Ateismo e salvezza - Decima Parte (10/10)

 

Ateismo e salvezza

Decima Parte (10/10)

Severino [1]

Passando a Severino, al quale riconosciamo il merito di insistere sull’essere eterno, immutabile e necessario, di voler difendere il principio di non-contraddizione e di voler combattere il nichilismo, bisogna tuttavia dire che egli cade in alcuni errori gravi: primo, quello di identificare idealisticamente il pensiero con l’essere; secondo, quello di negare l’esistenza dell’ente temporale, mobile e contingente, distinto e fuori dell’essere eterno; terzo, quello di rifiutare l‘analogia dell’essere, perché non ammette i gradi dell’essere; quarto, quello  di giudicare nichilista la dottrina della creazione perchè fa riferimento al nulla (creatio ex nihilo), mentre il nulla secondo lui non esiste.

È vero che al di fuori dell’essere nulla esiste. Ma l’essere non è solo l’essere eterno e necessario, per cui occorre notare che al di fuori dell’essere eterno ed immutabile, esiste l’essere contingente, mutevole e temporale. Severino ha il concetto dell’ipsum Esse e con ciò possiamo dire che ha il concetto giusto dell’essenza di Dio. Ma poi, identificando l’essere come essere, con l’ipsum Esse, perde di vista che l’ente contingente è creato dall’ente necessario. Non si accorge che il produrre l’essere dal nulla è l’atto proprio dell’ipsum Esse e che il concetto del creare come creatio ex nihilo non è affatto contradditorio, non comporta la confusione dell’essere col non essere, ma è il passaggio dall’essere possibile all’essere attuale. 

Il Dio di Severino è un Dio impotente che non può creare perché non ammette la possibilità di un essere inferiore al suo, un essere per partecipazione distinto dal suo essere, che è essere per essenza. Quindi il suo Dio non giustifica l’esistenza del mondo, ma non è altro che il mondo trasformato in apparizione finita di Dio, quindi siamo nel panteismo.

 Il concetto di Dio che si può ricavare da Severino non basta alla salvezza perché è un Dio solo pensato come ipsum Esse, ma non è il Dio reale, la cui esistenza si dimostra come causa dell’effetto partendo della considerazione delle creature.

Osserviamo a Severino che il nulla è il non-essere, ma esso esiste come ente di ragione: esso è pensato e detto col termine «nulla», sul quale tutti c’intendiamo, termine che tutti capiscono che cosa voglio dire, nozione di facilissima comprensione, tanto che la capiscono anche i bambini. Dica piuttosto Severino che non gli va il concetto di creazione perché gli ricorda quel Dio cristiano che ha abbandonato per assumere il dio di Parmenide e si mostrerà sincero.

È interessante il raffronto fra Severino e Leopardi. L’uno e l’altro s’inceppano nel problema del rapporto fra il necessario e il contingente e quindi nel rapporto dell’essere col nulla. Davanti al problema del divenire, ossia del contingente, non sanno applicare il principio di causalità e fondare il contingente, ossia il mondo, sull’esistenza del necessario, ossia Dio.

Severino, davanti alla famosa domanda di Leibniz «perché c’è l’ente e non il nulla?», reagirebbero in due sensi opposti. Severino osserverebbe che non è il caso di chiedersi perché esiste l’ente, dato che esso esiste da sé. Quanto a Leopardi, egli direbbe: quello che è certo è che esiste il nulla. Quanto all’ente, che è puramente contingente e corruttibile, esso per Leopardi non ha nessun perché; esiste, inizia, finisce a basta. Non è né preceduto né causato da un essere primo, assoluto e necessario. Perché esiste per lui solo il contingente.

Tuttavia la domanda di Leibniz non è ben formulata; il vero problema non è «perché c’è l’ente?», ma «perché c’è l’ente contingente?». L’ente, in quanto abbraccia anche l’assoluto, esiste necessariamente. Qui Parmenide e Severino hanno ragione. Ciò che va spiegato, invece, è perché esiste il contingente, il quale non ha in sé la ragione del proprio esistere.

Nel dire che il contingente esiste da sé come fa Leopardi e non rimanda a una causa, dimostra di non saper applicare il principio di causalità, che dice che se c’è l’effetto, c’è la causa; non può estere un effetto senza causa. È una cosa che capiscono anche i bambini.

Così mentre Severino afferma l’essere escludendo il contingente che gli pare contradditorio e nichilistico, Leopardi vede solo il contingente sospeso nel nulla, che egli assolutizza senza temere la contraddizione di ammettere un contingente senza fondamento nel necessario.

