La falsa mistica di Karl Rahner


La falsa mistica di Karl Rahner[1]
      Nessuno vi inganni con argomenti seducenti 
                           Col 2,4
E’ possibile e doveroso formare un concetto di Dio

         Il Cardinale Gaetano fa presente la necessità di distinguere la conoscenza della quiddità o essenza di una cosa (cognoscere quidditatem), dalla conoscenza per modo di quiddità o di essenza (cognoscere quidditative). Così ci sono due modi di definire l’essenza di una cosa, o di dire che cosa una data cosa è, o di stabilirne gli attributi essenziali: o quello della semplice attribuzione o quello di stabilire come un dato attributo si addice a quella data cosa.
Nel primo senso possiamo conoscere l’essenza di ogni cosa, anche di Dio. Invece nel secondo senso non possiamo conoscere razionalmente l’essenza di Dio; ma essa ci è rivelata nel suo proprio modo di essere, nella sua propria intimità e unicità soltanto da Gesù Cristo, che ci promette di vedere dopo la morte “faccia a faccia”, senza mediazione concettuale, il “volto” ovvero l’essenza[2] del Dio trinitario.
Ogni cosa infatti è conoscibile, e quindi concettualizzabile, anche Dio, perché l’ente è l’oggetto dell’intelletto, qualsiasi ente, compreso Dio. E ogni ente è rappresentabile in quella immagine mentale che è il concetto. In questo senso Hegel ha ragione, quando dice che il reale è razionale.
Ogni ente creato realizza ed esprime un pensiero. Esprime sempre un pensiero divino, e a volte anche il nostro. E’ così che l’intelletto umano, angelico o divino, è costituito in funzione dell’ente. Non esiste pensiero se non dell’ente. Non c’è ente che non sia pensato o pensabile.
Mentre Dio creatore degli enti li ha tutti presenti alla sua mente, per noi esistono effettivamente cose alle quali non pensiamo, ma non per questo non sono pensabili. Un essere impensabile o inconoscibile non esiste. E per noi la conoscenza avviene per mezzo del concetto, che è la rappresentazione spirituale della cosa.
Il concetto è il mezzo mentale col quale ci rappresentiamo l’essenza delle cose, quindi anche Dio, però solo nel primo modo, almeno con la semplice ragione. Invece con la fede possiamo concepire Dio anche nel secondo modo e quindi conoscerlo come Lui stesso si conosce, benchè in un modo infinitamente meno perfetto.
Nella fede non possiamo certamente eguagliare la scienza che Dio ha di Sé, perché è infinita, mentre la nostra è finita; tuttavia possiamo almeno partecipare di questa scienza. Possiamo, come dice S.Paolo, “possedere il pensiero di Cristo” (I Cor 2,16).
In questa vita noi abbiamo la necessità di conoscere Dio per mezzo di concetti, che sono i concetti della teologia naturale. Ma questa necessità vale anche per la conoscenza di fede. E qui allora abbiamo i dogmi, ossia la dottrina della fede, principio della teologia rivelata, che è la teologia cristiana.
Benchè infatti la fede ci faccia conoscere e ci riveli Dio nel suo intimo mistero, ossia quidditativamente, la conoscenza che di Lui abbiamo in questa terra resta indiretta, per mezzo degli effetti, “come in uno specchio” (I Cor 13,12), nella mediazione delle creature e della Parola della Scrittura e quindi dei concetti e delle immagini. Solo in paradiso, superata la necessità dell’uso dei sensi e quindi dei concetti, l’anima beata potrà vedere immediatamente e intuitivamente l’essenza di Dio quidditativamente.
Per concepire Dio abbiamo bisogno di concetti, che sappiano trascendere l’immaginazione e sfocino nel puro intellegibile[3], perché Dio è purissimo Spirito assolutamente esente da materia. Ciò non vuol dire raggiungere concetti che in qualche modo non facciano riferimento all’immaginazione[4], perchè ciò sarebbe impossibile nella vita presente. Ma questo riferimento riguarda solo il modo del conoscere e non necessariamente il contenuto, che può essere puramente spirituale o trascendentale.
Le nozioni trascendentali forniscono concetti propri, perché esse toccano sia l’ente finito che quello infinito; mentre le creature sensibili possono fornire concetti metaforici, in quanto possiamo paragonarle a Dio, considerando l’analogia della  loro azione con quella divina, come per esempio l’immagine del fuoco o dell’acqua o del vento e così via[5].
  Noi dunque possiamo pensare e conoscere la realtà spirituale (anima, angelo, Dio)[6], perché la ragione ne richiede l’esistenza, ma quaggiù non possiamo conoscerne l’essenza in se stessa, ma solo mediante la nozione analogica dell’ente e delle sue proprietà trascendentali, partendo dalle cose sensibili. Rahner invece assume la concezione kantiana del concetto, per la quale esso non può trascendere i fenomeni perché non può trascendere l’immaginazione.
Rahner allora ammette come Kant un sapere trascendentale, che ha per oggetto lo spirito, quindi Dio, non però inteso come ente extramentale, ma come dato originario dell’autocoscienza o come coscienza originaria. Il trascendentale rahneriano, come quello kantiano, non è realista, come quello tomista, ma idealista, per cui il trascendentale è una forma apriori “vuota”, “riempita” dall’immaginazione.
Dunque per Rahner il concetto, che per lui è solo quello empirico (il “categoriale”), non serve per la conoscenza di Dio, del Quale pure riconosce la spiritualità. Da qui il ricorso all’“esperienza trascendentale” apriorica e preconcettuale, che sarebbe all’origine della concettualizzazione.
E’ chiaro però che Rahner non può non esprimere anche questa “esperienza” ineffabile ed atematica in concetti, per farci sapere di che cosa parla. Ne viene però che questi concetti non sono più quelli della metafisica realista, ma del trascendentalismo idealista.
Per questo, il trascendentale rahneriano, come quello kantiano, è sempre connesso col “categoriale”, cioè, con l’empirico, per cui, a differenza del vero trascendentale, che trascende l’esperienza e che è quello ontologico tomista, non riesce a trascendere concettualmente l’esperienza per parlare di Dio, puro Spirito, in concetti. Se ne parla, è costretto a servirsi di metafore e di immagini. Quindi la teologia si trasforma in mitologia.
In questa vita invece conosciamo Dio e lo nominiamo per mezzo di concetti trascendentali di ragione e di fede[7], perché, anche quando lo conosciamo per modo quidditativo, come nel dogma della fede, gli stessi concetti di fede sono sempre concetti, che Cristo ha preso dalla nostra conoscenza naturale di Dio, dando però ad essi un nuovo significato, tale da poter esprimere la conoscenza per modo quidditativo.
Per esempio, Gesù suppone il nostro concetto naturale di Dio, ricavato dalla ragione, ma ci dice che Dio è suo e nostro Padre. Il che vuol dire che Egli, servendosi di un concetto semplicissimo, vorrei dire fanciullesco, come quello di “padre” (eb. abbà=papà), ci fa conoscere Dio nella sua propria essenza, quidditativamente, cosa del tutto superiore ed ignota a quanto la ragione sa già da sola dell’essenza di Dio.
Ora, la ragione naturale, partendo dalle creature ed applicando il principio di causalità, può sapere che esiste Dio e può stabilire molti attributi della sua essenza, conosciuta non nel suo modo proprio, quidditativamente, ma indirettamente, come causa del mondo, per analogia con gli enti creati.
Non esiste, come sostiene Rahner, un’ “esperienza originaria di Dio” apriorica, precedente la concettualizzazione. Il sapere umano non parte da Dio, ma dalle cose e partendo da queste si eleva alla conoscenza concettuale di Dio. Se vogliamo parlare di un’ “esperienza di Dio”, questa è l’esperienza mistica, che giunge al vertice del conoscere e non si trova all’inizio[8].
Ma Dio appare alquanto misterioso, nella sua infinità, alla nostra ragione, che è limitata. La luce che ci dà il conoscerLo è splendida e beatificante, è guida di santità; ma nel contempo l’essenza divina ci appare alquanto oscura e, secondo l’efficace immagine biblica, come avvolta in una “nube”.
Indubbiamente, il concetto di Dio che possiamo formarci in questa vita, anche il concetto ricavato dalla fede, è un concetto vero e adeguato all’oggetto, perché la verità è adeguazione (adaequatio) all’oggetto; tuttavia è imperfetto, perché non comprende l’oggetto tanto quanto è comprensibile. Solo Dio, realtà infinita, può comprendere perfettamente e totalmente Se stesso.
Ma per noi, ai fini della nostra beatitudine, non è necessaria questa piena comprensione, perché per noi è sufficiente comprendere di Lui solo quanto di Lui per noi, esseri limitati, è comprensibile. L’importante è essere sazi. E’ sufficiente che il nostro piccolo bicchiere sia pieno. Non abbiamo bisogno di bere tutto l’oceano. Il fatto che noi possiamo conoscere l’Infinito, non vuol dire che il nostro sapere è infinito. A noi basta conoscere finitamente l’Infinito.

