De Scrupulo / Lo Scrupolo - Giovanni Cavalcoli O. P. - Giuseppe Bartoluccio

 

 

 

Giovanni Cavalcoli O. P.

 

De Scrupulo

Lo Scrupolo


 

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In copertina: Speculum humanæ salvationis, G. Zainer, 1473

 

Fontanellato, 2 febbraio 2023. A.M.D.G. +

Editato da Giuseppe Bartoluccio, 2023. Ad uso privato, vietata diffusione a fini di lucro.

 

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Indice

      I.          Che cosa è in genere lo scrupolo, p. 4

   II.          Due tipi di scrupolosità, p. 8

 III.          Lo scrupoloso confonde il male di pena col male di colpa, p. 9

IV.          In Lutero appare la caratteristica dell’angoscia moderna, p. 12

   V.          Lo scrupolo balza in primo piano nella coscienza moderna, p. 15

VI.          Guglielmo di Ockham, il «Venerabilis Inceptor».  Ma di che cosa? p. 17

VII.          Rimedio apportato dal Concilio di Trento, l’opera dei Gesuiti, p. 18

VIII.          Rischi della spiritualità ignaziana, p. 26

IX.          I limiti della riforma tridentina e il Concilio Vaticano II, p. 30

   X.          Conclusioni, p. 34

 

 

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Lo scrupolo

Semplici come le colombe,

             prudenti come i serpenti

                            Mt 10.16

 

I.               Che cosa è in genere lo scrupolo


L

o scrupolo è un turbamento emotivo della coscienza per il quale il soggetto si sente in colpa senza esserlo realmente o ingrandisce irragionevolmente la propria colpa o si pente di una colpa immaginaria, a causa di una carenza di lucidità ed obbiettività nell’esaminare la propria coscienza o nel giudicare il proprio stato di coscienza davanti a Dio.

Lo scrupolo è un tormento di coscienza, un arrovellamento sterile e aggrovigliato, che la impaccia e non l’aiuta a progredire, ma che anzi la frena e la confonde, perché è un pentimento agitato per inezie apparentemente colpevoli o per piccole colpe irragionevolmente ingrandite o per peccati commessi in buona fede o per ignoranza eventualmente molto tempo addietro.

La coscienza rimorde ma per una colpa inesistente. Il soggetto si è fatta una convinzione infondata di essere falso e di non poter raggiungere la sincerità. Sente ogni sua azione come peccato.  Si sente castigato e irrimediabilmente condannato da Dio, nonostante uno sforzo di buona volontà, peraltro ritenuto vano. Questo è lo scrupolo.

Esso è caratterizzato dai seguenti elementi. Ho la sensazione angosciosa, dalla quale non riesco a liberarmi, di essere rimproverato o punito da Dio e mi sento in colpa per aver trasgredito un suo comando, il cui contenuto, la cui bontà non ha un rapporto con la verità, ma solo con la sua volontà, sicché io mi sento accusato da Dio senza un motivo ragionevole, ma solo perché gli ho disobbedito. Mi sento incolpato da Dio senza trovare una ragione per la quale dovrei essere in colpa.

Lo scrupolo è uno stato di angoscia in una persona che vuol evitare il peccato, è un senso di colpa senza fondamento su di un peccato reale o relativamente a un peccato realmente commesso, ma un senso di colpa esagerato nel terrore di essere castigato da Dio senza riuscire ad evitare il peccato. Questo stato d’animo sovra turbato può riferirsi ad un semplice peccato veniale o ad una svista o ad una dimenticanza o ad un errore involontario o inconsapevole. Può riferirsi anche ad un peccato materialmente mortale, ma scusabile o per fragilità o per insufficiente consapevolezza, come per esempio nei peccati di sesso.  

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Lo scrupolo nasce da un malinteso timor di Dio, per il quale il soggetto prova un eccessivo infondato timore d’aver peccato, fino ad arrivare al panico. Il vero timor di Dio è uno stato d’animo di altissima considerazione dell’infinita maestà divina, motivato da un sincero amore, con la volontà ferma e decisa di assoggettarsi alla sua santissima volontà, sapendo e temendo le conseguenze che nascerebbero dalla disobbedienza. Non è il semplice timore del castigo, il che sarebbe un timore servile, dettato dall’egoismo, ma è un timore filiale, ossia il timore di offendere Dio sommamente amato.

Il rimedio al timore scrupoloso non è l’abolizione del timore, per una confidenza alla pari come per un proprio simile, ma la coltivazione del timore filiale, perché esso è incentivo a fare la volontà di Dio e ad evitare il peccato. Il vizio contrario al timore è l’empietà, dettata dalla superbia, per la quale il soggetto è attaccato alla propria volontà e respinge quella di Dio, pur conoscendo le conseguenze, ossia la pena eterna dell’inferno.

Quando S. Giovanni dice che «l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore» (I Gv 4,18), non intende dire che non sia saggio temere il castigo. Capire che disobbedire a Dio non conviene è già saggezza.

Tuttavia il vero amor di Dio, senza il quale non ci si salva, non è fuggire il peccato perché peccare non conviene, ma perché non si vuole offendere l’Amato: il che è volontà d’amore. Il timore scacciato dall’amore non è il timore motivato da questo amore, ma è il timore di peccare basato solo sul fatto che non conviene, indipendentemente dall’amore per Dio.

Ora lo scrupoloso nel suo timore esagerato o infondato, nella sua irragionevole paura dà prova di essere troppo attaccato al proprio interesse e quindi di non amare Dio, il che è proprio ciò che gli attira il castigo di Dio. Quindi lo scrupoloso finisce per procacciarsi proprio quel castigo che vorrebbe evitare, oltre allo stato d’animo ansioso e pauroso. Chi glie lo fa fare?

Inoltre, lo scrupolo genera sofferenza. Come liberarsene? È utile o dannosa? C’è chi coltiva gli scrupoli pensando di far bene. C’è chi si crogiola nello scrupolo. Lo fa per scrupolo. Quindi uno scrupolo si aggiunge a scrupolo. Ma questo e masochismo. Siamo al massimo del parossismo col rischio di una neurosi. Non bisogna confondere il rimorso di coscienza col gusto di soffrire fine a se stesso, cioè il dolorismo, che arriva a credere che Dio stesso soffre.

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La sofferenza come attributo divino. Dio non libera dalla sofferenza, ma vive nella sofferenza. È, questa, un’eresia condannata dalla Chiesa. Per essa Dio non castiga per educarci, non irroga pene eterne, non pratica una giustizia retributiva, non manda la sofferenza per liberarci, grazie alla croce di Cristo, dal peccato e dalla sofferenza, ma nella sua bontà e misericordia, non è onnipotente e non ce la fa a liberare l’uomo dalla sofferenza, come è apparso chiaramente da quanto è successo ad Auschwitz.

Egli semplicemente ha compassione di noi e non può far altro che soffrire con noi. La sofferenza che ci viene dal covid non l’ha voluta lui, ma viene da un principio oscuro ed inspiegabile, sul quale è inutile indagare, più potente della bontà divina.

Col buonismo sembra riapparire l’antico manicheismo: esiste un Dio del male, un Dio maligno, connesso con la materia, che si oppone al Dio del bene, il quale però non può far altro che rassegnarsi a convivere con lui, seppure in antagonismo con lui, senza che egli possa assoggettarlo a sé e farlo servire al bene. Quindi la divinità non è una, ma doppia. È divino l‘essere, ma anche il non-essere. È divina l’affermazione, ma anche la negazione, è divino il vero, ma anche il falso, è divina la sincerità ma anche la menzogna, è divina la giustizia ma anche il peccato e così via.

Oggi questo manicheismo sembra risuscitare in un concetto della natura, che sarebbe l’autrice legale del covid e che ci punirebbe per il poco rispetto che abbiamo per lei con i guasti provocati in campo ecologico. Ma in questa visuale la natura non appare creata da Dio, per cui la natura, causando il covid, avrebbe preso un’iniziativa punitrice alla quale Dio è estraneo, dimenticando che è Dio che ha fissato le leggi fisiche che governano la natura.

 Come dicono i buonisti, figli di Lutero, la misericordia di Dio consiste nel fatto che Dio permette di peccare, ma non per questo toglie la sofferenza. Il covid non contraddice alla misericordia divina, perché comunque Dio ha compassione di noi, ma non può sollevarci dalla nostra miseria presente se non con la promessa del paradiso, peraltro senza che occorrano meriti dovuti a sacrifici e penitenze, cose inutili, dato che tutti siamo in grazia.

Per questo per i buonisti, figli di Lutero, la sofferenza non ha alcun valore di espiazione dei peccati, perché non c’è bisogno di nessuna espiazione, né esiste alcun castigo dei peccati, essendo tutti perdonati. Ma ciò non toglie per i buonisti che la sofferenza sia insopprimibile senza che sappiamo perché soffriamo. Infatti il soffrire è cosa divina e non c’è da chiedersi il perché di un attributo divino.

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Meno peggio è la situazione di coloro che, accorgendosi di essere scrupolosi, vorrebbero liberarsene, perché sanno che essere scrupolosi non è una virtù ma un vizio. Ma non sanno come fare. È il problema di come liberarsi dal male.


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II.           Due tipi di scrupolosità

Ci sono due tipi di scrupolosità: c’è quella sincera, non colpevole, che sorge in un’anima pia da una fragilità del giudizio provocata da una forma di depressione psichica. Può essere la sofferenza esagerata di un’anima sostanzialmente innocente, ma che dà troppo peso alle piccole colpe. Le manca una giusta scala di valori. Lo scrupoloso si pente di un peccato immaginario. Lo scrupolo è la sensazione di essere colpevoli o il sentirsi incolpati da Dio, mentre in realtà si è innocenti. Ci si sente colpevoli, benché si abbia agito in buona fede e credendo di far bene. Questa scrupolosità è una dura prova per le anime sante, che la vivono come croce quotidiana. 

