Non omnes salvantur Che cosa significa questa dottrina della Chiesa? - Seconda Parte (2/2)

 

  Non omnes salvantur

Che cosa significa questa dottrina della Chiesa?

 
Seconda Parte (2/2)

Dio offre a tutti la salvezza, ma è libero di fare le sue preferenze

Dio, nello scegliere i suoi eletti non fa preferenze di persone, ma è libero di preferire e prediligere chi vuole, non fa accezione di persone, perché non teme nessuna creatura né ha da ingraziarsi nessuno, non va a simpatie perché è sommamente imparziale ed equanime nel giudizio, non fa discriminazioni, perché è mosso da un criterio di discernimento sapientissimo, ma tratta tutti con giustizia e con giustizia proporzionale.

Dio sceglie coloro che salva. Suscita in essi lo stesso atto del loro libero arbitrio, per il quale loro a loro volta, sorretti dalla grazia,  scelgono Lui come fine ultimo della loro vita. Come dice il Concilio Vaticano II:

 

«Tutti gli eletti il Padre fino dall’eternità “li ha conosciuti nella sua prescienza e li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinchè Egli sia il primogenito di una moltitudine di fratelli” (Rm 8,29)» (LG 2).

Ma oltre a ciò Egli sceglie i doni da dare a chi vuole, quanti ne vuole e quanto grandi egli ne vuole. Se dunque propone parimenti ad ogni uomo il conseguimento del medesimo fine, ossia la vita eterna, nel grado e nelle forme che Egli stesso vuole, distribuisce altresì a ciascuno doni speciali creati apposta per lui. Ed ecco dunque la molteplicità dei doni gerarchici e carismatici, dei quali parla la Lumen Gentium  (n.4).

Questi doni sono delle perfezioni naturali e soprannaturali partecipi della natura divina, sono dei ministeri o degli incarichi o delle facoltà o dei compiti, partecipabili a loro volta in vari gradi, diversificati ed armonizzati fra di loro in una complessa complementarità reciproca, la grazia santificante e la grazia ministeriale, la mascolinità e la femminilità, il sacerdozio e il laicato, il religioso e il secolare, il sacramento e il sacramentale, il carismatico e il ministeriale, il personale e il comunitario, il sinodale e il singolare, il doloroso (per esempio le stigmate o la ferita al costato) e il glorioso (per esempio la levitazione o la taumaturgia).

Così Dio in quanto misericordioso, salva i miserabili, in quanto è generoso, dona ciò che vuole a chi vuole; in quanto è giusto, dà a ciascuno il suo; premia i buoni e castiga i cattivi, tratta tutti con lo stesso amore che è Egli stesso, in quanto tutti hanno ugualmente bisogno di Lui; non tratta però ognuno allo stesso modo degli altri, ma ciascuno, caso per caso, in modo diverso a seconda dei diversi meriti e gradi di merito, propri di ciascuno.

Non può mandare in paradiso chi merita l’inferno per il fatto che è misericordioso, perché qui la misericordia non c’entra. Il che vuol dire che non è vero che Dio sia sempre misericordioso, ma lo è solo con coloro che sono pentiti dei loro peccati: con chi non si pente, esercita la sua giustizia, se no sarebbe ingiusto se li mandasse lo stesso in paradiso.

I giusti potrebbero dire: noi abbiamo fatto tanta fatica e abbiamo rinunciato a tanti beni per procurarci il paradiso e per quale motivo questi furbi dovrebbero godere di una felicità che non corrisponde affatto ai loro meriti, ma che anzi è del tutto esclusa da quanto effettivamente meritano? E poi, non avendo messo affatto la ricerca dello spirito al di sopra della materia, come possono godere delle gioie paradisiache dello spirito?

E facciamo attenzione a non scambiare i giusti col fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo; questi ha la durezza di cuore di non accorgersi che il fratello si era pentito, mentre i giusti dei quali parlo sono peccatori pentiti. Quanto al padre, egli abbraccia il figlio che ritorna non perché è andato a prostitute, ma perché se n’è pentito.

I buonisti vorrebbero ad un tempo andare in paradiso e godersi adesso dei piaceri mondani e non capiscono che ciò è assurdo, giacchè il paradiso è esattamente la fruizione di gioie ben superiori a quelle di questo mondo; è la liberazione dai piaceri mondani e la fruizione di piaceri sensibili in piena armonia con quelli dello spirito e non piaceri come quelli mondani, che soffocano lo spirito.  

La scelta divina dei predestinati, coloro che la Scrittura chiama gli «eletti», non ha nulla a che vedere con qualunque accezione di persona, o ingiusta discriminazione o concessione di un ingiusto privilegio. Neppure Dio è obbligato a dare a tutti lo stesso grado di grazia e di gloria, ma è liberissimo di fare le sue preferenze, come appare evidentissimo nei grandi personaggi della storia sacra da Noè ad Abramo a Davide a Mosè a Giovanni Battista e così via fino alla Madonna e sommo fra tutti i predestinati Gesù Cristo.

La salvezza dell’uomo avviene nell’incontro di due libertà: quella divina e quella di ogni uomo. Avviene una scelta reciproca: Dio sceglie quel dato uomo e quel dato uomo sceglie Dio. Se Dio non sceglie quell’altro uomo è perché questi rifiuta di essere scelto. 