Cristo ci rivela il mistero di Dio

Cristo ci svela il mistero di Dio, ma nel contempo esso, per la sua infinità, resta avvolto nelle tenebre, sia perchè il nostro occhio quaggiù non è mai abbastanza purificato e sia perchè l’essenza propria di Dio, per quanto ci sia rivelata da Cristo, resta pur sempre infinitamente trascendente rispetto alla nostra ragione, anche illuminata dalla visione beatifica.
Noi, in realtà, anche con la luce della fede, arriviamo ad un certo limite che non riusciamo a superare. E’ come trovarsi in un paesaggio notturno e usassimo una torcia. Essa certo ci mostra ciò che ci è vicino. Ma sappiamo che oltre al raggio della sua luce ci sono molte altre cose che non riusciamo a vedere. Possiamo prendere una torcia più potente. Ma anch’essa non riesce ad illuminare tutto.
Il progresso teologico e della conoscenza dogmatica è qualcosa di simile.   Esso fa avanzare la nostra mente nel fitto del mistero, ma ad ogni passo il mistero ci trascende sempre. E non può non essere così, giacchè è impossibile che il finito pareggi l’infinito.
Il concetto è un ente vitale, con una dinamica simile a quanto avviene sul piano biologico. Esso infatti è tale per cui da un concetto ne sorgono altri e così pure dall’accoppiamento di concetti adatti. Questo avviene in tutte le scienze, compresi la teologia e il dogma. La differenza è data dal fatto che, mentre sul piano biologico il generato è corruttibile, il concetto, che appartiene al mondo dello spirito, una volta generato, è immutabile e incorruttibile.
La finitezza dei nostri concetti non vuol dire che essi non siano capaci, soprattutto nella luce della fede, di conoscere l’Infinito. E’ finitezza nel modo del conoscere, non nel contenuto. Ma questa finitezza non vuol dire neppure – come crede Rahner con gli storicisti – che il nostro sapere non sia capace di certezze definitive[9].
 Non è affatto detto che per essere aperti al nuovo e al diverso, e modesti nelle nostre idee, e per progredire nel sapere, non dobbiamo mai dare niente per scontato e dobbiamo rifiutare ogni concetto stabile, ed esser sempre pronti a mettere in discussione le nostre convinzioni. La cosa ridicola, poi, è che questa lezione ci viene proprio da un Rahner, che non si è mai sognato per tutta la vita di mettere in dubbio un ette del suo trascendentalismo.
Rahner, che si considera “teologo ecclesiale”, confonde nelle sue accuse, senza risparmiare in ciò lo stesso Magistero della Chiesa, l’attaccamento ai princìpi col fondamentalismo, la fedeltà dottrinale col conservatorismo, la fermezza con la rigidezza, la tenacia con l’ostinazione, l’obbedienza al Magistero con la rinuncia alla libertà, l’amore per la precisione con la puntigliosità, il bisogno di chiarezza con un’utopia, le ampie vedute con l’astrattezza, la confutazione dell’errore con l’intolleranza delle idee degli altri.
E’ evidente che in base a queste idee, si deve dire che, quando Cristo ha detto “le mie parole non passeranno” (Mt 24,35), si è illuso, e quando S.Paolo (I Tm 6,20) raccomanda a Timoteo di “conservare il deposito” (I Tm 6,20), lo chiude al nuovo e lo rende custode di un museo. Inoltre, è chiaro che in questa visuale le definizioni dogmatiche diventano impossibili.
Da ciò vien fuori che la costante preoccupazione della Chiesa nei secoli, sopportando calunnie e attacchi di ogni genere, di precisare, chiarire, distinguere, delimitare, esplicitare, spiegare e definire con nuovi dogmi il significato e il contenuto dei dati della Rivelazione, certificando nel vero, condannando errori, dissipando equivoci ed ambiguità, eliminando pregiudizi e sfatando leggende (i Vangeli apocrifi), correggendo false interpretazioni, e togliendo malintesi e fraintendimenti, tutto ciò per Rahner sono fatica e tempo sprecati. In compenso, ha pensato lui, nell’epoca attuale di “pluralismo insuperabile” e di “concupiscenza gnoseologica”[10], ossia di voglia di sopraffare gli altri con le proprie idee, di esporre l’essenziale del cristianesimo nel suo Corso fondamentale sulla fede.
S.Paolo e in generale la Scrittura sono ben lontani da questo agnosticismo e storicismo concettuali. Già nel Nuovo Testamento vediamo un energico per quanto duttile esercizio di guida dottrinale e di sorveglianza (epìskopos!) praticate dagli apostoli sul popolo di Dio.
Paolo, tanto per fare un esempio, tiene con molto zelo a condannare i concetti teologici sbagliati e ad affermare quelli giusti. Certamente, egli insegna che i giudizi divini sono “incomprensibili” (anexeràunetos, Rm 11,33), o “imperscrutabili” (anexicnìastoi, ibid.), eppure Dio è “conoscibile” (ghnostòn, Rm 1,19).
Egli insiste sulla possibilità di conoscere (ghighnosko) il mistero divino (Rm 11,25; Ef 1,9; 3,3; 6,19; Col 2,2), in quanto è stato rivelato (Rm 16,25; Ef 3,5). Infatti “mistero” (mysterion) in S.Paolo corrisponde all’ebraico sod o raz, che significa “segreto”, “nascosto”. Ma il segreto può essere rivelato.
Così Dio può essere conosciuto mediante concetti di ragione o di fede; ma essi, la cui comprensione è finita, non sono in grado di comprendere esaustivamente l’infinita ricchezza dell’essenza divina. In tal senso Dio è un mistero, il Mistero per eccellenza. Dio, benchè conoscibile, ci resta incomprensibile. S.Paolo usa a questo proposito due verbi diversi: ghighnosko, per dire conoscere, e katalambano, per dire comprendere.
Mentre per Hegel Dio si può comprendere nel concetto razionale, per Rahner Dio non si può conoscere neppure razionalmente, è inconcepibile[11]. In Rahner abbiamo un ritorno dell’Aghnoston della misteriosofia pagana ed ermetica[12]. Hegel invece dice che, poichè nel cristianesimo c’è la rivelazione del Mistero, nel cristianesimo non ci sono misteri, ma tutto è chiaro, dimostrabile e logicamente necessario.
Il compito di chiarire, secondo Hegel, spetta alla filosofia, ossia alla ragione, al concetto. E per questo la filosofia è superiore alla religione, è il “sapere assoluto”, perché la religione crede nel mistero senza spiegarlo. La religione si ferma all’immagine, al mito, alla “rappresentazione” (Darstellung). La filosofia invece coglie Dio nel pensiero (denken), ossia nel concetto (Begriff), nella opposizione dialettica, perché il concetto coincide con la cosa, il razionale è il reale.
Ora Dio è reale e dunque Dio è razionale. Ciò suppone, in Hegel, l’identità della ragione umana con la ragione divina. Per Hegel, pertanto, Dio non solo è conoscibile dalla ragione, ma è anche comprensibile. Per questo Maritain definisce opportunamente come “gnosi” la teologia di Hegel.
Rahner sostiene contro Hegel la superiorità della fede sulla ragione e della teologia sulla filosofia. Tuttavia il concetto rahneriano della ragione e dell’uomo raggiunge quello di Hegel. Infatti tanto in Rahner quanto in Hegel l’uomo e la ragione stessa appaiono ad un tempo finiti, come fenomeni nel tempo; ed infiniti, come io trascendentale.
In Rahner la finitezza dell’uomo viene esagerata (influsso luterano), giacchè si nega la possibilità che la ragione dimostri l’esistenza di Dio partendo dall’esperienza. Ma dall’altra parte, il rapporto della ragione con l’infinito e quindi col Mistero divino è apriorico e troppo stretto (influsso cartesiano), perché si pone un’autocoscienza originaria ed immediata dell’essenza divina.
La differenza tra Rahner ed Hegel è data dal fatto che Rahner ammette il Mistero perché secondo lui la ragione è “reductio in Mysterium”[13], mentre Hegel nega il mistero, ossia non lo giudica necessario, perché la ragione è già di per sè divina. Quindi sia in Rahner che in Hegel abbiamo un’associazione di agnosticismo e di gnosticismo. Agnosticismo, a causa della storicità e mutabilità del concetto[14];  gnosticismo, perchè l’uomo è infinito e confina con Dio[15]. Per lui Dio è l’ “orizzonte” dell’uomo. In realtà, Dio è oltre l’orizzonte dell’uomo. Se fosse l’orizzonte, Dio sarebbe il compimento dell’uomo. Il che è panteismo.
Rahner confonde l’essenza dell’uomo col fine ultimo dell’uomo. Ora bisogna notare che l’essenza dell’uomo è immanente all’uomo; il fine invece lo trascende. Se mettiamo il fine (Dio) nell’essenza dell’uomo, come fa Rahner, cadiamo nel panteismo. Essenza dell’uomo è semplicemente il fatto di essere un animale razionale, fatto per ragionare bene. Qui sta la perfezione e il fine essenziale dell’uomo.
Che poi la ragione umana sia portata a stabilire una causa prima e un fine ultimo, questo è vero. Ma ciò non ci autorizza ancora a dire che l’uomo come tale, e quindi tutti gli uomini tendano essenzialmente e necessariamente a Dio. E ancor meno siamo autorizzati a dire che siamo tutti creati in stato di grazia, perchè la grazia apparterrebbe all’essenza dell’uomo, come crede Rahner.
Al contrario, nasciamo tutti con la colpa originale e solo col battesimo acquistiamo la grazia. E’ vero che l’uomo per sua essenza, non può non agire per un fine ultimo. Ma ciò non vuol dire ancora che ogni uomo agisca effettivamente per Dio, anche se Egli è il vero fine ultimo per tutti. Infatti l’uomo, in forza del libero arbitrio, ha la facoltà in ogni momento della sua vita cosciente di considerare come fine ultimo non Dio, ma se stesso o una creatura; in forza di questa facoltà di scelta, c’è quindi chi sceglie per Dio e c’è chi sceglie contro Dio; e non per questo perde la sua essenza di uomo.