Ma c’è anche la scrupolosità affettata ed amara, che serve agli ipocriti per far la figura di persone animate da alto rigore morale e senso del dovere, occupate a segnalare con sdegno gli scandali e i peccati, inflessibili custodi della giustizia e promotori della sanità dei costumi morali, premurose e zelanti per la propria e l’altrui salvezza.

Questo tipo di scrupolosità è il disagio di un’anima insincera, che si caccia nei guai da sola: da una parte sa qual è il vero bene, ma dall’altra è attaccata alla propria volontà. È un’anima doppia, che vuol servire a due padroni. Non le basta il sì, ma vuol mettere il sì insieme col no. Accetta il sì ma non rifiuta il no. Dice sì al sì e sì al no.

L’anima è effettivamente in colpa, ma non la vuol riconoscere. Al fine allora di poter farla franca ed avere una scappatoia per poter peccare liberamente, affetta una finta umiltà, finge di credere che la concupiscenza è invincibile ed ingrandisce a dismisura una colpa causata più da fragilità che da malizia, così da far leva a sproposito e furbescamente sulla misericordia divina, ritenendosi dispensata dall’impegno ascetico della lotta contro il peccato.

Questo tipo di scrupolosità è colpevole e può essere evitata solo che l’anima abbia la sincerità di riconoscere che quella scrupolosità e quel finto dolore per le proprie colpe è un pretesto per apparire santi e per fare in realtà la propria volontà e non quella di Dio.

Inoltre si fa la figura di anime che confidano nella divina misericordia, mentre in realtà esse vogliono semplicemente sottrarsi alla giustizia divina peccando senza essere castigate, a differenza del primo tipo di scrupolosità, che è una prova che Dio manda alle anime sante, ed è una pena dalla quale non riescono a liberarsi, pena per loro meritoria, perché l’accettano in sconto dei loro peccati e per la salvezza del mondo.  

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III.        Lo scrupoloso confonde il male di pena col male di colpa

In linea di principio, il male di pena è conseguenza del male di colpa. Il peccato provoca sofferenza fisica e spirituale. E questo perché la sofferenza è la percezione di un disordine o di una privazione di un bene dovuto allo spirito o al corpo a causa di un atto volontario di infrazione dell’ordine dello spirito o del corpo, appunto il peccato.

Certamente è possibile soffrire a causa dell’azione ostile di uno spirito o del corpo. Succede che un atto peccaminoso procuri vantaggi materiali. E per converso capita che un’azione dolorosa procuri beni materiali o spirituali. Capita che uno pecca e rimane impunito e viceversa che un innocente abbia da soffrire. Capita che uno pecca e non sente rimorso. Capita che uno provi rimorso senza avere peccato. Ecco lo scrupolo. Si tratta di togliere questa sofferenza, facendo però attenzione a non voler togliere il sano dolore che proviene dal pentimento del peccato, altrimenti non si toglie il peccato, che è il male che provoca la pena.

C’è da notare che tutti i suddetti fenomeni sono legati a circostanze accidentali, che non infirmano il principio generale di giustizia che al peccato segue o deve seguire il castigo. Così anche la sofferenza per lo scrupolo rientra nelle pene conseguenti al peccato originale. Ma bisogna vedere, nella fattispecie, come questa pena dev’essere tolta. La giustizia divina, dal canto suo, provvede, prima o poi, in un modo nell’altro, a far sì che il principio venga rispettato, nel caso di difetto della giustizia umana o che il peccatore non abbia fatto penitenza.

Infatti il nostro benessere fisico e spirituale di per sé dovrebbe essere causato da una buona condotta morale, ossia dal fatto che il soggetto evita il male di colpa. Esistono invece soggetti che, nonostante i peccati che commettono, godono ottima salute. Tuttavia il peccato causa comunque una pena interiore, che è il rimorso della coscienza e, se il peccatore non si pente e non ripara, subisce prima o poi il castigo divino. La sofferenza causata dallo scrupolo si può contare come sconto della pena dei propri peccati.

Tutto ciò non vuol dire, purtroppo, che non vi siano innocenti che soffrono e malvagi che non vengono puniti, almeno dalla giustizia umana. Il tormento dello scrupolo, dal canto suo, può colpire anche un’anima buona. Queste pene accadono come conseguenza del peccato originale. Ma Dio interviene a sua discrezione, quando, quanto e come vuole, o per sollevare dalla sofferenza o per rimediare ai difetti della giustizia umana o mediante la sua misericordia suscitando pentimento e riparazione nel peccatore o risparmiandogli il meritato castigo.  

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Per quanto riguarda il caso dello scrupolo, la sofferenza che esso procura certamente può e deve essere rimossa, ma diverso è il caso dello scrupolo farisaico dell’esibizionista dallo scrupolo religioso dell’anima pia ma troppo delicata.

Mentre lo scrupolo farisaico è degno di punizione ed è punizione esso stesso, lo scrupolo religioso, appartenendo a un’anima innocente, può e deve essere tolto se quest’anima guarda con lucidità alla propria coscienza onde dare un giudizio oggettivo, ed offre in espiazione la propria sofferenza.

Lo scrupoloso farisaico subisce la sua sofferenza come punizione, senza che gli serva a trovare la pace della coscienza, perché resta in colpa, anche se con spavalderia affetta una falsa tranquillità che sconfina nell’arroganza.

Lutero apparteneva alla categoria degli scrupolosi farisaici, confondendo il dolore per la colpa con lo scrupolo. Avrebbe dovuto sostituire il sano dolore per le proprie colpe al dolore patologico e morboso della scrupolosità. Invece purtroppo a Lutero, formatosi sull’etica sensista di Ockham, stava più a cuore liberarsi dalla sofferenza che non liberarsi dalla colpa e lottare contro di essa. Credeva che la sofferenza fosse sempre un male, mentre il peccato potesse coesistere con la grazia. «Cristo ha già sofferto abbastanza per me – egli pensa – che cosa potrei io aggiungere con le mie alle sue sofferenze»? Non aveva capito che non si tratta di aggiungere, ma di partecipare alle sue sofferenze.

La questione dello scrupolo chiarisce altresì la differenza fra male di pena e male di colpa, questo sempre da evitare, quello in certi casi benefico. Essa fa emergere chiaramente che esiste una sofferenza che va soppressa e una sofferenza benefica. Tanto nel pentimento quanto nello scrupolo, che è la falsificazione del pentimento, c’è la sofferenza. La sofferenza del vero pentimento va moderatamente coltivata; quella dello scrupolo va semplicemente tolta, togliendo lo stesso scrupolo.

Se infatti l’uomo vuol evitare assolutamente qualunque sofferenza come tale, non si periterà di evitare il pentimento perché comporta sofferenza. Non si asterrà  dal commettere peccato pur di evitare la sofferenza; eviterà la fatica, lo sforzo, il sacrificio e la rinuncia, pur di evitare la sofferenza. Non esiterà a commettere un peccato al quale non faccia seguito un castigo. Riterrà esser peccato far uso della severità per punire il peccato. Entra in questa mentalità sbagliata evitare o sopprimere il dolore d’aver peccato scambiandolo per scrupolo.

Ora è evidente che tutti i suddetti atti o provvedimenti sono mancanze alla giustizia, che se possono assicurare una qualche serenità psicologica, certamente non danno pace alla coscienza, pace che essa potrà ottenere solo accettando nella fede il sacrificio di Cristo ed unendosi ad esso. 

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A tal riguardo, è da segnalare come esempio da evitare la condotta di Lutero, il quale, respingendo il sacramento della penitenza, e sprezzando il dolore d’aver peccato, da lui considerato come sciocco scrupolo, ha preteso di ottenere ugualmente il perdono divino, cosa evidentemente impossibile ed illusoria in queste condizioni di spirito. Vediamo come sono andate le cose.

Lo scrupolo  può avere le sue origini in un’educazione familiare troppo severa. È noto che Lutero da bambino era terrorizzato dalla eccessiva ed irragionevole severità del padre. Egli pertanto non fu affatto favorito dall’immagine paterna a formarsi l’idea di un Padre celeste giusto, affidabile, leale e misericordioso.

Così si spiega la sua distorta idea del «Deus absconditus», terrorizzante e colpevolizzante, che egli credeva essere il Dio punitore dell’Antico Testamento, approvato dal cattolicesimo, trascurando il fatto che la misericordia divina appare chiara già lì e cadendo quindi nell’eresia di Marcione del Dio «cattivo» dell’Antico Testamento in contrapposizione al Dio «buono» del Nuovo, evidente nota di antisemitismo, nel quale cadde anche Lutero e che forse sta alle origini dell’antisemitismo nazista, sedicente «cristiano», però protestante, non cattolico.

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IV.        In Lutero appare la caratteristica dell’angoscia moderna

Quella scrupolosità farisaica che rigetta come vano scrupolo la pratica del confessionale è un finto zelo per la perfezione, è il famoso trucco inventato da Lutero e che il Concilio di Trento gli ha rimproverato: confondere la concupiscenza, come tendenza a peccare, effettivamente invincibile nella vita presente, con l’atto del peccato, il quale, essendo effetto del libero arbitrio, può essere di volta in volta sempre rinnegato e rimesso alla misericordia divina. Ma Lutero, riducendo il peccato alla concupiscenza, aveva un pretesto per peccare liberamente – tanto sono fatto così! -. Pecca fortiter et crede firmius.

L’avvento del dramma di Lutero fa balzare in primo piano nell’etica moderna il problema dello scrupolo, mettendo a nudo molti altri problemi ad esso connessi, ma sino ad allora rimasti nell’ombra o quanto meno poco chiariti, obbligando quindi la Chiesa, a partire dal Concilio di Trento, a far luce su molti punti di morale che fino ad allora non erano stati fondati o esplicitati a dovere. Non tutto il male vien per nuocere. Ciò darà occasione alla morale cattolica di grandi progressi nello studio e nella direzione dell’agire umano, al di là di quanto aveva raggiunto l’etica medioevale.

