TEOLOGIA FONDAMENTALE - P.Tomas Tyn, OP (03.05.1950 - 01.01.1990) - Quinta Parte (5/5)

 

TEOLOGIA FONDAMENTALE

P.Tomas Tyn, OP

Quinta Parte (5/5)

Capitolo 12

LA CREDIBILITA’ DEI MISTERI DI FEDE

LA CONOSCIBILITA’ DEL FATTO DELLA RIVELA­ZIONE

 

  1. La virtù della fede

E’ virtù soprannaturale per la quale crediamo le verità rivelate da Dio a causa dell’autorità di Dio rivelante.

Hanc fidem, quae humanae salutis initium est, Ecclesia catholica profitetur virtutem esse supernaturalem, qua, Dei aspirante et adiuvante gratia, ab eo revelata vera esse credimus, non propter intrinsecam rerum veritatem naturali rationis lumine perspectam, sed propter auctoritatem ipsius Dei revelantis, qui nec falli nec fallere potest. Est enim fides, testante Apostolo, sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium. Hebr. 11, 1”[1].

La definizione suddetta conviene non solo alla fede formata[2], ma anche, e pienamente, a quella informe: “Quare fides ipsa in se, etiamsi per caritatem non operetur (Gal. 5, 6), donum Dei est, et actus eius est opus ad salutem pertinens, quo homo liberam praestat ipsi Deo obedientiam gratiae eius, cui resistere posset, consentiendo et cooperando[3].

I razionalisti (ad es. Kantiani) concedono solo una “fede” morale che è del tutto naturale, in quanto motivata dalle esigenze della sola ragion pratica. I protestanti liberali come Schleiermacher e i modernisti riducono la fede religiosa alla semplice esperienza religiosa, il cui motivo è la conformità delle verità di religione con le più nobili aspirazioni dell’uomo. I semirazionalisti come Hermes trovano che il motivo sufficiente di fede potrebbe essere la stessa necessità pratica, razionalmente manifestata, di credere; il motivo divino sarebbe necessario solo nel caso della fede viva, operante per mezzo della carità.

 

  1. L’atto di fede

E’ un assenso soprannaturale dell’intelletto, certissimo e nel contempo libero, per il quale crediamo alla verità rivelata da Dio a causa dell’autorità del Dio rivelante; perciò tale atto suppone il giudizio certo sulla credibilità razionale dei misteri di fede.

Si tratta di un assenso intellettuale, non di un vago senso religioso[4], eppure, dato che ta­le consenso della ragione è sottoposto al comando della volontà, esso è nel contempo del tutto libero.

Quanto alla soprannaturalità, il Concilio Vaticano I insegna: “nemo evangelicae praedicationi consen­tire potest, sicut oportet ad salutem consequendam, absque illuminatione et inspiratione Spiritus Sancti, qui dat omnibus suavitatem in consentiendo et credendo veritati[5]. L’illuminazione concerne l’intelletto, l’ispirazione la volontà.

L’assenso di fede è certo, infallibile, immutabile, a causa del motivo che è l’autorità di Dio rivelante[6] e sommamente fermo a causa dell’adesione in virtù della volontà movente[7] sotto l’illuminazione e l’ispirazione dello Spirito Santo[8]. L’assenso di fede è più certo dello stesso giudizio di credibilità presupposto (condanna della proposizione: “Voluntas non potest efficere, ut assensus fidei in se ipso sit magis firmus, quam mereatur pondus rationum ad assensum impellentium[9]). L’assenso di fede è irrevocabile, in quanto “illi qui fidem sub Ecclesiae magisterio susceperunt, nullam unquam habere possunt iustam causam mutandi aut in dubium fidem eamdem revocandi[10].

La fede suppone un giudizio certo sulla credibi­lità: “Humana quidem ratio, ne in tanti momenti ne­gotio decipiatur et erret, divinae revelationis factum diligenter inquirat oportet, ut certo sibi constet Deum esse locutum ... Clare aperteque cognoscens, Deum eiusdem fidei auctorem existere, ulterius progredi nequit, sed quavis difficultate ac dubitatione penitus abiecta atque remota, omne eidem fidei obsequium praebeat oportet”[11]. Non basta una conoscenza soltanto probabile del fatto della rivelazione[12], né una conoscenza solo soggettiva[13]. Il giudizio sulla credibilità non consiste nemmeno in una semplice ispirazione o rivelazione privata[14], ma si richiede una notizia certa del fatto della rivelazione[15]. Quanto alla credibilità, “la ragione precede[16] la fede”[17].

Infine l’atto di fede è libero: “Si quis dixerit assensum fidei non esse liberum sed argumentis hu­manae rationis necessario produci, an. s.”[18]. L’atto di fede è libero non solo secondo la libertà di esercizio (questo lo è anche l’atto dell’intelletto speculativo circa una verità obiettivamente cogente), ma è libero pure quanto alla specificazione[19].

 

  1. Le nozioni eterodosse della fede

 

Le nozioni eterodosse della fede:

î  pseudosoprannaturalismo:

ê   dei primi protestanti e di Baio

ê   dei fideisti 

î  naturalismo:

ê   assoluto:

-        teoria kantiana sulla fede

-        teoria dei protestanti liberali

ê   seminaturalismo:

-        teoria dei pelagiani e semipelagiani

-        teoria dei semirazionalisti

-        teoria dei semiimmanentisti

 

Mentre le tendenze naturalistiche distruggono o diminuiscono in gradi diversi la soprannaturalità della fede, quelle pseudosoprannaturalistiche la esagerano materialmente a scapito delle capacità naturali.

Prima apparve il protestantesimo che poi, tramite il libero esame, condusse al seminaturalismo e al naturalismo dei protestanti liberali.

 

  1. Analisi teologica dell’atto di fede

§ 1. La fede e l’atto di fede ex parte obiecti

 

1)     Obiectum quod creditur

L’oggetto materiale della fede sono tutti i credi­bili rivelati da Dio; si divide in oggetto di per sè di fede, che è il rivelato, il quale, senza la rivelazione, non potrebbe essere conosciuto e i preamboli della fede ovvero rivelati impliciti presupposti ai misteri soprannaturali, ma razionalmente dimostrabili. Questi ultimi appartengono dunque alla fede solo accidentalmente[20].

L’oggetto per di sè della fede o è primario cioè formale quod o è secondario. L’oggetto primario e formale della fede è Dio sotto l’aspetto formale della Deità, secondo la Sua vita intima che è la Verità prima nell’essere eccedente la conoscenza naturale di ogni intelletto creabile. Così infatti Dio è conoscibile dall’intelletto creato solo per rivelazione. “Nihil cadit sub fide nisi in ordine ad Deum; sicut etiam obiectum medicinae est sanitas, quia nihil medicina considerat nisi in ordine ad sanitatem”[21].

All’oggetto per se, ma secondario appartengono tutte quelle cose che, al di là della vita intima di Dio, possono essere conosciute solo per rivelazione, come i misteri dell’Incarnazione, della Reden­zione, della grazia, dell’Eucaristia e dei sacramenti in genere, delle virtù soprannaturali, della visione beatifica, ecc. Tutte queste cose procedono dalla vita intima di Dio e si ordinano ad essa.

 

Oggetto materiale della fede:

î  di per sé:

ê   primario e formale: Dio nella Sua Deità

ê   secondario: misteri soprannaturali ordinati a Dio

î  preamboli della fede: verità naturali della religione

 

2)     Obiectum formale quo seu motivum formale fidei[22].

E’ l’autorità di Dio che si rivela, dove autorità implica da un lato la veracità e dall’altro la scienza proporzionata all’insegnamento. Secondo i tomisti l’oggetto formale quo[23] della fede è la veritas prima in dicendo (veracità del Rivelante), in quanto connota la prima verità in cognoscendo ovvero l’infallibile sapienza di Dio.

Il motivo della fede in genere è la veracità di chi parla. La fede infatti è l’adesione certa ad un oggetto inevidente asserito tramite una testimo­nianza, ragion per cui non può appoggiarsi a nessun altro motivo se non alla veracità del teste in virtù della quale egli dice il vero e non inganna.

Il motivo della fede implica la scienza di chi parla. Infatti, la veracità di chi parla non è priva di dubbio, a meno che non connoti in lui la dovuta scienza. Non basta che il teste non possa ingannare per malizia, occorre che non possa ingannare nemmeno per ignoranza.

La Rivelazione attiva, azione increata del Dio rivelante, fa parte del motivo formale della fede. Infatti il motivo o causa influisce positivamente sull’effetto, mentre la condizione non influisce, seppure sia necessaria, affinché la causa possa influire in quanto applica l’agente in atto al paziente (ad esempio, il fuoco è la causa della combustione del legno, la sua applicazione al legno ne è la condizione). Orbene, ciò che costituisce l’essenza stessa della testimonianza e rende l’autorità stessa formalmente movente, spetta al motivo formale della fede e non ne è solo una condizione applicante. Ebbene, la rivelazione attiva costituisce l’autorità divina formalmente motivante, perché l’autorità divina non muove se non parla attivamente e perciò entra nel motivo stesso della fede.

La proposta da parte della Chiesa è solo condizione della fede e non motivo. Infatti, tale proposta non influisce sull’intelletto e sulla volontà del credente, ma applica solo a noi la Rivelazione già esistente. Ciò che muove il credente è unicamente l’autorità di Dio che attualmente si rivela. Similmente l’insegnante del tomismo è solo condizione dell’apprendimento, poiché è la stessa dottrina di S.Tommaso che muove la mente del discente.

Inoltre la testimonianza della Chiesa è un che di creato e nulla di creato può entrare nel motivo formale della fede, come nemmeno in quello della speranza e della carità, altrimenti non si tratterebbe di virtù divine (teologali).

Eppure contro i protestanti va ribadito che la proposta della Chiesa costituisce una condizione sine qua non della nostra fede. I protestanti vi sostituiscono la ispirazione privata del credente, regola non istituita divinamente, né certa né sufficiente per dirimere controversie dottrinali.

§ 2. L’atto di fede ex parte subiecti

 

1)     La natura dell’atto di fede

Credere est cum assensione cogitare (S.Agostino). Credere est actus intellectus secundum quod move­tur a voluntate ad assentiendum (S.Tommaso).

 

 Augustinus (Lib. De Praedestinatione Sanctorum, cap. 11) sufficienter describit credere; cum per huiusmodi definitionem eius esse demonstretur, et distinctio ab omnibus aliis actibus intellectus: quod sic patet.

 

A.    Intellectus enim nostri, secundum Philosophum in lib. De Anima (III comm. 21 et 22), duplex est operatio. Una qua format simplices rerum quidditat­es; ut quid est homo, vel quid est animal: in qua quidem operatione non invenitur verum per se nec falsum, sicut nec in vocibus incomplexis. Alia operatio intellectus est secundum quam componit et dividit, affirmando et negando: et in hac iam invenitur verum et falsum, sicut et in voce complexa, quae est eius signum.

Non autem invenitur credere in prima operatione, sed in secunda: credimus enim vera, et discredimus falsa. Unde etiam et apud Arabes prima operatio intellectus vocatur imaginatio, secunda autem vocatur fides, ut patet ex verbis Commentatoris in III de Anima (Comment. 21).

 

B.    Intellectus autem possibilis, cum, quantum sit de se, sit in potentia respectu omnium intelligibilium formarum, sicut et materia prima respectu omnium sensibilium formarum; est etiam, quantum est de se, non magis determinatus ad hoc quod adhaereat compositioni quam divisioni, vel e converso.

Omne autem quod est determinatum ad duo, non determinatur ad unum eorum nisi per aliquid movens ipsum. Intellectus autem possibilis non movetur nisi a duobus; scilicet a proprio obiecto, quod est forma intelligibilis, scilicet quod quid est, ut dicitur in III de Anima (Comm. 26), et a voluntate, quae movet omnes alias vires, ut dicit Anselmus (lib. de Simi­litudinibus, cap. II).

Sic igitur intellectus noster possibilis respectu partium contradictionis se habet diversimode.

 

1)     Quandoque enim non inclinatur magis ad unum quam ad aliud, vel propter defectum moventium, sicut in illis problematibus de quibus rationes non habemus; vel propter apparentem aequalitatem eo­rum quae movent ad utramque partem. Et ista est dubitantis dispositio, qui fluctuat inter duas partes contradictionis.

 

2)     Quandoque vero intellectus inclinatur magis ad unum quam ad alterum; sed tamen illud inclinans non sufficienter movet intellectum ad hoc quod determinet ipsum in unam partium totaliter; unde acci­pit quidem unam partem, tamen semper dubitat de opposita. Et haec est dispositio opinantis, qui accipit unam partem contradictionis cum formidine alterius.

