La
comunicazione dei predicati
come metodo
per l’interpretazione del dogma
Per
capire la Parola di Dio occorre il retto uso della logica,
perché
la fede è in armonia con la ragione
La Chiesa,
nel formulare i dogmi, si serve delle regole della logica del linguaggio,
regole che devono essere conosciute e applicate correttamente, altrimenti si
rischia di fraintendere il significato del dogma e di cadere nell’eresia.
Una di queste
regole è la cosiddetta communicatio
idiomatum, che potremmo tradurre con «comunicazione dei predicati», la
quale consiste nella comunicazione o
scambio di due predicati di un medesimo soggetto, in modo che l’attribuzione di
un predicato a quel soggetto denominato con l’altro predicato, benché i
predicati abbiano significati reciprocante escludentisi, ciononostante resta
valida e legittima, perché è predicazione valida e legittima di quel soggetto.
Con un termine tecnico della logica, si dice che il termine significante quel dato
predicato o quell’attribuzione «suppone» (suppositio) per il soggetto o persona, alla quale viene
attribuito quel predicato.
Come spiega A.J. Maas nella Original Catholic Encyclopedia,
«Nel linguaggio ordinario tutte le
proprietà di un soggetto sono predicabili della sua persona, di conseguenza le
proprietà delle due nature di Cristo devono essere predicate della Sua unica
persona, dal momento che esse hanno soltanto un soggetto di predicazione. Egli
che è il Verbo di Dio, a motivo della sua eterna generazione, è anche il
soggetto delle proprietà umane ed Egli che è il Cristo uomo, avendo assunto la
natura umana, è il soggetto degli attributi divini. Cristo è Dio, Dio è uomo.
La communicatio
idiomatum si basa sull’unicità della persona sussistente nelle due nature
di Gesù Cristo. Quindi può essere usata finchè il soggetto ed il predicato di
un’affermazione fanno riferimento alla persona di Gesù Cristo o presentano un
soggetto comune di predicazione. Poiché in questo caso noi affermiamo
semplicemente che Colui il Quale sussiste nella natura Divina e possiede delle
proprietà Divine è lo stesso il Quale sussiste nella natura umana e possiede
delle proprietà umane».
Nel
linguaggio ordinario tutte le proprietà di un soggetto sono predicabili della
sua persona. Di conseguenza, prendendo in considerazione l’applicazione
principale della suppositio in
teologia, si deve dire che le
proprietà delle due nature di Cristo devono essere predicate della Sua unica
persona, dal momento che esse hanno soltanto un soggetto di predicazione. Egli,
che è il Verbo di Dio, a motivo della sua eterna generazione, è anche il
soggetto delle proprietà umane ed Egli come Verbo divino, avendo assunto la
natura umana, è il soggetto degli attributi divini che vengono assegnati a
Cristo uomo in forza della suppositio, che
a sua volta è strumento della communicatio.
Così possiamo dire che Cristo è Dio, e che Dio è uomo.
La suppositio
infatti consente la pratica della communicatio
idiomatum, la quale si basa
sull’unicità della persona sussistente nelle due nature di Gesù Cristo. Quindi
può essere usata finchè il soggetto ed il predicato di un’affermazione fanno
riferimento alla persona di Gesù Cristo o Lo presentano come soggetto comune di
predicazione. Infatti, in questo caso noi affermiamo semplicemente che Colui il
Quale sussiste nella natura Divina e possiede le proprietà divine è lo stesso
il Quale sussiste nella natura umana e possiede delle proprietà umane.
In questa
trattazione della communictio idiomtum
vedremo altresì come è importante distinguere la significazione di un termine
dal modo della sua significazione. Facciamo un esempio. La parola «Dio»
significa certamente il concetto e la realtà di Dio. Tuttavia, io posso usare
il termine «Dio» in due significati diversi: in senso concreto, per significare
un soggetto che ha la divinità, oppure in senso astratto, per significare la
stessa divinità, ossia la natura divina. Ebbene, il nome concreto serve per dire
che Gesù è Dio, ossia è Persona divina; il nome astratto serve ad indicare la natura
divina di Cristo.
Dio in
concreto in sommo grado è il Dio personale della SS.Trinità, il Figlio
incarnato; Dio in astratto è il Dio
Uno della la natura divina, anche se
Egli è nel contempo concreto, in quanto identità di essere ed essenza, ipsum Esse per se subsistens. Cristo è
nominato tanto col nome di Dio concreto, la Persona divina, quanto con quello
astratto: la sua divinità.
