Qual è il
motivo della negazione del peccato originale?
Seconda
parte
Virgo sine peccato originali
concepta
La
visione di Teilhard de Chardin[1]
Un errore
dell’evoluzionismo teilhardiano sta nel concepire Cristo come vertice o «Punto
Omega» della evoluzione ascendente del cosmo, sta nel credere che tale
evoluzione sia una «Cristogenesi», che parte dalla materia e si eleva allo spirito
come «trasformazione» ed «autotrascendenza» della materia, intesa come preesistente
alla creazione divina, che sarebbe un semplice metter ordine nella materia. Dio
è in alto, ma proviene dal basso. Osserviamo
che non è così. Dio è in alto sin dall’inizio, ab aeterno, perché nulla salirebbe, se non ci fosse Dio ad
innalzarlo.
Altro errore
di Teilhard è l’assenza del dogma dello stato edenico dell’uomo e quindi del
peccato originale. Egli non prende assolutamente in considerazione il racconto genesiaco
della creazione dell’uomo e, ponendosi solamente da un punto di vista scientifico,
crede di poter risolvere il problema dell’origine dell’uomo e del male, solo
con questo metodo, senza tener conto dell’aspetto metafisico e di fede, ed anzi
egli opera sulla base di una metafisica materialista.
In base alle
precedenti considerazioni, dobbiamo dire che la teoria della derivazione
dell’uomo dalla scimmia, benché accolta da quasi due secoli negli ambienti
scientifici, è in realtà incompatibile con il racconto genesiaco della
creazione dell’uomo nell’Eden, perchè non è pensabile che la coppia edenica,
nelle condizioni di altissima perfezione propria dell’Eden, possedesse un corpo
scimmiesco, la cui dignità è di molto inferiore a quella del corpo umano
odierno, che pur vive nello stato di natura decaduta.
A maggior
ragione non è assolutamente conveniente immaginare nell’Eden, dove l’uomo era
perfettissimo, una corporeità inferiore a quella nostra attuale, che è pur
propria della natura decaduta. I reperti paleologici che mostrano un’umanità
scimmiesca sono da considerare monumenti dell’umanità postlapsaria.
In realtà la
detta teoria della derivazione dell’uomo dalla scimmia, purtroppo incautamente
fatta propria anche da Teilhard de Chardin, per quanto largamente accreditata,
tanto da essere entrata nella cultura corrente e nel comune sentire, è una mera
supposizione o immaginazione, senza prove scientifiche e senza la possibilità di averle, e rappresenta un’indebita
interferenza del sapere empirico in un ambito epistemico superiore riservato
alla metafisica e alla fede.
Quanto a
questa terra nella quale viviamo, essa è certamente stata creata da Dio, ma è
una terra decaduta, fatta per ospitare la natura umana decaduta, qual è quella
che possediamo noi oggi. Invece la creazione dell’uomo narrata dalla Scrittura
avvenne nella terra incorrotta, qual era stata creata da Dio per ospitare
l’Eden. Di questa terra parla il Genesi, quando parla della creazione del
mondo. Col peccato originale questa terra si è corrotta, come si è corrotta la
nostra natura ed è quella terra che conosciamo adesso in questa presente vita
La
concezione di Origene
Origene,
influenzato da Platone, ha una visione metafisica altamente spiritualistica, da
una parte con la tendenza dualista del contrasto spirito-corpo propria di
Platone e quindi la difficoltà a capire come nell’uomo anima e corpo
costituiscano una sola sostanza, mentre dall’altra parte troviamo un esagerato
bisogno di unità degli spiriti, che spinge al monismo e quindi a minimizzare le
opposizioni radicali, come quella fra il bene e il male e a dissolvere i molti
nell’uno. Dualista dove dovrebbe unire; monista, dove dovrebbe opporre.
Come è noto,
l’idea di una persistenza eterna del male di pena nell’inferno gli ripugna; non
gli sembra consona alla bontà divina e quasi una sconfitta di Dio davanti al
male. Egli non sa vedere la vittoria di Dio se non in una totale estinzione del
male, per cui resta solo il bene. Ma questo non è il piano di Dio.