 

3)     Quandoque vero intellectus possibilis determinatur ad hoc quod totaliter adhaereat uni parti; sed hoc est quandoque ab intelligibili, quandoque a voluntate.

 

a.      Ab intelligibili quidem quandoque mediate, quandoque immediate.

      Immediate, quando ex ipsis intelligibilibus statim veritas propositionum intelligibilium infallibiliter ap­paret. Et haec est dispositio intelligentis principia, quae statim cognoscuntur notis terminis, ut Philo­sophus dicit (I Posteriorum, text. VI). Et sic ex ipso quod quid est, intellectus immediate determina­tur ad huiusmodi propositiones.          Mediate vero, quando cognitis definitionibus terminorum, intellectus determinatur ad alteram partem contradictionis, virtute primorum principiorum. Et ista est dispositio scientis.

b.     Quandoque vero intel1ectus non potest determinari ad alteram partem contradictionis neque sta­tim per ipsas definitiones terminorum, sicut in principiis, nec etiam virtute principiorum, sicut in conclusionibus demonstrativis est; determinatur autem per voluntatem, quae eligit assentire uni parti determinate et praecise propter aliquid, quod est sufficiens ad movendum voluntatem, non autem ad movendum intellectum, utpote quod videtur bonum vel conveniens huic parti assentire. Et ista est dispositio credentis, ut cum aliquis credit dictis alicuius hominis, quia videtur decens vel utile.

Et sic etiam movemur ad credendum dictis, in­quantum nobis repromittitur, si crediderimus, prae­mium aeternae vitae: et hoc praemio movetur voluntas ad assentiendum his quae dicuntur, quam­vis intellectus non moveatur per aliquid intellectum. Et ideo Augustinus dicit (Tractatus XXVI in Ioann.), super illud: Nemo potest venire, quod cetera potest homo nolens, credere non nisi volens[24]

 

Giudizio:

î  indeterminato:

ê   dubbio: l’intelletto non è inclinato verso una parte della contraddizione più che verso l’altra

ê   opinione: l’intelletto è inclinato più verso una parte che verso l’altra, ma con il timore di sbagliare

î  determinato:

ê   certezza:

-       per evidenza dell’oggetto:

§  immediata (intuizione dei princìpi)

§  mediata (scienza)

-       per la volontà (fede), perché l’oggetto è inevidente, ma è bene assentire alle parole di un testimone a causa della sua autorità

 

Tramite l’assenso il credere si distingue dalla semplice apprensione, dal dubbio e dall’opinione; tramite la cogitazione si distingue invece dall’intelletto dei principi e infine tramite il fatto di essere costituito quasi ex aequo da cogitazione e da assenso si distingue dalla scienza. Nella fede infatti l’assenso non deriva dal puro pensiero (cogitazione), bensì dalla volontà.

Credere significa assentire col pensiero alla testimonianza di un teste per la sua autorità. Alla fe­de contribuisce l’intelletto per l’assenso, che è adesione della mente alla verità di fede, e la volontà per il consenso all’adesione dell’intelletto. Credere est actus intellectus assentientis vero ex imperio voluntatis[25].

Intellectus credentis determinatur ad unum, non per rationem, sed per voluntatem; et ideo assensus hic accipitur pro actu intel1ectus secundum quod a voluntate determinatur ad unum[26].

Credere è per conseguenza un atto libero, in quanto l’oggetto creduto rimane inevidente ed insufficien­te a muovere e a determinare. Nel contempo si esi­ge un motivo sufficiente, affinché la volontà possa ragionevolmente e fermamente muovere e determinare l’intelletto all’assenso piuttosto che al dissenso. Questo motivo è il seguente: è bene credere a un teste degno di fede (sapiente e verace), soprattutto se al credente è promesso un sublime premio, anzi, un premio dal quale dipende (nel caso della fede teologale) tutta la sua esistenza.

Credere a Dio consiste nell’assentire alle verità rivelate da Lui per il comando della volontà e per il motivo della divina Autorità. E, siccome in vista di ciò la grazia risulta del tutto indispensabile, S. Tommaso dice: “Ipsum credere (Deo) est actus intellectus assentientis veritati divinae ex imperio voluntatis a Deo motae per gratiam[27].

La carità è forma della fede, in quanto per essa l’atto di fede viene perfezionato e formato, ma l’abi­to della fede informe è perfettamente identico a quello della fede formata, in quanto la distinzione tra fede formata ed informe spetta alla volontà e non all’intelletto e per conseguenza non appartiene per se alla fede[28].

 

2)     La fede divina, il suo atto e il suo inizio de­vono essere intrinsecamente soprannaturali.

 

A.    La virtù della fede dev’essere soprannaturale ed infusa.

 Ad fidem duo requiruntur, quorum unum est, ut homini credibilia proponantur; aliud autem est assensus credentis ad ea quae proponuntur. Quantum enim ad primum horum, necesse est quod fides sit a Deo; ea enim quae sunt fidei excedunt rationem humanam, unde non cadunt in cognitionem hominis, nisi Deo revelante.

Quantum vero ad secundum, scilicet ad assensum hominis in ea, quae sunt fidei, potest considerari duplex causa. Una quidem exterius inducens, sicut miraculum visum, vel persuasio hominis inducentis ad fidem. Quorum neutrum est sufficiens causa: videntium enim unum et idem miraculum, et audientium eamdem praedicationem quidam credunt, et quidam non credunt. Et ideo oportet ponere aliam causam interiorem, quae movet hominem interius ad assentiendum his quae sunt fidei.

Hanc autem causam Pelagiani ponebant solum liberum arbitrium hominis. Et propter hoc dicebant, quod initium fidei est ex nobis, in quantum scilicet ex nobis est, quod parati sumus ad assentiendum his quae sunt fidei; sed consummatio fidei est a Deo, per quem nobis proponuntur ea, quae credere debemus.

Sed hoc est falsum, quia cum homo assentiendo his quae sunt fidei elevetur supra naturam suam, oportet quod hoc insit ei ex supernaturali principio interius movente, quod est Deus. Et ideo fides, quantum ad assensum, qui est principalis actus fidei, est a Deo interius movente per gratiam”[29].

Dato che l’oggetto primario della fede è essenzialmente soprannaturale, è necessario che l’intellet­to del credente si proporzioni a quell’oggetto tramite una virtù essenzialmente soprannaturale, infusa da Dio nell’uomo e non acquisita da quest’ultimo.

Al contrario la fede dei demòni è naturale, acquisita, né giunge mai ai misteri soprannaturali conosciu­ti in quanto tali, ma li riguarda soltanto materialmente, come delle verità espresse dal senso natura­le delle parole. Il motivo della fede dei demòni è infatti l’evidenza del miracolo e l’autorità di Dio-Do­minatore della natura, non la voce del Padre celeste che solo le pecore del Suo gregge possono percepire. In tal modo il diavolo “corticem rodit, non medullam gustat”.

 

B.    Per l’atto di fede si esige la grazia attuale per la stessa ragione, ovvero per il fatto che anche l’atto di fede è specificato da un oggetto essenzialmente soprannaturale e quindi deve proporzionarsi ad esso mediante una mozione divina altrettanto soprannaturale[30].

 

C.    Per lo stesso inizio della fede che è il pio affetto di credulità si richiede la grazia come fu definito dal Concilio di Orange contro i Semipelagiani[31]. Infatti, senza la grazia non possiamo volere nulla di soprannaturale, nemmeno desiderare di credere i misteri soprannaturali, poiché anche la volontà esige proporzione adeguata al suo oggetto. Il pius credulitatis affectus non è una compiacenza circa la bontà divina in sé, cosa che spetta all’atto di carità, ma piuttosto circa la somma veracità di Dio e circa il bene promesso ai credenti. L’atteggia­mento che esso esprime si descrive bene nella risposta di S.Pietro (Gv 6, 68-69): “Signore da chi andre­mo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo cre­duto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”.

 

D.    Diversità di sentenze tra le scuole teologiche.

  1. Tomisti e Suareziani: l’uomo non può credere le verità soprannaturali per il motivo soprannaturale della divina rivelazione senza una grazia interio­re speciale sia da parte dell’intelletto che da parte della volontà. E’ possibile tuttavia che l’uomo, udita la predicazione della fede, con il solo concorso generale e senza grazia speciale, acconsenta alle verità rivelate per un qualche motivo umano come fanno gli eretici.
  2. Scoto, nominalisti, Molina: l’assenso della fe­de, pur divinamente motivato, è soprannaturale non quanto alla sostanza, ma soltanto quanto al modo. La grazia è necessaria non per la fede in sé (al limite informe), ma solo per la fede salutare (formata dalla carità). La necessità della grazia non dipende né dall’oggetto soprannaturale né dal motivo divino, ma solo dal fine estrinseco al quale l’assenso di fede deve ordinarsi.
  3. Risposta dei Tomisti: “Obiectum assensus fidei est formaliter et in ratione obiecti supernaturale: obiectum quod enim, nempe ipsa veritas prima (vita Dei intima), est in se supernaturale; obiectum quo, scilicet motivum seu ratio formalis sub qua, est etiam supernaturale, scilicet divina revelatio (Dei auctoris non solum naturae, sed gratiae). Atqui obiectum supernaturale formaliter qua tale non potest attingi nisi ab actu supernaturali. Ergo intellectus non potest hunc assensum quoad suam substantiam elicere, nisi adiutus supernaturali auxilio[32].

 

3)     Unità di libertà e di certezza nell’atto di fede.

 

A.    La difficoltà della questione. La libertà dell’atto di fede concerne non solo l’esercizio, ma anche la specificazione. “Appena sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni dei presenti cominciarono a deridere Paolo. Altri invece gli dissero: ‘Su questo punto ti sentiremo un’altra volta’ ... Alcuni però lo seguirono e credettero”[33]. Il Concilio Vaticano I[34] afferma che tale libertà di specificazione rimane anche dopo la conoscenza certa dei motivi di credibilità. D’altra parte però, quanto all’esame dei motivi di credibilità, “ratio humana, ne in tanti momenti negotio decipiatur et erret, divinae revelationis factum diligenter inquirat oportet, ut certo sibi constet Deum esse locutum, ac eidem rationabile obsequium exhibeat[35].

      L’assenso di fede è assolutamente certo, infalli­bile a causa del suo motivo (autorità divina) e sommamente fermo a causa della mozione volitiva sostenu­ta dalla grazia attuale, dalla illuminazione ed ispirazione dello Spirito Santo[36].

La difficoltà allora è duplice:

a)     come, data la certezza razionale del fatto della rivelazione, può rimanere la libertà di dissentire dai dati rivelati e

b)     come l’atto di fede, se è libero e non necessario, può essere certissimo, escludendo ogni deliberato timore di errare.

 

B.    Soluzione di S.Tommaso. L’atto di fede è libero anche quanto alla sua specificazione: “Actus fidei potest esse meritorius in quantum subiacet voluntati non solum quantum ad usum, sed etiam quan­tum ad assensum[37]. La ragione può, prima di accogliere la fede, riconoscere con certezza il fatto della rivelazione: “sicut si aliquis propheta praenuntiaret in sermone Domini aliquid futurum et adhiberet signum, mortuum suscitando, et ex hoc signo convinceretur intellectus videntis, ut cognosceret manifeste hoc dici a Deo, qui non mentitur, licet illud futurum, quod praedicitur, in se evidens non esset. Unde per hoc ratio fidei non tolleretur[38]. L’assenso di fede è, infine, “simpliciter certior” di ogni intuizione naturale dei primi principi, “quia fides innititur ve­ritati divinae”, la fede poggia sulla divina verità che si rivela all’uomo e non sulla umana ragione[39].

La difficoltà allora si risolve cosi:

a)     rimane la libertà di specificazione nell’assenso della fede a causa dell’inevidenza dell’oggetto da credere;

b)     l’assenso di fede è, assolutamente parlando, più cer­to dell’assenso naturale, anche necessario, seppure rimanga meno certo, relativamente[40] parlando (secun­dum quid).

a)   L’assenso di fede è libero anche quanto alla specificazione a causa dell’inevidenza del mistero da credere. “Ipsum credere est actus intellectus assen­tientis veritati divinae ex imperio voluntatis a Deo motae per gratiam. Et sic subiacet libero arbitrio in ordine ad Deum[41]. Il motivo è che l’oggetto credibile è “non visto” e perciò non suf­ficientemente movente all’atto di adesione[42].