La
suppositio
Per capire dunque
come funziona la communicatio idiomatum,
occorre spiegare che cosa è la suppostio
terminorum. Supporre, in generale, significa «porre sotto». Ciò che è posto
sotto come sostegno o sussistente ontologico, è il «supposito» (suppositum), che potremmo chiamare con
termine moderno anche soggetto.
Bisogna
distinguere la supposizione reale da quella logica. La prima è un atto del
pensiero oggettivante, col quale ipotizzo l’esistenza di qualcosa. Qui il
termine «supporre» regge il complemento oggetto. Per esempio: suppongo
l’esistenza di Cristo Dio.
La seconda
invece è un’operazione predicativa, che è un porre-sotto nel senso di
sottintendere o un riferirsi-a. Con essa assumo un termine che si verifica
secondo le diverse possibilità di significazione della copula del giudizio[1]
o in quanto riferito, secondo diversi significati, ad un medesimo soggetto
reale o possibile. In questo caso il supporre è un supporre «per», per dire
«sta-al-posto-di» o a «favore-di». Dico per esempio: «Gesù è Dio». Per che cosa
suppone il termine «Dio»? Dio come soggetto concreto o Dio come essenza
astratta? Dio come persona o Dio come natura divina?
Occorre allora
distinguere la suppositio in senso
logico, che si riferisce a un termine,
dalla significazione reale, che si riferisce a un concetto. La suppositio logica è l’uso di un termine
in una data accezione, che non ne esclude un’altra del medesimo termine. Il
significare concettuale di una cosa comporta invece l’univocità o al massimo
l’analogia del significato, altrimenti si viene a significare una cosa per
un’altra e si cade nel falso.
Anche la suppositio può essere falsa, se la si
applica laddove non può essere applicata. Più precisamente, essa è falsa, se il
soggetto, al quale viene riferita, possiede una natura o un’essenza, che non
corrisponde al significato del termine, che dovrebbe realizzare la suppositio. Il termine «Dio», per
esempio, non può supporre per un animale, perché un animale non può essere Dio.
Ma può supporre per un uomo, come Gesù Cristo, perché Cristo è Dio. Questo
punto lo vedremo meglio più avanti.
Per far funzionare la communicatio idiomatum occorre dunque saper usare la suppositio, termine che possiamo tradurre con supposizione logica per distinguerla
dalla supposizione reale, termine appartenente all’epistemologia. Intanto cominciamo
col dire che il
problema della suppositio nasce
quando mi chiedo che modalità di significato dare alla copula del giudizio e
quindi se la proposizione può esser vera o come va intesa per essere vera. Facciamo
un esempio. Io dico: «quel medico è pittore». A tutta prima potrebbe sembrare
assurdo che un medico sia pittore: un medico è medico e un pittore è pittore.
Come è possibile attribuire a un medico l’esser pittore? Lo possiamo fare
perché la stessa persona che è medico è anche pittore.
È chiaro
d’altra parte che se io posso dire che quel medico è pittore, posso farlo non
in quanto è medico, ma perché è la stessa persona, che è medico e pittore.
Quindi il termine «pittore» suppone per quella persona. Siccome dunque la
persona è la stessa con due predicati, medico e pittore, in forza dell’unità
della medesima persona, ossia del medesimo soggetto, posso scambiare o
comunicare i predicati e considerare l’un predicato come soggetto dell’altro,
mentre la copula del giudizio «è pittore» non ha come soggetto «medico», ma
quella persona che è medico e pittore.
Questo
esempio di una persona con due predicati qualificativi della persona stessa,
che si pongono sul piano dell’essenza, ci può servire per capire come funziona
la communicatio idiomatum nella
proposizione di fede, che afferma la divinità di Cristo: «un uomo, cioè Gesù è
Dio». Essa non vuol dire che un uomo
possa possedere la natura divina, tanto meno può significare che l’uomo possa
essere Dio, perché questo sarebbe confondere le due nature.
Il predicato
«Dio», quindi, non suppone per una individua natura umana e neppure per la natura
umana universalmente presa, come tali, ma per l’esser Figlio di Dio. Però,
siccome il Figlio di Dio è uomo, allora, per il trasferimento del predicato dal
Figlio all’uomo, si può dire che un uomo, Gesù, è Dio. Dire inoltre «uomo» non
significa la natura umana in astratto, ma in concreto, ossia quel singolo uomo,
quindi un uomo, che sussiste nella Persona del Verbo.