Dio non salva l’umanità in blocco, come credono i buonisti, anche se chiama tutti alla salvezza, ma tratta con ognuno di noi caso per caso, a tu per tu, come se esistesse solo il nostro io. Non salva l’umanità in blocco così come un soccorritore carica i naufraghi su di una scialuppa di salvataggio e li salva tutti assieme. No. Contatta personalmente ognuno di noi e chiede a ciascuno se vuole o non vuole essere con Lui, perché ognuno fa la sua scelta[1]. E c’è anche chi non è interessato alla proposta divina, anzi gli ripugna.

Questi è il candidato all’inferno. Rifiutare Dio, rifiutare Cristo non è senza conseguenze; non è che le cose vanno bene lo stesso. È questione di beatitudine o di dannazione eterna. È sbagliata la definizione rahneriana dell’uomo come spirito orientato a Dio. No. Uno può benissimo non orientarsi a Dio e non per questo cessa di essere uomo. 

I misericordisti, basandosi su di un concetto sbagliato dell’uguaglianza umana, concepiscono Dio sul modello del dirigente di una fabbrica di automobili, che vengono prodotte in serie, tutte uguali l’una all’altra. Essi male intendono le parole del Signore quando dice:

 

«Voi non fatevi chiamare “rabbì'', perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo» (Mt 23,8-12).

Qui Cristo si riferisce alla nostra comune condizione di creature umane, evidentemente tutte uguali e di pari dignità davanti a Dio e fra di loro in quanto tutte in possesso della medesima natura umana, che è specificamente identica in ogni individuo umano; per cui ogni uomo, sotto questo punto di vista, è parimenti infinitamente al di sotto di Dio, senza che uno sia più in alto e più vicino di un altro.

Una differenza di gradi esiste, ma non tocca la natura umana o la comune condizione di figli di Dio, alla quale tutti in Cristo siamo chiamati, ma riguarda diversi gradi o livelli di attuazione, nei singoli individui, delle potenzialità, facoltà, attitudini, virtù e capacità umane e soprannaturali, delle quali ogni individuo è dotato o è in possesso, diversamente e in gradi diversi l’uno dall’altro. Sotto questo punto di vista siamo tutti diversi e disuguali l’uno dall’altro.

Non esistono e non possono metafisicamente esistere due individui uguali e identici, ma ogni individuo – sia un sasso, sia una pianta, sia un animale, sia un uomo, sia un angelo, sia Dio - per sua stessa essenza (in-dividuo, non divisibile in molti) è unico, irripetibile e irriproducibile, immoltiplicabile e distinto da tutti gli altri.  

L’individuo non è un numero, che possa essere ripetuto o riprodotto uguale: 2, 2, 2 … Non è un astratto come un’idea ugualmente presente nella mente di molti uomini, ma è un concreto[2], cioè un ente completo, per esempio la persona, ossia una natura o essenza reale individua sussistente col suo proprio atto d’essere; e l’atto d’essere è diverso in ogni ente e da tutti gli altri, dal granello di polvere a Dio.

Risposta alle obiezioni buoniste

Faccio un elenco di obiezioni comunemente fatte dai buonisti.

1.Il Dio del Magistero ufficiale della Chiesa è un Dio imperfetto e impotente, che non sa togliere del tutto il male e riparare ai difetti di un’opera compiuta a metà, dato che non tutti si salvano. Non si era proposto di salvare tutti? E come mai non c’è riuscito? Può essere in qualche modo scusato concependolo come sofferente accanto a noi.

Risposta. Il piano della salvezza è in sé perfetto e atto a salvare tutti. Se in alcuni non ha funzionato, la colpa non è di Dio, ma la loro, che non l’hanno accettato. Dio ha voluto lasciar sussistere il male di pena dell’inferno, perché è un bene richiesto dalla giustizia. La giustizia infatti è un bene, ed è giusto che i malvagi siano puniti.

2. È un Dio esattore, taccagno e aguzzino. Lui, al quale non manca niente, che bisogno aveva di essere rimborsato o che gli si paghino le tasse? Manca di liberalità e potrebbe fare a meno di qualunque guadagno, essendo già da sé ricchissimo. Che bisogno ha dunque di farsi rimborsare, tanto da esigere soddisfazione e riparazione da poveracci come noi rimasti al verde e pieni di guai? Dov’è la sua misericordia?

R. Il peccato non ha arrecato alcun danno all’essenza divina, ma noi ci siamo sottratti al dominio di Dio su di noi, noi che siamo sua proprietà e ci siamo assoggettati al dominio del diavolo. Era giusto che il diavolo fosse costretto con la forza da Cristo a restituire a Dio, legittimo proprietario, il dominio sull’uomo ed era giusto che il Figlio col suo sacrificio redentore pagasse al nostro posto al Padre il debito contratto dall’uomo peccatore sottraendo al Padre il dovuto onore.

3. È un Dio permaloso: che danno avrà mai potuto subire da noi, Lui che è inattaccabile e inviolabile? Possibile che dobbiamo essere puniti nel fuoco eterno per una parola o per un gesto?

R.  Il peccato certamente è un atto finito, ma comporta la perdita di quel Bene infinito ed eterno che è Dio. E siccome nel morire il peccatore si fissa per sempre nel rifiuto di Dio, è giusto che la pena per tale rifiuto duri in eterno.