Nell’uno e nell’altro caso il motore di questa visione falsa della realtà è la superbia, che non vuol accettare la dipendenza dell’io da Dio. In Severino io sono l’essere che non dipende da nessuno. In Leopardi l’io fa la vittima di un destino avverso e se la prende con la natura matrigna, spaventato all’idea di essere un nulla dal nulla e per il nulla, ma in realtà mette se stesso al posto di Dio rifiutando di confidare in Dio, decidendo lui qual è la verità e rifiutandosi di adeguarsi umilmente alla verità del suo io e di Dio. 

Bontadini [2]

Anche Bontadini parla di Dio. Egli si considera addirittura cattolico ed ha insegnato all’Università Cattolica di Milano, allievo del tomista Mons. Amato Masnovo. Ma che concetto ne ha? Come sa che esiste? Come ne dimostra l’esistenza? Che attributi gli dà?

Egli parte dalla concezione parmenidea dell’essere, come uno, univoco, necessario, immutabile ed eterno, per cui il divenire appare contradditorio, impossibile o pura apparenza. Egli pertanto crede di poter dimostrare l’esistenza di Dio non in base al principio di causalità, che comporta la produzione dell’ente diveniente, ma in base al semplice principio di non-contraddizione, per cui, onde evitare di cadere nella contraddizione affermando che il diveniente è Dio, ossia non diviene, occorre affermare l’esistenza di Dio non come causa del diveniente, ma semplicemente per sciogliere la contraddizione[3].

Ci si domanda però quanto questo «Dio» trascenda il mondo e il pensiero umano, risolvendo un problema di per sé metafisico in un problema di logica. Difatti Bontadini è nella linea dell’ontologismo anselmiano estremizzato in forma idealistica gentiliana, per cui l’essere non è al di là del pensiero, ma immanente al pensiero, cosicchè basta l’idea di Dio per sapere che Dio esiste.

Ma è chiaro che una nostra idea non può essere causa della realtà. Ora, il vero Dio è causa del reale, per cui, per concepire il vero Dio occorre dimostrarne l’esistenza come causa del reale partendo dall’esperienza della realtà, non dalle nostre idee, per quanto belle e sublimi (l’essere assoluto).

Il fatto è che purtroppo Bontadini è influenzato da Gentile, per il quale non si dà essere fuori del pensiero, ma l’essere coincide col pensato, anche se Bontadini non arriva alla posizione gentiliana di far coincidere l’essere con l’atto del pensare. Ma basterebbe già quanto detto su di lui per impedire un concetto giusto di Dio. Lato buono però del teismo bontadiniano è la decisa concezione di Dio come Essere sussistente, assoluto, eterno, immutabile e necessario.

Sembrerebbe una traccia di tomismo, ma in realtà Bontadini preferisce Parmenide, nell’idealismo del quale egli ritrova Gentile, con la differenza che Bontadini non accetta la concezione gentiliana dell’essere come divenire, ereditata da Hegel. Ciò che comunque compromette il teismo bontadiniano, oltre all’impostazione idealista, è l’incapacità di comprendere il valore ontologico del divenire e quindi il mondo materiale, influenzato dalla concezione parmenidea dell’essere, sicchè l’esistenza dell’ente diveniente non può più essere una prova dell’esistenza di Dio.

A parte il fatto che Bontadini non s’accorge che il materialismo che l’idealista caccia dalla porta, ritorna dalla finestra, giacchè, se il pensiero coincide con l’essere e l’essere è anche l’essere materiale, il pensiero coinciderà con l’essere materiale. Buona invece è la concezione bontadiniana di Dio come assoluta Identità, il che fa dire giustamente a Bontadini che l’ateismo è un’assurdità.

Rahner [4]

Quanto spesso Rahner parla di Dio! Ma domandiamoci: qual è il suo concetto di Dio? Come arriva a sapere che Dio esiste? Come lo dimostra? Che cosa intende con la parola Dio? È il vero Dio?

Un Dio sperimentato originariamente nell’autocoscienza, come egli sostiene ripetutamente e in vari modi, un Dio oggetto di un’esperienza preconcettuale trascendentale apriorica  (Vorgriff), che nel contempo è esperienza del sé e dell’essere, un Dio mistero assoluto inconcepibile, irrappresentabile, indicibile e innominabile, Dio vertice dell’autotrascendenza umana, Dio kenotico che nega se stesso per tornare a sé, Dio mutevole che diviene materia e soffre, Dio responsabile del bene e del male,  è il vero Dio? È sufficiente questo concetto di Dio per salvarsi?

Per Rahner noi giungiamo a sapere che Dio esiste non partendo dall’esperienza delle cose e scoprendo, nella linea di Rm 1,20, che esse, per esistere, hanno la necessità di essere causate da un Ente causa prima, che esista per sua stessa  essenza, ma in forza della predetta esperienza trascendentale. 