Che cosa successe? Il giovane Lutero, caldo di passionalità, carattere esuberante ma anche malinconico[1], dolce ed irascibile, spirituale e sensuale, ora sofista ora sincero, impressionabile ed ad tempo entusiasta, generoso ma al contempo vanitoso, sinceramente religioso, osservantissimo della Regola da giovane monaco e tuttavia esasperato per il fatto di non riuscir a trovar pace nella confessione per la sua coscienza terribilmente scrupolosa, e vittima di una formazione occamistica inadeguata, che ad un tempo lo attirava e gli ripugnava, si era messo in testa che ogni sua azione fosse un peccato mortale degno di pena eterna e nel contempo si era pure messo in testa che Dio lo condannava all’inferno.

Per alcuni anni agitatissimo per queste idee tanto terribili, come si può ben immaginare, frutto di una fantasia sovraeccitata e di sfiducia in Dio, a un certo punto di ebollizione emotiva, di esasperazione psicologica e di turbamento di coscienza, per uno scatto improvviso dall’intimo preconscio del suo cuore, credendo di potersi in tal modo liberare da un peso insopportabile, si sentì illuminato, liberato ed entusiasmato, tanto da vedersi «aprire le porte del paradiso»  come egli narra, per una rivelazione improvvisa e beatificante fattagli da Gesù Cristo, – la famosa Turmerlebnis del 1513 – che egli si sarebbe senz’altro salvato, purché credesse che si sarebbe salvato, comunque fossero andate le cose, senza preoccuparsi affatto dei suoi peccati, perché fin da adesso erano tutti perdonati.

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Da questa sconvolgente, incandescente e incancellabile esperienza Lutero ricevette la fortissima convinzione, che comunque si sarebbe salvato mediante il famoso trinomio sola fides, sola gratia, sola Scriptura, e che il vero modo di salvarsi non era quello che insegnava la Chiesa Romana, ma quello che – ne era convinto – Cristo stesso gli aveva rivelato nella Turmerlebnis.

Il succo del luteranesimo è tutto qui. E questa ferrea convinzione non lo lascerà mai più, così che essa è alla base di tutta la sua azione e predicazione successive, e la molla fondamentale del luteranismo ancor oggi. Per questo, follemente entusiasta di tale straordinaria esperienza, Lutero buttò all’aria con sacro furore come ciarpame medioevale, superstizione ed idolatria tutta una serie di valori che la Chiesa Romana considera sacri, ma che egli cominciò  a maledire, come la Messa, l’adorazione eucaristica, il sacerdozio, la struttura divina della Chiesa, il papato, la confessione, la penitenza, il culto dei Santi, la vita religiosa, l’ascetica, l’obbedienza ai comandamenti, il merito delle buone opere, i richiami della coscienza, il dovere di vincere la concupiscenza e quello della fuga dal mondo, i precetti della Chiesa, il diritto canonico e la teologia scolastica, nella convinzione che sarebbe sempre stato in grazia, libero di fare tutto quello che voleva, sempre ispirato dallo Spirito Santo, certo del perdono divino, anzi già predestinato alla salvezza, nella certezza assoluta di avere sempre Dio con lui e in lui.

Ora dobbiamo ricordare con chiarezza che la scrupolosità non è, come potrebbe sembrare, una virtù, ma è una malattia psichica, e per questo essa è guarita dalla psicanalisi e non dal confessionale. Ed inoltre, se è coltivata come forma di perfezionismo, è segno di presunzione e va condannata.

Nel confessionale si denunciano e si tolgono le colpe reali, evidenziate da una coscienza lucida, sana, serena e retta, non quelle immaginarie o gli incubi notturni o diurni o le fisime o le idee fisse ed ossessive o le fantasie morbose, oggetto della scrupolosità. Queste sono le cose delle quali si occupa la psichiatria, Attenzione dunque a non confondere il ruolo del confessore con quello dello psichiatra.

Queste ubbie paralizzanti e sconfortanti, che possono essere paure istillate dal demonio, vanno scacciate con la massima decisione ed energia, forti della propria buona coscienza in buona fede e della fiducia nella divina misericordia, dandoci alle opere buone, facendo affidamento nella preghiera, godendo delle creature e dei beni sensibili e spirituali, nonché delle sane amicizie, che Dio ci dona affinché Lo lodiamo e Lo ringraziamo e ce ne serviamo per arrivare a Lui. In tal senso ricordiamoci dell’aureo principio di S. Filippo Neri: «scrupoli e malinconia, fuori di casa mia!».

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È interessante l’abbinamento con la malinconia, che è la tristezza sconsolata per aver perduto irrimediabilmente, forse per colpa propria, un bene prezioso, che non si riesce più a recuperare e non si spera di ritrovare. È esattamente lo stato d’animo dello scrupoloso: si ritiene inevitabilmente fallito o perduto o dannato, non c’è più nulla da fare.

Da qui la sua disperazione. Egli dice a se stesso: quando incontrerò Dio al momento della morte, mi manderà all’inferno. L’occamista Lutero si sentì allora in dovere di esprimere la sua obbedienza a Dio, dichiarandosi pronto, se Dio avesse voluto, ad andare all’inferno. Questa è l’idea fissa, questo è lo stato d’animo dello scrupoloso. Si può vivere a lungo in simili condizioni psichiche?

La scrupolosità viene perdonata e tolta nel confessionale, quando è una finzione volontaria, causata da presunzione e ipocrisia e lo scrupoloso è pentito. Il confessore deve richiamare uno scrupoloso di tal genere ed intimargli di cessare da tale atteggiamento, per assumere uno sguardo leale, lucido ed oggettivo verso la propria coscienza, pentendosi sinceramente di reali peccati e confidando nella divina misericordia.

La coscienza dev’essere certo pulita e lavata, ma con delicatezza, non graffiata dallo strofinare troppo, senza pretendere di far luce laddove non è possibile, senza pretendere di ricordare ciò la cui verità ormai ci sfugge, di cui non sappiamo più se eravamo o non eravamo in buona fede, se eravamo o non eravamo responsabili.

Quando invece la scrupolosità non è coltivata con la malizia di chi vuol apparire giusto davanti agli uomini senza esserlo davanti a Dio, non dev’essere colpevolizzato ma compassionato. In tal caso infatti lo scrupolo è involontario, e la coscienza resta innocente.

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V.            Lo scrupolo balza in primo piano nella coscienza moderna

 

La questione dello scrupolo sorge con prepotenza nella coscienza morale moderna. La coscienza del cattolico medioevale è una coscienza sostanzialmente serena. Non ovviamente che non si sentisse peccatore anche lui, anzi le violenze e le crudeltà che troviamo nella condotta dell’uomo medioevale, soprattutto i castighi e le vendette, le ruberie e le stragi, sono proverbiali e non hanno nulla da invidiare alle peggiori malvagità dei nazisti o dei comunisti staliniani.

Tuttavia l’uomo medioevale ha una coscienza più leale della nostra, complicata dall’insincero dubbio cartesiano e dalla conseguente astuzia machiavellica ed hegeliana. Non è una coscienza che gioca fra il sì e il no, ma una coscienza che sa che bisogna scegliere fra il sì e il no. E se si scopre doppia, si pente e torna sincera.

È una coscienza realista, almeno nelle intenzioni. Possiede il concetto della verità: adaequatio intellectus et rei. Non confonde ciò che mi sembra con ciò che è. Sa che Dio esiste e che bisogna render conto a Lui delle nostre azioni. Non confonde il dovere con ciò che voglio io. Non confonde l’impressione soggettiva col dato oggettivo.

L’angoscia soggettivistica e morbosa di Lutero non era ancora arrivata. L’idealismo furbesco di Cartesio non era ancora arrivato.  Per questo, quando la coscienza medioevale esamina le azioni compiute, sa se ha peccato o non ha peccato. Il principio di non-contraddizione le dice che è impossibile che sia e non sia simultaneamente uno stato di peccato. O è innocente o è colpevole. E accertarsi non è impossibile, così come è impossibile che abbia e non abbia peccato simultaneamente. Non si tormenta nel dubbio, ma lo chiarisce. Se ha peccato si pente e se non ha peccato sta tranquilla. E se non riesce a far chiarezza, si affida alla misericordia di Dio.

È interessante notare come il medioevo non conosce l’infinita varietà delle moderne psicopatologie, neurosi, depressioni, schizofrenie, isterismo, esaurimenti, abulie, anoressie e suicidi, tutti fenomeni oggi così diffusi. L’uomo medioevale non conosce il fenomeno del nichilismo, dell’esistenza senza senso e senza scopo dell’esistenzialismo ateo sartriano o di quello disperato di Camus. L’esistenza ha un valore assoluto, perché ci porta a Dio e il male è vinto da Cristo.

L’uomo medioevale sapeva meglio distinguere l’apparenza dalla realtà, l’oggettivo dal soggettivo; era realista, mentre noi oggi noi siamo invasi dall’idealismo e dal soggettivismo. Non era illuso dall’immanenza, ma era aperto alla trascendenza. E ciò si rifletteva nell’esame di coscienza.

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L’uomo medioevale è oggettivo nel riconoscere le sue colpe, e quindi sa distinguere la colpa reale da quella apparente o immaginaria. Egli fa capo ad un criterio oggettivo, universale di giudizio e non a una concezione individualistica o soggettivistica della legge morale.

Sa che Dio è leale e fedele, comanda cose giuste e ragionevoli, spiega le ragioni di ciò che fa, pur chiedendo fiducia nel valore delle sue decisioni insindacabili. Ma insindacabili non vuol dire assurde, ma vuol dire che la ragione umana non può ficcarvi il naso. Non vuol dire che non siano conformi a ragione, anzi sono molto più ragionevoli di quanto la limitata ragione umana può comprendere.

Il medioevale è semplice come la colomba. Manca in lui forse la prudenza del serpente. Infatti la coscienza morale medioevale è molto più semplice della nostra di oggi. È, si potrebbe dire, la coscienza del fanciullo con tutti i vantaggi, ma anche svantaggi, come la mancanza di riflessione e di autocoscienza, la facile credulità, una spontaneità istintuale, una forte estroversione ed una scarsa interiorità.  