4.  È un Dio crudele e senza misericordia, che manda suo Figlio a morire e vuole che noi moriamo con lui. Dov’è l’amore di Padre?

R. Il Padre ha voluto che il Figlio innocente «offrisse se stesso in espiazione» (Is 53, 10) dei nostri peccati. Ha voluto che «si caricasse delle nostre sofferenze» (v.4), che facesse propria la morte come castigo del peccato, sicchè «egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti» (vv.5-6). Il sacrificio di Cristo produce vita per noi perché la sorgente di questa vita è la stessa divinità del Figlio.

Ma il fatto che questo Figlio fosse uomo, ha potuto far sì che la passione di quest’uomo, cioè Gesù, unita alla divinità del Verbo, producesse strumentalmente questa vita, mentre noi, unendo le nostre sofferenze alle sue, per volontà del Padre, abbiamo la possibilità di espiare le nostre colpe e dare in Cristo soddisfazione al Padre.

Ora è chiaro che questo piano del Padre è un piano di giustizia perché noi in Cristo diamo soddisfazione al Padre per le nostre colpe, ed è un piano  di misericordia, perché è per misericordia del Padre che noi abbiamo questa possibilità di collaborare con Cristo alla nostra redenzione, sicchè in Cristo e grazie a Cristo otteniamo dal Padre misericordia e perdono dei peccati.

Il Padre ci rimette i nostri debiti in quanto ha pagato Cristo, ma anche noi in Lui paghiamo i nostri debiti. Si dà dunque un felice connubio di giustizia che paga e misericordia che perdona. La grazia è causa del merito e il merito è causa della grazia.

5. È un Dio discriminatorio: perché alcuni sì e altri no, quando potrebbe, se volesse, salvare tutti?

R. Se l’umanità è divisa fra salvi e non salvi la colpa non è di Dio, che offre a tutti la possibilità di salvarci, ma è la nostra perché alcuni accettano la proposta del Padre ed alcuni la rifiutano.

6. È un Dio passionale ed irascibile, che ha bisogno di essere placato e rabbonito con sacrifici e offerte.

R. Il Dio che si placa è una semplice immagine metaforica per dire che Egli accetta il nostro sacrificio in Cristo e noi ci riconciliamo con Lui.  Non è che Dio cambi dal furore alla pace, ma si tratta dell’azione divina che muta il cuore dell’uomo e lo fa passare dal peccato alla grazia e quindi lo riconcilia con Sè.

7. È un Dio ingiusto perché a seguito del peccato di Adamo ed Eva ha fatto cadere le conseguenze sull’intera umanità, che non ha nessuna responsabilità della loro colpa.

R. ll peccato dei progenitori, a parte il fatto che è stato un peccato loro personale, più radicalmente è stato un peccato della natura umana, quindi in questo senso, un peccato di tutti e di ognuno (Rm 5,12, Vulg. In quo, ossia in Adamo, omnes peccaverunt) e quindi è giusto che tutti siano puniti.

8. È un Dio insipiente, perché avrebbe potuto elevare l’umanità allo stato di gloria immediatamente sin dalle origini, senza farla passare attraverso l’infinita serie di peccati, di guai e disgrazie, dalla quale è costellata l’intera storia dell’umanità.

R. L’ipotesi è vera, ma Dio ha scelto diversamente e il perché è impenetrabilmente nascosto nel mistero della infinita sapienza e bontà di Dio.

Considerazioni pratiche

Tutte le verità rivelate sono salvifiche, utili e necessarie per la nostra salvezza. Possiamo chiederci: che utilità ha per me il sapere che non tutti si salvano? Non basterebbe sapere semplicemente che ho questa possibilità? È l’opinione di Bernard Sesboüé, il quale afferma: «l’inferno è una possibilità reale, ma possiamo seriamente sperare che non sarà il destino di nessun uomo»[3].

Come abbiamo già visto, la Chiesa non ci insegna affatto ad avere tale speranza per tutti, ma questa è una pia invenzione di Von Balthasar. Non possiamo sperare per tutti, perché la speranza teologale è quella virtù soprannaturale, per la quale io spero di salvare la mia anima[4]. Io posso e devo operare la mia salvezza, non quella degli altri, anche se è chiaro che io non mi salvo se non mi occupo anche della salvezza degli altri.

E se uno non si vuol salvare, neanche Dio lo può costringere. È chiaro che noi cristiani dobbiamo operare assieme per la salvezza gli uni degli altri. Ma è sbagliata l’idea di coloro che pensano che o ci salviamo tutti assieme o non ci salviamo. No. C’è chi si salva e c’è chi non si salva. In una medesima famiglia, in una medesima associazione, in una medesima comunità religiosa un membro può salvarsi e l’altro può perdersi (cf Mt 24, 40-41).

Ognuno ha la sua responsabilità. Non posso scegliere al posto di un altro; non posso sostituirmi alla responsabilità degli altri e alle scelte degli altri. Neppure Dio lo fa, ma lascia liberi di scegliere. Figuriamoci se posso farlo io. Dio muove il libero arbitrio alla salvezza, non lo muove per mandarlo all’inferno, ma ci va da sé.

