carne, e allora abbiamo il lassismo, oppure perchè, al contrario, la disprezza e la maltratta quasi fosse di per sè nemica o carcere dello spirito ed origine del male e allora abbiamo il rigorismo, che tende ad ignorare che il sesso di per sé è cosa buona e creata da Dio.

Ciò vuol dire che il celibato ecclesiastico ha la sua ragion d’essere ed utilità in rapporto alla natura decaduta, che comporta il contrasto fra spirito e sesso, e non in rapporto alla natura risorta, che contempla la ricomposizione dell’armonia tra spirito e sesso, con la piena sottomissione di questo a quello, che era propria del piano originario della creazione. 
 
Ma c’è da precisare che mentre il piano edenico comportava la generazione e quindi la famiglia in vista dell’accrescimento della specie umana, l’unione sessuale della resurrezione, della quale peraltro quaggiù non conosciamo le modalità, non sarà altro che espressione dell’unione spirituale d’amore della coppia senza finalità procreativa, perché allora la specie umana avrà cessato di accrescersi. 

Queste considerazioni ci fanno capire che l’astinenza sessuale propria del celibato ecclesiastico nulla ha a che vedere con una prospettiva di sapore platonico di liberazione post mortem dall’amore sessuale, quasi che l’ideale cristiano si esaurisca nella condizione dell’anima separata, ma tale astinenza è praticata proprio in vista della futura resurrezione della sessualità.

C’è da aggiungere che il celibato comporta sì una certa separazione cautelativa fra uomo e donna, richiesta da quel maggior bisogno di libertà al quale ho fatto cenno, nonché dalla necessità di evitare i rischi e i pericoli della natura decaduta e corrotta. Ma è chiaro che ciò non esclude affatto possibilità di una profonda comunione e reciprocità spirituali tra uomo e donna e quindi una stretta collaborazione nelle opere della Chiesa e dell’apostolato. 

 Invece alla resurrezione gloriosa i suddetti inconvenienti saranno cessati, perché sarà ripristinata l’originaria comunione fra uomo e donna. Non bisogna pertanto confondere la castità con la frigidità. Ai frigidi la resurrezione del sesso non interessa niente, anzi fa schifo. La frigidità è una forma patologica di insensibilità sessuale, eventualmente ispirata dal dualismo platonico; è una forma di ribrezzo per il sesso. 

La castità invece è una faticosa astinenza, faticosa proprio perchè è quella di persone normali naturalmente attratte dal piacere sessuale. E da qui la preziosità del loro sacrificio, proprio perché costa, sapendo peraltro che un giorno riavranno il centuplo di ciò a cui per amore di Cristo hanno rinunciato.  Il sacrificio del frigido invece non vale niente perchè non dona niente.

La verginità di Cristo

Il celibato sacerdotale ha il suo fondamento teologico nella verginità di Cristo, del quale il sacerdote è ministro innanzitutto come  consacratore del suo corpo e del suo sangue, giacchè nell’atto del consacrare agisce in persona Christi. È Cristo che sacrifica Se stesso nel suo Sacrificio eterno servendosi delle parole del celebrante, in modo tale che la Messa è l’attualizzazione incruenta del sacrificio della croce. La Messa, quindi, non è, come credeva Lutero, un sacrificio come opera del sacerdote in aggiunta a quello di Cristo, ma è lo stesso sacrificio di Cristo attualizzato nello spazio e nel tempo a beneficio di tutti coloro che vi partecipano.

Occorre tuttavia tener presente che la verginità di Cristo è virtù infinitamente superiore ed inimitabile rispetto al celibato sacerdotale, perché mentre questo, come abbiamo visto, è motivato dal bisogno di favorire la libertà dello spirito nelle condizioni della natura decaduta e stante la ribellione della carne, Gesù non praticò affatto l’astinenza sessuale per questi motivi, dato che la sua natura umana in forza dell’unione ipostatica aveva già la gloria della natura risorta, come dimostrò nella Trasfigurazione, per cui aveva il perfetto dominio dello spirito sulla carne. 

Per questo Gesù avrebbe potuto benissimo sposarsi e compiere ugualmente la sua missione salvifica. È vero che il sacerdote dev’essere perfetta imitazione di Cristo, ma essa va intesa con intelligenza, scegliendo solo gli elementi essenziali, universali ed immutabili dell’esemplarità di Cristo. Gli altri o sono facoltativi o superati. Altrimenti, con questo criterio da fotocopia, uno dovrebbe andare ad abitare in Palestina, parlare aramaico, viaggiare a piedi, portare una lunga capigliatura con barba, vestire con una tunica, ecc.