Anche se il fatto esterno della rivelazione è naturalmente conoscibile partendo dall’evidenza dei miracoli, il motivo formale della fede stessa (verità prima increata rivelante) rimane un che di essenzialmente soprannaturale e di non visto, e soltanto un qualcosa di creduto. “Veritas prima est obiectum fidei secundum quod ipsa est non visa et ea quibus propter ipsam inhaeretur[43].

b)  L’assenso di fede, seppure libero, è assolutamente più certo che l’assenso naturale necessario; relativamente tuttavia è meno certo[44].

E’ assolutamente più certo, perché “habet certiorem causam ... fides enim innititur veritati divinae ... Et multo magis homo certior est de eo, quod audit a Deo, qui falli non potest, quam de eo, quod videt propria ratione, quae falli potest”.

Relativamente è meno certo dell’assenso naturale necessario perché “quoad nos (ovvero appunto secun­dum quid) illud certius est quod plenius consequitur intellectus hominis” e non c’è dubbio che l’intellet­to umano raggiunge con più facilità il vero eviden­te che quello inevidente. La conoscenza oscura della fede, in sé superiore ad ogni conoscenza naturale, rimane però meno adatta alle ristrettezze dell’intel­letto umano e lo accontenta meno. Resta la possibi­lità di una “dubitatio non ex parte causae fidei, sed quoad nos: in quantum non plene assequimur per in­tellectum ea, quae sunt fidei[45].

Obiezione. La fede sarebbe allora più certa solo in astratto. Risposta. La fede è più certa quoad se e anche in nobis, non però quoad nos. Il lume della fede, infuso da Dio, produce sulla nostra mente il suo effetto formale che rende l’assenso di fede più sicuro sia quoad se che in nobis, meno certo però quoad nos[46]. Per questa imperfezione della fede quoad nos l’uomo ha bisogno dei doni dello Spirito Santo, in particolare della sapienza e dell’intelletto, la cui certezza suppone la carità infusa e deriva da una certa connaturalità rispetto alle cose divine.

 

  1. La conoscenza della rivelazione in quanto è motivo formale della fede infusa (credibilità sopran­naturale, intrinseca).

§ I. Lo stato e la difficoltà della questione.

Occorre prendere in esame la congiunzione del soggetto credente con l’oggetto da credere nella conoscenza del motivo per il quale si crede. Già alla luce della sola ragione risulta evidente che Dio non può ingannare né essere ingannato e dall’esame dei miracoli deriva la certezza razionale del fatto della rivelazione. A questo punto ci si chiede: è sufficiente, in vista della fede soprannatu­rale, una conoscenza solo naturale dell’autorità di Dio che attualmente si rivela o è necessaria anche una conoscenza soprannaturale del motivo di fede? In altre parole: senza l’illuminazione interna della fede l’anima rimane cieca rispetto al motivo della fede e sorda alla voce di Dio oppure al contrario già confusamente vede e sente in modo tale che la grazia risulti necessaria solo per rendere più solida la conoscenza del motivo di fede?

Risposta dei Tomisti.

Sono naturalmente conosci­bili la veracità di Dio-Autore della natura e il fatto della rivelazione come un che di soprannaturale quoad modum esteriormente manifestato e confermato dai miracoli; invece la rivelazione attiva, in quanto è soprannaturale quoad substantiam e procede da Dio-Autore della grazia, si raggiunge[47] solo per mezzo della fede ed è motivo formale della fede come ciò per cui e ciò che (id quo et quod) si crede.

Dottrina della Chiesa.

La Chiesa è infallibile nel proporre la fede[48] e Dio di fatto ha rivelato a noi Se stesso e gli eterni decreti della Sua volontà[49] con una rivelazione propriamente soprannaturale che non procede né dall’evoluzione storica del senso religio­so né dal subconscio dei profeti[50] e fu confermata di fatto, non già tramite trucchi da annoverare tra miti, ma, tramite miracoli propria­mente detti, dei quali la Chiesa stessa giudica in ultima istanza con una certezza superiore alla certezza naturale[51].

Discussione dei teologi.

Tomisti e Suarez: la rivelazione come motivo formale della fede infusa supera le forze della ragione e deve per conseguen­za essere conosciuta in modo soprannaturale. Scotisti e Nominalisti, Molina e molti moderni: il motivo formale della fede infusa non eccede le capacità naturali della ragione ed è sufficiente per conoscere naturalmente l’infallibilità e la veracità di Dio e il fatto della rivelazione. Tale conoscenza è essenzialmente naturale, anche se in seguito viene confermata dalla Chiesa e dal lume infuso della fede.

La Tradizione.

S.Agostino: “Valde remota est a sensibus carnis haec schola in qua Deus auditur et docet. Multos venire videmus ad Filium, quia multos credere videmus in Christum: sed ubi et quomodo a Patre audierint hoc et didicerint, non videmus. Nimium gratia ista secreta est” [52].

Idem: “Sic et Dominus Christus inter fideles suos et inimicos Iudaeos tanquam inter lucem et tenebras distinguebat; tanquam inter illos quos radio fidei perfundebat, et illos quorum clausos oculos circumfundebat. Nam etiam sol iste et videntis faciem illustrat et caeci: ambo pariter stantes et faciem ad solem habentes illustrantur in carne, sed non ambo illuminantur in acie; videt ille, ille non videt; ambobus sol praesens est, sed praesenti soli unus est absens ... Ergo testimonium sibi perhibet lux: aperit sanos oculos et sibi ipsa testis est, ut cognoscatur lux. Sed quid agimus de infidelibus? Numquid illis non est praesens? Est praesens et illis: sed quibus eam videant oculos non habent cordis. Audi de illis ex Evangelio ipso prolatam sententiam: ‘Et lux lucet in tenebris et tenebrae eam non compre­henderunt’ ”[53].

La Verità prima rivelante Se stessa, motivo della nostra fede, non è conosciuta dal fariseo incredulo, benchè egli conosca bene i miracoli, ma per conoscerla è necessaria la grazia interiore. Allora la Verità prima rivelante ovvero la luce divina manifesta se stessa e ciò senza cadere nel circolo vizioso e nel regresso all’infini­to, poiché non è necessaria un’altra rivelazione perché la rivelazione sia manifesta, non si accende un’altra lucerna per vedere splendere una lucerna.

S. Bernardo: “Sed absit ut putemus in fide vel spe nostra aliquid, ut is putat, dubia aestimatione pendulum: et non magis totum quod in ea est, certa ac solida veritate subnixum (motivo formale della fede), oraculis et miraculis, divinitus persuasum (credibilità raziona­le) Testimonia ista credibilia facta sunt nimis”. E per quanto concerne l’influsso della grazia: “Si quo minus, ipse postremo Spiritus reddit testimo­nium spiritui nostro quod filii Dei sumus. Quomodo ergo fidem quis audet dicere aestimationem, nisi qui Spiritum istum nondum accepit, quive Evangelium aut ignoret, aut fabulam putet? Scio cui credidi et certus sum, clamat Apostolus; et tu mihi subsibilas: Fides est aestimatio”.[54]

S. Bonaventura: “Si ergo quaeritur: quid movet ad illud credendum, utrum videlicet Scriptura, vel miracula, vel gratia, sive ipsa veritas aeterna? Dicendum est quod principaliter movens ad hoc est ipsa illuminatio quae inchoatur in lumine infuso, quae quidem facit nos non solum alte, verum etiam pie sentire de Deo; et hoc, quia illuminatio proce­dit ab ipso lumine aeterno in cuius obsequium nostrum captivat intellectum et ... reddit habilem ad credendum quaecumque ad divinum honorem et cultum spectant, etsi sint super rationem nostram. Moventia autem sicut adminiculantia, et quodammodo inducentia, plurima sunt: quia movent Scripturae testimonia authentica, movent sanctorum exempla et martyria, movent doctorum argumenta et ipsius universalis Ecclesiae sententia, movent et ipsa miracula irrefragabilia”[55].

Dottrina di San Tommaso. In essa la distinzione tra l’ordine soprannaturale e naturale è più nitida che in quella dei teologi precedenti grazie allo stru­mento metafisico che permette di determinare con più precisione che cosa sia la natura umana e le sue proprietà essenziali senza limitarsi a conside­rarla in un modo esclusivamente psicologico ed esperienziale. Similmente essa prende in considera­zione prima Dio in sé e solo in seguito Dio in quanto è Sommo Bene e Fine ultimo. Perciò San Tommaso riuscì anche a distinguere meglio quanto appartiene al lume della ragione nel giudizio della credibilità da quanto invece spetta al lume della fede nell’atto di credere.

 Ratio inducens ad creden­dum potest sumi vel ex aliquo creato, sicut quando per aliquod signum inducimur ad aliquod credendum vel de Deo, vel de aliis rebus, vel sumitur ab ipsa veritate increata, sicut credimus aliqua quae nobis divinitus dicta sunt per ministros ... Et primo modo est fides in daemonibus, in quantum ex ipsa natura­li cognitione simul et ex miraculis, quae vident supra naturam esse multo subtilius quam nos, coguntur ad credendum ea, quae naturalem ipsorum cognitionem excedunt”[56].

Potentiae et habitus ex ratione obiecti speciem recipiunt ... Cum enim fides non assentiat alicui nisi propter veritatem primam credibilem, non habet quod sit actu credibile nisi ex veri­tate prima, sicut color est visibilis ex luce, et ideo veritas prima est formale in obiecto fidei, et a qua est tota ratio obiecti”[57].

 “Omnis creata veritas defectibilis est, nisi quatenus per veritatem increatam rectificatur. Unde neque hominis neque Angeli testimonio assentire infallibiliter in veritatem duceret, nisi in quantum in eis loquentis Dei testimonium consideratur. Unde oportet quod fides, quae virtus ponitur, faciat intel­lectum hominis adhaerere veritati quae in divina cognitione consistit, transcendendo proprii intellectus veritatem. Et sic fidelis per ‘simplicem et semper eo­dem modo se habentem veritatem liberatur ab instabili erroris varietate’ ut dicit Dionysius c. 7 de divinis Nominibus ... Et ita fides, quae hominem divinae cognitioni coniungit per assensum, ipsum Deum habet sicut principale obiectum; alia vero quaecumque sicut consequenter adiuncta”[58].

“Veritas prima est obiectum visionis patriae ut in sua specie apparens; fidei autem ut non apparens”[59].

Quamvis lumen divinitus infusum sit efficacius quam lumen naturale, non tamen in statu isto participatur a nobis perfecte, sed imper­fecte, et ideo ... non ducimur per illud in visionem horum ad quorum cognitionem datur: sed hoc erit in patria, quando perfecte illud lumen participabimus, ubi in lumine Dei videbimus lumen[60].

 Vita aeterna consistit in plena Dei cognitione. Unde oportet huiusmodi cognitionis supernaturalis aliquam inchoationem in nobis fieri; et haec est per fidem, quae ea tenet ex infuso lumine quae naturaliter cognitionem excedunt [61].

In fide, si consideremus formalem rationem obiecti, nihil est aliud, quam veritas prima. Non enim fides, de qua loquimur, assentit alicui, nisi quia est a Deo revelatum. Unde ipsi ve­ritati divinae fides innititur, tanquam medio[62].

 Veritas prima est obiectum fidei secundum quod ipsa est non visa et ea quibus prop­ter ipsam inhaeretur[63].

Da tutto ciò risulta che il motivo formale della fede, che è la soprannaturale Verità prima rivelantesi, non può essere conosciuto dalla sola ragione, ma costi­tuisce nel contempo ciò che e ciò per cui si crede soprannaturalmente.

 

§ II. Prova della sentenza tomistica.

 

1)     Per l’infallibilità obbiettiva della fede.

 

Il fatto della rivelazione non solo viene proposto con certezza morale dalla storia che narra i miracoli del Cristo, ma in modo del tutto infallibile dalla Chiesa, che dichiara che questa stessa rivelazione è essenzialmente soprannaturale e che non è per nulla derivata in modo naturale dal subconscio dei profeti e che è stata confermata non già da prestidigitazioni relegabili tra i miti, bensì da veri miracoli, dei quali la Chiesa giudica con una certezza superiore a quella puramente naturale (Cf. quanto si è detto sopra del Magistero della Chiesa).

Ora quanto così viene presentato dalla Chiesa è indubbiamente da credere universalmente in modo soprannaturale.

Perciò i fedeli devono credere soprannaturalmente il fatto della rivelazione sul quale poggia tutta la fede, altrimenti di quel fatto e per conseguenza dei misteri rivelati non avrebbero la certezza obiettiva­mente infallibile, di per sè superiore ad ogni certezza naturale[64].

Non sempre è facile discernere il vero miracolo da un falso prodigio del demonio oppure verificare l’autenticità storica delle narrazioni riguardanti i miracoli. La Chiesa invece, come nei tempi antichi i profeti, giudica infallibilmente dell’esistenza della rivelazione e la propone come un dogma così come propone pure la sua stessa infallibilità.