Il credere di poter «sperare per tutti» è una falsa speranza; è stata l’illusione misericordista di Von Balthasar, che purtroppo sembra esser stato seguìto da   Joseph Ratzinger prima di giungere al pontificato, perché quando Ratzinger parla dell’inferno, riconosce bensì che è una cosa terribile, ma poi parla non della volontà di alcuni di nutrire la speranza della salvezza, ma della volontà dell’uomo come tale[5], il che non è conforme al dogma della salvezza, stando all’insegnamento della Chiesa, che non ci dice che l’uomo come tale si salva, ossia che si salvano tutti, ma al contrario ci dice che non tutti si salvano. Infatti l’incredulo non spera affatto nel paradiso, perché, oltre a non interessarlo, ne nega l’esistenza. 

Occorre inoltre distinguere la speranza teologale dalla speranza caritativa. La prima è lo sperare nella propria salvezza. Oggetto di questa speranza, insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, è l’«eterna ricompensa di Dio per le buone opere compiute con la grazia di Cristo» (n.1821). Io non posso essere compensato per le opere di un altro, e non posso faticare io perché il merito se lo prenda un altro. Non sarebbe giusto.

Ognuno dev’essere compensato per quello che fa lui. Io certo posso lavorare per il prossimo, anzi devo farlo, se mi voglio salvare. Ma il lavoro che faccio resta sempre il mio e il merito non va a colui per il quale lavoro, ma va a me. Egli acquisterà meriti, se si vale del mio lavoro e lo utilizza a suo profitto.

In questo senso non possiamo propriamente sperare per un altro, ma solo per noi stessi. La seconda, come osserva San Tommaso, è sostanzialmente un atto di carità col quale desideriamo la salvezza e preghiamo per la salvezza per le persone che ci sono vicine o congiunte e che amiamo, fossero anche nemiche, sperando nella loro conversione. Dice Tommaso:

 

«supponendo un’unione affettiva con un altro, uno può desiderare e sperare per l’altro qualcosa come lo desidera per sé. E in questo senso qualcuno può sperare per un altro la vita eterna in quanto gli è unito per mezzo dell’amore»[6].

Possiamo immaginare Hitler insieme con San Francesco in paradiso? Non è proibito. Non sappiamo che cosa è successo nella coscienza di Hitler, che peraltro si considerava cattolico, un attimo prima di presentarsi al tribunale di Dio. Probabilmente Francesco gli potrebbe dire: «caro Adolf, ma allora ce l’hai fatta anche tu!».

Possiamo chiederci se può aver senso pregare per tutti, quando sappiamo che non tutti si salvano. Ora, la Chiesa prega effettivamente per tutti, ma solo nel senso che affida a Dio le sorti dell’umanità. Ma non spera affatto nella salvezza di tutti.

Se Gesù non ha pregato per il mondo, ma solo per coloro che il Padre Gli ha dato (cf Gv 17,9), la Chiesa non può fare di più di quello che ha fatto Cristo. Parlando di un «mondo» per il quale non prega, Cristo ha inteso riferirsi evidentemente a coloro che non si salvano. Se infatti è inutile pregare per loro, ciò non significa che la preghiera di Cristo non sia efficace; ma se quel mondo non vuol saperne né di Cristo né di Dio, potremo pregare all’infinito, chè quel mondo non si converte.

Aggiungiamo che il sapere che potrei essere nel numero dei non salvati è un deterrente che mi distoglie dal peccare, anche se il sapere che peccando si rischia l’inferno, non sempre basta ad intimorire il peccatore, il quale, suggestionato dai misericordisti, facilmente non crede nell’esistenza dell’inferno. D’altra parte, chi ne è ben convinto, nel suo animo nobile di credente, è portato a non peccare non tanto per timore della pena, quanto piuttosto perché ama Dio e chi ama teme di offendere l’amato.

Altra domanda: posso esser certo di essere predestinato? Il Concilio di Trento mi dice che posso e devo nutrire una speranza ragionevole, fondata sulle buone opere e confidente nella misericordia di Dio, ma non posso avere, come credeva Lutero, una certezza di fede[7], perchè oggetto della fede sono gli articoli di fede e tra gli articoli del Credo non c’è che Giovanni Cavalcoli si salverà.

E se non fossi predestinato? Non è escluso, e per questo, devo stare attento a non peccare e deve fare una vita austera e penitente, dandomi alle buone opere, acquistando meriti per il paradiso. Il paradiso devo guadagnarmelo, anche se mi guadagno un tesoro che ricevo gratis.

In paradiso vedrò chi è all’inferno? Secondo S.Tommaso è possibile e avrò modo di vedere nei dannati il compiersi della giustizia divina[8]. Avrò delle sorprese e delle delusioni?  È possibilissimo, perché posso sbagliarmi nel valutare se Tizio o Caio sono all’inferno o andranno in paradiso.

Comprenderò i motivi della giustizia divina nei vari casi? Sì, ma non in profondità. E se mia madre fosse all’inferno? Non lo credo assolutamente. Ad ogni modo nella visione di Dio vedo il Tutto e nel Tutto c’è anche idealmente, eminentemente e virtualmente mia madre beata, come l’ha voluta, anche se  in se stessa fosse all’inferno.

Non potrò mai scrutare i motivi della sua misericordia. Il motivo è troppo nascosto nel mistero delle scelte divine, perché io lo possa conoscere. E non lo capirei neanche se Dio me lo rivelasse. Per questo non è contenuto nella rivelazione cristiana.

