Nel sacrificio di Abramo Dio non si contraddice - Seconda Parte (2/3)

 Nel sacrificio di Abramo Dio non si contraddice

Continua il dialogo con Bruno. 

Seconda Parte (2/3)

12-16 agosto

Caro Padre Giovanni,

come sa, sul tema del sacrificio di Abramo, a cui lei ha dedicato ben tre articoli sul blog, ad un certo punto ho ritenuto che non fosse il caso di replicare ulteriormente protraendo così un dibattito, per me oltremodo interessante, ma forse non altrettanto per gli altri lettori (a giudicare dall’assenza di loro commenti), ed anche perché ho avvertito il rischio della ripetizione di quanto già detto…

A distanza di alcuni giorni di ulteriore riflessione, vorrei provare a ritornare sull’argomento in forma di mail privata, nella speranza di riuscire a precisare meglio il mio pensiero, disseminato in vari commenti sul blog, per sottoporlo, cortesemente, al suo giudizio se è d’accordo.

Ritengo che l’interpretazione del sacrificio di Abramo non possa prescindere dall’incipit che inaugura il capitolo 22 di Genesi, introducendo così il lettore alla ricezione di quanto sta per essere narrato: 

Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo […]”.

È la chiave di lettura che viene fornita a tutti noi che ci accostiamo a questo testo: l’operare di Dio che stiamo per leggere, in questo capitolo, deve essere compreso, fondamentalmente nell’ottica del Signore che vuole sottoporre a test la fede e l’obbedienza di Abramo.

Ecco, dunque, che anche la frase immediatamente successiva a questa, ma strettamente concatenata

e gli disse «Abramo! […] Prendi tuo figlio […] Isacco […] e offrilo in olocausto»”,

non può essere interpretata come effettiva volontà divina che il sacrificio di Isacco sia portato sino all’estrema conseguenza.

Questa richiesta deve invece essere inquadrata nel contesto della “prova” a cui Abramo viene sottoposto. Del resto, il Dio amorevole e misericordioso, progressivamente rivelato sin dall’Antico Testamento, e poi definitivamente confermato dal Figlio di Dio incarnato, non potrebbe veramente volere, come lei mi insegna, la consumazione di un grave peccato come i sacrifici umani. E il proseguo della narrazione conferma questa interpretazione: Dio interviene a fermare la mano di Abramo. A conferma che Dio non ha mai voluto che si portasse all’estremo compimento il sacrificio di Isacco.

E l’angelo, voce del Signore, motiva subito, in modo preciso, il significato di ciò che era stato richiesto ad Abramo, il perché di quella richiesta estrema:

“Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito”.

Questa frase si lega perfettamente a quella dell’incipit del capitolo, la conferma e in un certo senso “chiude il cerchio”: la richiesta di offrire il figlio in olocausto rivolta ad Abramo, non era stata fatta perché questi la portasse materialmente a termine, ma allo scopo di saggiare sino a che punto egli era disposto a fidarsi del Signore.

Il che significa anche che l’intimazione

“Abramo! […] Prendi tuo figlio […] Isacco […] e offrilo in olocausto” è il comando tramite il quale Dio dà inizio alla prova e ne stabilisce le condizioni, mentre la successiva frase dell’angelo/voce di Dio

Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente!

è il comando con cui Dio pone fine alla prova (oltre che confermare che non vuole sacrifici umani).

In mezzo a queste due frasi, ci sono i tre giorni tremendi di quella che potremmo chiamare la “passione di Abramo” (Genesi 22, 3-10), nei quali egli dimostra, sino all’estremo, la sua fede obbedienziale, come gli era stato richiesto. 

L’affermazione dell’angelo/voce di Dio

“Ora so che tu temi Dio …”

conferma inequivocabilmente, che prima dell’inizio della prova, Abramo non aveva ancora dimostrato sino a che punto poteva arrivare il suo fidarsi di Dio. Il momento in cui Isacco è legato alla legna dell’altare ed Abramo impugna il coltello, coincide con quell’”ora so”, che il Signore sancisce come superamento della prova, fermando la mano del patriarca.