La coscienza moderna viceversa è passata al terribile vaglio di Ockham, Lutero e Cartesio ed ha acquistato in prudenza, giudiziosità, cautela, circospezione, discernimento e saggezza. Il problema piuttosto di oggi è il modernismo, per il quale  la reazione all’ingenuità medioevale e all’austerità promossa della riforma tridentina è passata all’estremo opposto dell’edonismo e del lassismo, della doppiezza sistematica e  del dubbio fine a se stesso.

Si è creduto di allontanare lo scrupolo e il rimorso di coscienza col soffocare la coscienza infischiandosi della legge morale come se ci si liberasse da un giogo insopportabile in  vista di godersi la vita  dando la stura alle passioni della carne e alla superbia della vita (I Gv 2,16) nella convinzione di essere comunque in grazia di Dio, anzi addirittura mistici raggi dell’Io assoluto e molteplici e diverse apparizioni empiriche dell’Io puro o della Soggettività trascendentale.

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VI.        Guglielmo di Ockham, il «Venerabilis Inceptor».

Ma di che cosa?

È con l’influsso della morale sensista e volontarista di Ockham che iniziano il turbamento e l’autopunizione della coscienza morale europea, assieme ad una affettata presunzione d’innocenza. Ockham, infatti, col suo nominalismo empirista, con la sua etica convenzionalista e libertaria rimette in circolo le idee degli antichi sofisti ed edonisti greci, già a suo tempo confutati dal leale e temperato Aristotele.

Con Ockham cessa l’etica della semplicità, del candore, della linearità, della trasparenza, dell’obbiettività, dell’imparzialità, della sincerità, della schiettezza, della verità e della sapienza, ed inizia quella della furbizia, dell’astuzia, delle vie traverse, delle tortuosità, dei favoritismi, delle imposture e della doppiezza, quella stessa etica farisaica per combattere la quale Cristo dovrà rimetterci la vita.

La prudenza diventa calcolo interessato, approfittamento disonesto, ricerca del successo, vittoria sleale. Lo scrupolo è scambiato per coscienziosità e la pace si ottiene tacitando la coscienza. L’onesto è un povero ingenuo. Il sapiente è l’astuto. C’è la prudenza del serpente senza la semplicità della colomba.

L’etica occamista, come è noto, non è fondata sulla intellezione dell’essenza, ma sulla sensazione, non sull’intelletto ma sulla libertà, non sul concetto ma sull’immagine, non sulle idee ma sull’uso dei nomi, non sull’universale ma sullo individuale, non sulla legge di natura ma sulla convenzione sociale.

È chiaro che in queste condizioni l’apparenza viene a stare al posto della verità, la finzione vale tanto quanto la sincerità, l’opinione sostituisce la scienza, la probabilità sostituisce la dimostrazione razionale, la verifica sperimentale sostituisce l’intuizione intellettuale, il soggettivo sostituisce l’oggettivo, ciò che è privato sostituisce il comune. È ovvio che con simili basi etiche possa prosperare la malattia e la malizia della scrupolosità, un finto zelo per la legge, false apparenze di santità, di umiltà, di pentimento, una pretestuosa confidenza nella misericordia divina, una evasione dagli obblighi di giustizia verso Dio e un rifiuto dalle esigenze della giustizia divina nei nostri confronti.

L’etica medioevale e l’uomo medioevale non conoscono il problema dello scrupolo, se non inteso come inezia relativa a piccole preoccupazioni o sviste della vita quotidiana, non meritevoli di essere neanche prese in considerazione dalla teologia morale. Infatti la morale di S. Tommaso ignora completamente la questione dello scrupolo, anche quando tratta dell’ipocrisia o della superbia. 

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VII.     Rimedio apportato dal Concilio di Trento, l’opera dei Gesuiti

È cosa nota a tutti che l’apporto principale della modernità è l’approfondimento del valore della coscienza. È quello che Maritain chiama l’«avvento dell’io». La filosofia e la spiritualità diventano autobiografia. Quello che conta non è tanto il guardar fuori, ma il prender coscienza di quello che già si sa e che scaturisce dall’intimo dello spirito. È uno sviluppo del ricordare platonico.

La vicenda di Lutero ha obbligato la Chiesa ad approfondire la distinzione fra valore della coscienza morale comune e coscienza morale individuale; è venuta meglio in luce la distinzione fra buona e cattiva fede, ignoranza vincibile e ignoranza invincibile, peccato avvertito e peccato inavvertito, peccato scusabile e peccato inescusabile, peccato di malizia e peccato di fragilità, certezza oggettiva e certezza soggettiva. Si sono poste così le basi che avrebbero portato il Concilio Vaticano II a proclamare il diritto della libertà religiosa[2].

Si è chiarita la differenza tra il giudizio morale certo e quello probabile, tra la giustizia e l’epicheia, tra la tolleranza e la libertà, tra la sospensione della legge (applicabile nella legge naturale) e l’eccezione alla legge (applicabile nella legge positiva). Si è meglio compresa l’incidenza delle circostanze e delle situazioni nel determinare il contenuto e la responsabilità dell’atto morale.

Un’altra chiarificazione data dal Concilio di Trento è stata quella relativa alla distinzione fra peccato mortale e peccato veniale. Infatti per Lutero tutti i nostri atti, dopo il peccato originale, sono peccati mortali. La giustificazione dona la grazia, la quale però coesiste col peccato. Dio ci guarda benevolmente non perché siamo diventati giusti, ma perché nascondiamo il nostro peccato sotto la giustizia di Cristo. Così i nostri atti diventano giusti non perché facciamo l’opposto di quello che facevamo prima, ma perché quello che facciamo adesso, perdonato da Dio, non dobbiamo più avvertirlo come peccato, anche se la coscienza ci rimprovera. Prima ci piaceva fornicare o diffamare o mentire? Possiamo continuare. Del resto, peccatori come siamo, non potremmo farne a meno. Che vantaggio dà allora l’essere in grazia? Che vuol dire? Semplicemente che Dio non ci chiede conto, non ci castiga per quello che facciamo, ma lo considera cosa normale. Fornicare o praticare la sodomia non è più cosa contraria alla castità o al matrimonio, ma è semplicemente una scelta diversa.

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Ora il Concilio di Trento chiarì che io non posso nello stesso tempo essere in grazia e in stato di peccato mortale, perché essere in grazia vuol dire esser vivo, mentre essere in peccato mortale vuol dire essere morto. Ora, se sono vivo, non posso nel contempo essere morto.

L’essere in peccato mortale dipende dalla mia volontà. Dipende quindi anche da me rifiutare il peccato. Non sono così schiavo del peccato, tanto da non potermene liberare con la grazia di Cristo. Io sono in peccato mortale se Dio e la sua volontà, se ciò che Egli vuole che io faccia mi ripugna mi è odioso, lo sento come repressione della mia libertà; provo in questo rifiuto la soddisfazione di fare la mia volontà, benché nel contempo mi senta in contrasto con me stesso turbato. Mi sento ad un tempo frustrato e realizzato. Manco di ciò che vuole Dio, posseggo ciò che voglio io. So che ciò mi procura una pena eterna, ma non m’interessa. Ciò che m’interessa è fare la mia volontà e stare lontano da Dio. Egli mi respinge? Mi caccia? Va bene così.

Se invece Dio e la sua legge mi piacciono, mi attirano, mi interessano, mi danno gioia, li trovo amabili e fonti per me di felicità, allora vuol dire che sono in grazia e sono innocente. Vuol dire che Gli sono gradito e che merito il paradiso. Se quindi mi piace fare la sua volontà, sono pronto a qualsiasi sacrificio o rinuncia pur di non perdere questo sommo Bene. In questo caso mi sento in pace e realizzato.

Mi sento vivo, mentre in stato di peccato mortale, certo la mia anima vivrebbe perché è immortale; ma che vita sarebbe quella di uno spirito creato, che invece di godere dello spirito e quindi di Dio suo Creatore e dell’obbedire a Lui, si chiudesse in se stesso e nei piaceri materiali come se in ciò ci fosse l’assoluto?

Ora lo scrupoloso, com’era Lutero, ha la sensazione angosciosa di essere sempre e irrimediabilmente in peccato mortale, pur amando Dio e la sua legge. Il Concilio di Trento e più tardi il Concilio Vaticano II metteranno in luce l’essenza del peccato veniale. Il Concilio di Trento preciserà, andando in ciò incontro a Lutero, che è un peccato frequente e inevitabile anche nei santi, ma che nel contempo non esclude affatto lo stato di grazia.

In particolare il Concilio Vaticano II, chiarendo la dignità della coscienza, mostrerà meglio la caratteristica della colpa veniale, colpa che il fedele può togliere da solo senza bisogno di ricorrere al sacramento della penitenza. Tale caratteristica, per la quale è attenuata la colpa mortale, per cui l’anima resta in grazia, consiste nel fatto o dell’ignoranza invincibile e o del difetto di libero consenso, due elementi che stanno rispettivamente a fondamento della libertà religiosa e della tolleranza delle persone fragili.  

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Inoltre, come appare evidente in Lutero e Cartesio, l’interesse per il valore della coscienza morale è una ripresa dell’interiorismo agostiniano, ma, mentre esso nel medioevo è naturalmente congiunto all’oggettivismo tomista e ad una generale impostazione realista, che ammette senza difficoltà ed anzi come cosa ovvia che il sapere proviene dal contatto sensibile con una realtà esterna presupposta, la coscienza comincia a voler fondarsi su se stessa e a partire da se stessa,  e pretende quindi al primato sul fondamento derivato dall’ esterno di se stessa, sia il proprio corpo umano, siano le cose, sia la Chiesa, sia Dio stesso.

Per l’immanentismo morale, conseguenza dell’immanentismo gnoseologico idealista, tutto dev’essere immanente all’io e controllato dall’io, altrimenti non esiste. La verità non viene dall’esterno, ma solo dall’interno della coscienza. Voler far capo a una realtà esterna sensibile come regola oggettiva della verità, è considerata dai cartesiani un’ingenuità. Il realista viene considerato come uno che si lascia ingannare dall’apparenza.