La nozione del mistero divino

 Lo stesso dicasi per il mistero divino. Ognuno di noi ha la facoltà di accoglierlo o di rifiutarlo. Ma bisogna precisare ulteriormente che l’esser mistero non è un sostantivo, come sembra intendere Rahner, ma un aggettivo; il mistero non è una sostanza ma una proprietà; per cui, propriamente parlando, Dio non è un mistero o il mistero, ma è tuttavia un ente misterioso, ossia nascosto, come dice la stessa Bibbia (Is 45, 15).
Definire dunque Dio con la semplice categoria del “mistero”, anche aggiungendo, come fa Rahner, l’attributo di “sacro”, non è sufficiente per qualificare ciò che è proprio di Dio a differenza da ogni altra cosa, perché anche il sacramento, anche la grazia, anche la Chiesa, anche la predestinazione  sono  misteri sacri, ma essi non sono Dio.
Peggio ancora, poi, è limitarsi a parlare, come fa Rahner, di “mistero” simpliciter: termine del tutto equivoco, giacchè, come insegna S.Paolo, esiste anche un “mistero di iniquità” (II Ts 2,12). Dunque, la prima cosa da fare in teologia, come fa S.Tommaso nella Summa Theologiae, è stabilire gli attributi di Dio, il che richiede evidentemente una robusta capacità di concettualizzazione.
La misteriosità di Dio discende dalla sua infinità. E questa dalla sua trascendenza di causa prima. Una volta chiariti questi attributi, è evidente anche che Dio è misterioso. Rahner si limita a dire che Dio è “mistero”; ma non spiega perchè Dio è mistero.
Solo dopo aver chiarito queste cose e aver chiarito di che cosa stiamo parlando, allora si potrà sensatamente dire che è un mistero. Ricordo di aver letto tanti anni fa una osservazione di Benedetto Croce nel suo Breviario di estetica: “Il mistico – diceva - contraddice se stesso, perché pretende di parlare di ciò di cui egli stesso dice che non si può parlare”. Per cui non si capisce di che cosa parli e non ha diritto o ragione di parlarne.
Ciò però non vale per la vera mistica, ma per quella di Rahner. Se Dio fosse qualcosa che non si può concepire sia pure analogicamente e quindi di cui non si può dir nulla, allora sarebbe meglio tacere come fa l’agnostico o l’indifferente, per non parlare a vanvera o fare discorsi vuoti. Se Dio fosse inconcepibile, sarebbe per noi la tenebra assoluta di chi “cammina nelle tenebre” (I Gv 1,6), che nulla hanno a che vedere con le tenebre luminose della mistica, ma sono le tenebre che preludono alla dannazione.
Naturalmente non bisogna aspettare di avere una chiarezza matematica per parlare di Dio. Un concetto oscuro non è necessariamente falso. La notte è oscura; ma la notte esiste. Il fondo del mare è oscuro; eppure esiste. L’importante è che non sia contradditorio, perché allora il suo contenuto sarebbe impossibile. Del resto ciò che è oscuro può essere illuminato. Cristo è venuto appunto per diradare il Mistero di Dio, benchè esso, essendo infinito, resti Mistero.
Però è evidente che con la venuta di Cristo il Mistero non è così oscuro come appare agli occhi della semplice ragione. Cristo, Dio Egli stesso, infatti ci fa sapere delle cose su Dio che, se non ce le avesse dette Lui, mai con la nostra semplice ragione avremmo potuto saperle. Cristo dunque ha aggiunto alle nozioni della teologia naturale altre nozioni superiori su Dio, nozioni che, riflettendo la stessa essenza divina, Egli solo poteva insegnarci. Sono i dogmi della fede.
 Quanto poi a parlare di Mistero “assoluto”, come pure fa Rahner, non pare neppure conveniente, perché il termine “assoluto” dà l’idea di un mistero tanto fitto ed impenetrabile, da non poter essere in alcun modo conoscibile o rivelabile, come è dato nelle misteriosofie pagane. Dio si può dire “Mistero assoluto” nel senso che Egli è effettivamente l’Assoluto per eccellenza, ma non nel senso che di Lui non sappiamo assolutamente niente o solo cose vaghe, confuse, incerte, contestabili, mutevoli ed opinabili, come crede Rahner.
Il mistero divino in Rahner è ad un tempo troppo lontano e troppo vicino. Troppo lontano, perché non può essere concettualizzato; troppo vicino perchè l’autocomunicazione divina diventa per lui addirittura un costitutivo dell’essenza dell’uomo[16].
Ora, dobbiamo dire che il mistero è certamente la qualità dell’incomprensibile, dell’ulteriore o dell’ignoto. Ma per dire che una cosa è incomprensibile o ignota, bisogna prima concettualizzarla, definirla o ipotizzarla o sapere che esiste. Di una cosa, che non concepisco o non riesco a concepire, non mi pongo neppure la questione se è o non è un mistero. Mi lascia del tutto indifferente, non stimola la mia sete di sapere e non turba i miei sonni. L’indifferentismo religioso è l’effetto logico in persone ragionevoli, che ascoltano l’apologetica rahneriana del “mistero”. Diranno: se non ci capisco niente, in che cosa dovrei credere?
Prima dunque di dire che Dio è mistero, si deve dare una definizione almeno nominale dell’essenza di Dio o quanto meno precisare di che cosa parliamo. Dire dunque, sotto pretesto del “mistero”, che Dio è inconcepibile e indefinibile, è contradditorio, perchè è un tentare di concepire l’inconcepibile e di definire l’indefinibile.
Di per sé non è proibito in un senso assoluto dire che Dio è innominabile e inconcepibile. Ma in ogni caso, per poter attribuire predicati ad un ente, è necessario  che previamente chiariamo di quale ente stiamo parlando. E per far ciò è evidente che dobbiamo prima concettualizzarlo.
Per questo è contradditoria la pretesa di Rahner di parlare di Dio e formare ed esprimere concetti su di Lui, per dire poi che Egli è innominabile, indicibile e inconcepibile. Infatti, nel momento in cui lo concepiamo e ne parliamo, smentiamo con ciò stesso la nostra tesi che Egli è inconcepibile e innominabile.
 Dio in realtà, benchè altissimo, trascendente e infinito, è un mistero intellegibile e concettualizzabile per il nostro intelletto, per quanto imperfettamente, per negazioni, per eminenza e per analogia[17]. Non è per noi, come crede Rahner, buio o tenebra assoluta. Non è totale inintellegibilità o inconoscibilità. E quindi non è totalmente indicibile ed inesprimibile, ma può essere espresso dalla ragione e ancor più dalla rivelazione. 
Infatti mysterion viene da myo, che significa “taccio”. Il mistero come segreto è ciò di cui o non si può o non si deve parlare. Tuttavia il mistero divino aggiunge alla semplice idea di “segreto” il fatto di essere una verità che supera la comprensione dell’intelletto umano. Una ragione in più per essere obbligati a tacere.
Il mistero è ciò di cui si tace, ma che può essere rivelato. Il mistero è un qualcosa di ignoto (Lc 10,21), ma che può essere conosciuto (Col 2,2). E’ un qualcosa di nascosto (Col 1,26; Ef 3,9), ma che può essere manifestato, cioè concettualizzato (Rm 10,20; Col 4,4; Gv 2,11; 14,22, ecc.).
E’ inespresso, ma può essere espresso (Rm 2,20). Ad ogni modo è vero che per Paolo esistono anche misteri “inesprimibili” (alalètos Rm 8,26), “ineffabili”, “inenarrabili” (anekdieghètos, II Cor 9, 15) e “indicibili” (àrretos II Cor12,4). Non vi sono parole per esprimerli. Per questo si tace. Ecco la mistica.
Ma esiste anche un mistero divino rivelabile e rivelato, che egli annuncia: il “mistero di Cristo” (Col 4,3). Nel contempo Paolo parla anche di una sapienza divina mistica o misteriosa (sofia en mysterìu), “che è rimasta nascosta” (I Cor 2,7), ma che è anche stata rivelata “per mezzo dello Spirito” (v.10).
Un altro difetto della concezione rahneriana del mistero cristiano è il suo rifiuto di ammettere una pluralità di misteri di fede[18], perché secondo lui ciò comporterebbe la riduzione dell’unico Mistero divino ad una molteplicità di “enti finiti”. E il finito –dice Rahner – non può costituire mistero[19].
Rahner non comprende che i misteri della fede che sono gli articoli di fede e i dogmi, non hanno niente a che vedere col “finito”, almeno nel contenuto. Ma attengono solo alla finitezza del modo umano di conoscere, che ha bisogno, per conoscere una realtà, fosse anche Dio e la sua Rivelazione, di molti concetti. Il fondamento della distinzione e pluralità dei misteri della fede è la pluralità delle parole, con le quali Cristo ci ha rivelato il mistero di Dio.
 Si tratta quindi di asserzioni o verità misteriose, ognuna delle quali può essere indagata senza fine, non perchè in Dio ci siano distinzioni reali, ma secondo distinzioni di ragione[20]. Questo della negazione della molteplicità di misteri è un altro escamotage di Rahner per negar valore alle distinzioni ed esplicitazioni concettuali in materia di fede. Ma è chiaro che ognuno di questi concetti ha per oggetto il medesimo Mistero divino, ossia Dio stesso, considerato però sotto diversi aspetti della sua divinità.

Il problema del “pluralismo insuperabile”