Posso chiedere a Dio che castighi chi mi offende? Col profeta Geremia posso dire: «possa io vedere la tua vendetta su di essi» (Gr 20,12). Leggo però di Gesù che «non minacciava vendetta» (I Pt 2,23). Dio avrà punito gli uccisori del suo Figlio? Sappiamo come Gesù abbia chiesto al Padre di perdonarli perché non sapevano quello che facevano.

Ciò tuttavia non vuol dire che non esistono persone che continuano ad offenderlo e che meritino il castigo.  Per questo sempre di nuovo nella storia dei singoli uomini e donne si attua da una parte il mistero del peccato e della fragilità, del pentimento e dell’ostinazione, e dall’altra il mistero dell’agire divino, della giustizia e della misericordia, della predestinazione e della riprovazione.

La concezione rahneriana dell’uomo come tendenza a Dio è sbagliata. In Rahner l’uomo manca del libero arbitrio[9]: va in paradiso istintivamente e necessariamente. Invano Rahner parla di libertà negando libero arbitrio, come fa Lutero. Se non c’è libero arbitrio, non c’è neppure libertà. Per Rahner l’uomo va in paradiso non per libera scelta, per cui c’è chi ci va e c’è chi non ci va, ma per natura, per forza e necessariamente, come il fumo sale in alto o come la polvere di ferro si muove verso la calamita o l’uccello va verso il nido.

È questa la dignità dell’uomo? O forse che l’uomo è tendenzialmente Dio e diventa Dio al termine del suo trascendersi? Non si è accorto Rahner che Dio, pur di rispettare la libera scelta dell’uomo, accetta anche di essere da lui respinto?

Contro Rahner si deve dire che invece l’uomo è quell’ente che può tendere o non tendere a Dio, può sceglierLo o non sceglierLo come sommo bene e fine ultimo e senso della propria vita. Può acconsentire o dissentire alla sua profferta d’amore.

Il senso ultimo del nostro rapporto con Dio lo troviamo nel Cantico dei Cantici. Solo gli innamorati capiscono che cosa è l’inferno, partendo dal fatto che il Cantico paragona il rapporto dell’uomo con Dio all’amore sessuale, che non è principalmente volontà di misericordia o di giustizia, ma è amore, dono di sé reciproco, è desiderio di unione.

La bontà spinge sì l’amante alla misericordia per l’amato; ma questi,  più che un misericordiato, è un amato per se stesso, per la sua bontà. Il dannato non è un giustiziato, ma una traditore nell’amore, uno che risponde con l’odio all’amore.

Così l’inferno è l’immagine dell’amore sessuale tradito; e la stessa immagine dell’inferno a sua volta non è che l’immagine dell’amore divino tradito. L’amato non desidera tanto essere misericordiato o trattato con giustizia, ma desiderato come tale per la sua amabilità. Il rapporto uomo-donna non è tanto l’obbedire alla volontà dell’altro, esser giusto o misericordioso, quanto piuttosto un’unione d’amore.

Questo desidera Dio dall’uomo e a ciò Dio destina l’uomo, pur lasciandolo libero di scegliere. Non tanto i disobbedienti o gli ingiusti, quanto piuttosto gli innamorati infedeli sanno che cosa è l’inferno. L’inferno è la vendetta dell’amore tradito.

Questa forza terribile dell’amore è ben rappresentata dal sommo Poeta in questa terzina dell’Inferno che parla di una scritta posta all’ingresso dell’inferno: «Giustizia mosse il mio alto fattore, fecemi la divina podestate, la somma sapienza e ’l primo amore» (Inf., III, 4-6).

L’inferno è si ribellione a Nostro Signore, è sì ingratitudine del figlio al Padre, é sì patire la pena imposta dal Giudice, è sì patire il danno che ci siamo arrecati con le nostre stesse mani, ma è innanzitutto la conseguenza dell’amore tradito. Per il dannato Dio non è il Padre adirato, ma l’amante tradito, l’amante rifiutato. Il fuoco dell’inferno è la fiamma dell’amore divino odiata da chi odia l’amore. L’atteggiamento di Dio verso il dannato, più che essere quello del giudice soddisfatto e dell’offeso che si è vendicato, è quello dell’amate respinto.

La morte infernale è la paga dell’amore negato, è lo scotto di chi odia l’Amore. «Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco» (Ct 8,6). «Forte come la morte» vuol dire che il dannato subisce, nella fiamma dell’inferno, in cambio dell’amore tradito e abbandonato, la violenza della morte infernale, equivalente, alla rovescia, alla forza della fiamma dell’amore.

Tuttavia, come precisa il Cantico, «le grandi acque non possono spegnare l’amore, né i fiumi travolgerlo» (v.7). L’odio non può vincere l’amore. La morte non può né vincere né spaventare l’amore, che si acquista a prezzo della morte. È l’amore che accettando la morte, vince la morte e fa trionfare l’amore:
Mors et Vita duello conflixere mirando: Dux Vitæ mortuus, regnat vivus.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 aprile 2023

 

Questo desidera Dio dall’uomo e a ciò Dio destina l’uomo, pur lasciandolo libero di scegliere. Non tanto i disobbedienti o gli ingiusti, quanto piuttosto gli innamorati infedeli sanno che cosa è l’inferno. L’inferno è la vendetta dell’amore tradito.