Che
senso ha dire che Gesù è Dio?
Dicendo
dunque che un uomo è Dio, la Chiesa non intende dire, come afferma Hegel, che
la natura umana è la natura divina[2]
e neppure che l’uomo in generale è Dio. Infatti, un uomo non è l’uomo. Un uomo
è un singolo individuo della specie umana. L’uomo, invece, è l’essenza
dell’uomo, sono tutti gli uomini. Ora il dogma della divinità di Cristo non vuol
dire che tutti gli uomini siano Dio o abbiano la natura divina, ma che un solo
singolo uomo in tutta l’umanità «è» Dio, nel senso che Gesù è quell’uomo, nella
cui natura umana, ipostaticamente unita alla Persona del Verbo divino, questa Persona
sussiste in due nature, umana e divina, in modo tale che si può predicare la divinità
dell’uomo e l’umanità di Dio, dove però il predicato suppone per la persona e
non per la natura.
È infatti
l’unica Persona in due nature che consente le proposizioni dogmatiche
cristologiche ottenute dalla communicatio
idiomatum. Infatti, la
comunicazione dei due predicati è comunicazione di due forme o essenze, mentre l’unico
soggetto o supposito è la persona. Ed è appunto l’unicità della persona, soggetto
logico di entrambi i predicati, che consente la comunicazione dei predicati,
per cui si può predicate un predicato dell’altro, prendendolo come soggetto
della proposizione.
Così posso
dire che Gesù è Dio, come se il soggetto della frase fosse Gesù uomo, mentre il
soggetto reale è la Persona del Verbo. Così qui il termine «Dio» suppone non
per Gesù, ma per il Verbo, perché Gesù come uomo non può essere Dio e come Dio
non può essere uomo. Ma è Dio solo perchè il Verbo sussiste nell’uomo.
Cristo non è
Dio divenuto uomo, perché Dio resta Dio e come Verbo semplicemente ha assunto
nell’unità della sua Persona una natura umana individuale, che è l’umanità di
Cristo. Possiamo tuttavia dire che Dio «diviene» secondo la communicatio idiomatum, facendo riferimento
all’umanità di Cristo. Ma è chiaro che la natura divina in se stessa è
immutabile e sarebbe eresia dire che la natura divina muta.
È chiaro altresì
che nessun uomo, come tale, può avere una natura divina, se no, confonderemmo
l’uomo con Dio. Qualcuno ha detto empiamente che Gesù è stato il primo uomo ad
aver avuto coscienza di essere Dio e che l’uomo è Dio e quindi Gesù ci
insegnerebbe come prender coscienza della nostra divinità e come metterla in
azione. E gli atei ci credono. Essi negano il Dio trascendente biblico, ma
affermano la divinità dell’uomo. Il vero Dio è l’uomo. Basta leggere Feuerbach.
Ma questa
evidentemente è un’orribile bestemmia, benché il demonio tenti l’uomo in questo
senso. Invece l’uomo ha una natura umana, nobilissima, sì, ma finita e
limitata, infinitamente al di sotto dell’infinita e illimitata natura divina.
Tuttavia, l’affermazione dogmatica che Gesù è Dio non potrebbe, se mal
interpretata, suggerire quella bestemmia? Che vuol dire allora che un uomo,
Gesù, è Dio?
Per mostrare in che senso si può dire che un uomo
è Dio e che Dio è un uomo, S.Tommaso fa uso della suppositio e della communicatio
idiomatum. Dice infatti:
«Supponendo, secondo la verità della fede
cattolica, che la vera natura divina è unita alla vera natura umana, non solo
in persona, ma anche nel supposito e nell’ipostasi, diciamo che questa
proposizione Dio è un uomo è vera ed
appropriata, non solo per la verità dei termini, cioè perché Cristo è vero Dio e
vero uomo, ma anche per la verità della predicazione», ossia dei concetti.
«Infatti il
nome che significa una natura comune in concreto può supporre per uno qualunque
dei soggetti contenuti in quella natura, così come questo nome “uomo” può
supporre per qualunque uomo singolare. E così questo nome “Dio”, dal modo stesso
della sua significazione, può supporre per la Persona del Figlio di Dio. Ora,
di qualunque supposito di una data natura si può veramente e propriamente predicare
il nome che significa quella natura in concreto, così veramente e propriamente
di Socrate e Platone si predica l’esser uomo. Poiché dunque la Persona del Figlio
di Dio, per la quale suppone questo nome “Dio”, è il supposito di una natura umana,
veramente e propriamente questo nome «uomo» si può predicare di questo nome “Dio”,
in quanto suppone per la Persona del Figlio di Dio»[3].