Le cose esterne per l’idealista post cartesiano non esistono. Per lui, la vera realtà, quella che i realisti considerano esterna, non è altro che il prodotto delle nostre idee a priori, dell’«Io trascendentale», forme ideatrici e creatrici del reale. Ecco spuntare l’idealismo, destinato a dominare nella filosofia moderna. Non più una scienza morale fondata su di una natura umana esistente indipendentemente dalla coscienza, ma, al suo posto, una coscienza assoluta, che possiede già da sé i princìpi dell’agire.

Inoltre, la scienza morale medioevale conosce la distinzione fondamentale fra etica naturale o filosofia morale ed etica cristiana o teologia morale. La questione dello scrupolo è strettamente connessa con la questione del peccato e della giustificazione, e fu posta prepotentemente alla ribalta da Lutero.

La vicenda di Lutero ha obbligato la teologia morale ad approfondire la natura dello scrupolo e a cercare i suoi rimedi. Da questa istanza è nata la distinzione fra morale ascetica e mistica[3], soprattutto ad opera dei moralisti Gesuiti della riforma tridentina.

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I punti e le distinzioni che sono venuti alla luce per la riflessione della Chiesa a seguito della vicenda di Lutero sono i seguenti: più chiarezza sull’essenza del peccato, sulle  sue cause, sui dei suoi effetti e sui suoi rimedi, sulla distinzione fra male di pena e male di colpa, fra volontario e involontario, fra conscio e inconscio, fra coscienza morale e scienza morale, responsabilità e non responsabilità, fra certezza oggettiva e certezza soggettiva, fra imputabilità e innocenza, fra giusto e ingiusto castigo, fra buona e cattiva fede, fra malizia e fragilità, fra concupiscenza e peccato, fra stato di peccato e atto del peccato, fra vera e finta colpa, fra giustizia e misericordia, fra giustizia ed epicheia, fra perdono e tolleranza, fra eccezione alla legge e sospensione della legge, fra legge divina, naturale e positiva, fra confessione e direzione spirituale, fra diritto e morale, fra pastorale e psicoterapia.

Il dramma di Lutero ha condotto inoltre la Chiesa, col Concilio di Trento, a chiarire la natura del libero arbitrio nel suo rapporto con la grazia. Il giovane Lutero, troppo impressionato per le sue debolezze, tendeva a colpevolizzarsi in una maniera esagerata, atto, questo, proprio dello scrupoloso. Aveva frainteso S. Paolo, quando, nella Lettera ai Romani, parla della condizione angosciosa del peccatore. Infatti l’Apostolo, nel suo modo di esprimersi enfatico sembra voler dire che io sono talmente schiavo del peccato, da aver perduto il libero arbitrio. Dice infatti Paolo:

 «non quello che io voglio faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so, infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.

Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra» (Rm 7, 14-23).

Sembra che Paolo voglia dire che io non posso non peccare; sembra che voglia dire che io non sono padrone delle mie azioni; esse non dipendono da me; non sono liberamente decise da me; quindi non ho il potere di fare diversamente. Quindi io mi trovo in colpa e riprovato da Dio contro la mia stessa volontà, che non è libera ma schiava del peccato. Non posso decidere di non peccare, non posso fare diversamente e quindi sono un candidato dell’inferno.

Così infatti Lutero interpretava S. Paolo. Da questa sua esegesi viene la sua famosa negazione dell’esistenza del libero arbitrio, alla quale il Concilio di Trento rispose riaffermando l’esistenza del libero arbitrio con preziose precisazioni, che hanno condotto la dottrina della Chiesa a farci comprendere da una parte la dignità del libero  arbitrio e dall’altra la sua debolezza e tendenza al peccato a seguito del peccato originale. 

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Infatti non è altro che di questa fragilità del libero arbitrio che qui Paolo intende parlare. Non si sogna neanche, come risulta chiarissimamente da altri contesti, di negare che io sono padrone delle mie azioni, che decido io quello che faccio, che so quello che faccio perché lo decido io e l’ho voluto fare; che quindi sono responsabile di quello che faccio perché lo voglio io, e che quindi so se un peccato l’ho fatto volontariamente e quindi colpevolmente o perché spinto dalla passione o per ignoranza in buona fede, e quindi con colpa attenuata o senza colpa. So che se non voglio peccare non pecco e che pecco perché lo voglio io. Nessuno decide al mio posto.

Il «peccato che è in me», del quale parla S. Paolo, non è una volontà maligna che rende schiava la mia volontà buona – cosa assurda -, sicché io sono punito benché innocente, ma è semplicemente la concupiscenza, il cui concetto sarà chiarito dal Concilio di Trento, quella concupiscenza (epithymìa), della quale parla S. Giovanni (I Gv 2,16), ossia la tendenza a peccare conseguente al peccato originale, tendenza che può e deve esser vinta dalla buona volontà sostenuta dalla grazia, anche se essa resta per tutto il corso della vita presente.

La grazia mi libera non nel senso che mi renda nominalmente giusto senza esserlo realmente, mi dia il permesso di peccare liberamente e di considerare bene ciò che è male, ma nel senso che guarisce e rafforza il mio libero arbitrio dalla sua debolezza e lo rende capace di compiere opere soprannaturali, così da poter meritare la stessa vita eterna.

Queste sono le premesse che fondano l’aspetto ascetico ed agonistico della vita morale e spirituale, gravemente trascurato da Lutero, che si adagia con falsa umiltà sulle proprie cattive tendenze senza curarsi di mortificare la carne con una opportuna disciplina spirituale, salvo a sfogare tutta la sua aggressività contro il Papato e la morale cattolica.  L’aspetto ascetico della morale cattolica sarà per reazione molto curata dalla spiritualità ignaziana, sorta sotto l’impulso morale dato dal Concilio di Trento.

L’ascetismo cristiano, che ha analogie con quello delle altre religioni, soprattutto induismo e il buddismo, punta, come è noto, sullo sforzo disciplinato e metodico della volontà[4] necessario per vincere le tentazioni e per rinunciare al piacere illecito. Esprime la fatica che dobbiamo fare per compiere certi doveri che ripugnano alla carne, ma sono  voluti dallo spirito. Implica l’idea di un combattimento e di una lotta contro forze che vorrebbero trascinarci a peccare, come la carne, il mondo e il demonio. 

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L’ascetica insegna dunque i metodi e i mezzi di questa buona battaglia[5], della quale parla S. Paolo, per poter arrivare alla vittoria. La spiritualità ignaziana, possiede, come è noto, questo carattere militaresco che ben si adatta a rappresentare questa lotta spirituale per la conquista del regno di Dio e questa forza per rinunciare agli allettamenti del mondo e per non spaventarsi alle sue minacce.

La nuova spiritualità ignaziana saprà congiungere, sulle orme di quella domenicana, il rafforzamento della volontà umana sulla base della coscienza delle forze rimaste sane all’uomo nonostante le ferite del peccato originale, con una grande fiducia nel soccorso della grazia, mentre Lutero, come è noto, col pretesto della fragilità e della malizia dell’uomo conseguente al peccato, convinto di avere comunque Dio con sé, e giudicando inutili gli sforzi umani, i sacrifici e le rinunce ascetiche,  convinto di essere strumento della potenza della grazia, concentrava la sua volontà solamente sull’esternazione infaticabile della sua dirompente e fascinosa personalità, tanto più intransigente, aggressiva ed autoritaria, quanto più Lutero era convinto di essere strumento eletto di Dio per il ritrovamento del vero Vangelo contro le superstizioni del papismo romano e l’oppressione dei latini sul popolo tedesco.

Da notare inoltre che la teologia morale di S. Tommaso contiene altresì implicitamente la distinzione fra teologia morale e teologia spirituale[6], che dopo il Concilio di Trento avrebbe cominciato ad imporsi anch’essa per l’impulso dato alla teologia morale da parte del Concilio. In tal modo, la teologia morale viene ad essere concepita come dottrina dell’obbedienza attiva a Dio sotto il regime delle virtù morali e teologali.

Era, questa, una risposta a Lutero, il quale, col pretesto della corruzione della ragione e della volontà dopo il peccato originale, derideva l’etica e la teologia naturali elaborate da S. Tommaso accusandole di essere le utopie illusorie del pagano Aristotele e dei frutti della superbia umana, che vuole avanzare meriti davanti a Dio.

Per quanto riguarda la teologia spirituale o della perfezione veniva concepita come dottrina dell‘obbedienza passiva a Dio sotto il regime dei doni dello Spirito Santo, in vista di elevarsi all’esperienza mistica, ignorata e disprezzata da Lutero, secondo il quale non esiste una carità verso Dio, ma solo verso il prossimo. 

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Egli infatti, dopo l’uscita dalla Chiesa, considerava l’ideale monastico, che pure in precedenza aveva liberamente scelto, come astratto e ozioso platonismo, ignorando che la forza e la ragione d’amare sinceramente il prossimo viene soltanto dall’unione mistica ed affettiva con Dio sommante amato e il fine ultimo di tutta la vita cristiana.

I moralisti domenicani, dal canto loro, mantennero l’unità tomistica della teologia morale, per la quale, data la chiamata universale alla perfezione e alla santità, la teologia mistica è il vertice della teologia morale, per cui nella scuola domenicana tutti sono chiamati all’esperienza mistica come compimento supremo della vita morale[7].

Invece nella scuola ignaziana della riforma tridentina si distinse una morale ascetica per laici e religiosi, ed una esperienza mistica riservata ai religiosi. Ci volle S. Francesco di Sales a ricordare la tesi tomistica, vero specchio dell’etica evangelica, che tutti sono chiamati all’esperienza mistica (che egli chiamava «devozione») e non solo i monaci e gli eremiti. Questa tesi sarà poi ripresa da Concilio Vaticano II.