Questa forza terribile dell’amore è ben rappresentata dal sommo Poeta in questa terzina dell’Inferno che parla di una scritta posta all’ingresso dell’inferno: «Giustizia mosse il mio alto fattore, fecemi la divina podestate, la somma sapienza e ’l primo amore» (Inf., III, 4-6).

 

 

 

Il fuoco dell’inferno è la fiamma dell’amore divino odiata da chi odia l’amore. L’atteggiamento di Dio verso il dannato, più che essere quello del giudice soddisfatto e dell’offeso che si è vendicato, è quello dell’amate respinto.

La morte infernale è la paga dell’amore negato, è lo scotto di chi odia l’Amore. «Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco» (Ct 8,6). «Forte come la morte» vuol dire che il dannato subisce, nella fiamma dell’inferno, in cambio dell’amore tradito e abbandonato, la violenza della morte infernale, equivalente, alla rovescia, alla forza della fiamma dell’amore.

Tuttavia, come precisa il Cantico, «le grandi acque non possono spegnare l’amore, né i fiumi travolgerlo» (v.7). L’odio non può vincere l’amore. La morte non può né vincere né spaventare l’amore, che si acquista a prezzo della morte. È l’amore che accettando la morte, vince la morte e fa trionfare l’amore: Mors et Vita duello conflixere mirando: Dux Vitæ mortuus, regnat vivus.

 
Immagini da Internet:
- La porta dell'Inferno, William Blake
- Il bacio, Marc Chagall


[1] A questa proposta si oppone quella del demonio. A ciascuno la scelta, Vedi su questo tema il mio opuscolo Il progetto del demonio. La prospettiva di Satana e quella di Gesù Cristo, Edizioni Chorabooks Hong Kong 2021.

[2] Cf Aimé Forest, La structure métaphysique du concret selon Saint Thomas d’Aquin,  Vrin, Paris 1956.

[3] Dopo la vita. Il credere e le realtà ultime, Edizioni Paoline, Torino 1992, p.156.

[4] Cf San Tommaso, Sum. Theol., II-II, q.17.

[5] Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 1979, p.227.

[6] Sum.Theol., II-II, q.17, a.3.

[7] Cf Denz.1540.

[8] Sum.Theol.,Suppl., q.98, a.9. La q.99 De misericordia et iustitia Dei erga damnatos è un capolavoro di sapienza, tutto da leggere.

[9] Si legga quello che dice del libero arbitrio e della libertà nel Corso fondamentale sulla fede (Edizioni Paoline, Roma 1978), alle pp.63,130-136 

7 commenti:

  1. Bellissime pagine Padre, da mettere accanto per rileggere. O da proporre in lettura a chi é lontano dalla Chiesa ma si accorge che forse sta sbagliando, la vita sta finendo, o magari comincia ad avere problemi di salute. Dio fa le cose molto bene. E' semplice verso di noi e ci parla a tu per tu con grande amore, rispetto e pazienza, , quando ce ne rendiamo conto...Voltare gli occhi verso di lui é proprio l'inizio per capire tutto e cominciare ad intravvedere la vita piena che Dio vuole per tutti. Lei lo spiega benissimo. Mi sembra che in molti uomini di Chiesa, oggi, manchino oggi queste parole chiare e semplici ma importantissime

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    1. Caro Alessandro,
      sono contento che lei abbia capito che le mie considerazioni sulla severità di Dio, sui castighi divini e sull’esistenza dei dannati non sono dettate da uno spirito acido e vendicativo, come alcuni vorrebbero addebitarmi, ma sono dettate dalla carità e dall’amore per Dio e per il prossimo, quello stesso amore la cui parola Dante mette all’ingresso dell’Inferno.
      Perché amore? Perché l’amore richiede l’amore per la giustizia e la giustizia dà a ciascuno il suo, secondo i suoi meriti.
      Ora, che cos’è se non l’amore che spinge ad operare nel dare a ciascuno secondo i suoi meriti? Questo vuol dire che Dio continua ad amare anche coloro che lo odiano e che hanno respinto il dono che suo Figlio ha fatto di se stesso, a prezzo del suo sangue, per la salvezza di colui che, non volendo pentirsi, rifiuta quell’immensa misericordia che gli viene proposta.
      E d’altra parte Dio, accontentando ed accettando la volontà di chi lo odia, mostra ancora di amarlo e di rispettarlo nella sua stessa scelta, sebbene il peccatore compia volontariamente un atto di disprezzo della sua somma bontà.
      Quindi bisogna che comprendiamo una buona volta, come del resto i nostri Padri hanno sempre compreso, che la carità divina non si esprime soltanto con la dolcezza e la tenerezza, ma quando il peccatore rifiuta questa dolcezza e tenerezza, è logico che se ne trovi privo e che quindi Dio gli appaia come odioso, mentre egli resta sempre infinitamente buono per il fatto che mantiene in essere anche chi lo odia, e ricordiamoci che Dio crea solo il bene e non il male, per cui, se mantiene in essere il dannato dell’inferno, vuol dire che lo ama ancora, benchè questi lo odi per l’eternità.