Rahner oscilla tra due estremi entrambi falsi: da una parte la mente umana si trascende e supera il proprio limite, per cui raggiunge l’infinito, ma poi dall’altra, cedendo al fenomenismo, allo scetticismo e all’agnosticismo concettuale, egli concepisce il mistero come inconoscibile e non concettualizzabile. Da qui il suo falso misticismo.
Non c’è dubbio che nell’età moderna assistiamo ad un enorme aumento del sapere nelle varie scienze tradizionali ed alla nascita di nuove scienze, nonchè ad un aumento del pluralismo nel campo della filosofia e della teologia. Assai meno di un tempo il filosofo e il teologo possono essere informati sulle nuove teorie o dottrine a getto continuo, per cui, se era già difficile per il filosofo o teologo medioevali tenere sotto controllo o dominare o abbracciare con un solo sguardo la pluralità delle scienze di allora, allo stato attuale delle cose un’idea del genere appare assolutamente irrealizzabile, per cui secondo Rahner, il progetto di costruire una sintesi[21] o un sistema[22] razionale delle scienze onnicomprensivo, universale, chiaro, ordinato, unitario ed immutabile, è irrealizzabile.
Questa situazione di pluralismo che nessuno può dominare, sì da operare una sintesi o ridurla a sistema, Rahner la chiama di “pluralismo insuperabile”, una molteplicità di dati culturali in continuo aumento, che, secondo Rahner, nessuno se non Dio stesso può condurre ad unità, “riducendola al Mistero”, espressione che riecheggia la reductio della logica medioevale[23], senonchè questa non relativizza né dissolve la concettualità nella dispersione e nel disordine, ma conclude nella suprema concettualità dell’essenza divina.
 Certamente, come dice Rahner, i nostri concetti “rimandano” al Mistero o “sfociano” sul Mistero (reductio in Mysterium), e vengono con ciò stesso superati dallo stesso Mistero. Ma ciò non autorizza assolutamente a relativizzare, sconnettere, diluire, indebolire, svigorire ed infirmare i concetti teologici e soprattutto i dogmi della fede.
Se il Dio che concepiamo sfocia già nella vita presente sul Dio che non possiamo concepire a causa della sua infinità, questo non deve voler dire che abbandoniamo il concetto di Dio,  sia di fede o di ragione, finchè non avremo la beata visione, dove l’essenza stessa di Dio, il Logos divino, come fa notare S.Tommaso, farà da concetto nel quale e per il quale Lo vedremo[24]. In questo senso si può dire, con Hegel, che il concetto non viene mai meno.
La reductio in mysterium di Rahner riflette inoltre un bisogno di unità. E ciò è comprensibile, dato che Rahner, come cristiano, è monoteista. Tutto va ricondotto a Dio. Ma poi questa unità come è ottenuta? A spese dei concetti. E’ infatti una unità che nega, dissolve, storicizza e relativizza ogni sintesi o sistema concettuale.
Infatti il guaio è che Rahner confonde il monoteismo col monismo. Nel monoteismo l’Uno domina la molteplicità, la fonda, prevale su tutto e dà origine a tutto. Il monismo dice invece che tutto è Uno, tutto appiattendo e sopprimendo le differenze. Il monoteismo, quindi, pur nell’unità del Mistero, salvaguarda la molteplicità dei concetti umani, tra di loro distinti. Il monismo dissolve e confonde tutto nell’Uno.
Il monoteismo distingue l’essere dal pensiero, perché solo nell’Uno l’essere è identico al pensiero. Nel monismo invece l’essere come tale è identico al pensiero. Il monoteismo dunque ammette il concetto come distinto dall’Uno. Invece nel monismo ogni concetto si identifica con l’Uno.
C’è però una differenza tra il monismo hegeliano quello rahneriano. Il monismo hegeliano è un monismo del concetto o dell’idea. Il monismo rahneriano è un monismo dell’esperienza, nella linea di Heidegger. Ma nell’uno come nell’altro caso l’essere si identifica col pensiero e quindi siamo in pieno idealismo. Il punto di partenza del pensiero, che è l’Assoluto, coincide col punto di partenza dell’essere, e quindi siamo nel panteismo. Dio è il vertice dell’uomo e l’uomo è il divenire di Dio.
Si spiega allora come Rahner veda con una certa ripugnanza o diffidenza il moltiplicarsi e il distinguersi dei concetti nello sviluppo della teologia e del dogma. Rahner nutre sfiducia nell’attività della precisazione e distinzione concettuale operata dall’intelletto ed ha simpatia per le nozioni vaghe,  ambigue ed indistinte, credendole più adatte ad esprimere il Mistero.
Rahner ritiene dunque che questa abbondanza di concetti sia eccessiva, per cui, come un agricoltore sfronda un albero per togliere i rami secchi, così egli affronta il rigoglioso albero della teologia cattolica, ma, mancando in lui il riferimento alla solida e sicura sintesi scolastica, taglia inconsultamente dei rami ancora vivi e fiorenti, ossia sopprime dottrine teologiche e, quel che è peggio, sopprime, come superflui, superati,  “facoltativi” o addirittura “pericolosi”, molti dogmi. Ma siccome resta in lui un bisogno di unità e di sintesi, e di andare all’essenziale, eccolo elaborare il suo Corso Fondamentale sulla fede.
Ma ciò vuol dire che Rahner, mancando dello strumento dell’analogia dell’essere, non sa risolvere il problema del rapporto dell’uno col molteplice, ovvero del rapporto, nel sapere, dei molti concetti che sorgono o si deducono dalla sintesi iniziale, con la medesima sintesi iniziale, per cui nasce una dispersione disordinata, che dissolve l’unità e diventa frequente nel discorso rahneriano l’incoerenza e la contraddizione, che egli vanamente giustifica con le esigenze del “Mistero”. I dati finiscono con l’essere semplicemente giustapposti e viene meno la visione concettuale e sistematica del primato dell’uno sui molti.
Egli crede di poter fare appello al Mistero, dimenticando che la ragione, sia pur illuminata dalla fede, ha l’obbligo di organizzare da sè una sintesi come presupposto e via al contatto col Mistero ed è troppo comodo scaricare sul Mistero le proprie responsabilità e far fare a Lui quello che la ragione può fare.
In Rahner il Mistero non è la conferma o l’innalzamento, ma la negazione del concetto. Così c’è il rischio che ciò che è vero per la ragione sia falso per Dio, e viceversa. Egli crede, infatti, come Hegel, che l’unità richieda non solo la conciliazione dei contrari, ma anche la simultaneità dei contradditori, dell’essere e del non-essere, del vero e del falso, del bene del male, di Cristo e di Beliar, del sì e del no. Quello che per la ragione è contradditorio, si identifica nel Mistero. Ma ciò vuol dire mettere la contraddizione in Dio, quando invece è proprio Lui il principio e il garante di ogni identità.
Così nella logica di Rahner, contrariamente all’insegnamento di S.Paolo, non c’è solo il sì, ma anche il no[25]. Non c’è l’aut-aut, ma solo l’et-et. Non vale per lui il principio del terzo escluso, ma anche il terzo è incluso: oltre al sì e al no, c’è il sì-no. Queste per lui sarebbero l’unità, la conciliazione, la diversità e l’unione del molteplice. Questa unità del contradditorio, secondo Rahner, avverrebbe nel Mysterium, in Dio.
E’ la coincidentia oppositorum in Dio di cusaniana memoria. E’ facile comprendere come una simile concezione favorisca in campo morale l’ambiguità, la doppiezza e l’inaffidabilità. Sembra dunque ricomparire la ben nota opposizione luterana della fede contro la ragione.
Chi, secondo Rahner, si lasciasse sedurre dal desiderio del sistema, cederebbe a una specie di “concupiscenza gnoseologica”, come la chiama, ossia una smania esagerata, passionale ed utopistica di sapere, di unificare e di sintetizzare, che lo porterebbe in pratica ad assolutizzare il proprio campo di sapere, quindi ad una forma di ideologia, e lo spingerebbe, convinto come sarebbe di aver trovato la verità universale, ad imporre con violenza le sue idee a chi non la  pensa come lui. Per cui cosa saggia è limitarsi più modestamente a coltivare il proprio campo specifico.
Rahner ha un atteggiamento per certi aspetti simile a quello che ebbero Cartesio e Kant nella fondazione del loro sistema. Essi erano convinti che al loro tempo si fosse accumulata un’enorme quantità e varietà di dottrine e teorie filosofiche e teologiche superflue o stancamente ripetute sin dal medioevo, nonostante i progressi avvenuti nel sapere, vuoi per ostinata miopia, vuoi per paura del nuovo, vuoi per inveterata abitudine o pigra tradizione o comodità didattiche. Da qui il loro tentativo di rifare il sapere dalle fondamenta.