Non vi è contraddizione tra il conoscere naturalmente il fatto della rivelazione da segni storicamen­te certi e crederlo secondo l’infallibile proposizione della Chiesa. Cosi anche gli Apostoli conobbero la risurrezione di Cristo da segni sensibili e la credettero per l’infallibile testimonianza delle Scritture[65].  La prova da segni non dà l’evidenza intrinseca del fatto e perciò non impedisce la fede riguardo allo stesso oggetto.

 

2)     Per la fermezza soggettiva richiesta nella co­noscenza del motivo della fede.

Alla proposta della Chiesa riguardo al fatto della rivelazione i fedeli devono aderire con infallibile certezza soggettiva, altrimenti non aderirebbero infallibilmente nemmeno ai misteri rivelati. Ora, tale solidità soggettiva che esclude ogni deliberato dubbio anche in mezzo ai supplizi del martirio per se trascende la ragione na­turale.

 

3)     Per il carattere essenzialmente soprannaturale richiesto in questo tipo di conoscenza.

L’adesione motivata dal vero motivo della fede deve essere soprannaturale ovvero proporzionata ai misteri soprannaturali e al motivo per cui essi sono creduti. Per conseguenza essa non può che procedere dall’abito infuso della fede.

La rivelazione divina presenta un duplice aspetto:

ê  uno più alto ed intimo sotto il quale è conoscibile alla luce della sola rivelazione,

ê  uno inferiore ed esterno sotto il quale essa è conoscibile anche naturalmente partendo dai miracoli.

            Nel primo aspetto essa costituisce un che di soprannaturale quoad substantiam ovvero un mistero; nel secondo aspetto invece viene considerata come soprannaturale quoad modum, ovvero come miracolo.

La rivelazione, in quanto è motivo formale della fede soprannaturale quoad substantiam, deve anch’essa essere soprannaturale quoad substantiam.

Ora quel che è soprannaturale quoad substantiam non è conoscibile se non soprannaturalmente, ovvero, dove non c’è ancora il lumen gloriae, tramite la fede soprannaturale.

Perciò la rivelazione, in quanto motivo formale della fede, è simultaneamente ciò che e ciò per cui si crede. 

 

Dimostrazione della maggiore.

Ex parte obiecti et Dei revelantis. Per rivelare oltre alle verità naturali dei misteri soprannaturali veri e propri Dio deve agire come autore non solo della natura, ma dell’ordine soprannaturale di grazia e gloria ovvero secondo la sua vita intima. Se cosi non fosse, non sarebbe più rispettato l’or­dine delle cause e dei fini e l’azione divina sarebbe inferiore all’oggetto rivelato.

Ex parte fidei nostrae. Il motivo formale della fede non può essere di ordine inferiore rispetto alla virtù che esso specifica. Ebbene la fede con cui crediamo i misteri soprannaturali è a sua volta soprannaturale quoad substantiam.

 

Dimostrazione della minore.

Ex parte obiecti. Il vero e l’ente si equival­gono[66]. Perciò quel che è soprannaturale entitativamen­te (quanto all’essenza) non può che essere sopran­naturale anche quanto alla conoscibilità.

Ex parte subiecti. Se il soprannaturale quoad substantiam fosse conoscibile naturalmente, la cer­tezza soprannaturale della fede infallibile si appog­gerebbe formalmente ed intrinsecamente alla ragione naturale e fallibile né potrebbe dunque essere di un ordine più alto di quello naturale, il che è manifestamente assurdo.

 

In sintesi. Vi dev’essere una proporzione tra il principio conoscitivo (facoltà elevata dall’abito in­fuso), il motivo oggettivo (oggetto formale quo) e l’oggetto formale quod che viene manifestato e co­nosciuto. Perciò S. Tommaso insegna: “Sicut manifesta­tio corporalis visionis fit per lumen corporale, ita etiam manifestatio visionis intellectualis fit per lumen intellectuale. Oportet ergo quod manifestatio proportionetur lumini, per quod fit, sicut effectus proportionatur suae causae ... Unde ad cognitionem, quae supra naturalem rationem existit, requiritur lumen intellectuale excedens lumen naturalis rationis[67]

 

Capitolo 13

IL CONCETTO DI CREDIBILITA’ RAZIONALE

E LA SUA NECESSITA’ IN VISTA DELL’ATTO DI FEDE

 

  1. La nozione di credibilità

 

Nozione cattolica.

“S. q. d.[68], revelationem divinam externis signis credibilem fieri non posse, ideoque sola interna cuius­que experientia aut inspiratione privata homines ad fidem moveri debere, an. s.[69][70].

“S. q. d., miracula nulla fieri posse, proindeque omnes de iis narrationes, etiam in Sacra Scriptura contentas, inter fabulas vel mythos ablegandas esse; aut miracula certo cognosci nunquam posse, nec iis divinam religionis christianae originem rite probari, an. s.”[71].

La fede è ragionevole perché il dato rivelato non è solo accettato con l’aiuto della grazia attuale in­teriormente movente, ma reso credibile tramite argomenti obbiettivamente proposti da Dio. “Ut nihilo­minus fidei nostrae obsequium rationi consentaneum esset, voluit Deus cum internis Spiritus Sancti auxi­liis externa iungi revelationis suae argumenta, facta scilicet divina atque in primis miracula et prophetias, quae cum Dei omnipotentiam et infinitam scientiam luculenter demonstrent, divinae revelationis signa sunt certissima, et omnium intelligentiae accommodata”[72].

“Ad solam catholicam Ecclesiam ea pertinent omnia, quae ad evidentem fidei christianae credibilitatem tam multa et tam mira divinitus sunt disposita. Quin etiam Ecclesia per se ipsa, ob suam nempe admirabi­lem propagationem, eximiam sanctitatem et inexhaus­tam in omnibus bonis foecunditatem, ob catholicam unitatem invictamque stabilitatem magnum quoddam et perpetuum est motivum credibilitatis et divinae suae legationis testimonium irrefragabile[73].

 

La Chiesa insegna circa la credibilità della fede:

1)     che i misteri della fede sono oggettivamente razionalmente credibili in quanto l’origine divina della religione cristiana risulta dimostrabile da segni asso­lutamente inconfutabili;

2)     che la ragione umana, prima di accogliere la fede, può conoscere con soggettiva certezza la credibilità e l’origine divina della religione cristiana;

3)     che non si richiede per ogni singolo fedele la dimostrazione scientifica della credibilità[74];  

4)     che non basta una conoscenza solo proba­bile né solo soggettiva né la sola esperienza inter­na o ispirazione privata[75].

 

Nozioni eterodosse o diminuiscono le forze della ragione e materialmente esaltano la soprannaturalità della fede o al contrario estendono le capacità della ragione diminuendo la soprannaturalità della fede.

 

1)     Pseudosoprannaturalismo.

 

A.    I protestanti (Lutero, Calvino) rifiutano l’autorità infallibile della Chiesa nella proposizione della rivelazione. La Parola di Dio sarebbe da discernere tramite il “sapore” o il “gusto” per opera dello Spirito Santo presente ed attivo in ogni fedele. Perciò essi pensavano di poter fare a meno dei miracoli e dei segni esterni che manifeste­rebbero l’origine divina della loro "riforma". La credibilità dei misteri era presentata come la loro attitudine ad essere creduti in quanto, alla luce dell’ispirazione privata, appaiono come rivelati da Dio. Non si salva in questa concezione la razionalità della credibilità, perché non è dato di sapere come si debba distinguere tra ispirazione privata ed illusione privata.

B.    I fideisti e tradizionalisti (Bautain, Bonnetty).

Il criterio di distinzione tra religione vera e falsa è la fede comune dell’umanità fondata nelle tradizioni e nella rivelazione primitiva. La ragione umana, oscurata come è dal peccato, non può dimostrare nessuna verità riguardo a Dio, nemmeno il fatto della sua esistenza e tanto meno il fatto della rivelazione in base ai miracoli. La credibilità dei misteri sarebbe dunque la loro attitudine ad essere creduti in quanto, secondo la fede comune a tutta l’umanità, sono considerati come rivelati da Dio.

Non si salva nemmeno in questa concezione la razionalità della credibilità perché manca il criterio oggettivo per distinguere tra la fede comune realmente fondata nella rivelazione originaria e le invenzioni degli uomini che inquinano l’autenticità delle tradizioni.

 

2)     Naturalismo e seminaturalismo.

 

A.    Kant ammette solo una fede morale fondata sulle esigenze della ragion pratica, sicché la credibilità dell’etica e della religione (puramente naturale) consiste nella loro attitudine ad essere credute in quanto appaiono conformi alle esigenze della nostra ragione pratica. I miracoli non possono essere riconosciuti con certezza.

B.    I protestanti liberali (Schleiermacher). La credibilità delle verità della religione consisterebbe nella loro attitudine ad essere credute in quanto appaiono conformi alle aspirazioni ed alle esigenze del senso religioso. Per gli uomini non ancora favorevolmente disposti nei riguardi del Cristianesimo i miracoli sono fatti incomprensibili, sì, ma non certo segni di una potenza superiore.

C.    I modernisti riducono la fede al “cieco senso di religione prorompente dai nascondigli del subconscio sotto la pressione del cuore e dell’inclinazione della volontà moralmente formata», identificano dunque la fede infusa con il senso naturale della religione e fanno consistere la credibilità dei misteri nella loro attitudine ad essere creduti in quanto ci appaiono conformi alle aspirazioni ed alle esigenze del senso religioso. Molti modernisti si distinguono tuttavia dai protestan­ti liberali perché ammettono almeno un qualche influsso della grazia soprannaturale.

D.    Semirazionalisti (Hermes): il motivo formale della fede non consiste necessariamente nell’autorità del Dio Rivelante, perché, una volta avvenuta la rivelazione, i singoli dogmi fondamentali possono essere razionalmente dimostrati a causa della loro intrinseca necessità, almeno pratica. Il fatto della rivelazione, confermato dai miracoli, è, sì, certo, ma solo praticamente e soggettivamente. Perciò la credibilità sta nell’attitudine dei misteri rivelati ad essere creduti in quanto appaiono conformi alle esigenze della nostra razionalità pratica. Si torna dunque all’autonomia assoluta della ragion pratica (Kant), con la sola differenza che i semirazionalisti ammettono il fatto della rivelazione e l’influsso della grazia.

E.     Gli immanentisti (Laberthonnière e Blondel) si avvicinano molto alla posizione precedente, perché vedono nell’ordine soprannaturale una vera e propria esigenza dell’ordine naturale. Essi adoperano il me­todo dell’immanenza “(ita) ut in natura humana non capacitatem solum et convenientiam videantur admittere ad ordinem supernaturalem, … sed germanam verique nominis exigentiam”[76].

Come si vede, generalmente la nozione errata di credibilità deriva da un concetto altrettanto errato di fede: al vero motivo di fede, autorità di Dio che si rivela, viene sostituito un motivo umano sogget­tivo, il che conduce ad un’altra concezione della credibilità ed un altro metodo per dimostrare la crediblità della fede.

 

  1. Spiegazione teologica della nozione cattolica di credibilità.

Definizione. La credibilità dei misteri di fede con­siste nella loro attitudine ad essere creduti in quanto tramite segni certissimi appare alla ragione uma­na che essi sono rivelati da Dio.

 

A.    Qualcosa è credibile per fede umana in quan­to viene affermato da testi idonei degni di fede perché:

a.      si ritiene che i testimoni sappiano quel che dicono,

b.     che siano veraci e

c.      che davvero affer­mino quella determinata verità.

Similmente qualcosa è ragionevolmente credibile per fede divina, se consta tramite segni evidenti che tale verità è rivelata da Dio, che Dio non può ingannare se stesso, che Dio non inganna mai nessuno (revela­tum a Deo qui nec falli nec fallere potest).

B.    Se la rivelazione procede da Dio, realmente distinto dal mondo e dalla nostra anima, e non dal nostro inconscio, se l’atto di fede non è una qualche esperienza religiosa di indole prettamente sog­gettiva, ma l’assenso dell’intelletto alla verità rivelata da Dio per l’autorità dello stesso Dio Rivelato­re, allora un mistero non può essere ragionevolmente credibile per fede divina se non appare alla nostra ragione umana come rivelato da Dio.

C.    Non basta come motivo di credibilità che un’affermazione sia conforme alle nostre aspirazioni; per questo essa non è credibile, ma, semmai, amabile e probabile (oggetto di un’opinione consolante).

 

Distinzione tra l’evidenza di credibilità dei mister­i comune a tutti i fedeli e l’evidenza di rivelazione nell’attestante propria degli Apostoli e dei Profeti.