Inoltre, appare evidente che la distinzione fra morale ascetica e morale mistica, che appare solo dopo il Concilio di Trento, fu concepita in chiave antiluterana, l’ascetica per opporsi al lassismo e permissivismo luterano; la mistica come richiamo al valore della contemplazione, assente nell’etica luterana, dove la carità non riguarda Dio, ma solo l’amore del prossimo.

L’ascetica offrì largo spazio per trattare del tema del peccato, della colpa e dello scrupolo, inquadrando il discorso nel tema più ampio del male di pena e male di colpa. In tal modo il discorso si allarga a trattare la funzione del dolore nell’etica cristiana, atteso il fatto che lo scrupolo arreca sofferenza similmente al pentimento, del quale è una deformazione causata da una presuntuosa pretesa di perfezione o mancata accettazione dei limiti della coscienza.

Inoltre col Concilio di Trento nacque anche, per iniziativa dei Gesuiti, la teologia spirituale o ascetico-mistica, intesa nel senso in cui oggi parliamo di teologia pastorale, ossia l’insegnamento ai pastori del metodo della guida delle anime alla perfezione. Oggi invece l’espressione teologia ascetico-mistica è in ribasso, perché ricorda l’ascetismo preconciliare, superato e corretto dall’umanesimo del Concilio Vaticano II.

Sotto l’egida della teologia spirituale nacque anche, come è noto, sempre per impulso dei Gesuiti, la figura confortante e rassicurante del  direttore spirituale, che dette luogo a una vastissima opera di educazione della gioventù, della formazione delle classi dirigenti, al sorgere di una schiera di anime elette e di santi pastori e sacerdoti che  furono all’origine di un dirompente e intelligente  slancio missionario, precorritore nell’opera dell’inculturazione della fede, di una rinnovata ricerca della santità e della gloria di Dio e nuovi istituti religiosi, opere culturali ed iniziative sociali e di carità.

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I Gesuiti, come si sa, impostarono la vita cristiana nel senso paolino della generazione dell’«uomo spirituale», in lotta contro la carne, l’uomo che mortifica l’uomo vecchio schiavo delle passioni, assoggettando con energia e tenacia il proprio corpo. Anche qui giocò la mentalità militaresca di Ignazio: come il soldato si esercita nel combattimento, sì che si forma appunto l’esercito, così il cristiano deve esercitarsi nella lotta contro il peccato, contro i vizi, contro la carne, contro il mondo e contro Satana per liberarlo dal potere di Satana e conquistare il mondo a Cristo. Da qui i famosissimi «esercizi spirituali», atti a promuovere l’azione cristiana virtuosa e santa, un’azione nella quale essere sempre controllati e padroni di se stessi, utilizzando razionalmente tutte le risorse disponibili e mettendosi a piena disposizione della volontà divina.

Anche questa fu una risposta a Lutero, il quale nel suo disprezzo per l’ascetismo cristiano e in particolare per la vocazione sacrificale del sacerdote, disprezzava e derideva la sua missione di insegnare alle anime la disciplina spirituale, la penitenza e l’espiazione per i propri peccati, le rinunce necessarie al conseguimento della perfezione, nonché il sacrificarsi per il prossimo sull’esempio di Cristo e la partecipazione devota e fervorosa al sacrificio della Messa.

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VIII.  Rischi della spiritualità ignaziana

La cosa che colpì profondamente Ignazio fu lo spettacolo sconvolgente del diffondersi del luteranesimo nato dal dramma di coscienza di Lutero. Ignazio capì che si trattava di un’aggressione alla Chiesa sotto colore della vera interpretazione della divina misericordia e della libertà evangelica contro il legalismo della Chiesa romana tormentatore della coscienza gettata sotto la schiavitù dello scrupolo e della paura e solleticata nella presunzione pelagiana di vantarsi davanti a Dio dei propri meriti.

Con la sua forma mentis di militare Ignazio concepì l’idea di aiutare la Chiesa assalita dagli eretici formando una milizia scelta di combattenti per la causa di Cristo e una maggior gloria di Dio sul modello delle allora ammirate compagnie di ventura, dunque una «compagnia di Gesù»[8]. E se Lutero si era ribellato al Papa, volle che i suoi combattenti giurassero totale obbedienza al Papa nel suo ufficio di vicario di Cristo e di guida della Chiesa nella guerra contro il peccato, la carne, il mondo e Satana.

Lutero aveva strappato alla Chiesa vasti territori? Ebbene, la Compagnia di Gesù li riconquisterà alla Chiesa. Lutero diffondeva l’eresia? Ebbene, la Compagnia di Gesù conquisterà nuovi popoli alla Chiesa. Lutero aveva sottratto al Papa il potere indiretto sugli affari della politica? Ebbene, la Compagnia di Gesù si sentirà in dovere di riedificare la civiltà cattolica sotto la presidenza del Papa. Lutero aveva rinunciato alla lotta contro il peccato? Ebbene la Compagnia eserciterà le anime nella lotta contro il peccato, promovendo conversione, penitenza, confessione, sacrificio, riparazione, operosità, progresso, santità.

Mossi da un ardentissimo amore per Cristo (mistica) – caritas Christi urget nos - , occorreva fare l’adunata, chiamare alla guerra (predicazione), corrispondere alla chiamata (discernimento), far voto d’obbedienza perinde ac cadaver al supremo condottiero il Papa (quarto voto), esercitarsi nell’arte della guerra (ascetica), fino alla vittoria (ad maiorem Dei gloriam). Confidare in Dio come se tutto debba dipendere da Lui. Mettercela tutta, come se tutto dipendesse da noi.

La spiritualità ignaziana, per quanto preziosa e sorgente da cinque secoli di un’abbondantissima serie di anime sante e di opere per il bene della Chiesa, resta sempre opera di un uomo e come tale ha i suoi lati deboli. Ma perché ne parlo? Perché essa ha un aspetto che tocca profondamente la tematica della coscienza morale e quindi della colpa vera o falsa, cioè lo scrupolo e dei metodi e modi di affrontare e risolvere il problema. 

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Occorreva rimediare alla coscienza scrupolosa in modo tale da non cadere nella coscienza lassa o nella coscienza doppia. Sorse come via di uscita il concetto di coscienza delicata, serena e premurosa, timorata e confidente, equilibrata ed oggettiva, che risulta da un vaglio e un discernimento della propria situazione concreta alla luce dei princìpi morali. E nel contempo bisognava dare alla coscienza quella pace che invano Lutero cercava di ottenere dalla furbizia e dallo scarico di responsabilità.

 Questa pace non doveva essere, come l’aveva immaginata Lutero, una specie anestetico, un calmante o uno psicofarmaco che coonestasse la fuga dalle nostre responsabilità sotto pretesto della divina misericordia. Si trattava invece di una pace che non escludeva il dolore dei propri peccati, ma anzi lo coltivava intelligentemente, a ragion veduta, come espressione spontanea e ad un tempo logica dell’amore nei confronti di quel Dio infinitamente buono, sacrificatosi per noi, e che vergognosamente e slealmente noi, da animi ingrati e superbi, abbiamo offeso.

Un punto debole della spiritualità ignaziana, comunemente riconosciuto, è il suo volontarismo di origine occamista per la mediazione dello stesso Lutero e di Cartesio, che appunto l’aveva assorbito nell’ambiente gesuitico. Tale spiritualità è in qualche modo compromessa dallo stesso nemico che essa vuol colpire. Ciò è sorgente di irragionevolezza, doppiezza e volubilità.

Il volontarismo consiste nel far dipendere la verità non dalla necessitazione dell’intelletto, ma dalla decisione della volontà. Così succede che l’intelletto non è determinato ad unum, ossia non si fissa né si stabilizza sull’identità dell’oggetto, ma, dipendendo dal libero arbitrio, può oscillare tra il sì e il no, mettendo assieme l’uno con l’altro. L’intelletto, invece di servire ad un solo padrone – il sì -, ne segue due – il sì e il no -. Si dimentica l’avvertimento di Cristo, che questo è lo stile del demonio.

Il volontarismo nasce dal principio di Ockham, per il quale la buona volontà non è quella che vuole il bene, ma il bene è bene perché è voluto dalla volontà. La legge morale non è fissata una volta per sempre, ma è convenzionale; è quella che di volta in volta è fissata dall’autorità. La virtù dell’obbedienza tende a sostituire quella della verità. Se il Superiore comanda di dire che 2+2=5, come ha detto di recente il Padre Sosa, attuale Preposito della Compagnia di Gesù, il Gesuita obbedisce.

Anche la prudenza, il cosiddetto «discernimento», come dirà il Gesuita Rahner nel secolo scorso, non è la semplice applicazione di una legge universale a un caso particolare, ma consiste nella capacità di inventare o creare (la cosiddetta «creatività»)  una legge ad hoc, che completa e concretizza la legge astratta universale per un caso imprevisto in una situazione imprevista[9].

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Ad ogni modo la morale dei Gesuiti, come è noto, si distinse per la casistica, un metodo di guida morale che riflette una notevole sensibilità per il variare delle situazioni, cosa che in certi casi può chiedere soluzioni adatte a quel caso. Il rischio può essere quello di far prevalere la situazione sulle esigenze della legge. Si verificò allora all’epoca di Pio XII la cosiddetta «etica della situazione» a suo tempo condannata dal S. Uffizio[10]. 

Nel volontarismo il rapporto intelletto-volontà si capovolge: non è la volontà che vuol il bene inteso dall’intelletto, ma è l’intelletto che vuol il bene voluto dalla volontà. Qualcosa di simile avverrà per il cogito cartesiano: il «pensare» del quale si tratta nel cogito non è la determinazione ad unum dell’intelletto necessitato dall’identità dell’oggetto, ma è il dubitare assoluto, il dubbio universale, del quale Cartesio ha parlato in precedenza.