Egli col suo discorso si allaccia evidentemente alla metafisica cartesiana, per la quale noi non giungiamo alla nostra autocoscienza partendo dall’esperienza sensibile delle cose esterne, ma questa conoscenza ci è resa possibile sulla base «dell’autopossesso originario dell’esistenza conoscente e disponente liberamente di sé» [5] .

Ora dobbiamo dire che in realtà la vera dimostrazione dell’esistenza di Dio, come è insinuato già da Aristotele col suo concetto del Motore immobile, parte dall’esperienza delle cose e arriva ad affermare l’esistenza di Dio sulla base dell’applicazione del principio di causalità, che stabilisce una causa prima, introduce alla coscienza di sé e dell’esistenza di Dio [6] . 

Invece per Rahner la dimostrazione per induzione ovvero per passaggio dall’effetto alla causa proporzionata, partendo dall’esperienza delle cose, non farebbe che evocare ed esprimere in concetti la precedente esperienza atematica apriorica dell’esistenza di Dio nell’orizzonte dell’autocoscienza originaria, sarebbe una derivazione secondaria e scadente dell’originale esperienza trascendentale atematica. Secondo lui:

«mentre l’uomo raggiunge la realtà oggettiva della sua vita quotidiana agendo attivamente e pensando in maniera concettuale, egli effettua come condizione di possibilità di tale comprensione concettuale l’anticipazione atematica non oggettiva della pienezza inconcepibile e inafferrabile della realtà, che nella sua unità originaria è nel contempo la condizione della conoscenza e della singola cosa oggettivamente conosciuta e che, in quanto è tale condizione, viene sempre affermata atematicamente, perfino nell’atto che contesta tematicamente una cosa del genere» [7] .

Qui si vede come Rahner rovescia l’ordine della conoscenza: non è l’esperienza preconcettuale, che per Rahner è già esperienza di Dio, ad essere la condizione di possibilità della conoscenza empirica della «realtà oggettiva della sua vita quotidiana», ma al contrario, è questa conoscenza, trascesa mediante l’applicazione induttiva del principio di causalità ad essere la condizione di possibilità della conoscenza di Dio.

Oltre a ciò emerge qui la falsa affermazione, presente in altri testi rahneriani e connessa con la tesi dei cristiani anonimi, secondo la quale, dato che la sostanziale adesione a Dio avviene nell’esperienza atematica, la formulazione concettuale dell’ateismo non comprometterebbe la sostanziale tendenza verso Dio che caratterizzerebbe l’esperienza trascendentale preconcettuale originaria basata sull’autocoscienza cartesiana.

Rahner pretende di fondare questa sua tesi nel passo di Lumen Gentium del Concilio Vaticano II, dove si dice che è possibile una via di salvezza anche per coloro che «non sono giunti ad un’esplicita conoscenza di Dio» (n.16). Egli infatti omologa l’implicita conoscenza di Dio supposta dal Concilio alla sua esperienza trascendentale di Dio, la quale invece non c’entra per niente, perché è chiaro, secondo la sana ragione e la dottrina della Chiesa, che  noi arriviamo a sapere che Dio esiste applicando per induzione il principio di causalità e niente affatto in forza dell’esperienza trascendentale rahneriana, che non esiste e l’ammetterla identificherebbe l’autocoscienza umana con quella divina.

Rahner vorrebbe ammettere un teismo trascendentale accanto ad un ateismo tematico, tale per cui il soggetto resterebbe credente nonostante la professione verbale di ateismo. Bisogna dire invece che il suo teismo trascendentale preconcettuale ed esperienziale non esiste e l’unico teismo valido e ammissibile è quello espresso in concetti e facente uso, come ho detto e ripetuto, del principio a posteriori di causalità.

Per questo non ha senso sostenere che uno può essere credente trascendentalmente e autenticamente, anche se è ateo nei concetti.  Niente affatto.  Chi è ateo nel concetto è ateo tout court, giacchè l’esperienza di Dio preconcettuale è un’invenzione di Rahner, priva di qualunque fondamento teoretico ed anzi contraria all’insegnamento del Concilio Vaticano I, per il quale l’esistenza di Dio non la dimostriamo altro che «per ea quae facta sunt» (Rm 1,20, Denz. 3004).

Oltre a ciò Rahner confonde il sapere trascendentale dell’essere, necessario ad ogni atto del pensiero e appartenente necessariamente ad ogni soggetto, pensante, con l’orientamento pratico a Dio per mezzo della volontà, il quale, dipendendo dalla scelta del libero arbitrio, è proprio solo di coloro che liberamente decidono di orientare a Dio la propria vita.