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  3. Carissimo p. Giovanni grazie per queste sue riflessioni che affrontano le diverse problematiche legate al tema della misericordia di Dio. Gesù stesso ci ricorda che Lui è misericordioso ma soprattutto giusto, quindi non è un buonista. Certamente noi dobbiamo predicare un Dio ricco di misericordia e come ci ricorda la Sacra Scrittura un: 'Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà' (Es 34,8). “Egli 'è buono verso tutti e la Sua tenerezza si espande su tutte le creature' (Sal 145). Purtroppo ancora molti pregano predicano che Dio è misericordioso, e questo va benissimo, ma quasi nessuno predica o crede che Dio è anche Giudice giusto.
    Il vero credente non è un buonista che tollera i falsi atteggiamenti e ostenta un’iniqua misericordia come se tutto fosse permesso, ma riconosce il proprio peccato, si riconcilia con Dio e con i fratelli, riconosce che il perdono va chiesto e meritato, deve impegnare la sua volontà e libertà a fuggire le occasioni di male ed inoltre deve impegnarsi a denunciare i mali sociali ed impegnarsi per costruire una società giusta e finalizzata al bene comune.
    A costui Dio promette il bene supremo, la visione beatifica, la partecipazione alla stessa vita divina, ma a colui che non si pente, non si ravvede e non si converte, come lei giustamente scrive: “Dio lo abbandona a se stesso. Ora, chi muore privo della grazia, resta fisso per sempre nel suo rifiuto di pentirsi e nel suo rifiuto di Dio. E dunque ecco la pena eterna dell’inferno. Il peccatore rifiuta per sempre un Bene infinito e pertanto è giusto che la sua pena duri sempre”. Questo si chiama inferno che a mio avviso non è vuoto. Questa possibilità, come lei ben sa, è stata attribuita ad uno dei più grandi teologi cattolici del XX secolo, Hans Urs von Balthasar.
    Il Paradiso non è il luogo dell’armonia finalmente raggiunta della piena riconciliazione tra gli opposti, tra coloro che nella vita hanno operato peri l bene e tra quanti hanno operato il male, rifiutandosi di pentirsi e convertirsi a Dio misericordioso. A riguardo mi sembrano chiare e illuminanti le parole di Ivan Karamazov tratto dal libro di F. M. Dostoevskij.
    “Non voglio, insomma, che la madre abbracci il carnefice che fece straziare il figlio suo dai cani! Si guardi bene Dio dal perdonargli! Perdoni, se vuole, per proprio conto, perdoni al carnefice la sua smisurata sofferenza materna, ma non ha il diritto di perdonare la sofferenza del suo bimbo straziato; si guardi dal perdonare al carnefice, anche se gli perdonasse il fanciullo stesso! Ma se è così, se non si ha il diritto di perdonare, dov’è l’armonia? C’è nel mondo intero un essere che possa perdonare e che ne abbia il diritto? Io non voglio l’armonia, non la voglio per amore verso l’umanità. Preferisco che le sofferenze rimangano invendicate. Rimarrei piuttosto col mio dolore invendicato e col mio sdegno insaziato, anche se avessi torto! Troppo poi si è esagerato il valore di quell’armonia, l’ingresso costa troppo caro per la nostra tasca. E, perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso. E, se sono un galantuomo, ho l’obbligo di restituirlo al più presto possibile. E così faccio. Non è che non accetti Dio, Aljòsa, ma Gli restituisco nel modo più rispettoso il mio biglietto”.
    Allora non ci illudiamo, deve essere chiaro che Dio attraverso il Figlio ha offerto la salvezza a tutti ma non tutti si salvano, ci sono anche delle anime che respingono volontariamente e consapevolmente tale grazia e la disprezzano e la loro destinazione non può essere il Paradiso.

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    1. Caro Don Vincenzo,
      se ho ben capito la sua interpretazione del paradiso nella concezione di Von Balthasar, il paradiso dovrebbe ospitare tanto i pentiti quanto i non pentiti. Ma questa sarebbe una convivenza impensabile, perché la conciliazione tra gli uomini è possibile soltanto se i malvagi si pentono.
      Del resto chi non si pente non desidera affatto essere perdonato. I buonisti dimenticano questa realtà affermando che tutti sono perdonati. Si dovrebbe dire meglio che Dio offre a tutti il perdono. Certamente possiamo dire che Dio non perdona chi non si pente. Ma oggi, con questa suscettibilità diffusa quando si parla della giustizia divina, forse potrebbe essere meglio dire che non tutti desiderano essere perdonati.
      Per quanto riguarda le considerazioni di Dostoevskij, da come ho capito esse sono molto comprensibili, se facciamo riferimento a un paradiso che ospiti i buoni e i non pentiti. È chiaro che questi non pentiti non possono essere perdonati.
      A questo punto, secondo me, l’Autore ironizza su Dio, dicendo che se vuole perdonare, faccia come vuole. Lui non perdona, perché non si può perdonare chi non è pentito e non può andare in paradiso uno che non è pentito. Tuttavia io credo che qui l’Autore ironizzi sulla concezione buonista del paradiso che in qualche modo si trova anche in Von Balthasar.
      A questo punto io credo che l’Autore, sebbene non lo faccia intendere esplicitamente, riveli la sua vera fede nel paradiso, nel quale vanno solo i buoni e quindi sottintende un Dio che punisce i malvagi e rende buoni coloro che si pentono, anzi che suscita lo stesso pentimento.
      Per quanto riguarda il problema del perdonare, mi sembra importante distinguere il perdono che possiamo dare noi, dal perdono che può dare Dio. Dio, perdonando, converte la volontà del peccatore da cattiva a buona, cioè suscita il pentimento come condizione dell’essere perdonato. E noi, cosa possiamo fare? Mi pare che questa madre, se vuole applicare il Vangelo, possa e debba perdonare non nel senso di considerare come bene il male che il malfattore ha fatto a suo figlio, ma nel senso di rimettersi alla volontà di Dio, il quale perdona il peccatore pentito e non perdona il non pentito. Inoltre, se la madre non può perdonare il carnefice non pentito, deve essere comunque aperta a perdonarlo nel caso che il carnefice si penta.