Eppure Origene
non esita a trarre la sua conclusione, senza temere di opporsi a quella Sacra
Scrittura, che pure era la pupilla del suo occhio. Da qui il famoso «perdono
divino ai dannati», diavoli e uomini. Non comprende che è maggior vittoria sul male
il sottometterlo al bene, piuttosto che il farlo sparire, anche se certo non si
tratta del male di colpa, ma di quello di pena. La prevalenza del bene sul male
è un maggior bene che il bene da solo. Questo almeno è il piano divino della
Rivelazione.
Spiritualista
com’è, Origene non ha difficoltà a riconoscere la creazione degli angeli nell’immagine
della «luce» (Gn 1,3-4), e ad accettare che il peccato degli angeli (II Pt 2,4;
Ap 12, 7-9) avviene prima del peccato dell’uomo. Infatti la Rivelazione ci
informa sul fatto che il peccato originale di Adamo ed Eva è stato preceduto
dal peccato degli angeli ribelli[2],
del quale non parla il Genesi, ma ne
parlano l’Apocalisse (Ap 12, 7-9):
«scoppiò una guerra in cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il
drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non
ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui
che chiamiamo diavolo e Satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato
sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli» e San Pietro:
«Dio non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi
tenebrosi dell’inferno, serbandoli per il giudizio» (II Pt 2,4). È evidente che
se il serpente genesiaco ha da Dio il permesso di entrare nientemeno che
nell’Eden, per tentare i progenitori, ciò significa che la ribellione degli
angeli è già avvenuta.
Questo
importantissimo accadimento degli inizi della storia sacra è stato dogmatizzato
nella professione di fede del Concilio Lateranense IV de 1215 (Denz.800) contro
gli Albigesi e i Catari:
«Il diavolo
e gli altri demòni sono stati certamente creati buoni da Dio, ma da sé stessi
si sono fatti malvagi. L’uomo in verità ha peccato per suggestione del
diavolo».
Nessun
problema per Origene il riconoscere che il peccato originale guasta l’opera del
Creatore, ma non fino al punto da impedire l’opera divina della riparazione,
della redenzione e della ricapitolazione finale in Cristo di «tutte le cose, quelle
del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10), affinché «nel nome di Gesù ogni
ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» (Col 2,10).
Non si
tratta, però, come credette Origene, sedotto da una fascinosa concezione
gnostica monista, rintracciabile ancora in Hegel, della perfetta ricomposizione
o restaurazione (apokatàstasis, un fraintendimento
dell’anakefalàiosis di Ef 1,10) dell’Unità
divina originaria dopo la scissione della creazione, del male e del peccato.
Bisogna dire
invece che non è che la creazione venga riassorbita in Dio, così che alla fine
del processo circolare di uscita e ritorno resti solo Dio, come era prima della
creazione, ma il mondo creato, distinto da Dio, resta in eterno – beati e
dannati - sotto il governo di Dio e
insieme con Dio, perché la bontà di Dio, nel piano divino rivelato, non prevede l’annullamento di ogni forma di
male e il perdono di tutti i peccatori, angeli e uomini, ma il premio ai buoni e
il castigo ai malvagi, che comporta effettivamente un male di pena per i
puniti, sicché la vittoria divina finale e definitiva sul male è il dominio di Cristo sui suoi nemici
(I Cor 15,25; Eb 10,13; Ap 19,20 e 20,10).
Il fatto che
non tutti corrispondano all’offerta della salvezza non vuol dire, come alcuni
credono, che l’opera della Redenzione sia in parte fallita, ma che essa si è
pienamente realizzata, perché, se alcuni la rifiutano, non vuol dire che Cristo
non abbia fatto tutto quello che doveva fare, ma che la colpa del fallimento in
loro dell’opera di Cristo è solo la loro.
Il
giudizio di Kant sul peccato originale
Da Kant ha
origine l’interpretazione razionalistica ed atemporale del racconto del peccato
originale, interpretazione che giunge fino a Rahner e al Card. Ravasi, per cui
il racconto genesiaco viene inteso come «mito eziologico», non quindi nel senso
che affermi che il peccare attuale dell’uomo vada riallacciato a un peccato
commesso alle origini dell’umanità – impresa giudicata da Rahner disperata – ma
per spiegare lo stesso peccare attuale dell’uomo.