La fine della scolastica

Rahner, dopo aver ricevuto da giovane gesuita una formazione dottrinale tomista, influenzato dal kantismo di Maréchal, si avvicina alla fine degli anni ’30 addirittura ad Heidegger e ad Hegel, per cui, come Cartesio e Kant, egli giudicò superata la teologia scolastica raccomandata dalla Chiesa e si avvicinò alla teologia protestante, che allora si esprimeva in campo cattolico come tendenza modernista.
Egli ritiene che la teologia scolastica sia ormai finita[26], per cui propone di sostituirla con la sua “teologia trascendentale”, ispirata a Cartesio, Kant, Hegel, Heidegger e Bultmann. Non riconosce una vera continuità tra quella teologia e la sua, ma parla contradditoriamente di “rottura nella continuità”. Secondo Rahner la sua teologia sarebbe più adatta di quella scolastica ad introdurre al Mistero di Dio e all’esperienza mistica secondo le esigenze della cultura moderna.
Secondo Rahner, non esiste più un’unica filosofia o teologia universale, sistematica, dimostrativa, valida per tutti, e da tutti comprensibile, capace di certezze definitive[27]. E’ ormai impossibile costruire una sintesi completa del sapere teologico. Il pluralismo “insuperabile” fa sì che il teologo, anche il maggior genio, ignori sempre qualche elemento necessario.
La pluralità delle filosofie fa sì, secondo lui, che non esista più la filosofia, ma solo le filosofie, incomunicabili fra di loro, in continua evoluzione e competizione fra di loro[28]. Egli tuttavia è convinto che la sua teologia trascendentale, che raccoglie l’eredità dell’idealismo tedesco,  è l’unica all’altezza dei tempi e che dovrebbe essere adottata dalla Chiesa, se non vuol restare indietro nel cammino della storia.
Rahner, tuttavia, a differenza da Cartesio e Kant, ritiene che al giorno d’oggi, data l’esistenza del “pluralismo insuperabile”, sia impossibile costruire un sistema o sintesi razionali, unitari, assiomatici e scientifici, di portata universale come essi avevano tentato di fare. Egli non si rende conto che è possibile, doveroso e necessario costruire e mantenere un sistema sicuro, stabile ed universale, come per esempio quello tomista, nonostante l’aumento continuo e la pluralità indefinita ed in crescita delle dottrine e delle teorie.
Esiste indubbiamente una molteplicità sopraggiunta a quella già esistente nel campo delle idee e delle teorie, che seppur ignorata dal teoreta sistematico, non gli impedisce di costruire un sistema valido o di far capo ad esso. Questa mancanza di informazione non causa necessariamente l’assenza di qualche elemento necessario al sistema, sì che esso possa essere superato o abbia bisogno di essere revisionato e cambiato.
Infatti la pluralità necessaria alla costituzione di un sistema non è affatto “insuperabile”, ma è limitata, fissa, chiara, precisa, sicura e permanente, così come la pluralità degli organi di un organismo vivente. Conoscerla non è un’impresa disperata, ma fa parte della formazione scolastica nel campo della filosofia e della teologia.
Il progresso scientifico avviene assumendo criticamente i nuovi dati e sviluppando, aggiornando ed arricchendo per loro mezzo il sistema. Ma non può darsi assolutamente, come vorrebbe farci credere Rahner, che dei nuovi dati possano mettere in crisi un sistema ben stabilito, come per esempio quello di S.Tommaso. Similmente non sarebbe ipotizzabile che nuove scoperte nel campo della fisiologia umana possano mettere in dubbio l’esistenza e l’utilità del cuore, del cervello, dei polmoni, del fegato, ecc.
In fondo anche Rahner non si lascia scoraggiare nell’edificare un sapere originario, nonostante l’esistenza del pluralismo insuperabile, ed è il sistema teologico che egli espone nel “Corso fondamentale sulla fede”. Solo che egli sostituisce i fondamenti razionali, presenti in Cartesio e Kant, con la sua ben nota “esperienza trascendentale” originaria, globale, apriorica, immediata, illimitata, preconcettuale dell’io, dell’essere e di Dio, versione idealista della fede irrazionale luterana mediata da Maréchal, Heidegger e Schleiermacher.
Qui il “Mistero” assoluto, inconcepibile, “senza nome” e “senza volto”, che sarebbe Dio, diventa il deus ex machina come scarico di responsabilità e scappatoia ultima di una ragione scettica e fallimentare, senza orientamenti concettuali, rinunciataria, relativista, storicista, incapace di concettualizzare in una maniera certa, stabile ed universale.
Ma la Scrittura non dice affatto che Dio è senza nome e senza volto. Al contrario, Egli, come è ben noto, rivela a Mosè il Suo Nome (Es 3,14) e tutta la Scrittura è percorsa dal desiderio di vedere il volto di Dio.
Per questo, dobbiamo dire che quello che la ragione può fare, deve farlo. Non deve tirare fuori la scusa del “Mistero” per sottrarsi alle sue responsabilità. Non può delegare al “Mistero” quello che deve fare lei. E il “Mistero” non può coprire le sue magagne, come la grazia luterana copre il peccato. La mistica non è il rifugio dei furbi, degli ipocriti, degli esaltati, degli impostori e dei pigri. “La sapienza – dice la Scrittura (Sap 1,4) - non entra in un’anima che opera il male”.
Osserviamo che il teologo oggi non deve superare o controllare nessun “pluralismo”, puramente quantitativo, così come, per riprendere una arguta battuta di S.Tommaso, non è tenuto a contare i sassi del torrente. Gli basta, però, anche se non è poco, contare i gradi del sapere così come sono stati fissati, fondati e dimostrati dalla teologia tomista[29].
E’ vero che la ragione è ferita dal peccato originale e facilmente ingannabile. E’ vero che tutti noi non siamo mai all’altezza del compito che ci è assegnato. Ma questo non è un buon motivo per dubitare del nostro compito e per metterlo in crisi.  Rahner fa una pessima operazione nel respingere la sapienza sublime dell’Aquinate, che tante prove ha dato di sé nei secoli, sempre lodata dalla Chiesa e raccomandata dallo stesso Concilio Vaticano II, che Rahner si vanta fraudolentemente di interpretare e continuare.
Chi non è pronto ad affrontare, come diceva Hegel, la “fatica del concetto”, si metta alla scuola di S.Tommaso e non evada per la tangente nel “mistero” sotto il pretesto che nel mistero divino, essendo sovraconcettuale, i concetti non esistono o dileguano. La reductio in Mysterium della quale parla Rahner come l’operazione della teologia, è certo una bella espressione, ma essa deve aumentare la vista del concetto e non offuscarla.
Nella sua funzione anagogica e mistagogica, la teologia deve elevare ed irrobustire il concetto ed accostarlo al Mistero, che non è contro ma oltre il concetto. Deve renderlo più certo e non metterlo in dubbio con la scusa della “dotta ignoranza”. Deve purificare la ragione e la volontà in una severa ascesi morale, così che l’azione umana collabori all’opera della grazia. Deve preparare la ragione alla contemplazione del Mistero.
E’ vero che Tommaso cessò di scrivere la Summa dicendo: “Dopo quello che ho visto, quello che ho scritto mi sembra paglia”. Ma intanto aveva scritto una Summa di teologia, che ancora la Chiesa non cessa di lodare e di raccomandare per la formazione del clero e del laicato.