Ciò vuol
dire che siccome Gesù è un singolo uomo, un individuo concreto della specie
umana, il cui supposito è la Persona del Figlio, e poiché il Figlio sussiste
nella natura umana di Cristo, «veramente e propriamente questo nome “uomo” si
può predicare di questo nome “Dio”, in quanto suppone per la Persona del Figlio
di Dio»[4].
Il nome della singola natura umana di Cristo significa un concreto creato, che
suppone per quel divino Concreto, che è la Persona del Figlio.
Facciamo un altro
esempio dell’applicazione della suppositio
in ordine alla communicatio idiomatum. Se dico «Dio è morto», la frase può essere
vera o falsa a seconda dell’accezione del termine «Dio» secondo la suppositio del termine. Se col predicato
«è morto» intendo riferirmi a quell’uomo che è Dio, ossia all’umanità di Cristo,
nella quale sussiste la persona del Figlio, allora il predicato suppone per la persona divina di Cristo. Chi propriamente
è morto, quindi, non è la divinità di Cristo, ma Cristo come uomo. Siccome però
quella persona divina che è Dio è anche uomo, allora il predicato «è morto» si
può trasferire dall’uomo a Dio. Sarebbe invece una proposizione falsa, se si
intendesse dire che è morta la divinità.
La
communicatio idiomatum nella
cristologia di Lutero
Il Congar[5]
fa notare che per Lutero la communicatio
idiomatum non corrisponde ad una contemplazione della Persona di Cristo
nell’unione delle due nature, sulla base della comunicazione dei predicati riferiti
alla medesima Persona di Cristo, ma la vede come uno scambio esistenziale di
ruoli fra Cristo Salvatore e l’uomo peccatore in ordine alla salvezza dell’uomo.
Non è tanto una spiegazione illuminante del mistero della Incarnazione, così
come era stato definito a Calcedonia, tale da poter suscitare un interesse
speculativo o attirare l’attenzione devota dei pii, quanto piuttosto un
interagire fra Cristo e l’uomo, per il quale Cristo opera la Redenzione
prendendo su di sé il peccato e l’uomo è giustificato facendo sua la giustizia
di Cristo. Si nota un’eco del mirabile
commercium del quale già parlavano i Padri, ma in una prospettiva ristretta
di mero interesse personale senza alcuna apertura alla visione beatifica del
mistero trinitario. Lutero sembra vedere in Cristo solo Colui che è venuto a servire,
ma manca totalmente in lui l’interesse per Colui che vuol condurci al Padre. Dice Lutero:
«Cristo ha
due nature. In che cosa ciò mi riguarda? Se Egli porta questo nome di Cristo,
magnifico e consolante, è a causa del ministero e del compito che si è assunto,
è questo ciò che gli dà il nome. Che Egli sia per natura uomo e Dio, ciò lo è
per Lui. Ma che egli abbia consacrato il suo ministero, che abbia espanso il
suo amore per diventare mio Salvatore e mio Redentore, è dove io trovo la mia consolazione
e il mio bene, … Credere al Cristo non vuol dire che Cristo è una persona che è
uomo e Dio, ciò che non serve a niente a nessuno; ciò significa che questa persona
è Cristo, vale a dire che per noi è uscito da Dio ed è venuto in questo mondo:
è da questo ufficio che egli tiene il suo nome»[6].
In Lutero,
quindi, la communicatio idiomatum non
riguarda ciò che Cristo è in sè, ma ciò che Cristo fa per me. Non è communicatio di predicati ontologici, ma
di predicati pratici delle due nature in qualche modo ipostatizzate: ciò che fa
Cristo come Dio e ciò che fa Cristo come uomo, in modo tale che il rapporto fra
le due nature di Cristo si amplia ad abbracciare il rapporto di Cristo giusto
con l’uomo peccatore. Lo scambio dei predicati diventa uno scambio delle azioni
dei due soggetti: Cristo diventa peccatore e l’uomo diventa giusto.
Il Cristo di
Lutero è quindi un Cristo funzionale all’uomo, anche se resta Dio Salvatore
dell’uomo. Ma Lutero non riesce a concepire un Dio indipendente dall’uomo,
dall’Incarnazione e dalla Redenzione. Non riesce a concepire Dio se non
incarnato, relativo all’uomo. L’uomo sembra quindi indispensabile perché Dio
esista. «Senza il mondo – dirà Hegel – Dio non è Dio». Lutero apre la strada ad
Hegel, sicché ha ragione Emilio Brito a dire che «la spécificité de la christologie
hégélienne présuppose la compréhension lutérienne de la communicatio idiomatum»[7].