Dunque, tra il primo comando di richiesta del sacrificio che dà inizio alla prova e il secondo che la fa terminare, la situazione di Abramo davanti a Dio è davvero cambiata (e umanamente a che prezzo!). Pertanto, non è corretto vedere i due comandi, in contraddizione l’uno con l’altro, in quanto avvengono, ciascuno, in una situazione diversa di Abramo, e dunque viene meno, a mio parere, l’esigenza di ipotizzare che la richiesta non sia partita da Dio ma dalla mente, dalla coscienza dello stesso Abramo.

Di più, non solo i due comandi non sono in contraddizione, ma possiamo dire che sono strettamente collegati, gerarchicamente dipendenti l’uno dall’altro: non sarebbe stato possibile il secondo, che pone fine alla prova, se non fosse stato preceduto, a suo tempo, dal primo, che pone le condizioni e dà inizio alla prova stessa.

Soltanto se le due frasi vengono estrapolate dal loro contesto e messe immediatamente in sequenza, l’una dopo l’altra, ci troveremmo davanti ad una contraddizione, ma questo significherebbe operare una semplificazione che, non considerando proprio quanto avviene nella prova, finirebbe per stravolgere quanto è narrato in Genesi 22.

A questo punto, potremmo riproporre il problema in questi termini: se, come abbiamo detto e non vi sono dubbi, Dio non vuole sacrifici umani, perché fa credere ad Abramo di volerli, ovvero gli dà un comando, che nella lettera, è contro la sua volontà?

In realtà, ritengo che la domanda sia mal posta, e dunque il problema da essa sollevato non sussista. Analogamente al caso precedente, dove l’apparente contraddizione tra i due comandi, era dovuta all’estrapolazione degli stessi dai rispettivi contesti situazionali in cui si erano verificati per porli in immediata sequenza logica... anche in questo caso, l’equivoco nasce dall’aver estrapolato la richiesta del sacrificio di Isacco dal suo contesto di “messa alla prova della fede di Abramo” (la fondamentale chiave di lettura), ed averla immediatamente rapportata, sul piano logico, al principio che Dio non può volere sacrifici umani. Di qui, naturalmente, seguirebbe una contraddizione inaccettabile per la Persona divina.

Ma come abbiamo visto prima, l’operare di Dio in Genesi 22, deve essere letto, imprescindibilmente, nell’ottica del Signore che vuole sottoporre a test la fede e l’obbedienza di Abramo. Il che significa che l’intenzione di Dio, quando formula quel comando, non è che Abramo porti a compimento materialmente tale richiesta, ma è quella di provocare Abramo a manifestare sino in fondo quanto grande sia la sua fede.

In parole povere, possiamo osservare che l’incipit di Genesi 22 non è

“Dopo queste cose, Dio chiese ad Abramo che gli sacrificasse il figlio Isacco…”,

ma è invece

“Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo […]”.

Ancora una volta, il focus del testo sacro, l’intenzione divina non è sull’effettiva morte sacrificale di Isacco, ma sulla prova a cui Abramo verrà sottoposto.

Se, nel brano genesiaco, non fosse stata esplicitata tale divina intenzione, allora si sarebbe potuto legittimamente supporre che la richiesta dovesse essere interpretata alla lettera, ma ciò risulterebbe in contraddizione con la volontà divina avversa ai sacrifici umani.

Invece, proprio perché associata inscindibilmente a quell’intenzione divina, la richiesta non può essere interpretata nel suo significato letterale sino all’estrema conseguenza, ma come la via che Dio ha scelto per testare la fede di Abramo.

Non è certamente raro, lei mi insegna, che taluni passi dell’Antico Testamento non debbano essere interpretati alla lettera, ma vi si debba cogliere il significato simbolico, o allegorico o metaforico che il Signore ha voluto ispirare agli autori umani del testo sacro. E persino nei Vangeli troviamo comandi di Gesù che non possono esser presi alla lettera, come:

«Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via […]» (Mc 9, 42-47).

Pertanto, il comando che, nel suo significato letterale, chiede ad Abramo di sacrificare il figlio, dobbiamo leggerlo, nel suo significato sostanziale, come se Dio stesse chiedendo “Abramo, quanto è grande la tua fede? Sino a che punto arriva la tua obbedienza? Dimostramelo!”