Parlando del
peccato come effetto del libero arbitrio, così ragiona Kant:
«allorquando
l’effetto è riferito ad una causa, con cui tuttavia sia congiunto secondo le leggi
della libertà, come nel caso del male morale, la determinazione dell’arbitrio a
produrlo è pensata in collegamento con un principio determinante l’effetto non nel
tempo, ma solo nella rappresentazione razionale e tale determinazione non può derivarne
come da un qualunque stato anteriore».
E conclude:
«Qualunque
possa essere l’origine del male morale nell’uomo, è certo che fra tutte le maniere
di rappresentare la diffusione del male e la sua propagazione in mezzo a tutti
i membri della nostra razza, la più sconveniente è quella di rappresentarci il male
come una cosa che ci viene per eredità dai nostri primi parenti».[3]
Kant aveva
le idee chiare sulla componente spirituale, di razionalità e di libera volontà dell’atto
umano, di per sé sovratemporale, ma nel tentativo di spiegare l’origine del
male morale, ossia del peccato, resta fermo alla sua concezione della
indipendenza dal tempo dell’atto del libero arbitrio in quanto atto dello spirito,
concezione in sé giusta a livello di etica razionale, ma che la fede ci obbliga
ad adattare a quel peculiare concetto di peccato, che è supposto nel dogma del peccato
originale.
Per non sapersi
elevare dal piano della ragione a quello della fede, Kant non riesce a comprendere
e ad accettare il riferimento temporale della
colpa contenuto nel dogma del peccato originale e non riesce quindi a capire il
legame della colpa originaria col tempo passato, perché evidentemente non
conosce o non accetta l’insegnamento tridentino sulla propagazione della colpa nel
tempo da Adamo fino a noi,
propagazione che non mette assolutamente in discussione che il peccato dei
progenitori sia stato un atto del loro libero arbitrio.
Egli inoltre
s’immagina che il dogma del peccato originale implichi che noi dobbiamo
sentirci responsabili della colpa di Adamo. Ma le cose non stanno affatto così.
Non si tratta affatto di dover render conto della colpa di Adamo. Noi dobbiamo
render conto dei nostri peccati personali, dei quali soli siamo responsabili. E
secondo la nozione naturale di peccato, noi siamo colpevoli solo dei nostri
peccati personali, non di peccati commessi da altri.
Su questo
punto Kant ha ragione. Il suo torto è quello di pretendere di confutare con la
sola ragione una verità rivelata soprannaturale, qual è il concetto di peccato
coinvolto nel dogma del peccato originale, il quale peccato ha questo di peculiare,
che lo differenzia dalla nozione di peccato propria dell’etica razionale, e
cioè che noi siamo colpevoli, ma non
responsabili di questo peccato. Lo abbiamo sì commesso noi, ma non come
singoli, bensì in quanto membri della natura umana comune a tutti gli uomini.
La nozione
di peccato originale ci obbliga, quindi, in base alla fede e non alla sola ragione,
a distinguere nel peccato la colpa
dalla responsabilità. Ne siamo
colpevoli, benché non ne siamo responsabili. La colpa può essere cancellata da
Dio. La responsabilità, invece, obbliga a riparare il male fatto. Sono due
proprietà diverse del peccato, che però, nella nozione razionale del peccato,
stanno sempre assieme. Invece nel caso del peccato originale si separano nel
modo che stiamo vedendo. Non siamo quindi tenuti a riparare al peccato
originale, sarebbe al di sopra delle nostre forze limitate e ferite dal
peccato, e non ci compete neppure; però ciò non toglie che ne siamo colpevoli e
quindi castigati con le pene della vita presente e abbiamo bisogno di
riconciliarci con Dio, grazia che ci è concessa dalla Redenzione di Cristo, il
quale, con la sua forza divina, rimedia per noi a quel danno immenso che ci
siamo procacciati senza riuscire a ripararlo da soli.
Kant, dal
canto suo, ha ritenuto impossibile che noi possiamo essere responsabili di un
peccato commesso da altri; e in ciò ha ragione. Ciò vale anche per il peccato
originale, benché, secondo la fede, in Adamo ed Eva (Rm 5,12) lo abbiamo commesso
anche noi e ne portiamo quindi la colpa. Ma, sempre secondo la fede, non l’abbiamo
commesso noi nel senso che non abbiamo commesso quell’atto singolo che hanno commesso Adamo ed Eva, perché quello è solo loro;
infatti sarebbe cosa impossibile, perché un
atto morale singolo è solo del singolo, e qui Kant ha ancora ragione, senonché,
però, la fede ci dice che la colpa del peccato si è propagata per generazione da loro fino a noi. Ed è qui che
purtroppo Kant non arriva perché gli manca la fede nel dogma e crede
erroneamente che sia assurdo. Questo invece è l’aspetto misterioso, che supera
quanto la sola ragione può capire del peccato e della colpa del peccato, e che
può essere accolto solo per fede.