Per questo, il celibato è certamente segno prezioso dell’imitazione di Cristo, ma non è ad essentiam. Per questo, se la Chiesa mantiene e manterrà sempre una speciale stima e predilezione per il celibato, è sua facoltà concedere, se lo riterrà opportuno, e a certe ben precise condizioni, anche un presbiterato coniugato. Molto più difficile invece appare la concessione di un episcopato coniugato, benchè si sia verificato in epoca apostolica. Se un vescovo ha bisogno del matrimonio come remedium concupiscentiae, c’è da dubitare della validità della sua ordinazione episcopale. 

Quanto al diaconato, sappiamo che esiste il diacono sposato. Ma il diacono, benché in possesso del sacramento dell’ordine, non è istituito «per il sacerdozio», ossia per dir Messa, ma «per il servizio»[1]. Il che è una riprova che il sacramento dell’ordine non è necessariamente legato al celibato, ma neppure al sacerdozio, ossia al potere di dir Messa. 

“Ordine” dice semplicemente gerarchia, secondo una grazia che dall’alto scende verso il basso. Il diacono ha rapporto con i gradi superiori, presbiterato ed episcopato, in quanto esercita le diramazioni periferiche del sacramento dell’ordine, a contatto diretto col laicato: introduzione e preparazione alla liturgia, predicazione del Vangelo, opere della carità, catechesi, presidenza della comunità.
È un impegno meno assorbente di quello dei gradi superiori. Per questo il diacono può avere famiglia e vive del proprio lavoro come i laici. In certi casi, se la diocesi è ricca, può essere stipendiato dalla Chiesa. Invece il prete e il vescovo, essendo operai del Vangelo a tempo pieno, vivono dei beni della Chiesa.

Ragioni invalide e ragioni valide per il sacerdozio sposato

Con tutto ciò non si può escludere che la Chiesa un domani ammetta un sacerdozio sposato accanto a quello celibatario. Ma le ragioni di un simile permesso devono avere una solida base teologica, morale ed ascetica. Non vale assolutamente l’argomento di Lutero secondo il quale quell’astinenza sarebbe impossibile a causa di un’invincibile concupiscenza conseguente al peccato originale. Ma oltre a ciò – secondo errore di Lutero – non è vero che l’atto generativo sarebbe una pratica fisiologicamente necessaria per ogni individuo come l’alimentazione, il riposo e l’evacuazione. 

La concupiscenza è una tendenza a peccare, un gusto per il peccato, che è conseguente al peccato originale. Essa resta per tutta la vita di quaggiù, benché lo stimolo (fomes peccati) possa essere gradatamente diminuito e in questa misura vinto da un lungo e metodico esercizio ascetico delle virtù, tra cui appunto anche il celibato. 

È, questa, la «mortificazione dell’uomo vecchio», della quale parla S.Paolo, da portare avanti parallelamente alla vivificazione dell’«uomo nuovo», nato dal battesimo, prodromo dell’uomo della futura resurrezione (Ef 4, 17-24). Lutero si è arreso troppo presto allo stimolo della concupiscenza e non ha abbastanza confidato nel soccorso della grazia. Da qui il suo rifiuto dei voti religiosi e del celibato sacerdotale.

Riguardo al secondo errore di Lutero si deve dire che l’atto sessuale non è un bisogno fisiologico vitale come il nutrirsi, il riposo o l’evacuare, ma è un bisogno di comunione («non è bene che l’uomo sia solo», Gen 2,18). Per questo, considerando il fatto che nella resurrezione non ci saranno più bisogni fisiologici, ma ci sarà solo l’amore che nasce dalla comunione, non è assurdo supporre che vi sarà un’unione fra uomo e donna, della quale però quaggiù non sappiamo immaginare le modalità, dato che allora il sesso non sarà più procreativo,  ma solo unitivo.

Altre ragioni invalide o per lo meno dubbie per un sacerdozio sposato sono le seguenti. Alcuni ritengono che esso possa servire a rimediare alla carenza di sacerdoti, nel senso che molti giovani sarebbero disposti ad abbracciare il sacerdozio, se potessero anche sposarsi. Ma che senso dovrebbe avere per costoro un sacerdozio sposato? Si può supporre non a torto che il sacerdote sposato possa comprendere meglio i problemi concreti della famiglia e quelli che riguardano l’intimità fra marito e moglie, conoscendo anche lui per esperienza questo tipo di intimità, cosa che invece non può conoscere il sacerdote celibatario. Questo lo concediamo.

C’è però da osservare che se si tratta invece della catechesi sul matrimonio come sacramento, di peculiare competenza del sacerdote, essa puo’ essere ottimamente svolta dal sacerdote celibatario, perché per tal fine è sufficiente la preparazione teologica e spirituale specifica del sacerdote come tale, anche se celibe, ed anzi proprio perchè celibe.