Ed era necessario, in quel momento, che nella coscienza di Abramo non vi fosse ancora la sicurezza, che noi oggi possediamo (anzi che abbiamo proprio dopo Genesi 22), che Dio non possa richiedere sacrifici umani. Perché se il patriarca avesse avuto la certezza di essere prima o poi fermato da Dio, la prova di Abramo sarebbe divenuta solo una manifestazione di buoni propositi, se non addirittura una recita dal finale scontato e già conosciuto dall’attore protagonista. Soltanto se nella coscienza di Abramo fossero risuonate, come comando divino, le parole “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto”, soltanto in questo modo, la prova avrebbe avuto tutto il suo senso, la sua drammaticità probante vissuta sino all’estremo, nella carne e nello spirito di Abramo.

La sola professione di fede da parte del patriarca (senza aver superato la prova) non sarebbe bastata, per eternarlo definitivamente quale campione della fede. Un conto è dire “Signore ti sarò sempre fedele, a qualsiasi costo”, un altro conto è concretamente dimostrarlo davvero.

In fondo, Pietro ha anche rappresentato, per un certo tempo, nei racconti evangelici, colui che nel cuore, nelle intenzioni desidererebbe essere sempre fedele a Cristo ma poi, messo davvero alla prova, non ce la fa, e lo rinnega tre volte, forse addirittura quattro, se consideriamo che pur dopo aver pianto amaramente, non trova il coraggio per stare ai piedi della croce, a differenza dell’apostolo Giovanni.

A questo punto, si potrebbe ancora formulare questa obiezione: se Dio ha letteralmente chiesto ad Abramo di sacrificargli il figlio, ma (ovviamente) senza rivelargli che all’ultimo momento lo avrebbe comunque fermato, allora Dio ha “ingannato” Abramo, e l’inganno, come la contraddizione o il cambiamento di volontà, non si addicono a Dio.

Ritengo che anche davanti a questo tipo di obiezione, non ci si dovrebbe fermare al puro contrapporre una questione di principio (Dio non può ingannare) con l’operare divino nel contesto di quanto narrato dal testo genesiaco, senza considerare le successive importanti conseguenze che questo avrà nell’economia della Rivelazione. Anche in questo caso ritengo che occorra uno sforzo di discernimento, che permetta di andare oltre, come posso dire… la semplice consequenzialità logica che si ottiene estrapolando il comando divino di richiesta del sacrificio unito al proposito divino di fermarlo al momento giusto, per metterlo immediatamente in rapporto al principio generale che Dio non può ingannare.

Una determinata azione che, in linea di principio, può definirsi cattiva, sulla base delle conseguenze che nella fattispecie produce, può far ribaltare l’iniziale giudizio definitorio negativo. Di qui la necessità del discernimento. Alcuni esempi:

L’uccisione di una persona, che in linea di principio è violazione del comandamento “Non ucciderai” (Es 20, 13), nel caso si riveli l’unica possibilità per salvare un innocente dall’essere ucciso, diventa non solo lecito, ma eticamente giusto.

L’appropriarsi di una mela dal banco di un fruttivendolo, che in linea di principio è violazione del comandamento “Non ruberai” (Es 20, 15), se eseguito da un poveretto, gravemente deperito, non in grado di pagarla, al solo scopo di non svenire per la fame, diventa non solo giusto per l’Etica ma, anche sul piano del Diritto umano, non si avrebbe imputazione di furto, perché si riconosce che il soggetto ha agito “in stato di necessità”, e di conseguenza il diritto alla vita, alla salute prevale giustamente su quello alla proprietà privata.

Ricordo infine il caso familiare, ma non certo unico, di un mio zio che durante la Seconda Guerra Mondiale nascose due avieri delle forze alleate, che si erano lanciati col paracadute dopo che il loro velivolo era stato colpito dalla contraerea tedesca, e quando si presentò a lui una pattuglia di nazisti dichiarò di non saper nulla dei paracadutati. Anche in questo caso, se pur non è in violazione del comandamento “Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo” (Es 20, 16), sempre si è trattato dell’aver detto il falso, ma la bugia in siffatto contesto si svuota di ogni connotazione riprovevole, e diventa non solo meritoria per aver salvato la vita del proprio prossimo, ma addirittura eroica, in quanto ha comportato il mettere in grave pericolo la propria vita qualora, procedendo con una perquisizione, i nazisti avessero appurato la menzogna (ringraziando Iddio la sirena di un nuovo allarme aereo costrinse la pattuglia alla fuga).