A causa della sua teoria dell’«esperienza trascendentale preconcettuale» di Dio Rahner inverte anche il rapporto fra teologia e mistica, fra la teologia della parola e quella del silenzio. Noi non partiamo da una mistica atematica e apriorica,  per passare alla parola e ai concetti, ma al contrario, iniziamo a conoscere Dio rappresentandoLo nei concetti elaborati dal ragionamento, impariamo a conoscere il Simbolo della fede, dopodiché, se il nostro cuore è ben disposto nella carità, Dio ci può concedere l’esperienza mistica, la quale peraltro non abbandona affatto i concetti, ma anzi li rende fiammeggianti e luminosi in forza dell’amore, anche se è vero che per l’ineffabilità dell’esperienza provata, la parola vien meno.

Rahner pertanto sbaglia quando dice che il discorrere di Dio

 «formulando parole e disegnando concetti, traducendo Dio in un oggetto della nostra coscienza, questa è soltanto la forma seconda del rapporto originario con Dio e questa relazione tematica di seconda istanza è portata e sostenuta da un modo di relazione anteriore, atematico, trascendentale, della nostra spiritualità integrale verso l’inafferrabile Infinito» [8] .

Rahner con la sua distinzione trascendentale (preconcettuale)-categoriale (concettuale) si inserisce sul solco della distinzione abituale fra gli idealisti che concepiscono il pensare umano come posto su due piani con riferimento a due schemi rappresentativi a due termini: un termine superiore (filosofo), el’altro inferiore (uomo comune); lo schema originario-derivato e lo schema adulto-minore.

Spinoza, per esempio, distingue lo sguardo sub specie aeternitatis, proprio del saggio dallo sguardo sub specie temporis, dell’uomo comune; Fichte distingue il punto di vista filosofico (idealismo) da quello dell’uomo comune (realismo).; Hegel distingue il denken (idealismo) dalla Vorstellung (realismo); Husserl distingue il punto di vista fenomenologico o critico (filosofo) dal punto di vista del realismo ingenuo naturale (uomo comune); Bontadini distingue l’idealista (essere immanente al pensiero) dal realista (essere extramentale).

Rahner invece interpreta l’essere heideggeriano nel senso del «Colui Che È» biblico, l’ipsum Esse di San Tommaso. Ne viene però che, per non saper staccarsi da Heidegger, Rahner ritiene che il punto di partenza del nostro pensare sia l’esperienza dell’ipsum Esse o, come egli dice espressamente, l’esperienza preconcettuale di Dio, che egli chiama pure esperienza trascendentale.

Ma Rahner va qui fuori strada e si fatica a capire come possa aver considerato Heidegger come suo maestro, quando aveva a disposizione la splendida scuola tomista del novecento, dalla quale purtroppo si è allontanato, simile a un figliol prodigo che però è rimasto contento a mangiare le carrube dei porci.

C’è da osservare inoltre, che Rahner, concependo l’uomo come essere storico che tende all’essere assoluto, finisce con l’identificare l’essere umano con l’essere assoluto, cioè con l’ipsum Esse, concependo Dio come vertice dell’autotrascendenza umana e come divenire uomo. Ma non è questa la vera concezione heideggeriana dell’uomo. L’uomo, per Heidegger, è l’ente nel quale e al quale appare l’essere. Più precisamente, è il «ci» dell’Esser-ci (Dasein), cioè il luogo e il tempo nel quale l’essere si finitizza, temporalizza e si spazializza.

Rahner al termine della sua vita dichiarò che l’unico suo maestro è stato Heidegger. E di fatti è facile ritrovare in Rahner l’identificazione heideggeriana del pensiero con l’essere, l’esperienza originaria atematica e preconcettuale dell’essere e del sé, quella che Heidegger chiama Vorverständnis e Rahner Vorgriff, esperienza della quale la rappresentazione concettuale (e quindi la nozione dogmatica cattolica) è un derivato, un «segnavia», un modello rappresentativo convenzionale, pluralizzato, diversificato, mutevole e relativo al tempo.

Schillebeeckx [9]

Secondo Schillebeeckx il concetto di Dio, come tale, non coglie la realtà divina così com’è, ma per coglierla dev’essere espressione, nell’attuale contesto storico-culturale, dell’esperienza originaria, atematica e preconcettuale di Dio che secondo Schillebeeckx sarebbe propria della mente umana come tale.

Per sapere dunque che Dio esiste non occorre, secondo lui, applicare il principio di causalità, di per sé legato ai soli fenomeni sensibili, ma bisogna esplicitare e formulare concettualmente, nel clima culturale del nostro tempo e secondo i concetti teologici del nostro tempo, quell’ineffabile esperienza atematica di Dio che tutti noi abbiamo in forza della natura stessa del nostro intelletto o della nostra coscienza in unione con i sensi.