Per questo ha ragione Padre Fabro nel sostenere che il cogito cartesiano non è un vero cogito, ma è un volo. Non esprime un’adeguazione dell’intelletto alla cosa esterna al pensiero, ma la libera decisione di far oscillare il pensiero fra il sì e il no, il che è precisamente l’atto del dubitare. Cartesio quindi erige a sistema la duplicità dell’intelletto che è precisamente quel servire a due padroni, quella doppiezza che Cristo condanna come menzogna ed ipocrisia.

È interessante come Cristo da una parte lancia ai farisei l’accusa di essere dei serpenti (MT 23,33), ma dall’altra raccomanda di essere «prudenti come i serpenti» (Mt 10,16). Non sembra, questa, una contraddizione? Che vuol dire il Signore? Che la semplicità dello sguardo e del parlare non esclude il dovere di sapersi destreggiare davanti a nemici falsi ed insidiosi, al fine di difendersi dalle loro menzogne e di smascherarli e metterli con le spalle al muro.

Ricordiamo il Salmo: «con l’uomo buono tu sei buono, con il perverso tu sei astuto» (Sal 18, 26-27). È qui che risplende e fa da maestra la virtù ignaziana della prudenza. La semplicità non va confusa con l’ingenuità e la dabbenaggine. Ma la prudenza non deve diventare astuzia e disonestà per aver trascurato la semplicità. Ma purtroppo è qui che, se lo spirito ignaziano non è rettamente inteso, saltano fuori i Cartesio, i Rahner, gli Hegel, i Gentile, i Teilhard de Chardin e personaggi del genere. 

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Il volontarismo è legato all’immanentismo: non Dio trovato come causa prima partendo dall’esperienza delle cose come creature di Dio (“ea quae facta sunt,  Rm 1,20), ma sentito nella coscienza per mezzo di segni illuminanti, incoraggianti, confortanti ed entusiasmanti. Il volontarismo genera il sincretismo e l’opportunismo, la volubilità e la canna sbattuta dal vento, il trasformismo e il conformismo, l’adulazione e la sovversione, il fideismo e il pelagianesimo (vedi la controversia De auxiliis con i Domenicani, fine sec.XVI, primi ‘600), il secolarismo (vedi appoggio alla teologia della liberazione nel ‘900) e l’integrismo (soppressione della Compagnia, fine ‘700), il rigorismo (‘800 e primi ‘900) e lassismo (sec.XVII, controversia con Pascal, ed anche oggi).

Ottimi tomisti, come il Canisio, il Bellarmino, i Billot, Mattiussi, Franzelin, de Tonquédec, Siwek, Petazzi, ma anche dannosi doppiogiochisti (collusioni con l’illuminismo, con la massoneria, con i comunisti, coi protestanti, con l’induismo). sincretisti come Suarez, Molina, Maréchal, Rousselot, Rahner.

Il volontarismo nasce dall’immanentismo. Già nella narrazione dello stesso S. Ignazio di come egli giunse a capire come si opera il discernimento degli spiriti, si nota la sua impostazione teologica interiorista, per la quale pare che noi apprendiamo l’esistenza e la presenza di Dio non tanto partendo dall’esperienza delle cose esterne («ea quae facta sunt»), ma riflettendo sulle sensazioni o emozioni gradevoli o sgradevoli causate dall’apprendimento di eventi umani, che rivelano l’azione di Dio negli uomini e nella storia.

Questo incontro interiore con Dio raggiunge il suo apice nell’incontro mistico con Cristo reso possibile dalla lettura del Vangelo, dall’esperienza della vita della Chiesa e dalla conoscenza dell’esempio dei Santi. Tale incontro nella spiritualità ignaziana assume toni mistici, come nella devozione al Sacro Cuore. Tuttavia il rischio può essere quello di sottovalutare o relativizzare, in nome di questa esperienza affettiva, i contenuti concettuali oggettivi speculativi della dottrina cattolica.

Può sorgere allora un misticismo spurio, che non è preparato dal momento ascetico, ma che pretende di essere la condizione ordinaria della vita cristiana confondendo l’unione con Dio, che è effetto di libera scelta e del dono della sapienza, con l’orientamento necessario verso il fine ultimo, che caratterizza l’essenza e l’agire trascendentale dell’ente, uomo compreso[11]. Agire per il fine non significa necessariamente, per l’uomo, agire per Dio, perché, in forza del libero arbitrio, egli può scegliere di rifiutare Dio.  

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IX.        I limiti della riforma tridentina e il Concilio Vaticano II

La teologia morale promossa dal Concilio di Trento, in reazione al lassismo e all’anomismo protestante, non poteva non essere un forte richiamo all’austerità della vita cristiana e alla necessità di farsi meriti per il paradiso con la pratica dei divini comandamenti. Essa ha promosso l’aspetto combattivo, metodico e disciplinato della vita cristiana.

Tuttavia, nel corso dei secoli seguenti fino alla prima metà del secolo scorso, apparì sempre più evidente che la reazione tridentina contro Lutero, se da una parte aveva chiarito la differenza fra lo scrupolo morale e il senso di colpa psicologico e per conseguenza la diversità del rimedio nell’uno e nell’altro caso, se aveva ribadito il principio che occorre saper rinunciare a ciò che frappone ostacolo alla nostra piena dedizione a Cristo, se aveva chiarito che non possiamo essere perdonati se non facciamo opere di penitenza e che non possiamo salvarci senza  dolori, fatiche, sforzi e sacrifici, il Concilio di Trento limitava la sua visuale all’orizzonte della presente vita mortale. Si trattava di un orizzonte che non teneva conto dello stato edenico e della futura prospettiva escatologica, vale a dire una prospettiva di riconciliazione dello spirito con la carne e di valorizzazione degli aspetti positivi del mondo e della modernità.

In particolare, l’ascetica di questi ultimi secoli si era via via venuta a concentrare in modo preponderante sulla lotta al peccato sessuale e la sua gravità era oltremodo enfatizzata, spesso sulla base di un indiscreto dualismo spirito-sesso e di una sottovalutazione della dignità della donna. Da qui il concentrarsi degli scrupoli sui peccati di sesso. Ho avuto penitenti che ancora dopo quarant’anni dai fatti, peraltro mal ricordati, benché confessatisi più volte, non sapevano ancora darsi pace. 

Tutta l’etica tendeva a restringersi all’etica della persona e del dominio delle passioni con la conseguenza di sottovalutare l’aspetto della giustizia sociale. È vero che si aveva anche percezione del peccato di eresia e di empietà. Ma tutto sommato non lo si sentiva così grave come il peccato di sesso. L’ateo, il miscredente o eretico apparivano tutto sommato come spiriti sì alteri e ribelli, ma pur sempre rivestiti della dignità dello spirito. Chissà, forse qualcuno di essi – si pensava – sarà stato in buona fede. Ma il lussurioso destava solo scandalo e ripugnanza.

Il peccato di sesso era diventato il paradigma del peccato. Quando si diceva «peccato», si pensava subito al peccato di sesso. Il peccatore era sempre colpevole: non si ammettevano attenuanti o scusanti. L’averlo commesso era per l’anima pia cosa inconcepibile e a volte fonte di un inestinguibile rimorso, anche dopo numerose confessioni.  Era chiaro che la situazione era da sanare.

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Ecco uno dei motivi per i quali S. Giovanni XXIII volle il Concilio Vaticano II. Il modernismo dei tempi d S. Pio X era sorto nel tentativo di ovviare ad un’esigenza che si era fatta sempre più evidente: quella di accogliere i valori della modernità e in particolare, in campo morale, i princìpi della tolleranza e della libertà religiosa, i valori umani comuni alle varie religioni, la migliore comprensione della dignità della coscienza morale, una comprensione protologica ed escatologica del rapporto uomo-donna, al di là dei confini contingenti e temporanei della presente natura decaduta, l’aspetto psicologico della condotta morale, ed un particolare l‘esistenza dell’implicito e dell’inconscio (preconscio, subconscio) nella vita morale e nel rapporto con Dio.

In tal modo si è trattato di riprendere daccapo in termini più evangelici il problema del rapporto dello spirito con la carne e della Chiesa col mondo e superare un ascetismo che stava tornando ad essere fattore di scrupoli e, senza dimenticare i chiarimenti dati dal Concilio di Trento, promuovere una condotta morale che sappia con discernimento ed equilibrio insegnare a togliersi l’occhio quando scandalizza, ma ad usarlo quando il vedere fa bene alla vista.

Purtroppo a questo punto è scoppiata una crisi impressionante nella Compagnia di Gesù, la quale, sentendosi insopportabilmente a disagio per il suo passato rigorismo ottocentesco, ha reagito in modo così violento da cadere nel lassismo e nel buonismo attestati dalla teologia di Rahner. 

È sorto un pullulare di tesi stolte, come il moltiplicarsi del tumore un una metastasi. Ad esempio: il peccato è solo una fragilità. Bisogna accompagnare, non correggere. Bisogna ascoltare, non prescrivere. Non esiste il peccatore, ma solo il diverso. Una medesima frase si può interpretare in due sensi opposti. Tutti sono in buona fede, tutti sono in grazia, tutti si salvano, tutti sono cristiani anonimi, tutti sperimentano Dio nel preconscio, tutte le religioni sono salvifiche, ognuno è libero di decidere di ciò che è bene e male come gli pare.

Con l’avvento del Concilio la Compagnia di Gesù, per una malintesa volontà di riforma, ha realizzato una svolta impressionante, per la quale ha trionfato in essa la teologia di Rahner, che si presenta come interpretazione delle dottrine nuove del Concilio, ma che in realtà è una forma subdola e insidiosa, molto pericolosa, di quel modernismo che a suo tempo era stato condannato da Pio X, aggravato dall’influsso di Hegel. di Darwin, di Freud, di Marx e di Heidegger. 

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Già col modernismo era iniziata questa svolta della Compagnia di Gesù verso un’impostazione immanentistica ed evoluzionista. Se fino ad allora, a partire dai primi Ottocento, era prevalsa una spiritualità di tipo ascetico preferita alla mistica, con fortissima accentuazione dell’obbedienza e rigorismo morale, ora sorgeva una reazione, la quale, respingendo l’ascetica come rigorismo, risolveva la vita cristiana nella mistica, assumendo, come appare dalla proposta del Gesuita inglese George Tyrrell, una visione del rapporto Dio-uomo, Dio-mondo, corpo-spirito non dalla dottrina cattolica, ma dall’immanentismo e soggettivismo protestante ed idealista tedesco.