Per avere l’evidenza della rivelazione (nell’attestan­te), occorre avere la certezza che Dio stia parlando ora a me. Per avere l’evidenza di credibilità basta sapere per segni certi che una verità è da credere come rivelata da Dio, anche se non si vede né il contenuto rivelato né si sente la locuzione divina rivelante. La credibilità infatti non consiste nell’oggetto pro­posto, né nella testimonianza di Dio, ma unicamente nella disposizione dell’oggetto che lo rende evidente­mente degno di fede. L’evidenza della divina testi­monianza è l’evidenza della divina rivelazione ottenuta tramite il suo effetto proprio ch’è la rivelazione passiva nella mente del profeta: tale effetto è conosciuto come soprannaturale, almeno quoad modum, sotto la luce profetica. In tal modo l’evidenza nell’attestante è superiore alla semplice evidenza di credibilità, ma inferiore all’evi­denza dei misteri in sé quale si avrà nella visione beatifica.

In senso lato, l’evidenza nell’attestante può signi­ficare anche l’evidenza della rivelazione per i miracoli che confermano la rivelazione immediatamente e che immediatamente sono sensibilmente conosciuti.

L’evidenza della credibilità si ha invece dalla semplice narrazione dei segni che confermano la rivelazione; la certezza che deriva da tale narrazione è una certezza morale fondata sulla testimonianza degli uomini.

Le proprietà della credibilità razionale.

1)     La credibilità è comune a tutti i contenuti rivelati. “Ea quae subsunt fidei dupli­citer considerari possunt. Uno modo in speciali. Et sic non possunt esse simul visa et credita ... Alio modo, in generali, scilicet sub communi ratione credibilis: et sic sunt visa ab eo, qui credit. Non enim crederet, nisi videret ea esse credenda, vel propter evidentiam signorum, vel propter aliquid huiusmodi”[77].

2)     La verità della credibilità è estrinseca rispetto ai rivelati. I misteri rimangono oscuri in sé, ma esteriormente sono manifestamente credibili in quanto per segni certi appaiono come rivelati da Dio. Così, nonostante l’evidenza della sua credibilità, la fede continua ad essere oscura, libera e soprannaturale.

3)     La credibilità è una verità speculativo-pratica. Non è solo speculativa, perché è ordinata all’atto di fede da porre, ma tale attitudine della proposizione ad essere creduta non è evidente a meno che il fatto della rivelazione non risulti come speculativamente certo, almeno con certezza morale come un fatto storico. La certezza morale infatti può essere speculativa e non solo pratica se riguarda un fatto esistente e non esclusivamente un’azione da compiere.

4)     La credibilità evidente è la condizione neces­saria dell’atto di fede.

 

  1. Il problema della necessità della credibilità razionale moralmente certa in vista della fede.

Affinché i misteri della fede risultino a noi ra­gionevolmente credibili, la ragione deve conoscere, almeno con certezza morale, il fatto della rivelazio­ne in quanto è soprannaturale quanto al modo. La rivelazione stessa invece, in quanto è azione increata e sostanzialmente soprannaturale di Dio, è creduta in modo soprannaturale ed infallibile come motivo formale della fede che è nel contempo ciò che si crede e ciò per cui si crede.

La difficoltà consiste nella conciliazione della soprannaturalità essenziale della fede con la razio­nalità dell’ossequio di fede. Affinché quell’ossequio sia ragionevole, la ragione deve conoscere i misteri come rivelati da Dio, che non può né ingannare né essere ingannato. Sembra allora che la ragione, da sé sola, esaminando i miracoli, possa conoscere il motivo formale della fede, sicché quel motivo non sarebbe più soprannaturale e la fede infusa specifi­cata da esso non sarebbe essenzialmente sopranna­turale e più certa della fede naturale acquisita che si fonda sull’evidenza dei miracoli.

Se al contrario la ragione da sé sola non può conoscere con certezza il fatto della rivelazione, non vi è più l’ossequio ragionevole di fede.

La difficoltà si risolve solo ammettendo la distin­zione tra il fatto di rivelazione, soprannaturale quoad modum, come lo è il miracolo, e la rivelazione stes­sa in quanto è azione di Dio increata e soprannatu­rale quoad substantiam, che propriamente spetta a Dio, Autore della grazia e della gloria e non solo Autore della natura. Sotto l’aspetto inferiore ed este­riore la rivelazione è nota alla ragione, sotto l’aspet­to superiore ed interiore lo è solo tramite la fede.

 

La Sacra Scrittura.

Sir 19, 4: “Chi si fida con troppa facilità è di animo leggero”.

Gv 20, 30-31: “Molti altri segni fece Gesù in pre­senza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo”.

I Pt 3, 15: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi do­mandi ragione della speranza che è in voi”.

 

S. Tommaso: “Quae sunt fidei possunt considerari ... in generali, scilicet sub communi ratione credibilis, et sic sunt visa ab eo qui credit; non enim crederet, nisi videret ea esse credenda vel propter evidentiam signorum, vel propter aliquid huiusmodi”[78]. Nel contempo tuttavia il motivo formale della fede non può essere conosciuto se non sotto l’ispirazione e l’illuminazione dello Spirito Santo.

 

  1. E’ richiesta la conoscenza razionale certa del fatto della rivelazione.

Nulla è ragionevolmente credibile con fede divina se non risulta credibile con fede immutabile tramite un’evidenza e non solo una probabilità di credibilità.

Ora, nulla è evidentemente credibile, se non appare alla ragione per mezzo di segni sicuri come rivelato da Dio.

Perciò, affinché i misteri della fede siano razionalmente credibili, la ragione deve, tramite segni sicuri, conoscere il fatto della rivelazione in quanto è soprannaturale almeno quoad modum.

Si suppone come evidente che l’ossequio della fede debba essere consono alla ragione, altrimenti la grazia non sarebbe conforme alla ragione, ma contra­ria alla retta ragione e la nostra fede sarebbe una leggera[79] credulità.

 

Per la credibilità razionale si richiede:

1)     quanto alla fede in genere, che la credibilità, per essere davvero razionale, sia evidente. GONET insegna: “Sine aliqua evidentia nihil est cognoscibile per iudicium determi­natum; nam quod penitus obscurum est, illud est penitus incognoscibile. Ergo sicut sine evidentia sci­bilitatis nihil est scibile, et sine evidentia probabi­litatis nihil est opinabile, ita sine evidentia credibi­litatis nihil est credibile”[80].

Affinché una verità sia ragionevolmente creduta non basta che sia probabilmente credibile, altrimenti la fede non si distinguerebbe dall’opinione che implica il timore dell’errore e suppone un’evidenza di proba­bilità o verosomiglianza in virtù della quale l’opinione è ragionevole e non imprudente, ma solo come opi­nione senza ferma adesione.

Al contrario la fede, anche genericamente considerata, sebbene sia umana, avviene tuttavia senza paura di sbagliare. Infatti, crediamo con fermezza ciò che ci viene detto seriamente da persone affidabili. Tale fermezza di adesione non deriva tuttavia dall’evidenza dell’oggetto, bensi dalla mozione speciale della vo­lontà che determina l’intelletto all’atto di credere. Questa mozione volitiva sarebbe imprudente, se vi fosse solo la probabilità di credibilità, perché in tal caso la volontà muoverebbe l’intelletto non solo a congetturare, ma a credere fermamente, senza sufficiente motivo. Si tratterebbe allora di fede irrazionale, di leggera[81] e superficiale credulità.

2)     Per la fede divina si richiede una credibilità evidente proporzionata - nulla è credibile con fede divina ed immutabile se non appare come evidentemen­te credibile con siffatta fede immutabile.

Vi è un abisso di differenza tra questi due giudizi: “x è credibile per fede umana, perché viene afferma­to da Aristotele” e “y è credibile con fede divina, perché viene affermato da Dio”. La fede umana, anche se prudente, non poggia su una testimonianza infallibile. La fede divina invece poggia su una testi­monianza infallibile, dimodoché non può essere legittiammente tratta in dubbio, anzi, il credente è tenuto a subire anche il martirio pur di non recedere da essa”[82].

Questa fermezza e definitività irrevocabile della fede divina, oggettivamente fondata sulla testimonian­za infallibile di Dio, deriva soggettivamente dalla volontà “sotto l’ispirazione e la mozione dello Spi­rito Santo”[83].

Ora, la volontà, anche mossa dalla grazia, non può muovere in un modo così razionale e definitivo l’intelletto al credere, se non vi è una ragione suf­ficiente e legittima per questa mozione. Vale infatti sempre il principio “nihil volitum, nisi praecognitum”. La ragione suddetta non può essere che la credibilità evidente, sicché una verità non è ragionevolmente credibile con fede divina ed immutabile, se non appare alla ragione come credibile con tale fede.

Nulla poi è credibile con fede divina ed irrevoca­bile se non appare alla ragione, tramite segni sicuri, come un qualcosa di soprannaturalmente rivelato da Dio.

 

In genere, anche per quanto riguarda la fede uma­na, credibile è ciò che si può credere. Ora, credere significa conoscere qualcosa per testimonianza altrui senza l’evidenza della realtà testimoniata.

Nulla è dunque credibile in genere, se non si verificano le seguenti tre condizioni:

(1) il fatto della testimonian­za,

(2) la veracità del teste,

(3) la sua scienza pro­porzionata al dato da lui attestato.

            Proporzional­mente, per la fede divina, occorre che sia certo per la ragione:

(1) che la verità da credere sia di fatto rivelata da Dio,

(2) che Dio sia assolutamente verace,

(3) che Dio sia infallibile.

La certezza razionale della credibilità riguarda il fatto della rivelazione in quanto è soprannaturale almeno quanto al modo. Si intende il modo della sua produzione a differenza della soprannaturalità quoad substantiam del contenuto rivelato. La ragione può conoscere il fatto della rivelazione in quanto esso costituisce un intervento miracoloso sulla mente del profeta, ma non può conoscere il fatto stesso della rivelazione in quanto esso procede da Dio intrinsecamente, sotto la formalità del Suo essere l’Autore della grazia e della gloria. Sotto quest’ultimo aspetto, sublime ed intimo, la stessa rivelazione diventa oggetto di fede divina, mistero soprannaturale quoad substantiam, motivo formale non più della credibilità, ma della fede stessa.

Si richiede credibilità razionale certa. La credibilità soltanto probabile dà solo un’opinione religiosa sull’origine divina del cristianesimo e non fede irrevocabile (così accade ai protestanti liberali e ai modernisti). Se poi vi è addirittura un errore nel giudizio di credibilità, non vi è per nulla fede divina, ma sola una sua falsa apparenza, come accade agli eretici che credono secondo il proprio arbitrio i dogmi che piacciono loro respingendo verità meno “piacevoli”. Talvolta succede anche che ritengono come divinamente rivelata un’opinione pu­ramente umana.

 

E’ sufficiente la certezza morale.

La dimostrazione scientifica della credibilità della fede e delle origini divine del cristianesimo risulta, certo, sommamente conveniente per la fede comune della Chiesa, ma di per sè non è richiesta in nessun individuo umano, ma basta la certezza del senso comune e, nel suo ambito, la certezza di tipo morale ad­attata alle condizioni e alla capacità intellettuale di ognuno (non è lecito sospendere l’atto di fede in attesa di avere la prova scientifica della sua credibilità[84]).

 

1)     La certezza scientifica non è accessibile a tutti. Ciò risulta del tutto evidente nei ragazzi e nei semplici. Basta la certezza del senso comune, della ragione naturale, come quella che ogni uomo comunemente ha dell’esistenza di Dio e del libero arbitrio umano.

Eppure è necessario giungere almeno a qualche motivo di credibilità per credere prudentemente; chi credesse senza alcun ragionevole motivo, avrebbe una fede superficiale e imprudente. Perciò gli uomini do­vrebbero credere al Cristo, anche se non avesse fatto nessun miracolo, perché vi sono altri segni di credibilità[85], sebbene il miracolo rimanga sempre il motivo più conveniente[86].

 

2)     La comune certezza fisica non è possibile per tutti. Essa può verificarsi in testimoni diretti d’un mira­colo, ma gli altri che ne sanno qualcosa solo per sentito dire possiedono solo la certezza morale del fatto della rivelazione confermato dal suddetto miracolo. Nella certezza morale infatti il nesso tra predicato e soggetto non dipende né dai concetti stessi né da leggi naturali, ma da costumi umani, ovvero dalla testimonianza di chi è degno di fede.

Gesù proclama beato chi, pur non avendo visto i segni esterni, crederà per testimonianza tramanda­ta ex auditu.