Si avverte qui un influsso ad un tempo cartesiano ed occamista: cartesiano, nel concepire la conoscenza dell’esistenza di Dio come dato originario dell’autocoscienza; ed occamista, in quanto per Schillebeeckx il concetto non è una rappresentazione astratta, universale ed immutabile dell’essenza della cosa, ma solo un segno convenzionale e contingente nell’esperienza della cosa.

Tutto ciò vuol dire, secondo Schillebeeckx, che i concetti che ci formiamo di Dio e dei suoi attributi non sono immutabili, perché non colgono da soli la realtà della natura divina, ma sono prodotti mutevoli del nostro pensiero nel progredire della storia, per cui indicano soltanto quella realtà in quanto interpretazione storicizzata, superabile dalle future e superante le precedenti, dell’universale esperienza atematica di Dio.

Così, per esempio, oggi non possiamo più concepire un Dio che castiga, che esige soddisfazione dei peccati, un Dio al quale offrire sacrifici, un Dio spirito senza materia, irrelato al mondo e all’uomo, immutabile e impassibile, un Dio che ci lascia in consegna dei dogmi immutabili, ma l’immagine di Dio che dobbiamo formarci di Dio, sempre in base alla perenne ed universale esperienza atematica, è quella di un Dio evolutivo, senza nome, essenzialmente storico ed incarnato[10], relativo all’uomo, un Dio-per-l’uomo, il Dio-per-me, misericordioso, che perdona e salva tutti, indipendentemente dal fatto che si sia pentiti, un Dio che non esige alcuna soddisfazione, ma che dona a tutti la grazia senza condizionarla ad alcun merito, ma appunto gratuitamente.

Se però consideriamo attentamente questi attributi, che Schillebeeckx spaccia per un concetto moderno e progredito di Dio, essi non sono è altro che quelli del luteranesimo liberale di Schleiermacher nel sec. XIX, riesumati da Bultmann nel secolo scorso. Si tratta del brodo riscaldato del modernismo.

Jean-Luc Marion

Conduce all’ateismo la negazione di Jean-Luc Marion che Dio sia un ente sostituendo il predicato dell’entità con quello della bontà e dell’amore. Ora non c’è dubbio che Dio è il bene assoluto. Tuttavia se un qualcosa è bene, è chiaro che è un qualcosa, per cui non ha senso affermare che Dio è buono accantonando il predicato dell’essere. Anche il bene è essere. Un bene che non sia essere è nulla, perché al di fuori dell’essere non c’è che il niente.

 

Marion ha dato il via a quella che oggi si chiama «ontologia dell’amore» di Giovanni Colzani e Piero Coda e dell’essere come relazione di Bubner ed Ebner. Da qui è nata altresì l’«ontologia trinitaria», che confonde la metafisica con la Triadologia, un’operazione che peraltro non è nuova, perché si trova già in Hegel e fu ripresa nel sec. XIX da Günther, Hermes e Frohschammer. Ci si dimentica che la trinità dell’essere è proprietà esclusiva di Dio ed è un dato di fede, non della ragione.

Conclusione

«Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt7,21). Teismo e ateismo sono in fin dei conti non tanto due posizioni teoretiche, quanto piuttosto due atteggiamenti della volontà: teista è chi fa la volontà di Dio, anche se non lo nomina o ne ha un concetto insufficiente o si considera ateo; ateismo è disobbedire a Dio, quand’anche si conoscesse il tomismo a memoria.

Per questo, Cristo nella parabola del buon samaritano ci insegna a distinguere in ultima analisi chi sembra ateo ma in realtà è credente da chi è credente benché sembri ateo, facendo riferimento a come ci comportiamo verso il prossimo, senza per questo negare l’importanza del criterio della correttezza dottrinale o del culto divino.

Resta certa infatti la definizione corrente ed ovvia che ho detto, ossia: teismo è affermare Dio; ateismo è negarlo. Per questo resta vero che c’è in gioco una questione di verità. E resta essenziale la questione se è possibile provare razionalmente che Dio esiste e, se possibile, come farlo. Ed è importantissimo determinare il concetto del vero Dio.

Tuttavia atei e teisti possono essere rappresentati anche dalla parabola del padre che comanda ai suoi due figli di andare a lavorare nella vigna: «“Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: “non ne ho voglia”. Ma poi, pentitosi, ci andò» (Mt 21, 28-30). Qual è l’ateo? E qual è il credente?

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 3 novembre 2023


 
È vero che al di fuori dell’essere nulla esiste. Ma l’essere non è solo l’essere eterno e necessario, per cui occorre notare che al di fuori dell’essere eterno ed immutabile, esiste l’essere contingente, mutevole e temporale. Severino ha il concetto dell’ipsum Esse e con ciò possiamo dire che ha il concetto giusto dell’essenza di Dio. Ma poi, identificando l’essere come essere, con l’ipsum Esse, perde di vista che l’ente contingente è creato dall’ente necessario. Non si accorge che il produrre l’essere dal nulla è l’atto proprio dell’ipsum Esse e che il concetto del creare come creatio ex nihilo non è affatto contradditorio, non comporta la confusione dell’essere col non essere, ma è il passaggio dall’essere possibile all’essere attuale. 