Lutero non
nega il dogma di Calcedonia, ma non gl’interessa. Tutto il suo sguardo è
concentrato sulla Redenzione, senza riflettere al fatto che se c’è la Redenzione
è perché c’è stata l’Incarnazione e la contemplazione del mistero del Dio-uomo non è un perditempo da
metafisici disoccupati, ma è lo scopo della Redenzione e della remissione dei peccati,
è l’esperienza della figliolanza divina, è pregustazione della beatitudine
celeste, giacché il fine ultimo dell’uomo non è l’autocompiacimento o la
«consolazione» del proprio esser salvato e della propria innocenza, sia pur
assicurata dalla croce di Cristo, ma è la visione beatifica dell’essenza di Dio
in cielo.
Hegel
partirà dall’egocentrico soteriologismo luterano per accentuarlo fino
all’assurdo dell’egolatria propria del panteismo. Se Lutero mantiene la
distinzione fra l’essere e l’agire di Cristo e si limita a mettere in primo
piano l’agire, in Hegel, che risolve l’essere nell’agire e nel divenire, la communicatio perde totalmente il
riferimento calcedonese all’immutabilità della natura divina, sostituita dal
Dio che si muta in uomo e dall’uomo che diviene Dio.
Se Lutero
tiene all’identità di Dio e all’identità dell’uomo, Hegel approfitta del contradditorio
Cristo peccatore e del contradditorio iustus
et peccator luterani per introdurre l’arrovellamento della negatività
dialettica, che nega sé stessa in una circolarità inconcludente ed ossessiva, ben
rappresentata dal serpente che si mangia la coda.
Se Lutero mantiene
la distinzione fra communicatio
terminorum e communicatio rerum, mentre
il suo atteggiamento antispeculativo e pragmatico tende a far prevalere il
volere sull’essere, Hegel fa coincidere senz’altro l’essere col pensiero,
sicchè la communicatio idiomatum
diventa communicatio omnium rerum, di
tutto con tutto, tutto è tutto, fino a giungere al suo caratteristico monismo
panteista.
In
che senso Maria è Madre di Dio?
Anche il
titolo di «Madre di Dio» è intellegibile nel suo giusto senso solo se si applica
la comunicazione dei predicati. Infatti, a tutta prima, potrebbe nascere
l’impressione che si tratti di un’espressione tratta dalle antiche teogonie
pagane, dove una donna o una dea, unitasi a un dio, genera un altro dio. Ma qui
non ci sono difficoltà, dato il quadro politeistico. Ma, supposto il monoteismo
e un giusto concetto della divinità, come si può immaginare che una creatura
generi il creatore? Dio può avere una madre? È assurdo. La fede non può essere
contro la ragione. E difatti, se noi prendiamo atto di che cosa intende dire il
dogma con questa espressione e di come la Chiesa è arrivata, al Concilio di
Efeso, a concepire e formare questo titolo, ci accorgeremo che, con buona pace
dei fideisti, sono state perfettamente rispettate le esigenze della metafisica,
della ragione e della logica, appunto perchè è stata applicata la communicatio idiomatum. Vediamo come.
La prima
cosa da dire al riguardo è che è fuori dubbio che Maria è propriamente la madre
di un uomo. Solo che quest’uomo è Dio, nel senso già spiegato secondo la communicatio idiomatum. Ora, poiché è la
stessa Persona divina, cioè Cristo, ad essere uomo e Dio, è lecito di un
medesimo soggetto predicare un attributo riferendolo all’altro attributo, che
funge da soggetto della proposizione. Così qui il nome «Dio» detto dell’uomo,
suppone invece per il Figlio di Dio.