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  4. Caro padre Giovanni intendevo solo riportare, contestualizzandolo, quanto affermava Von Balthasar che era convinto che l’Inferno è certo esistesse, ma che fosse vuoto perché non è altrettanto certo che sono esistite o esisteranno delle persone che rifiutino Dio in modo così radicale e definitivo da meritarsi una pena eterna. Poi accennavo anche ad una certa concezione e visione del Paradiso dove invece troviamo la piena armonia tra le anime, tra i buoni e i cattivi, un'armonia finalmente realizzata per dirla alla Nietsche "al di là del bene e del male" . L'autentica fede nel Signore Gesù non mi permette di accettare queste visioni, il Regno di Dio, il Paradiso è riservato ai buoni, per coloro che, nell'arco della vita, nonostante gli innumerevoli peccati compiuti, si sono pentiti, hanno chiesto perdono a Dio e ai fratelli per il male commesso, si sono riconciliati. Poi Dio nella sua infinita misericordia, alle anime non pienamente purificate in questa vita, dopo la morte, un tempo di purificazione in Purgatorio. L'Inferno esiste eccome e non è vuoto. Mi permetto di citare il nostro San Tommaso d'Aquino, così si esprime sulla pena dell'Inferno. In altri termini: perché l’uomo potrebbe meritare una simile pena? Tommaso D’Aquino risponde innanzitutto ricordando che la pena perché sia giusta deve rispettare un principio di proporzionalità, ossia deve essere adeguata alla gravità del peccato commesso: al peccato grave, radicale, assoluto e definitivo deve corrispondere una pena altrettanto grave, radicale, assoluta e definitiva. E dunque al rifiuto del sommo bene che è Dio deve corrispondere la pena massima, cioè la più dolorosa – e non c’è pena più dolorosa che essere separati da Dio - e la più estesa in senso temporale: una pena che mai dovrà finire. Più semplicemente, potremmo dire che ad una colpa infinita per gravità deve corrispondere una pena infinita nelle sue dimensioni di intensità (perdita di Dio) e durata (eternità) (cfr. Summa Theologiae, Supp. q. 99, a. 1 c).
    Lo stesso Vangelo a dar prova non solo che l’Inferno non è vuoto, ma che in esso sono presenti molte anime dannate che nel giorno della risurrezione anche dei corpi andranno ad occupare anche un luogo infernale. Il Signore Gesù ci avverte: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa. […] Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità» (Mt 7, 13.22-23).

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    1. Caro Don Vincenzo,
      le parole di Nostro Signore sono molto chiare, per cui l’insistere nel cercare di sfuggire ad esse per contraddirle non depone a favore della lealtà di colui che fa una simile operazione. Tutto il problema sta nel saper conciliare, come sappiamo bene, la volontà salvifica universale di Dio con queste predizioni del Signore.
      La conciliazione è stata trovata ormai fin dagli inizi della storia della teologia, a cominciare da Sant’Agostino, per passare da San Tommaso, fino a tutti i teologi tomisti del nostro tempo.
      Certamente il magistero della Chiesa non ci spiega come operare questa conciliazione. Essa si rimette ai teologi, i quali però devono tenere conto dei principali pronunciamenti della Chiesa che sono stati fatti nel Concilio di Quierzy del 853 e nel Concilio di Trento (Denz. 1523). Questi sono punti fermi dai quali il teologo cattolico non può evadere senza uscire dal terreno della fede.
      Oggi nella Chiesa c’è un disagio molto profondo, che forse non molti avvertono, e che si riferisce al contrasto che c’è tra i due suddetti pronunciamenti solenni del magistero e l’opinione molto diffusa secondo cui ci salviamo tutti, opinione che evidentemente contrasta con quei pronunciamenti oltre che con quelli molto chiari di Nostro Signore Gesù Cristo.
      Certamente molti, illusi dai buonisti, non si rendono conto di questa situazione e probabilmente molti saranno in buona fede. Tuttavia, coloro che vogliono vivere seriamente la loro vita ecclesiale non possono non soffrire di quel contrasto tra il dettato della fede e ciò che tanti effettivamente credono e che non è in armonia con la fede.
      Per questo io ritengo che, per sanare questa situazione dolorosa e conturbante, che certamente non può piacere a Dio e che mette effettivamente a rischio molte anime, i Pastori dovrebbero avere maggiore coscienza della loro responsabilità davanti a Dio e davanti al gregge, che è a loro affidato e che essi hanno il compito di illuminare a costo di dire delle verità che contrastano col mondo e che non piacciono al mondo, ma, come ci dice chiaramente San Giovanni, chi vuol piacere al mondo non può piacere a Dio.
      Il buonismo quindi, ben lungi dal facilitarci il cammino della salvezza, lo mette maggiormente a rischio con un atteggiamento che sembra essere di prendersi gioco di Dio.

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