Il Dio di Severino è un Dio impotente che non può creare perché non ammette la possibilità di un essere inferiore al suo, un essere per partecipazione distinto dal suo essere, che è essere per essenza. Quindi il suo Dio non giustifica l’esistenza del mondo, ma non è altro che il mondo trasformato in apparizione finita di Dio, quindi siamo nel panteismo.

Per Rahner noi giungiamo a sapere che Dio esiste non partendo dall’esperienza delle cose e scoprendo, nella linea di Rm 1,20, che esse, per esistere, hanno la necessità di essere causate da un Ente causa prima, che esista per sua stessa essenza, ma in forza della predetta esperienza trascendentale. 

Egli col suo discorso si allaccia evidentemente alla metafisica cartesiana, per la quale noi non giungiamo alla nostra autocoscienza partendo dall’esperienza sensibile delle cose esterne, ma questa conoscenza ci è resa possibile sulla base «dell’autopossesso originario dell’esistenza conoscente e disponente liberamente di sé».

Rahner pretende di fondare questa sua tesi nel passo di Lumen Gentium del Concilio Vaticano II, dove si dice che è possibile una via di salvezza anche per coloro che «non sono giunti ad un’esplicita conoscenza di Dio» (n.16). Egli infatti omologa l’implicita conoscenza di Dio supposta dal Concilio alla sua esperienza trascendentale di Dio, la quale invece non c’entra per niente, perché è chiaro, secondo la sana ragione e la dottrina della Chiesa, che noi arriviamo a sapere che Dio esiste applicando per induzione il principio di causalità e niente affatto in forza dell’esperienza trascendentale rahneriana, che non esiste, e l’ammetterla identificherebbe l’autocoscienza umana con quella divina.

Resta certa infatti la definizione corrente ed ovvia che ho detto, ossia: teismo è affermare Dio; ateismo è negarlo. Per questo resta vero che c’è in gioco una questione di verità. E resta essenziale la questione se è possibile provare razionalmente che Dio esiste e, se possibile, come farlo. Ed è importantissimo determinare il concetto del vero Dio.

Immagini da Internet:
- Emanuele Severino
- Karl Rahner


[1] Vedi la acuta critica di Fabro a Severino nel suo libro L’alienazione dell’Occidente, Edizioni Thor Quadrivium, Genova 1981.

[2] Uno studio recente molto approfondito su Bontadini è quello di Marco Berlanda, L’unica svolta di Bontadini. Dal fideismo attualistico alla metafisica dell’essere, Vita e Pensiero, Milano 2022.

[3] Vedi lo studio di Antonino Postorino, Il concetto di «creatio ex nihilo». Ipoteca nichilistica e rigorizzazione metafisica, in Sacra Doctrina, 1, 2017, pp.199-269.

[4] Cf il mio libro Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009, c.II.

[5] Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline Roma 1978, p.100.

[6] Questo procedimento razionale è indicato anche dal Concilio Vaticano I (Denz.3004).

[7] Ibid., p.102.

[8] Esercizi spirituali per il sacerdote. Iniziazione l’esistenza sacerdotale, Queriniana, Brescia 1974, p.9.

[9] Cf il mio articolo Il criterio della verità in Schillebeeckx, un Sacra Doctrina, 2, 1984, pp.188-205.

[10] Vedi per esempio il Dio di Schelling illustato da Walter Kasper: L’Assoluto nella storia. L’ultima filosofia di Schelling, Jaca Book,Milano 1986.

 

11 commenti:

  1. A livello filosofico non basta dire che Severino ha torto perché il suo Essere non corrisponde al Dio cattolico. Della differenza fra l'essere che appare e quello che non appare parla in lungo e largo. Il discorso è complesso, ma non mi pare che venga affrontato nel suo scritto, ci si limita a contestare le conclusioni. Da parte mia continuo a credere al Dio di san Tommaso sia per fede che per ragione, però qui mi pare che l'Essere di Severino si liquidi troppo facilmente.