Lo stesso segno di credibilità costantemente offerto dalla mirabile vita della Chiesa non è noto a chi, prima di aderire alla predicazione della fede, vive al di fuori della Chiesa e forse anche lontano da essa.

Per quanto concerne la somma veracità di Dio che è naturalmente conoscibile, il senso comune ne ha una certezza assoluta, ben superiore a quella morale e anche a quella fisica. A tutti risulta assurdo pensare che Dio possa ingannarsi o ingannare altri.

 

3)     La fede divina non esige una certezza di credibilità superiore a quella morale. Per agire con cor­rettezza morale in circostanze gravi della vita è sufficiente avere la certezza morale. Ebbene, la fede divina richiede il giudizio di credibilità appunto come un che di certo nell’ordine naturale per agire con correttezza morale in una circostanza così importante e seria come quella di decidere se credere o no. Essa dunque si accontenta della credibilità moralmente sicura.

La fede soprannaturale non richiede il giudizio di credibilità come suo motivo intrinseco su cui essa si fonderebbe, ma solo come una condizione di ordine inferiore, affinché l’atto di fede sia prudente, dotato di quella prudenza che occorre adoperare in una decisione seria. L’evidenza della credibilità costituisce solo una guida verso la fede.

L’assenso di fede ha una duplice risoluzione: una formale intrinseca della certezza soprannaturale della fede saldamente fondata sulla rivelazione divina infallibilmente creduta che costituisce il motivo di fede; un’altra materiale ed esterna che da parte del soggetto si collega con l’evidenza della credibilità come con la sua condizione indispensabile; da parte dell’oggetto invece la condizione necessaria è costituita dall’infallibile proposizione da parte della Chiesa.

La certezza morale della credibilità non è tuttavia solo pratica, bensì anche speculativa. Infatti, essa riguarda non solo l’onestà di un’azione da porre hic et nunc, ma dei fatti esistenti come già accaduti. Si richiede dunque la comune certezza morale speculativa riguardante il fatto della rivelazione in vista di una fede veramente ragionevole.

 

4)     La certezza morale della credibilità è accessibile a tutti gli uomini, almeno con l’aiuto della grazia, anche se la grazia non è strettamente necessaria.

 

a)     Coloro che ascoltano la predicazione della fede cattolica si trovano confrontati con dei misteri cristia­ni proposti come rivelati da Dio secondo il giudizio della Chiesa universale, società vastissima che anno­vera tra le sue membra uomini di egregia virtù e dottrina. Ora, l’origine divina del cristianesimo, così proposta, risulta moralmente certa nell’ordine stesso della ragione. Per conseguenza tutti gli uditori della predicazione cattolica possono giungere alla certezza morale razionale della credibilità.

Seppure in vista di tale certezza, che è appunto di indole razionale e naturale, la grazia non sia assolutamente necessaria, essa però spesso e, secondo alcuni, persino ordinariamente, assiste l’in­telletto per conseguirla. Il BILLUART insegna: “Quantum ad fideles, nihil obstat quominus habitus fidei quem habent con­currat ad cognitionem credibilitatis”[87]. S.TOMMASO stesso dice: “Eorum quae sunt fi­dei ... fideles habent notitiam, non quasi demon­strative, sed in quantum per lumen fidei vident ea esse credenda”[88].

La grazia interiore di Dio, aiutando così ordina­riamente coloro che si avvicinano alla fede, affinché ne conoscano la credibilità, non supplisce a qualcosa che mancherebbe nella proposizione esterna della fede, ma si limita a dirigere l’attenzione dell’uditore ai veri motivi di credibilità che vengono proposti nella predicazione assieme ai misteri correggendo l’intenzione di chi ascolta in modo tale che egli possa giudicare razionalmente liberandosi dalle tendenze negative di egoismo, superbia, ecc.

Può succedere eccezionalmente che la grazia sup­plisca a quel che manca nella proposizione esteriore della fede. In tal caso però essa supplisce non in modo tale da far credere i misteri soprannaturali senza l’evidenza della credibilità, ma manifestando la loro credibilità, ad es. tramite il buon esempio del predicatore, il modo convincente della sua esposizione, la profondità della dottrina proposta, la pace profonda che tali insegnamenti lasciano nell’anima, ecc.

b)     Coloro che invincibilmente (senza colpa) igno­rano la predicazione cattolica, avendo l’uso del­la ragione, ricevono la grazia sufficiente per trovare la via della salvezza; se perciò adempiono il loro dovere, essi “divinae lucis et gratiae operante virtu­te” possono giungere alla sufficiente credibilità dei misteri della fede[89].

      Chi è stato educato tra gli eretici può comunque conoscere alcuni misteri principali e i motivi suffi­cienti di credibilità grazie alla predicazione della setta la quale spesso mantiene alcune verità miste a degli errori. Così egli aderisce all’errore con opinione umana e nel contempo può credere alcuni misteri della salvezza con fede divina.

Se un uomo vive in una regione lontana in cui non giungono missionari e invincibilmente ignora la predicazione cristiana, ma nel contempo segue l’in­clinazione della ragione naturale nel tendere al bene e fuggire il male, “certissime tenendum est, quod ei Deus vel per internam inspirationem revelaret ea quae sunt ad credendum necessaria, vel aliquem fidei praedicatorem ad eum dirigeret sicut misit Petrum ad Cornelium”[90].

Per conseguenza la certezza morale dell’atto di fede si può avere da parte di tutti gli uomini, almeno con l’aiuto della grazia interiore.

c)     La grazia interna non è assolutamente neces­saria in vista del giudizio certo di credibilità. I mo­tivi di quel giudizio sono infatti segni divini natural­mente conoscibili come i miracoli. “Stat bene aliquem evidenter iudicare de credibilitate viso miraculo, et tamen nolle credere ex sua perversitate”[91].

Così avvenne dei farisei, che assistevano ai mira­coli di Gesù, eppure non credevano.: “Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio” (Gv 15, 24). In At 4, 16 il sinedrio delibera: “Che dobbiamo fare a questi uomini? Un miracolo evidente è avvenuto per opera loro; esso è diventato talmente noto a tutti gli abitanti di Gerusalemme che non possiamo negarlo. Ma perché la cosa non si divulghi di più tra il popolo, diffidiamoli dal parlare ulteriormente ad alcuno in nome di lui”.

Similmente accade ad alcuni avversari moderni del­la Chiesa che, più ne riconoscono i pregi sovrauma­ni, più la impugnano. “La Rivoluzione crede nell’uma­nità; la Chiesa crede in Dio. Ella vi crede meglio di ogni setta: ella è la più pura, la pìù completa, la più splendida manifestazione dell’Essenza divina e non v’è che ella che sappia adorare”[92].

Infine la teologia insegna che anche i demòni senza alcuna grazia interna possiedono la conoscenza certa del fatto della rivelazione.

Perciò la credibilità evidente può essere conosciu­ta, non solo in assoluto, ma di fatto, senza la gra­zia, anzi, con tenace resistenza alla grazia.

Dopo aver elencato i principali motivi di credibi­lità, Pio IX prosegue: “quae certe omnia tanto divi­nae sapientiae ac potentiae fulgore undique collucent, ut cuiusque mens et cogitatio vel facile intelligat, christianam fidem Dei opus esse[93].

 

  1. La funzione del giudizio di credibilità nell’at­to di fede.

 

1)     Gli atti che dispongono all’atto di fede.

 

L’atto di fede è un atto umano, deliberato, elicito dall’intelletto ed imperato dalla volontà sotto l’ispirazione e l’illuminazione dello Spirito Santo. Occorre dunque analizzarlo alla luce dell’atto umano in genere[94].

Gli atti parziali che integrano l’atto di fede:

 

I. ATTI RIGUARDANTI IL FINE ULTIMO

Ordine dell’intenzione

1.      Giudizio:

il fine ulthno, noto almeno implicitamente, è un bene desiderabile.

2.      Desiderio:

del fine ultimo, della beatitudi­ne, della salvezza.

3.      Giudizio:

il fine si può e si deve conseguire – devo conoscere Dio, servirlo, obbedirgli, amarlo sopra ogni cosa.

4.      Intenzione:

sinceramente, secondo le mie possibilità, voglio il fine ultimo che è la mia salvezza e quindi voglio obbedire a Dio.

N.B. In chi giunge alla fede gli atti 3 e 4 sono già sotto l’influsso della grazia interiore.

 

Ascolto della fede: viene proposta la rivelazione della verità salutare confermata da segni divini.

 

II. ATTI RIGUARDANTI I MEZZI

A. Ordine della scelta

5.      Consiglio deliberante sulla rivelazione proposta:

a.    Giudizio speculativo, solo remotamente pratico, di credibilità: Questo è credibile.

b.   Giudizio speculativo-pratico, di credendità: Questo è da credere da parte dell’umanità.

6.      Consenso alla credibilità suddetta (non è ancora efficace).

7.      Giudizio pratico-pratico di credendità: Questo è da credere da parte mia hic et nunc.

8.      Scelta soprannaturale dell’atto di fede (= pius credulitatis affectus).

B. Ordine di esecuzione

9.      Comando: Credi!

10.   Uso attivo della volontà (pia mozione).

11.   Atto di fede: Credo.

12.   Gioia proveniente dalla certezza della fede.

 

2)     La distinzione tra il giudizio di credibilità e quello, pratico-pratico, di credendità.

 

La differenza fondamentale consiste nel fatto che il giudizio di credibilità come pure quello speculativo-pratico di credendità si trovano anche in coloro che non giungeranno mai alla fede, anzi, con piena avvertenza commettono il peccato di incredulità. Al contrario il giudizio pratico-pratico di credendità non si trova se non in coloro che di fatto giungono alla fede, sicché esso esige già qualche aiuto della grazia (initium fidei).

Gli increduli, pur vedendo i miracoli, giudicano, sì, con evidenza la credibilità della predicazione proposta, anzi, possono riconoscere persino l’obbligo di credere, eppure per la loro deliberata malizia si rifiutano di credere. In questo caso l’evidenza della credibilità e del dovere di credere costituiscono la base della piena avvertenza nel peccato di incredulità.

I credenti invece, quando viene loro proposta la predicazione del Vangelo confermata da miracoli, sono già incoativamente “uomini di buona volontà”, non oppongono resistenza alla grazia attuale preveniente ed eccitante e tendono sinceramente al fine ultimo conosciuto almeno implicitamente. Essi fanno il loro dovere, ragion per cui non solo conoscono speculativamente la credibilità e il dovere generale di credere, ma arrivano fino al giudizio pratico-pratico della credendità, a dire cioè: “Questo è da credere per me, ora e qui”.

Tale giudizio pratico-pratico di credendità non può esserci in coloro che resistono alla grazia della fede iniziale; esso infatti presuppone l’aiuto della grazia attuale. Il pius credulitatis affectus consiste nella scelta dell’atto di fede, sicché il giudizio pratico-pratico che immediatamnete regola tale scelta dev’essere a sua volta soprannaturale, in quanto propone delle cose da credere non solo credibili o credende in genere, ma convenienti pro me, hic et nunc, secondo l’attuale disposizione della mia volontà.

Secondo i tomisti il giudizio pratico-pratico di credendità e il pius credulitatis affectus sono soprannaturali quoad substantiam, perché sono specificati dal bene promesso essenzialmente soprannaturale al quale la volontà già aderisce.

Funzione del giudizio di credibilità: condizione sine qua non dell’atto di fede in quanto l’assenso oscuro deve risolversi, almeno materialmente ed este­riormente, in una qualche evidenza. Perciò la credibilità razionale dei misteri di fede, conoscibile alla luce della sola ragione, condizione remota dell’atto di fede, si deve accuratamente distinguere dalla credibilità soprannaturale di questi stessi misteri che viene attinta sotto il lume della fede, in quanto l’autorità di Dio che si rivela costituisce nel contempo ciò per cui e ciò che si crede assieme ai misteri suddetti (contenuti rivelati).

L’atto di fede non è la conclusione di un sillo­gismo apologetico, ma tale sillogismo termina al solo giudizio di credibilità:

 

Ma

Tutto ciò che Dio rivela è ragionevolmente credibile.

Mi

Ora, Dio ha rivelato la dottrina cristiana come appare dai segni che la confermano.

Co

Perciò tale dottrina è ragionevolmente credi­bile.

 

L’evidenza di credibilità dei misteri di fede è pu­ramente estrinseca; per conseguenza non toglie l’oscu­rità dei misteri né la libertà dell’atto di fede. La soprannaturalità essenziale della fede dipende dal suo oggetto formale specificante, che è la Verità soprannaturale a noi oscura, sebbene evidentemente credibile in virtù dei segni che la confermano.