La vera mistica

La vera mistica è illuminazione e non negazione, frantumazione o dissoluzione del concetto. Se un ettolitro di vino non sta in una bottiglia, non si deve mettere da parte o rompere la bottiglia per trangugiare la botte, ma si deve semplicemente riempire la bottiglia.
La mistica supera il concetto non in rapporto a ciò che esso concepisce o contiene, che è Dio stesso, ma al suo modo imperfetto di concepire. L’importante è bere quel vino, anche se il modo di berlo è sproporzionato alla quantità di vino contenuta nella botte.
Non c’e bisogno del razionalismo hegeliano per rispettare la dignità del concetto. L’alternativa rahneriana scetticismo-razionalismo è falsa. Si rimedia ad Hegel non con Heidegger, ma con S.Tommaso. Non si rimedia alla boria del concetto umiliando il concetto, ma facendolo funzionare come si deve.
Se è vero che noi non possiamo comprendere razionalmente nel concetto l’essenza di Dio come credeva Hegel, dall’altra parte lo scetticismo luterano od occamista della ragione corrotta che si fa sostituire da una “fede” irrazionale, è altrettanto dannoso per la salvezza dell’uomo.
Nella conoscenza o esperienza mistica al mistico manca la parola per esprimere ciò che ha provato, non perché egli non sappia concepire Dio secondo il dogma e parlarne secondo il linguaggio della Chiesa, della Scrittura e della buona teologia speculativa, o non abbia fiducia in questi valori, ma perchè quello che egli concepisce di Dio nel concetto di fede, gli consente, grazie al dono della sapienza, di avvertire affettivamente la presenza di Dio nella sua coscienza in un modo del tutto personale, quindi difficilmente comunicabile o esprimibile.
Per questo, anche quando i mistici tentano di descrivere la loro esperienza, precisano sempre che quanto dicono è immensamente al di sotto di quanto effettivamente hanno sperimentato. Soltanto un altro mistico che avesse fatto la stessa esperienza potrebbe capire, così come io posso descrivere un fiore ad un’altra persona che non lo conosce. Ma affinchè essa sappia qual è il suo profumo, bisogna che essa ne faccia esperienza.
L’esperienza o contemplazione mistica è il vertice e il fine, non l’inizio o partenza del cammino della ragione nella conoscenza della realtà. E’ qui l’errore gravissimo di Rahner: il credere che la conoscenza umana cominci con l’esperienza atematica preconcettuale (“Vorgriff”), detta da lui “originaria”, per giunta in grazia (“esistenziale soprannaturale”), dell’essere (“esperienza trascendentale”) e di Dio, che dà luogo o alla quale seguono l’esperienza dei sensi, nonché la concettualizzazione (“categorizzazione”) dell’io, delle cose e di Dio stesso, compresi i dogmi della fede.
 E’ una vecchia tesi modernistica già condannata da S.Pio X. In realtà il percorso della ragione è l’inverso: cominciamo con l’esperienza sensibile delle cose, del nostro io e delle altre persone. Applichiamo il principio di causalità (Rm 1,20)  per analogia (Sap 13,5) e giungiamo così a sapere con totale certezza che Dio esiste.
Predichiamo di Lui per eccellenza o per eminenza tutte le maggiori perfezioni metafisiche o trascendentali, che conosciamo (l’essere, lo spirito, la verità, la bontà, la bellezza, la determinazione (aliquid), la perfezione, l’unità, ecc.), neghiamo la finitezza propria del loro modo d’essere nelle creature e alla fine ci troviamo davanti al Mistero, del quale sappiamo che esiste, ma non lo conosciamo quidditativamente[30].
Raggiungiamo, come dicevano S.Agostino, S.Bonaventura e Nicolò Cusano, quella che si potrebbe chiamare una “dotta ignoranza”. Sappiamo che l’al di là di quello che di Lui possiamo conoscere con la fede ci supera infinitamente. Ma siccome non conosciamo questo “oltre”, non possiamo che tacerne. Ecco la mistica.
La conoscenza essenziale delle verità di fede non può mai essere messa in crisi da nessun aumento del pluralismo teologico. E’ questa un’idea sbagliata di Rahner, per il quale sorge la conseguenza che oggi, a causa di questo enorme pluralismo incontrollabile, non possiamo mai essere sicuri di conoscere tutte le verità necessarie alla nostra salvezza. Egli ci getta nella disperazione. Non capisce che ci sono delle certezze di ragione e di fede, filosofiche e teologiche, necessarie e sufficienti, che nessun pluralismo, per quanto complesso e diversificato, può mai mettere in crisi.
L’unica certezza assoluta per Rahner resta la sua “esperienza trascendentale”, che invece è stata dimostrata infondata dai critici del suo pensiero. Ma anche le critiche più stringenti non sono valse a farlo scuotere da simile convinzione. Rahner non ha riflettuto sul fatto che il sapere filosofico, teologico e di fede non sono come certe teorie o ipotesi sperimentali, che possono essere invalidate da una nuova scoperta.
L’ordine o sistema del sapere filosofico e teologico, con le sue discipline fondamentali, elaborato da S.Tommaso e dalla sua scuola, e storicamente caratterizzante la teologia scolastica in uso per secoli nella formazione del clero, non può essere cambiato o rifatto, perché riflette l’ordine stesso dello spirito umano voluto dal creatore e costitutivo della natura umana, così come in biologia o nella fisiologia umane le funzioni essenziali non hanno bisogno di revisioni, riforme o miglioramenti periodici, come si cambia l’automobile o il computer, ma semplicemente di esser fatte funzionare regolarmente.
Indubbiamente il Concilio ha promosso una riforma degli studi ecclesiastici, ma confermando la guida di S.Tommaso negli studi. La “filosofia neoscolastica”, della quale Rahner proclama la fine, non è altro che la tradizionale teologia scolastica, da sempre appoggiata dalla Chiesa. Rahner voleva sostituire la sua teologia modernista a quella di S.Tommaso e purtroppo, in molti ambienti formativi e di studio della Chiesa, egli è riuscito nel suo intento, facendoli deviare dalle direttive della Chiesa.
Come già notava S.Pio X nella Pascendi, il modernismo porta ad un falso misticismo, caratterizzato da una torbida emotività, e da un linguaggio ambiguo, che si fa beffe della teologia scolastica, la quale invece, sotto la guida di S.Tommaso[31], come risulta dagli studi del Gardeil[32], del Garrigou-Lagrange[33] e del Maritain[34], è la solida garanzia, fedele al Magistero della Chiesa, dell’accesso alla teologia mistica e quindi all’esperienza mistica.

Una mistica senza l’ascetica

La teologia ascetica e mistica è, a partire dal sec.XVII, in reazione al lassismo protestante, un ramo della teologia scolastica. Essa costituisce il complemento finale della teologia morale, la cui parte elementare è il trattato delle virtù.