Altri auspicano un sacerdozio coniugato in nome del fatto che molti oggi non osservano il celibato, per cui questo sarebbe secondo loro il segno che la Chiesa deve andare incontro alla debolezza di chi non ce la fa. Essi invocherebbero volentieri il detto di S.Paolo: «meglio sposarsi che ardere» (I Cor 7,9). O forse anche la sua concezione del matrimonio come remedium concupiscentiae

Senonchè però bisogna dire con franchezza, con tutto il rispetto per S.Paolo, che questa concezione così bassa e volgare del matrimonio è totalmente ignorata dal moderno magistero della Chiesa, il quale, valendosi della moderna esegesi biblica, ha riconosciuto che Paolo nelle sue Lettere mescola alla Parola di Dio vedute sue personali in contrasto con la Parola stessa. E questo è proprio il caso.

Così, mentre il Paolo della sublime visione del matrimonio di Ef 5 come segno dell’amore fra Cristo e la Chiesa è oggi sempre ripresa dal magistero, gli esegeti fanno notare che il Paolo di Ef 5 non sembra lo stesso Paolo di I Cor 7, dove il rivestire della dignità di sacramento o l’autorizzare con un sacramento lo sfogo della concupiscenza ha l’aria di una profanazione sacrilega, certamente inconsapevole. 

Del resto l’esperienza dimostra che quando ci si sposa per un simile motivo, la concupiscenza, che si crede benedetta dal sacramento, non cessa affatto, ma facilmente sbocca nell’adulterio. Se il sacramento lo si intende come copertura legale della concupiscenza e un permesso sacralizzato di sfogarsi, rischia di diventare un’ipocrisia e un  tentare Dio.  

Ogni educatore sa bene che la passione non si vince sfogandola, ma disciplinandola rigorosamente. Il sacramento non serve a nulla ma viene beffato, se non c’è un serio impegno a controllarsi. Stando così le cose, si deve dire che tutti sono tenuti a vincere la concupiscenza o quanto meno a lottare contro di essa, senza tante scuse alla Lutero, sia chi si vuol sposare e sia chi vuol far voto di castità o promessa e se non ha senso concedere il matrimonio a un laico come sfogo legale della concupiscenza, a maggior ragione non ha senso concederlo a un prete.

La vera soluzione alla crisi di vocazioni al sacerdozio e al problema della corruzione sessuale fra i sacerdoti non sta tanto nell’introdurre un sacerdozio coniugato, ma, come sto predicando e pubblicando da anni, sta nell’istituire e mantenere una buona formazione sacerdotale secondo un sano concetto di sacerdozio, vissuto da sacerdoti santi ed esemplari ed insegnato da teologi eccellenti nella sana dottrina.

Sulla base di un retto concetto di sacerdozio e di una sincera stima per la castità inculcato da buoni maestri nei candidati al sacerdozio, la Chiesa un domani potrà affidar loro con tranquillità di coscienza la grave scelta fra il sacerdozio celibe e quello sposato, in modo che la scelta non dipenda da frigidità o lassismo, ma dal confronto fra due alti ideali reciprocamente complementari, uno, quello celibatario, che vede nella famiglia l’immagine dello sposalizio fra Cristo e la Chiesa, e l’altro, matrimoniale, che sente la famiglia come parte integrante della propria esistenza sacerdotale, ma l’uno e l’altro ideale devono esser visti nella luce del rapporto fra condizione presente e futura resurrezione, tra l’uomo vecchio e l’uomo nuovo, così che tutti, pro o contra il celibato, guardino all’uomo nuovo ed abbandonino l’uomo vecchio.  

Decidiamoci quindi una buona volta, visti i risultati pratici delle loro teorie, ad abbandonare i cattivi maestri, come un Rahner, esponente dell’uomo vecchio, il quale nei suoi numerosi scritti non tratta mai della castità e se ne comprende il motivo: se si tentasse di dedurla dai suoi princìpi morali, ne verrebbero fuori delle oscenità[2]. Occorre invece rifarsi agli insegnamenti dei Santi Padri e Dottori, alla Tradizione, ai Santi, ai moralisti di valore, al Concilio Vaticano II negli sviluppi che ha ricevuto dal magistero di S.Paolo VI, S.Giovanni Paolo II, Benedetto XVI fino al Papa Francesco. Dalla menzogna non nasce la verità e dal vizio non nasce la virtù.

P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 20 settembre 2019



[1] Conc.Vat. II, Cost.dogm.Lumen Gentium, 29.
[2] Sul concetto rahneriano del sacerdozio: G.Cavalcoli, Il concetto di sacerdozio in Rahner, in Il Sacerdozio ministeriale “L’amore del cuore di Gesù”, a cura di S.Manelli e S.Lanzetta, Casa Mariana Editrice, Frigento, 2010, pp.183-230.

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