 

Capitolo 14

 

LA DIMOSTRABILITA’ DELLA CREDIBILITA’

­PARTENDO DAI MOTIVI DI CREDIBILITA’

 

  1. Necessità di tale dimostrazione per la fede collettiva di tutta la Chiesa.

 

La dimostrazione scientifica della credibilità non si richiede per ogni fedele, ma basta la certezza del senso comune e morale che è accessi­bile a tutti, almeno con l’aiuto della grazia.

Per la fede collettiva della Chiesa è tuttavia sommamente conveniente che si espliciti la dimostra­zione scientifica dei motivi di credibilità. La dimostrazione suddetta ha il suo fondamento metafisico nella forza probante dei segni dati da Dio per confermare la fede e il suo fondamento storico consiste nella reale, storica, esistenza di tali segni. Essa non è strettamente necessaria, nemmeno per la fede di tutta la Chiesa nel suo insieme, perché sempre, strettamente parlando, basta la certezza del senso comune, anzi, almeno in parte, la grazia divina può supplire a quanto manca alla proposizione oggettiva della credibilità.

 

Nondimeno la grande convenienza della suddetta dimostrazione di credibilità della fede cattolica risulta:

a.      Dall’esperienza. I fedeli spesso fanno ricorso alla scienza dei dotti dei quali si presume che conoscano i motivi di credibilità per poter risolvere le difficoltà e le obiezioni degli increduli. Dato che siffatte obiezioni vengono proposte a nome della scienza filosofica e storica, i dottori che devono ammaestrare gli altri hanno il dovere di conoscere la dimostrazione scientifica della credibilità metafisicamente e storicamente fondata. “Superiores homines, ad quos pertinet alios erudire, tenentur habere pleniorem notitiam de credendis, et magis explicite credere”[95].

b.     Dalla ragione. E’ cosa sommamente con­veniente che la Chiesa possa difendere l’inconfuta­bile valore dei segni della rivelazione, che da Dio stesso le sono stati affidati come conferma della credibilità del messaggio rivelato. Solo così tali segni, oltre ad essere sicuri e irrefragabili in sé, lo diventano anche quoad nos, rispetto ai fedeli.

“Spiritus Sanctus sufficienter providet Ecclesiae in his, quae sunt utilia ad salu­tem ... Necesse est (autem) quod sermo prolatus (scilicet praedicatio fidei) confirmetur, ad hoc quod credibilis fiat. Hoc autem fit per operationem miraculorum, secundum illud Marci ult. ‘et sermonem confirmante sequentibus signis’. Et hoc rationaliter. Naturale enim est homini, ut veritatem intelligibilem per sensibiles effectus deprehendat. Unde, sicut ductu naturalis rationis homo pervenire potest ad aliquam Dei notitiam per effectus naturales, ita per aliquos supernaturales effectus, qui miracula dicuntur, in aliquam supernaturalem cognitionem credendorum homo inducitur”[96]. Il miracolo è dunque molto conveniente per la difesa della rivelazione e simil­mente il valore del miracolo sarà estremamente conveniente in vista della difesa della fede.

 

  1. La possibilità di dimostrare la credibilità.

 

La dimostrazione della credibilità non solo è possibile, ma esiste di fatto. “S. q. d. miracula nulla fieri posse, aut miracula certo cognosci nunquam posse, nec iis divinam religionis christia­nae originem rite probari, an. s.”[97]. “Recta ratio fidei fundamenta demonstrat”[98]. Bautain ha dovuto sottoscrivere la seguente dichiarazione: “Probatio ex miraculis Iesu Christi desumpta, sensibilis et percellens, pro testibus ocularibus, vim suam et fulgorem nequaquam amisit quoad generationes sequentes. Invenimus hanc probationem omni cum certitudine in authenti­citate Novi Testamenti, in traditione orali et scripta omnium Christianorum”[99]. Il giuramento antimodernistico infine recita: “Profi­teor secundo: externa revelatonis argumenta, hoc est facta divina, in primis miracula et prophetias admitto et agnosco tamquam signa certissima divinitus ortae christianae Religionis, eademque teneo aetatum omnium atque hominum, etiam huius temporis, intelligentiae esse maxime accomo­data”.

 

  1. Spiegazione teologica della dimostrabilità della credibilità.

 

Si potrebbe obbiettare che il fatto della rivelazio­ne divina non è conoscibile naturalmente né partendo dalla sua causa che è soprannaturale, né partendo dagli effetti che, come la grazia, sono anch’essi di indole decisamente soprannaturale.

Risposta. Non è necessario che il fatto della rivelazione sia dimostrato con prove scientifiche proprie ed ostensive, che sono raggiungibili solo tramite la causa o l’effetto propri, ma è del tutto sufficiente la prova scientifica sensu lato ed indiretta, che si ottiene per mezzo di un segno esterno, ma divinamente prodotto per dare conferma alla rivelazione. In tal modo il miracolo direttamente manifesta l’intervento della divina onnipotenza e indirettamente l’origine divina della predicazione così confermata.

Si tratta di una dimostrazione indiretta, per absurdum, che conclude che la cosa sia così, perché altrimenti seguirebbero delle assurdità (ad esempio, nel nostro caso, che altrimenti Dio, autore del miracolo, sarebbe un falso testimone). La dimostrazione suddetta non fornisce l’evidenza intrinseca della cosa, ma esclude la paura di sbagliare a causa dell’assurdo dedotto nel caso contrario.

Argumentum dicitur dupliciter. Quandoque dicitur argumentum quaecumque ratio rei dubiae faciens fidem; quandoque autem dicitur argumentum aliquod sensibile signum, quod inducitur ad alicuius veritatis manifestationem, sicut etiam Aristoteles in libris suis aliquando utitur nomine argumenti[100]. Primo igitur modo accipiendo argumentum, Christus non probavit discipulis suam resurrectionem per argumenta (idem potest dici de origine divina suae doctrinae); quia talis probatio argumentativa processisset ex aliquibus principiis, quae si non essent nota discipulis, nihil per ea eis manifestaretur: quia ex ignotis non potest aliquid fieri notum; si autem essent eis nota, non transcenderent rationem humanam; et ita non essent efficacia ad fidem resurrectionis adstruendam, quae rationem humanam excedit. Oportet enim principia ex eodem genere assumi. Probavit autem eis resurrectionem suam per auctoritatem Sacrae Scripturae, quae est fidei fundamentum, cum dixit: ‘oportet impleri omnia, quae scripta sunt in Lege et in Psalmis et Prophetis de me’, ut habetur Luc. Ult. Si autem accipiatur secundo modo argumentum, sic Christus dicitur suam resurrectionem argumentis declarasse, in quantum per quaedam evidentia signa se vere resurrexisse ostendit. Unde in graeco, Act. I, 3, ubi nos habemus, ‘in multis signis’ loco argumenti ponitur tekmèrion, quod est signum evidens ad probandum[101].

Il fatto della rivelazione appare anche dalla mirabile vita della Chiesa, ben nota da segni esterni e manifestamente superiore alle forze puramente umane. L’argomento desunto da cose naturalmente note rimane tuttavia sempre e solo un argomento per mezzo di un segno.

 

  1. Nozione del motivo di credibilità.

 

I motivi di credibilità sono dei segni o delle proprietà tramite i quali la religione rivelata diventa evidentemente credibile di fede divina.

Si dicono segni o proprietà in quanto manifesta­no l’origine divina della religione rivelata costituen­do veri e propri “argomenti della divina rivelazione”. Si dicono invece motivi rispetto al giudizio di credibilità che si fonda in essi.

Motivo di fede non è un segno di rivelazione, ma la stessa autorità di Dio che si rivela.

Motivo di credendità è il diritto divino fondante l’obbligo di credere (Dio ha diritto ad essere creduto).

Oggetto del “pius credulitatis affectus” è il bene promesso ai fedeli e la bontà stessa della dottrina così proposta come divina e confermata dai segni.

1)     Ci accorgiamo che la religione rivelata è credibile a causa dei segni divini che manifestano la sua origine divina.

2)     Ci rendiamo conto che essa deve essere creduta per l’obbedienza dovuta a Dio e in vista della nostra salvezza.

3)     La crediamo soprannaturalmente per l’autorità del Dio che si rivela.

Tre sono le condizioni affinché un fatto si costituisca motivo di credibilità:

a.      che sia in sé certo,

b.     che derivi sicuramente da uno speciale intervento di Dio,

c.      che sia evidente il suo significato atto a confermare la rivelazione.

 

  1. La divisione dei motivi di credibilità.

 

  1. Insegnamento della Chiesa.

 

1)     Externa revelationis divinae argumenta, facta scilicet divina, atque imprimis miracula et prophetiae, cum Dei omnipotentiam et infinitam scientiam luculenter commonstrent, divinae revelatio­nis signa sunt certissima et omnium intelligentiae accomodata”[102].

2)     La mirabile vita della Chiesa: “Ob suam nempe admirabilem propagationem, eximiam sanctitatem et inexhaustam in omnibus bonis foecunditatem, ob catholicam unitatem invictamque stabilitatem magnum quoddam et perpetuum est motivum credibilitatis et divinae suae legationis testimonium irrefragabile”[103].

3)     Vi sono anche i motivi interni: “Voluit Deus cum internis Spiritus Sancti auxiliis externa iungi revelationis suae argumenta”[104]. E Pio IX argomenta partendo dalle aspirazioni umane: “Fides vitae magistra, salutis index, vitiorum omnium expultrix ac virtutum foecunda parens et altrix … omnes populos, gentes, nationes, utcumque immanitate barbaras ac indole, moribus, legibus, institutis diversas, divinae cognitionis lumine illustravit, atque suavissimo ipsius Christi iugo subiecit, annuntians omnibus pacem, annuntians bona (Cf. Is 52, 7) [105].

E’ invece respinta la dottrina protestante sull’esperienza religiosa secondo cui “sola interna cutusque experientia aut inspiratione privata homines ad fidem moveri debent”[106].  

I motivi interni sono validi purché non vengano soggettivizzati separandoli o addirittura opponendoli a quegli esterni, in particolare ai miracoli. “Ille, qui credit, habet sufficiens inductivum ad credendum: inducitur enim auctoritate divinae doctrinae miraculis confirmatae, et quod plus est, interiori instinctu Dei invitantis; unde non leviter credit”[107]. San Tommaso[108] dimostra che, anche se Gesù non avesse fatto nessun miracolo, gli uomini sarebbero comunque tenuti a credergli per la sublimità della sua parola.

 

  1. La divisione dei motivi di credibilità.

 

I motivi di credibilità sono o esterni o interni rispetto alla coscienza dell’uomo credente o in ricerca della fede.

Quelli esterni sono o estrinseci (miracoli, pro­fezie) o intrinseci (sublimità della dottrina, la vita mirabile della Chiesa) rispetto alla religione rivelata.

Quelli interni si desumono dal sorprendente com­pimento delle nostre aspirazioni e si dividono in uni­versali (se si tratta delle aspirazioni dell’umanità tutta intera) o individuali (se si tratta dell’esperien­za interiore di un singolo, ad es. di una grande pace che non può venire se non da Dio. “(I discepoli di Emmaus) si dissero l’un l’altro: ‘Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?’ (Cf. Lc 24, 32)”.