L’ascetica e la mistica costituiscono invece il trattato della perfezione, chiamato nei primi secoli “mistagogia”, che comporta a sua volta un aspetto introduttivo o preparatorio, appunto l’ascetica (dal gr. àskesis=esercizio), che tratta dello sforzo (Lc 16,16: Fil 3,12; Tt 3,8), del lavoro faticoso (II Ts 3,8; I Tm 5,17) e della lotta (Col 1,29; Ef 6, 10-20: I Tm 1,18;6,10; Fil 1,27), in vista del conseguimento della perfezione. Questo livello dell’azione morale dispone, sotto l’influsso dello Spirito Santo – da cui il termine di “teologia spirituale” - all’esperienza mistica, che è il sommo di perfezione dell’azione morale nella vita presente[35].
Un’articolazione essenziale del sistema del sapere teologico, al quale purtroppo Rahner non accenna, è la connessione fra la morale ascetica e la teologia mistica, materia che alcuni pongono sotto il titolo di “teologia spirituale”, espressione usata da Rahner, ma che trascura la considerazione dell’ascetica.
A questo riguardo dell’ascetica e della mistica, è interessante notare come due teologi domenicani del secolo scorso, lo spagnolo Juan Arintero[36] e il già citato francese Réginald Garrigou-Lagrange, profondi conoscitori della storia della spiritualità cristiana, hanno confrontato la spiritualità domenicana con quella ignaziana attraverso l’esame dei rispettivi maestri, ed hanno fatto notare che, mentre la tradizione ignaziana, fondata sulla severa disciplina dei famosi “Esercizi”, insiste sull’importanza dell’ascetica e ritiene che la santità consista essenzialmente nell’ascetica, restando l’esperienza mistica solo un raro privilegio, per S.Tommaso la contemplazione mistica, effetto del dono della sapienza, certamente preparata dall’ascetica, non è altro però che lo sviluppo pieno della vita cristiana ordinaria come pregustazione della visione beatifica del cielo[37].
E’ stato solo negli anni ’30 del secolo scorso che nella Compagnia di Gesù è iniziata un’inversione di tendenza per opera del Padre Joseph Maréchal, il quale, ispirandosi a Kant, si è fatto la convinzione, poi accettata da molti confratelli, che la esperienza mistica, nella sua essenza profonda ed inesprimibile, non sia il culmine perfettivo della vita cristiana come  sua pienezza finale, ma ne sia la base e il punto di partenza apriorico, così come per Kant l’autocoscienza (“Ich denke überhaupt”) è la condizione di possibilità della conoscenza dei fenomeni.
L’aggiunta che Maréchal fece a Kant fu che obbiettivo o fine a cui l’autocoscienza tende per sua essenza sia l’essere stesso reale – cosa a cui Kant non aveva pensato - e, in ultima analisi, sia lo stesso Essere divino non ancora concettualizzato, e tuttavia presupposto alla concettualizzazione teologica e dogmatica. Non ci si accorse che si trattava di un ritorno di modernismo. Così Maréchal si fece la convinzione che la mistica non si trovasse alla fine, ma all’inizio della vita spirituale, una mistica apriori e non aposteriori, sul modello del sapere “trascendentale”  kantiano.
 Rahner ha proseguito su questa via e l’ha percorsa fino in fondo, sostituendo il trascendentale kantiano con l’identità essere-pensiero di Hegel e soprattutto con la precomprensione” (Vorverständnis) esistenziale di Heidegger, che Rahner chiama Vorgriff, dandole simultaneamente tre oggetti: l’essere, l’io e Dio.
Come la mistagogia brahmanica, così quella rahneriana non intende l’uomo come una creatura peccatrice, che deve giungere all’unione con Dio purificandosi dal peccato, per partecipare della vita divina mediante la grazia, ma l’uomo rahneriano nell’“esperienza trascendentale”, ha già apriori un’oscura (“atematica”) coscienza della propria divinità tendenziale, per cui la mistagogia è condurre il discepolo alla “categorizzazione” o esplicitazione  di quella esperienza divina originaria.
Dobbiamo invece ricordare che la ragione deve previamente purificare se stessa per poter avvicinare degnamente il Mistero, così come la grazia non può essere accolta in una natura corrotta, il dogma non si presta ad essere formulato in concetti barbari ed un liquore prezioso non può essere versato in un calice sporco. Da qui la funzione dell’ascetica come introduzione alla mistica.
La mancanza dell’ascetica nella spiritualità rahneriana dipende dal fatto che Rahner, concependo la grazia come strutturale all’esistenza umana, ignora l’esistenza del peccato come assenza, privazione o perdita della grazia, oppure è costretto a sostenere la tesi luterana del simul iustus et peccator. Per essere perdonati dal peccato, è sufficiente l’esperienza trascendentale. Non c’è bisogno di nessuna “redenzione”[38]. Per conseguenza, è assente in Rahner il problema del riacquisto della grazia mediante la conversione e la penitenza.
 Non c’è la consapevolezza del peccato come del male più grave, che l’uomo può commettere o subire, e dal quale l’uomo deve liberarsi. Per conseguenza è negata la funzione espiatrice e riparatrice della Croce di Cristo. Cristo è semplicemente modello dell’uomo, ma è totalmente assente il satisfecit pro nobis del quale parla il Concilio di Trento. Per questo entra in crisi anche la Messa come sacrificio e il sacerdozio come offerta del sacrificio. Siamo in clima luterano, ma di un luteranesimo liberale, perché almeno Lutero aveva conservato il dogma del sacrificio di Cristo.
Manca  inoltre in Rahner la coscienza della crescita della grazia, perché, identificando la grazia con Dio stesso (l’“autocomunicazione” di Dio come costitutivo dell’uomo), è ovvio che, se questa è la grazia, essa non può né crescere né diminuire. Ma allora la vita mistica non è un perfezionamento delle virtù, una più facile vittoria sul peccato, non aggiunge nulla alla semplice vita quotidiana. Ed è proprio quello che sostiene Rahner: come ognuno è in grazia, così ognuno è un mistico. In forza del “cristianesimo anonimo” dell’“esperienza trascendentale”, lo stesso ateo può essere un mistico.
Così, il voler partire ex-abrupto con la mistica degradandola e profanandola nella banalità (quando va bene) di un sapere “quotidiano”, con la soppressione dell’ascetica, ha condotto Rahner ad una falsa mistica, buonista, edonista e pretenziosa ad un tempo, che richiede più che mai il ripristino della concezione tomista. Non si tratta di respingere in blocco la modernità, come vorrebbe un certo tomismo preconciliare, ma, nella luce dell’Aquinate, si tratta di vagliare ed assumere dalla modernità quanto in essa è conforme alla Parola di Dio.