    RispondiElimina
  2. Però nell'esempio del cielo stellato non riesco a cogliere la differenza nella quale Severino cerca di inerpicarsi (probabilmente senza nemmeno riuscire a mantenere la coerenza). Anche il fatto che il Severino maturo dica che Dio non è libero, significa subito scadere nel panteismo? Un Dio trascendente deve per forza essere libero?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Anonimo,
      la differenza tra il vero Dio e il Dio di Severino possiamo rilevarla attraverso l’esempio del cielo stellato. Egli se ne serve non per distinguere realmente il cielo stellato da Dio, che lui chiama Essere, ma per spiegarci come lui interpreta quel fenomeno che noi chiamiamo il divenire, che egli giudica contradditorio. Da questo esempio risulta come egli sostituisce la generazione e la corruzione rispettivamente con l’apparizione e la scomparsa. Questa, secondo lui, è la verità.
      Per quanto riguarda il rapporto con l’Essere, le stelle rappresentano gli enti, i quali sono eterni, perché sono diverse apparizioni del medesimo Essere, che è necessario.
      Invece il vero Dio produce gli enti come causa efficiente, facendoli passare dal non-essere all’essere, in modo tale che non sono delle semplici apparizioni di Dio, ma delle vere e proprie sostanze, distinte dalla sostanza divina; loro, contingenti e temporanee, Egli invece necessario ed eterno.
      Ma il guaio è che Severino non coglie il passaggio dal non-essere all’essere e lo intende come contradditorio, perché non sa distinguere il prima da un poi. Infatti egli nega l’esistenza del tempo, che comporta appunto un prima e un poi.
      Per quanto riguarda la questione se Severino si contraddice, dobbiamo dire che purtroppo cade in contraddizione, perché, se veramente esistesse solo l’Essere, uno, eterno, immutabile e necessario, diventa contradditorio ammettere l’esistenza di enti molteplici, temporanei, mutevoli e contingenti. Questa contraddizione dipende dal fatto che egli non ammette l’analogia dell’essere, che gli consentirebbe di ammettere la coesistenza dei primi attributi o predicati con i secondi. Ed inoltre gli manca il concetto platonico di partecipazione, che gli avrebbe consentito di distinguere l’Essere per essenza (esse a se) di Dio, Essere necessario, dall’essere per partecipazione (esse ab alio) proprio degli enti contingenti.
      In tal modo egli deve considerare eterni tutti gli enti e li presenta come necessari. E questo è puro panteismo.
      Per quanto riguarda la libertà divina, è logico che Severino la neghi, dal momento che ammette soltanto l’essere necessario. Infatti, il libero arbitrio corrisponde all’essere contingente, perché chi agisce liberamente non è necessitato a scegliere questo piuttosto che quello.
      Ora, è vero che questo dinamismo avviene in noi creature. Resta la domanda come è possibile questo dinamismo, che sembra essere incompatibile col fatto che Dio faccia delle scelte. Si tratta di interpretare il libero arbitrio non con la pretesa di comprendere il mistero divino, ma considerando gli effetti della sua libera volontà nei nostri confronti. Noi cioè constatiamo in noi stessi gli effetti di questa volontà, effetti che sono molti e diversi tra di loro. Da qui, come la stessa Bibbia si esprime, ricaviamo il concetto delle scelte divine.
      Ma se tentiamo di considerare Dio in se stesso, dobbiamo dire che egli è tale per cui in lui la necessità coincide con la libertà essendo semplicissimo, per cui, con un unico atto nello stesso tempo libero e necessario, che coincide col suo essere, produce tutte le cose e tutti i movimenti di tutti gli enti, che egli crea e che sono gli effetti della sua volontà e della sua provvidenza. Questo produrre costituisce ciò che la Bibbia chiama le scelte, le chiamate, gli interventi, le parole di Dio, l’agire di Dio.
      Dio è libero, perché non è obbligato a creare quelle date cose; ed è necessario, perché è la spiegazione di ciò che è contingente e che Dio ha creato.
      Il Dio trascendente è necessariamente libero per il semplice fatto che è il creatore della nostra libertà e l’effetto, cioè la libertà della creatura, deve essere precontenuto virtualmente nella causa.
      La differenza tra la libertà divina e la libertà della creatura, angelo e uomo, consiste nel fatto che, mentre Dio sceglie sempre il bene, perché Dio è pienezza di essere e il bene viene da ciò che è pienamente buono, la creatura invece può scegliere anche il male, che è privazione o mancanza del bene dovuto.

      Elimina
    2. Riguardo agli enti molteplici e temporanei, ho l'impressione che ragionando sul tempo sia più difficile trovare la contraddizione, perché il tempo è un concetto più fumoso, invece riguardo al molteplice è più facile (in fondo anche vero e falso sono una forma di molteplice). Grazie per la sua risposta, è sempre un piacere leggerla.