 

La divisione complessiva può essere riassunta press’a poco cosi:

 

Motivi di credibilità:

î  esterni:

-       estrinseci:

§  miracoli

§  profezie

-       intrinseci:

§  sublimità della dottrina

§  vita mirabile della Chiesa

î  interni:

-       universali:

§  mirabile compimento delle aspirazioni dell’umanità alla giustizia, alla santità, all’amicizia con Dio

-       individuali:

§  esperienza individuale di quella pace “che il mondo non sa dare”


INDICE

Introduzione di P.Giovanni Cavalcoli, OP

 

I.          La religione

1.      Il nesso tra rivelazione e religione

2.      L’etimologia della parola religione

3.      Le nozioni eterodosse di religione

4.      La nozione tradizionale, cattolica, della religione

5.      Il posto del Cristianesimo tra le principali religioni mondiali        

                                                     

II.          La rivelazione

1.      Definizione nominale della rivelazione

2.      Definizione più esplicita proposta dalla Chiesa

3.      Nozioni eterodosse della rivelazione

4.      Spiegazione e difesa teologica della nozione cattolica di rivelazione

5.      Divisione della rivelazione (secondo le cause)                                                                                                  

III.          Mistero e dogma

1.      La nozione del mistero e del dogma

2.      Il mistero in genere. Definizione e divisione

3.      Intelligibilità dei misteri e la loro connessione

4.      La spiegazione della nozione del dogma

5.      L’immutabilità del dogma e la sua intelligenza progressiva

 

IV.          La soprannaturalità

1.      Definizione nominale

2.      La nozione cattolica del soprannaturale e dell’ordine soprannaturale

3.      Le nozioni eterodosse di soprannaturalità

4.      Definizione e divisione del soprannaturale

5.      L’essenza dell’ordine soprannaturale

 

V.          Il razionalismo e il naturalismo in genere

1.      Definizione del razionalismo

2.      Il fondamento del razionalismo nell’assoluta autonomia della ragione

3.      Lo spirito del razionalismo

4.      La divisione in genere dei sistemi razionalistici e naturalistici

5.      Le parti della divisione

 

VI.          L’evoluzionismo panteistico

1.      Definizione dell’evoluzionismo in genere

2.      L’evoluzionismo materialistico-empiristico

3.      L’evoluzionismo idealistico

4.      Panteismo hegeliano

5.      Critica dell’evoluzionismo panteistico

 

VII.          L’agnosticismo

1.      L’agnosticismo in genere

2.      L’agnosticismo empirico

3.      Agnosticismo idealistico

4.      Difesa del valore ontologico dei primi princìpi della ragione

5.      Il valore trascendentale delle prime nozioni e dei primi principi dell’ente

 

VIII.          Possibilità della rivelazione soprannaturale e specialmente quella delle verità naturali della religione

1.      Dimostrazione della possibilità della rivelazione dalla parte dell’oggetto e del soggetto

2.      Possibilità della rivelazione da parte di Dio che si rivela

3.      E’ conveniente che Dio trasmetta la sua rivelazione tramite degli strumenti umani

4.      E’ conveniente all’uomo ricevere la rivelazione mediante altri uomini

5.      La rivelazione implicita

 

IX.          Possibilità della rivelazione dei misteri soprannaturali dalla parte dell’oggetto

1.      Le dottrine eterodosse e la dottrina della Chiesa

2.      Dimostrabilità di un ordine di verità e di vita soprannaturali in Dio

3.      Esistenza dell’ordine soprannaturale obiettivamente eccedente le forme naturali dell’intelletto creato

4.      La conoscibilità negativa della possibilità dei misteri soprannaturali

5.      L’ontologismo

 

X.          La possibilità della rivelazione dei misteri soprannaturali dalla parte dell’agente e del soggetto

1.      Stato della questione

2.      La possibilità della rivelazione da parte dell’agente e del soggetto non è confutabile

3.      L’esistenza della potenza obbedienziale della nostra natura rispetto all’ordine soprannaturale è suggerita dalla considerazione dell’oggetto adeguato del nostro intelletto

4.      L’esistenza della potenza obbedienziale ovvero dell’elevabilità alla vita soprannaturale è suggerita dal nostro desiderio naturale di vedere l’essenza di Dio

5.      Chiarimenti conclusivi

 

XI.          Convenienza e necessità della rivelazione

1.      Dottrine eterodosse e dottrina della Chiesa

2.      In vista della conoscenza naturale di Dio la rivelazione non è necessaria nemmeno moralmente

3.      E’ moralmente necessaria la rivelazione di tutto l’insieme delle verità naturali riguardanti la religione

4.      La rivelazione dei misteri soprannaturali è necessaria ipoteticamente, ma strettamente

5.      L’elevazione gratuita del genere umano al fine soprannaturale è conveniente

 

XII.          La credibilità dei misteri di fede. La conoscibilità del fatto della rivelazione

1.      La virtù della fede

2.      L’atto di fede

3.      Le nozioni eterodosse della fede

4.      Analisi teologica dell’atto di fede

5.      La conoscenza della rivelazione in quanto è motivo formale della fede infusa (credibilità soprannaturale, intrinseca)

 

XIII.          Il concetto di credibilità razionale e la sua necessità in vista dell’atto di fede

1.      La nozione di credibilità

2.      Spiegazione teologica della nozione cattolica di credibilità

3.      Il problema della necessità della credibilità razionale moralmente certa in vista della fede

4.      E’ richiesta la conoscenza razionale certa del fatto della rivelazione

5.      La funzione del giudizio di credibilità nell’atto di fede

 

XIV.          La dimostrabilità della credibilità partendo dai motivi di credibilità

1.      Necessità di tale dimostrazione per la fede collettiva di tutta la Chiesa

2.      La possibilità di dimostrare la credibilità

3.      Spiegazione teologica della dimostrabilità della credibilità

4.      Nozione del motivo di credibilità

5.      La divisione dei motivi di credibilità

 

 

Fine Quinta Parte (5/5) 

Testo di P.Tomas Tyn curato da P.Giovanni Cavalcoli

 

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Servo di Dio P.Tomas Tyn:

- da bambino

- ultimi mesi di vita



[1] Denz. 3008, cf. 3032.

[2] La “fede informe” è retta fede, in quanto semplice atto dell’intelletto, seppur mosso dalla volontà di credere. Questa fede è autentica, ma non è ancora sufficiente alla salvezza. Perché ci si salvi , deve essere “formata”, si intende dalla carità, la quale fa sì che, quanto la fede insegna, venga messo in pratica se si tratta di precetti morali, o venga in qualche modo “sperimentato” se si tratta di comandi, che orientano il nostro cuore alla divina contemplazione. Se la fede non passa nelle opere resta “morta”; se invece passa nelle opere diventa “viva”. La fede informe non è ancora necessariamente una fede morta. Come ho detto essa è vera fede, ma diventa morta se il soggetto non la mette in pratica. Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[3] Denz. 3010, cf. 3035.

[4] Denz. 3477.

[5] Denz. 3010; cf. Concilio di Orange, Denz. 375, dal quale risulta che persino l’initium fidei e il pius credulitatis affectus sono dei doni di grazia

[6] Denz. 2778, 3008, 3013-3014, 3036, 3425.

[7] Denz. 2119.

[8] Denz. 3010, 3013-3014.

[9] Denz. 2119.

[10] Denz. 3014.

[11] Denz. 2778.

[12] Denz. 2121.

[13] Denz. 2253.

[14] Denz. 3033.

[15] Denz. 2778.

[16] Naturalmente “precede” non nel senso che la ragione abbia un primato ontologico o assiologico sulla fede: saremmo infatti nello gnosticismo e non ci sarebbe più la fede. Ma “precede” nel senso genetico-temporale, ossia nel senso che per poter giungere alla fede, occorre essere persone ragionevoli, le quali riflettono con prudenza sulle prove di credibilità che le vengono offerte, e solo a questo punto, sollecitate dal pius credulitatis affectus, si sentono ragionevolmente portate a credere alla Parola di Dio. Ciò porta come conseguenza, sul piano dell’educazione alla fede, il dovere dell’educatore di presentare all’educando persuasivi motivi ragionevoli, che lo inducano a credere, in modo tale che egli possa ad un certo punto misterioso, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, dare il suo libero assenso alla verità di fede. Allorchè l’educando percepisce la ragionevolezza dei motivi di credibilità, normalmente lo Spirito Santo lo stimola a credere. A questo punto nasce in lui il dovere di credere, per cui, se non crede, compie il grave peccato di incredulità, più volte condannato da Cristo nel Vangelo. Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[17] Denz. 2755.

[18] Denz. 3035.

[19] Come ho detto nella nota 229, allorchè il soggetto prende coscienza del valore di segno di credibilità (miracoli e profezie) del messaggio evangelico, ovverosia dei motivi che lo rendono credibile (credibilità) e quindi da credersi (credendità), lo Spirito Santo suscita in lui il pius credulitatis affectus, per cui nasce in lui l’obbligo morale e anche il desiderio di credere. Questo non vuol dire il soggetto sia necessitato a credere quasi che si trovasse davanti ad una evidenza razionale o sperimentale. Per questo il Concilio dice che l’atto di fede che il soggetto decide di compiere è libero e, come spiega P.Tyn, è libero non solo per quanto riguarda l’esercizio, ma anche la specificazione, inquantochè, come insegna S.Tommaso, l’intelletto, nell’atto di fede, è determinato all’assenso non dall’evidenza dell’oggetto, ma dalla decisione della volontà.  Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[20] Cf. III Sent. d. 24, 2, 2.

[21] II-II, 1, 1.

[22] Motivo formale della fede. Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[23] L’oggetto formale quo è ciò che con linguaggio più semplice si potrebbe chiamare lume della fede o punto di vista della fede o visuale di fede, ossia è l’oggetto di fede in quanto illuminato dalla fede, oppure ancora è quella luce spirituale che consente di riconoscere l’oggetto della fede.  Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[24] De Veritate 14, 1 c.

[25] Cf.  Summa Theologiae II-II, 2, 2, 3; 4, 1.

[26] II-II, 2, 1, 3m.

[27] II-II, 2, 9.

[28] Cf. II-II, 4, 3 e 4.

[29] II-II, 6, 1 c.

[30] Cf. I-II, 109, 1 c.

[31] Denz. 375.

[32] BILLUART, de Gratia, diss. III, a. 2, § 2.

[33] Atti 17, 32.34.

[34] Denz. 3035.

[35] PIUS IX, Qui pluribus, Denz. 2778.

[36] Demz. 2119, 3010-3014.

[37] II-II, 2, 10.

[38] II-II, 5, 2.

[39] Cf. II-II, 4, 8.

[40] Relativamente al soggetto, il quale può essere debole nella fede. Viceversa l’oggetto di fede in se stesso è certissimo, perché rivelato da Dio. Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[41] II-II, 2, 9.

[42] Cf. II-II, 1, 4.

[43] II-II, 4, 1.

[44] Cf. II-II, 4, 8.

[45] Ib, 1 m.

[46] Il dato di fede si trova nella nostra mente ed in se stesso è certissimo; tuttavia così come appare a noi nella limitatezza della nostra intelligenza non ci risparmia la difficoltà del credere. Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[47] Si accoglie. Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[48] Denz. 3012, 3017, 3020.

[49] Denz. 3004.

[50] Denz. 3482, 3493.

[51] Denz. 3034.

[52] De praedestinatione sanctorum (ML 44, 970).

[53] In Joann. Evang. VIII, 14; tract. XXXV (ML 35, 1658 ss .

[54] ML 182, 1061-1062.

[55] Quaestiones disputatae de Trinitate, 1, 2 sol.

[56] III Sent d. 23, 3, 3.

[57] Ib. d. 24, 1, 1.

[58] De Veritate 14, 2 c.

[59] Ib. 3m.

[60] Ib. 14, 9, 2m.

[61] Ib. 14, 2 c.

[62] Summa Theologiae II-II, 1, 1 c.

[63] II-II, 4, 1 c.

[64] II-II, 4, 8.

[65] III, 55, 5 c., 2m, 3m.

[66] Si convertono l’uno nell’altro (convertuntur). Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[67] II-II, 171, 2 c.

[68] Questa sigla sta per: si quis dixit, cioè: se qualcuno dice. Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[69] Questa sigla sta per: anathema sit, cioè: sia anatema. Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[70] Denz. 3033.

[71] Denz. 3034.

[72] Denz. 3009.

[73] Denz. 3013.

[74] Cf. Denz. 3036.

[75] Cf. Denz. 2121; 3425.

[76] Denz. 2103. Per questa nota non c’è corrispondenza con la fonte citata. Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[77] II-II, 1, 4, 2m.

[78] II-II, 1, 4, 2m.

[79] Credulità dettata da leggerezza. Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[80] De Fide, disp. 1, a. 8, § 1.

[81] Cf. nota 292. Nota di P.Giovanni Cavalcoli, OP.

[82] Cf. Denz. 3036.

[83] Denz. 3010, 3013-3014.

[84] Denz. 3036.

[85] (Quodl. II, 6; III 43, 1, 3m.,

[86] III 43, 1 e II-II 178, 1.

[87] De Fide, diss. I, a. 6, resp. ad 2m.

[88] II-II, 1, 5, 1m.

[89] PIO IX, Denz. 2866.

[90] De Verit. 14, 11, 1m.

[91] JOHANNES A S. THOMA, De Fide, disp. III, a. 2, n. 10.

[92] PROUDHON, De la justice dans la Révolution et dans l’Eglise, I, 27.

[93] Denz. 2779.

[94] Cf. I-II, qq. 8-18.

[95] II-II, 2, 6 c.

[96] II-II, 178, 1 c.

[97] Denz. 3034.

[98] Denz. 3019.

[99] Denz. 2753; cf. 2778.

[100] Priora Analytica, l. II, c. 29.

[101] III, 55, 5 c.

[102] Denz. 3009.

[103] Denz. 3013.

[104] Denz. 3009.

[105] Enc. Qui pluribus, Denz. 2779.

[106] Denz. 3033.

[107] II-II, 2, 9, 3m.

[108] Nel Quodl. II, a. 6 c. e 1m.

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