P.Giovanni Cavalcoli
         Varazze, 26 ottobre 2019.


[1] Il fenomeno Rahner è un evento assai raro nella storia della teologia, una di quelle grandi prove che Dio manda alla sua Chiesa per purificarla, benchè egli intendesse ben diversamente questa purificazione. Egli infatti, nello spazio di cinquant’anni  (dal 1930 al 1984),  con migliaia di scritti,  è riuscito a trattare quasi tutti i temi della teologia cattolica, dispiegando indubbiamente notevoli qualità, ma mescolandole con errori, sì da costruire un finto cattolicesimo, apparentemente innovatore e di alto livello, tale da ingannare molti nella Chiesa, sia nel campo della teologia che dell’episcopato. Solo alcuni pochi finora si sono accorti delle insidie e le hanno messe in luce. Rahner è uno di quegli abili impostori, oggi ahimè frequenti, denunciati da S.Paolo VI (l’“autodemolizione”), che distruggono la Chiesa dal di dentro.
[2] Benedetto XII nella definizione dogmatica del 1336, insegna che la beatitudine celeste consiste nella visione immediata dall’“essenza” di Dio.
[3] S.Tommaso, Commento al De Trinitate di Boezio, q.VI, a.2
[4] Cf S.Tommaso, Summa Theologiae, I, q.84, a.7.
[5] Cf Summa Theologiae, I, q.13, a.3.
[6] L’esistenza della realtà spirituale, oltre ad essere dimostrata dalla filosofia (Platone), è anche dogma insegnato dal Concilio Lateranense IV del 1215 e articolo del Simbolo della fede (invisibilia).
[7] Cf J.-H.Nicolas,OP, Dieu connu comme inconnu.Essai d’une critique de la connaissance théologique, Desclée de Brouwer,Paris 1966.
[8] Cf K.Rahner, Esercizi spirituali per il sacerdote, Queriniana, Brescia 1974, pp.9-15.
[9] Cf Y.Tourenne, La théologie du dernier Rahner, Les Editions du Cerf, Paris 1995, pp.19, 117,183, 294, 329, 369, 380.
[10] Riferisce ampiamente su questi due concetti rahneriani il libro del Tourenne.
[11] Cit. da Tourenne, op.ct., p.439.
[12] Si tratta di quello gnosticismo che Papa Francesco ha condannato più volte.
[13] Tourenne, op.cit.,p.436.
[14] Tourenne, op.cit., pp.192, 246.
[15] Tourenne, op.cit. pp.107, 112, 216, 227, 228, 240, 251, 262, 263, 265, 270, 271, 274, 303, 333, 334, 336, 337, 344, 368, 379.
[16] Tourenne, op.cit., p.251.
[17] S.Tommaso, Commento al De divinis nominibus di Dionigi l’Areopagita, cap.I, lect.I, nn.29-30, Edizioni Marietti, Torino-Roma, 1950, p.9.
[18] Cf l’opera classica di Matthias Scheeben, I misteri del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1949
[19] Tourenne, Op.cit., pp.440-441.
[20] S.Tommaso, Contra Gentes, l.I,c.35; Summa Theologiae, I, q.13, a.4; De Pot., q.7,a.6.
[21] Tourenne, op.cit.,p p. 83, 98,132, 134, 136, 137, 143,153, 173, 184, 197, 199, 378, 379, 384.
[22] Tourenne, op.cit, pp.145, 153, 167, 176, 193, 198, 235, 327, 328.
[23] Cf la famosa Reductio artium in theologiam di S.Bonaventura.
[24] De Ver., q.8,a.1; Contra Gentes, l.III, c.51.
[25] Cf op.cit., pp.192, 389.
[26] Cf Tourenne, op.cit., p.49, 83, 97, 149, 276,405, 421, 438.
[27] Cf Tourenne, op.cit., pp.52, 63, 98, 143, 152, 161, 164, 168, 172, 184, 192, 193, 202, 203,275, 291, 294, 377, 378.
[28] Cf Tourenne, op.cit., pp. 87, 97,113, 132, 148, 150, 151, 158, 234.
[29] Cf J.Maritain, Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Bruges 1959.
[30] Cf S.Tommaso,  Commento al De divinis nominibus di Dionigi l’Areopagita, cap.I, lect.III, cap.VII, lect.IV, Edizioni Marietti, Torino-Roma 1950.
[31] Cf J.-P.Torrell, OP, Tommaso d’Aquino maestro spirituale, Città Nuova, Roma 1998.
[32] Ambroise Gardeil, OP, La structure de l’âme et l’expérience mystique, Librairie Victor Lecoffre, Paris 1927.
[33] Perfection chrétienne et contemplation selon S.Thomas D’Aquin et S.Jean de la Croix, Editions de La Vie Spirituelle, Saint-Maximin,Var, 1923; Les trois âges de la vie intérieure prélude de celle du ciel, Les Editions du Cerf, Paris 1938.
[34] Expérience mystique et philosophie, in Les degrés du savoir, c.V, Desclée de Brouwer, Bruges 1959,pp.489-573.

[36] Juan Gonzalez Arintero,OP, Cuestiones misticas, B.A.C., Madrid 1956.
[37] Summa Theologiae, II-II, q.45, a.5.
[38] Op.cit.,p.368, nota 2


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