      Elimina
    3. Caro Anonimo,
      il concetto di tempo non è affatto fumoso, ma è stato rigorosamente definito da Aristotele come numerazione del divenire secondo il prima e il poi. In base a questo concetto si può dimostrare che Severino si contraddice, perché da una parte è impossibile ignorare il tempo e non vivere nel tempo, dato che siamo soggetti materiali, posti nello spazio e nel divenire. Tutti noi infatti abbiamo una storia ed è evidente che la nostra vita è un succedersi di avvenimenti, per i quali da un passato ci è venuto il presente e dal presente ci muoviamo verso il futuro. Neppure Severino può sfuggire a questa realtà, per cui, negando l’esistenza del tempo, egli si contraddice.
      Quanto alla molteplicità, certamente è un fatto metafisico, che Severino, come del resto Parmenide, non riesce a spiegare, perché gli manca la nozione analogica dell’essere, che connette l’uno con i molti.
      Invece nel monismo assoluto di Severino non c’è spazio per la molteplicità delle sostanze, ma solo per una molteplicità delle apparizioni dell’Essere, senza poter raggiungere la loro dignità ontologica.

      Elimina
    4. Già parecchio prima di Severino è iniziata a circolare l'idea che non possiamo provare che il mondo non sia stato creato cinque minuti fa, includendo fin dal principio tutti i nostri ricordi di una storia che non ha mai avuto luogo (compresa la storia di questa idea). Severino più che sposare questa tesi, afferma che non è vero che percepiamo il pezzo di legno trasformato in cenere, ma che li percepiamo come enti distinti senza avere la certezza della relazione fra di loro. Poi ci si è messa sopratutto la fisica moderna, affermando che otto minuti fa, il futuro per il sole era già scritto, infatti la sua luce sarebbe arrivata a noi otto minuti dopo.

      Elimina
    5. Caro Anonimo,
      ho notato nel suo discorso il riferimento ad argomenti molto interessanti e anche al pensiero di Severino.
      Solo che devo dirle francamente che le sue proposizioni non sono logicamente connesse tra loro ed alcune sono strane ed incomprensibili.
      Sono pronto ad ascoltarla, ma, affinché io possa dare un parere su quello che lei dice, avrei bisogno che lei rivedesse il suo testo e lo mettesse in ordine, così da organizzare un discorso che abbia un filo logico, centrando un tema preciso.

      Elimina
    6. Allora mi soffermo solo sull'ultimo punto. Un raggio di sole ci mette circa 8 minuti a raggiungere la Terra. Se a metà strada ci fosse un osservatore in teoria potrebbe vedere sia il raggio partire che noi sulla Terra che diciamo che il raggio arriverà fra 8 minuti e dire che i due eventi sono simultanei. In effetti questa è la definizione convenzionale di simultaneità adottata nella teoria della relatività. Solo che potrà dirlo 4 minuti dopo che i fatti sono avvenuti. A me pare che questo stravolga il concetto di simultaneità a cui siamo abituati e quindi anche il concetto di prima e poi.

      Elimina
    7. Caro Anonimo,
      se ho ben capito, la simultaneità riferita all’osservatore a metà strada consisterebbe nel fatto che egli nello stesso tempo percepisce la luce che giunge dopo 4 minuti e vede coloro che sulla terra vedranno la luce dopo 4 minuti. Costoro vedranno la luce dopo 8 minuti.
      Quindi la simultaneità dovrebbe consistere nella simultaneità dei 4 minuti con gli 8 minuti. Ciò, come lei dice, dovrebbe infirmare il principio del prima e del poi. Ora io osserverei che la simultaneità, che si riferisce alla visione dell’osservatore a metà strada, non è una simultaneità reale, anche se egli sa che la luce gli è arrivata da 4 minuti e arriverà sulla terra dopo 4 minuti, quindi in 8 minuti.
      Infatti, stando a come realmente si realizzano le cose, la simultaneità è soltanto nella mente dell’osservatore, ma non nella realtà, perché nella realtà ai 4 minuti si aggiungono altri 4, per cui prima c’è la prima quaterna e poi c’è la seconda quaterna.
      Potremmo parlare di simultaneità nella mente dell’osservatore anche scegliendo un qualunque altro numero tra lo 0 e l’8. Faccio notare che la differenza tra i momenti del tempo dipende dal movimento della luce nello spazio.

      Elimina
    8. Quindi l'osservatore percepisce il divenire, ma qual è la simultaneità reale?

      Elimina
    9. Caro Anonimo,
      come ho detto, bisogna distinguere una simultaneità pensata da una simultaneità reale.
      Quella pensata è quella che si trova nella mente dell’osservatore, per il quale i 4 minuti relativi a lui sono simultanei agli 8 minuti relativi agli abitanti della terra.
      Considerando come vanno le cose nella realtà, che è esterna all’osservatore, dobbiamo dire che l’esperienza dell’osservatore non è simultanea a quella degli abitanti della terra, perché la luce arriva prima a lui e dopo arriva a loro. Quindi non c’è nessuna simultaneità reale, ma c’è un succedersi del moto della luce a lui, al quale moto succede il moto della luce verso gli abitanti della terra.

      Elimina

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.