Insomma, un’azione che in linea generale, su un piano teorico, può essere definita cattiva, e persino risultare violazione di uno dei Dieci Comandamenti… se esaminata con discernimento in tutte le conseguenze concretamente causate, può a volte tramutarsi in azione buona e giustificata.    

Ora, tornando all’obiezione che accuserebbe, l’interpretazione del sacrificio abramitico che qui sto perorando, di attribuire a Dio un riprovevole “inganno” nei riguardi del patriarca, si dovrebbero (ammesso e non concesso che, come uomini, si abbia il diritto di "sindacare", in qualche modo, l’operato divino), considerare i tanti ed importanti frutti, non solo per Abramo, Isacco e Sara, ma per tutti noi posteri, che sono scaturiti, dall’indizione e dal superamento di quella prova. Come disse Benedetto XVI: “l’obbedienza di Abramo è diventata fonte di una immensa benedizione fino ad oggi”. Per citarne solo tre: il messaggio perenne per tutta la posterità di poter sempre confidare, affidarsi a Dio anche nei momenti più oscuri, più disperati della nostra esistenza; la conferma scolpita nella Sacra Scrittura che Dio non desidera sacrifici umani; la disponibilità di Isacco a mettere completamente la propria vita a disposizione del padre, come prefigurazione del sacrificio di Cristo.  

E allora davanti a quanto è scaturito per noi dalla prova di Abramo, mi sembra si possa dire che il cosiddetto “inganno” divino, se pur sia lecito usare questo termine, si svuoti di qualsiasi connotazione negativa che contraddistingue invece i veri inganni a fin di male, e a noi non resti che inginocchiarci dinanzi alla Sua volontà. Del resto lei stesso, Padre Giovanni, ha scritto:

“Dio, quando vuol mandare una prova, si riserva di fissarne a sua discrezione il contenuto e la durata. Quindi, se vogliamo vivere bene la nostra fede, non è il caso di chiederci perché Dio manda certe prove con certi contenuti e con certe durate. Egli sa quello che fa e lo fa per il nostro bene. Queste considerazioni ci devono bastare per fidarci di Lui, per obbedirgli e per sopportare la prova, nella certezza che essa serve a rafforzarci nella fede e nella virtù”.

Dunque, la richiesta del sacrificio di Isacco non è stata il fine del volere di Dio, ma la via scelta da Dio per testare la fede obbedienziale di Abramo, riservandosi di interromperla al momento opportuno.

In conclusione, non pretendo con queste mie modeste osservazioni di aver sciolto tutte le difficoltà, le aporie che il racconto di Genesi 22 presenta, e che hanno ispirato, nel corso dei secoli, molteplici interventi e dibattiti.

Il famosissimo detto popolare “le vie del Signore sono infinite” trova eco profondo nelle parole di Papa Benedetto XVI (https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2012/documents/hf_ben-xvi_aud_20121219.html):     

«Vorrei sottolineare un altro aspetto importante: l’apertura dell’anima a Dio e alla sua azione nella fede include anche l’elemento dell’oscurità. La relazione dell’essere umano con Dio non cancella la distanza tra Creatore e creatura, non elimina quanto afferma l’apostolo Paolo davanti alle profondità della sapienza di Dio: «Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 11,33). Ma proprio colui che - come Maria – è aperto in modo totale a Dio, giunge ad accettare il volere divino, anche se è misterioso, anche se spesso non corrisponde al proprio volere ed è una spada che trafigge l’anima, come profeticamente dirà il vecchio Simeone a Maria, al momento in cui Gesù viene presentato al Tempio (cfr Lc 2,35)».