Questa svolta mistica o meglio pseudomistica, sempre improntata al volontarismo tradizionale nella Compagnia, era sta promossa soprattutto da teologi gesuiti come Pierre Rousselot e Joseph Maréchal. Il teologo che ha raccolto tutte queste istanze idealistiche, sensiste, materialiste, panteiste e mistiche, è stato, come tutti sanno, Karl Rahner, la cui teologia fu sostituita dall’orientamento prevalente fra i Gesuiti, a quella di S. Tommaso, raccomandata da S. Ignazio ai suoi figli, e ciò nel succedersi di tre Congregazioni Generali della Compagnia: quella del 1966 (la XXXI), quella del 1974 (la XXXII) e quella del 1978 (la XXXIII).

Queste vicende tumultuose e conturbanti, non certo di buon esempio, che comportarono uno scontro prima con Paolo VI, poi con Giovanni Paolo I e infine con Giovanni Paolo II, sono narrate con abbondanza di dati da due dotti Gesuiti nei loro rispettivi libri[12]. Così nella Compagnia di Gesù è accaduto un fatto sconvolgente e scandaloso: essa, che nacque come volontà di obbedienza al Papa, agli ordini del Papa, per riconquistare e conquistare il mondo a Cristo, ora, inquinata dalla massoneria, ingannata dalla falsa idea di libertà messa in giro da Rahner, aveva l’audacia di opporsi apertamente o nascostamente ai Papi a cominciare da Paolo VI accusandoli di frenare il progresso della Chiesa e di voler tornare al Concilio di Trento[13].

Se Paolo VI sopportò soffrendo questa umiliazione e questa tendenza scismatica, Giovanni Paolo II non fu affatto disposto ad accettare questi affronti e questa inaudita ribellione. Dopo aver a lungo pazientato, depose il Padre Arrupe nel 1981 sostituendolo col Padre Dezza. Prima di lui Giovanni Paolo I stava preparando un severo rimprovero alla Compagnia in procinto di riunirsi per la XXXIII Congregazione del settembre 1978, quando morì improvvisante e misteriosamente[14].

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Giovanni Paolo II, come riferisce Martin, venuto a sapere delle preoccupazioni di Giovanni Paolo I e del suo atteggiamento nei confronti della Compagnia, all’inizio del suo pontificato aveva l’intenzione di abolire la Compagnia, se non fosse stato distolto dal Card. Casaroli, Segretario di Stato.

In tal modo il Santo Pontefice affrontò con coraggio, come narra Martin, la ribellione opposta dai Gesuiti e il loro tentativo di conferire al rahnerismo un ruolo guida nella teologia cattolica. Da notare che il rahnerismo è lo sfondo idealista, dal quale trae fondamento sia l’evoluzionismo di Teilhard de Chardin come la teologia politica di Johann Baptist Metz, ispiratrice della teologia sudamericana della liberazione di Gutierrez e Boff, tutte correnti largamente appoggiate dai Gesuiti.

Giovanni Paolo II rispose all’insidia rahneriana, una forma di raffinato neomodernismo, in collaborazione col Card. Ratzinger, allora Prefetto della CDF, con due poderose encicliche, una sulla teologia morale, la Veritatis splendor del 1993 e l’altra la Fides et Ratio del 1998, dove è confutato il trascendentalismo idealista rahneriano e riproposto il realismo tomista.

 

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X.            Conclusioni 

 Per i modernisti il senso di colpa è un disturbo da curare con la psicanalisi, il sacrificio è masochismo, la regola della morale non è la legge, ma il piacere. Basta con l’ascetica, fonte di frustrazioni, crudeltà e nevrosi: ogni uomo è un mistico, perché tutti tendono a Dio, che è il vertice supremo dell’uomo.

Che cosa fare? Bisogna realizzare veramente il progetto morale del Concilio Vaticano II non in rottura ma in continuità con quello di Trento. Al riguardo dobbiamo osservare che la separazione tra uomo e donna è un provvedimento d’emergenza per chi è chiamato alla vita religiosa relativamente allo stato presente, giacché nella futura resurrezione non occorrerà più la pratica dei voti religiosi, essendo i beati liberati per sempre dallo stato di miseria proprio della vita presente, che rende consigliabili i voti, per una vita spirituale più alta. Essi pertanto non corrispondono alla volontà originaria ed escatologica di Dio, il quale viceversa vuole l’unione dell’uomo con la donna. E per questo Dio nel Genesi comanda all’uomo: «Non divida l ’uomo ciò che Dio ha unito».

Oggi occorre però recuperare un sano ascetismo dannosamente abbandonato dall’attuale edonismo modernista e attuare veramente la prospettiva escatologica proposta dal Vaticano II, così come essa è stata esplicitata, per quanto riguarda il rapporto uomo-donna, dagli insegnamenti di Giovanni Paolo II.

È giunto il momento di un recupero prudente del vero senso di colpa, di una ritrovata coscienza dell’aver peccato, di un sincero dolore dei propri peccati[15]. Occorre tornare a rendersi conto di che cosa vuol dire peccare, e delle conseguenze che questo agire comporta, senza ricadere  nella malattia dello scrupolo e dei falsi sensi di colpa, mantenendo o acquisendo quindi i sani apporti della psicanalisi, nonché gli apporti che ho elencato della teologia morale postconciliare, per un nuovo passo avanti della coscienza morale nella pace e nella serenità, nel santo timor di Dio, nell’esperienza consolante ed incoraggiante della divina misericordia, nella pratica della giustizia e nella lealtà di Cristo, nel quale «non c’è stato il sì e il no, ma solo il sì» (II Cor 1,17).

Il tema della sinodalità, importante ma purtroppo strumentalizzato dai modernisti, non deve essere pretesto per annullare l’autorità del Papa e per concepire la Chiesa come una specie di Assemblea costituente sul modello della Rivoluzione Francese, ma è una comunità di fratelli sotto la guida di un medesimo Padre, il Papa.

L’ecumenismo, dal canto suo, non dev’essere, contro gli intenti dell’Unitatis redintegratio il pretesto per concepire l’insieme delle varie confessioni cristiane, sul modello di una società civile con a capo il presidente della Repubblica, ma dev’essere, giusta la direttiva conciliare, il lavoro paziente e sistematico fatto in comune fra i cristiani delle varie confessioni al fine che in esse i cattolici, sotto la guida del Papa, aiutino i fratelli separati ad entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica.

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[1] Vedi il ritratto che ne fa il Maritain in Tre Riformatori, Morcelliana, Brescia 1964.

[2] «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno», Lc 23, 33-34.

[3] Fra i tanti trattati di ascetica e mistica sorti soprattutto nel secolo scorso, vedi per esempio Adolfo Tanquerey, Compendio di teologia ascetica e mistica, Desclée&C., Roma-Parigi 1930.

[4] Lo ritroveremo anche nell’etica idealista tedesca, soprattutto in Fichte. L’etica dialettica hegeliana non è priva di questo aspetto agonistico. Cf Vincenzo Kuiper, Lo sforzo verso la trascendenza. Studio sulla filosofia di Bernardino Varisco e sull’idealismo, Libreria dell’Angelicum, Roma 1940.

[5] Vedi, per esempio, il mio libro La buona battaglia, Edizioni ESD, Bologna 1986.

[6] Cf il mio articolo Proposta di sistemazione della teologia spirituale, in Teoria e pratica della Mistica, Atti del primo forum internazionale, La Santa, Bologna 2000, pp.23-33.

[7] R.Garrigou-Lagrange, Les trois ages de la vie intérieure, Les Editions di Cerf. Paris 1938.

[8] Sulla storia della Compagnia di Gesù, vedi Enrico Rosa, SJ,I Gesuiti dalle origini ai nostri giorni, Edizioni La Civiltà Cattolica, Roma 1957; Guido Sommavilla, La Compagnia di Gesù,Rizzoli Editore, Molano 1985; Malachi Martin, I Gesuiti. Il potere e la segreta missione della Compagnia di Gesù nel mondo in cui fede e politica si scontrano, SugarCo Edizioni, Milano 1988.

[9] Vedi la critica a questa teoria fatta da Tomas Tyn Saggio sull’etica esistenziale formale di Karl Rahner, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2011.

[10] Istruzione del Sant’Uffizio del 2 febbraio 1956, Denz.3918-3921.

[11] Secondo la formula scolastica: Omne agens agit propter finem, et quidem finem ultimum.

[12] Malachi Martin, I Gesuiti. Il potere e la segreta missione della Compagnia di Gesù nel mondo in cui la fede e la politica si scontrano, SugarCo Edizioni, Milano 1988; Antonio Caruso, Tra grandezze e squallori, Edizioni VivereIn, Monopoli (BA), 2008.

[13] Il Preposito della Compagnia che l’ha capeggiata in questo burrascoso periodo rivoluzionario dal 1966 al 1981 è stato il Padre Pedro Arrupe, uomo che si era distinto in atti di eroismo in occasione della distruzione di Hiroscima, dove allora si trovava, ma che poi, forse psichicamente indebolito a seguito della terribile esperienza, fraintese il rinnovamento conciliare della Compagnia prendendo per progressi e quindi evitando di correggere gli errori filomarxisti di Cardenal, quelli darwiniani di Teilhard de Chardin e quelli hegeliano-heideggeriani di Rahner.  

[14] Ho ricevuto confidenzialmente notizia da un suo amico prete che Albino Luciani da Patriarca di Venezia ebbe un giorno a digli: «se mi fanno Papa, abolisco la Compagnia di Gesù».

[15] Mi permetto di segnalare il mio libro Perché peccando ho meritato i tuoi castighi. Un teologo davanti al coronavirus, Edizioni Chora Books, Hong Kong 2020.

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