Dice S.Tommaso:
«Il nome che
significa in concreto una data natura, può supporre per qualunque ipostasi di
quella natura. Ora, dato che l’unione dell’Incarnazione è stata fatta in
ipostasi, è chiaro che questo nome “Dio” può supporre per l’ipostasi che ha la
natura umana e quella divina. E quindi tutto ciò che conviene alla natura divina
e a quella umana si può attribuire a quella persona, sia in quanto per lei
suppone il nome che significa la natura divina» (Dio è un uomo), «sia in quanto
per lei suppone il nome che significa la natura umana» (un uomo è Dio). «Ora,
l’esser concepita e il nascere si attribuisce all’ipostasi e alla persona secondo
quella natura nella quale è stata concepita e nasce. Dato dunque che la natura
umana fu assunta dalla persona divina allo stesso principio della concezione,
per conseguenza si potrebbe veramente dire che Dio è stato concepito ed è nato
dalla Vergine. Da ciò infatti si dice che una donna è madre di qualcuno, per il
fatto che lo ha concepito e generato. Da qui consegue che la Beata Vergine veramente
vien detta Madre di Dio»[8].
Il nome
«Dio» suppone non per l’uomo, benché Maria abbia generato un uomo, ma suppone
per il Figlio di Dio, che è quell’uomo che è stato generato da Maria.
La
communicatio idiomatum nel sacramento
dell’Eucaristia
Occorre applicare
la communicatio se io dico:
«quell’ostia consacrata è Cristo» oppure se, riferendomi al SS.mo Sacramento custodito
nel tabernacolo, dico: «Lì c’è Gesù». Nel primo caso l’ostia consacrata ha per
ipostasi la sostanza del corpo di Cristo, per cui se dico che essa è Cristo, il
nome «Cristo» non suppone per l’ostia, che è data dalle semplici specie
eucaristiche, ma per la sostanza del corpo di Cristo, congiunta, per
concomitanza, al sangue, all’anima ed alla divinità, realmente presente a modo
di sostanza sotto le specie eucaristiche.
Similmente,
se dico «Gesù è nel tabernacolo», il nome «Gesù» non suppone per il corpo di
Cristo presente sotto le specie, perché non è collocabile, ma per le specie, al
di sotto delle quali è realmente presente il corpo del Signore e, per concomitanza
il sangue, l’anima e la divinità. Quindi il predicato «le specie» è comunicato
al predicato «Gesù» perché l’ipostasi delle specie è lo stesso corpo di
Cristo a
modo di sostanza.
Il
dogma dell’infallibilità pontificia
Non tutti i predicati
dogmatici risultano dell’applicazione della comunicazione dei predicati, ma il
predicato può avere un significato talmente determinato, che non può essere trasferibile
al significato di un altro predicato, perché non fa riferimento a un soggetto
comune, ma ha per soggetto una semplice qualità o proprietà univoca. È il caso
del dogma dell’infallibilità pontificia.
Se io dico
che Papa Francesco a certe condizioni è infallibile nell’insegnare la verità di
fede, questo predicato non può comunicare con un altro predicato che abbia per
soggetto Papa Francesco, perché è una qualità o proprietà intrinseca, esclusiva
ed essenziale dell’esercizio del Papato. E sottolineo esercizio, perché un Papa può esser Papa, come, per esempio, il
Papa emerito Benedetto e non esercitare. Nel qual caso non è infallibile.
Come ho
spiegato, per ricorrere alla communicatio
idiomatum, occorre che si dia un solo soggetto con due predicati. Invece
qui il predicato è così preciso e determinato, che il suo soggetto – l’esser
Papa – è uno solo, per cui non può essere comunicato ad altri predicati, come
invece abbiamo visto nei casi precedenti. Infatti, solo il Papa e in quanto
Papa è infallibile nel senso suddetto. Diversa questione si porrebbe se
distinguessimo in Papa Francesco il suo esser uomo dal suo esser Papa. In
questo caso potremmo usare la communicatio
e dire, per esempio: «quel Papa è fallibile». In tal caso si dovrà dire che il
termine «fallibile» suppone per Francesco uomo e non per Francesco Papa.
P.Giovanni
Cavalcoli
Fontanellato,
22 gennaio 2020
[1] Cf J.Gredt, Elementa philosophiae aristotelico-thomisticae, Herder, Friburgi
Brisgoviae 1937, vol.I, n.44, p.42.
[2] Cf Lezioni
sulla filosofia della religione, Editore Zanichelli, Bologna 1974, Vol.II,
pp.337-348.
[3] Sum.Theol.,
III, q.16, a.2.
[4] Sum.Theol.,
III, q.16, a.2.
[5] Cit. da M.-M. Cottier, L’athéisme du jeune Marx et ses origine hégéliennes, vrin, Paris 1959, p.140.
[6] Cit. da Cottier, op.cit., ibid.
[7] La
christologie de Hegel, Beauchesne, Paris 1983, p.297.
[8] Sum.
Theol., III, q.35, a.4.
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