Queste parole di Benedetto XVI sono di grande importanza. Infatti le rivelazioni divine ci mettono alla prova nella fede e nella ragione. Esse a tutta prima sembrano contrarie al nostro bene, ci fanno soffrire, magari ci lasciano nell’angoscia, ma a riflettere bene ci accorgiamo che non siamo davanti a qualcosa di contradditorio o di assurdo, non siamo spinti al male, come farebbe il demonio, ma siamo stimolati a capire meglio e a crescere nella virtù, anche se dobbiamo avere l’umiltà di riconoscere che il mistero ci trascende infinitamente e siamo oggetto di un amore infinito, al quale non potremo mai corrispondere in pienezza.

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Caro Bruno,

ho molto piacere che Lei abbia ripreso la discussione su questo importantissimo ed interessantissimo argomento. Il fatto che nel mio blog non siano apparsi interventi significativi, non vuol dir nulla. Il mio blog è comunque molto seguito.

Le rispondo, come Lei desidera, privatamente, ma avrei molto piacere che Lei mi concedesse di pubblicare anche questa nostra corrispondenza, perchè ho una grande ammirazione per la serietà del suo ragionare e per questo suo lavoro assai meritorio di raccogliere le testimonianze dell'interpretazione tradizionale, che meriterà sempre grande rispetto, anche se appare la preferibilità della nuova interpretazione. Confrontare il vecchio col nuovo sarà di edificazione per tutti e un esempio di come l'esegesi progredisce, senza rotture, ma nella continuità.

Lei ha con sè grandi maestri, ma, come sa, esiste un progresso nell'interpretazione della Scrittura e l'affiancare la nuova interpretazione con la vecchia è tutto a lode di Dio, che guida la nostra mente progressivamente verso una sempre migliore conoscenza della sua Parola.

Lei ha con sé il grande Tommaso d'Aquino, il quale davanti alle misteriose e conturbanti parole di un Dio che vuole un sacrificio umano, per un volta - cosa inaudita nel suo pensiero, lui, grande sostenitore dei valori non negoziabili - ricorre all'idea di un Dio volontaristico simile ad Allah, il quale, Signore della legge naturale da Lui voluta, è libero di sospenderla. Ma la tesi non tiene, e bisogna invece spiegare il testo come l'ho spiegato io, per non cadere in una concezione islamica di Dio. Dio è libero, ma non può contraddirsi, né può volere la morte dell'uomo. Se vuole la morte di Gesù, è perchè il sacrificio di Gesù ha una virtù salvifica divina. Ma non l'aveva certamente Isacco!

Questa materia che noi trattiamo, è di libera discussione, benchè notoriamente esista un'interpretazione tradizionale, che io ritengo superata da quella che ho esposto nei miei articoli. Ma su questa materia non esiste un'interpretazione vincolante da parte della Chiesa, come esiste per molti altri passi della Scrittura.

Non c'è quindi da stupirsi che essa possa essere superata, come per molti altri passi della Scrittura, dove l'interpretazione del passato non potrebbe più essere ammessa. 

Le invio pertanto la mia risposta seguendo il solito metodo di dividere il suo testo in una serie di punti e rispondere punto per punto.

Per i motivi di cui sopra, le confermo che vorrei pubblicarla.

Se crede, possiamo continuare questa nostra corrispondenza, trattando eventualmente anche altri argomenti.

Caro Padre Giovanni,

la ringrazio dell'attenzione e delle parole che ha usato nei miei confronti.

Dal momento che lo ritiene opportuno, l'autorizzo a pubblicare sul blog quanto le avevo scritto nella precedente mail, ed anche quanto le ho scritto nell'allegato a questa, in risposta alle sue ultime osservazioni.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 19 agosto 2022       

 

 

Le rivelazioni divine ci mettono alla prova nella fede e nella ragione.

Esse a tutta prima sembrano contrarie al nostro bene, ci fanno soffrire, magari ci lasciano nell’angoscia,

ma a riflettere bene ci accorgiamo che non siamo davanti a qualcosa di contradditorio o di assurdo, non siamo spinti al male.

 

Immagini da Internet:
- Giuseppe Vermiglio (Alessandria, 1585-1635) - Genova
Giovanni Andrea De Ferrari (Genova 1598 - 1669)

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