La nozione
di peccato originale entra nella nozione generale di peccato come disobbedienza
volontaria e quindi colpevole, alla legge divina, e quindi resta questo di comune
del peccato originale col concetto generale di peccato, che esso deve esser scontato
e riparato, perché, come ogni peccato resta sempre un’offesa a Dio. Esso viene
riparato dal Battesimo, grazie alla Redenzione di Cristo.
Considerando
la speciale essenza del peccato originale, si deduce che non solo la natura singola,
ma la natura specifica può essere un soggetto agente. Quindi essa non è solo
ciò per cui o in cui il soggetto sussiste, ma può essere essa stessa soggetto
sussistente. Ossia la persona non è solo il singolo, ma può essere la stessa natura
umana specifica.
Ma Kant, sempre
per non aver accettato il dogma del peccato originale, non si rende neppur conto
della gravità della malizia del peccato e della incapacità dell’uomo peccatore
di risorgere da tale condizione di miseria con le sue sole forze. Egli la fa facile,
come se, tutto sommato, per eliminare le cattive azioni, bastasse che il libero
arbitrio invertisse la sua inclinazione da malvagia a buona. Secondo lui non
occorre altro; non occorre una speciale rivelazione divina per indicarci la via
per venirne fuori o un soccorso soprannaturale per darci la forza sufficiente.
E invece la
fede ci dice che le cose stanno ben diversamente. Ci dice che sì, come ogni
colpa, anche la colpa che contraiamo come figli di Adamo consiste in un atto
del libero arbitrio, col quale rompiamo il nostro rapporto con Dio. Ma per
ricostruire e riallacciare questo rapporto o, come si esprime Kant, per la
«vittoria del buon principio», non basta che noi ci impegniamo a cambiar
direzione con le nostre semplici forze, convertendo al bene la volontà fatta cattiva,
ma occorre recuperare la grazia divina, che abbiamo perduto, grazia della quale
Kant non sa nulla.
Il guaio
umanamente irreparabile che viene dal peccare, e del quale Kant non si rende
conto, è che assumiamo un atteggiamento di ostilità verso Dio, sicché Egli è
adirato con noi e, anche volendolo, non riusciamo da soli a far pace con Lui, se
non è Lui a venirci incontro proponendoci di far pace con l’offrirci in Cristo
la grazia necessaria perchè ciò avvenga. Questa grazia, per quanto riguarda il
peccato originale, è il Battesimo con tutte le grazie che ad esso seguono e che
in esso sono virtualmente contenute.
Come poi sappiamo dalla Rivelazione, e
constatiamo dalla stessa esperienza, ereditiamo anche le conseguenze penali del
peccato originale: l’inclinazione al peccato, la quale, però, come insegna il
Concilio di Trento, può essere gradualmente vinta con l’esercizio costante della
vita ascetica: «nei battezzati rimane la concupiscenza o fomite, la quale, restando
per l’agone, non nuoce a coloro che non consentono contrastandola virilmente
per mezzo della grazia» (Denz.1515).
Altri
accenni della Scrittura al peccato originale
È vero che
se l’Antico Testamento parla molto di peccati e castighi divini, non troviamo
più riferimenti espliciti al peccato originale dopo quelli del Genesi. Esso è chiaramente presupposto o
sottinteso come origine prima e spiegazione ultima delle innumerevoli
disavventure, sciagure e sofferenze, dalle quali sono colpiti i personaggi, le
nazioni e i popoli della Scrittura.
Anche nel
Libro di Giobbe, che pure avrebbe
potuto essere un’occasione per rivelare almeno le conseguenze del peccato
originale, curiosamente Giobbe non sembra sapere che, pur con tutta la sua
innocenza, anch’egli è un figlio di Adamo peccatore, per cui, se non è conscio
di peccati personali, almeno dovrebbe sapere che deve scontare le conseguenze
del peccato originale.
Ed è strano che
anche nella risposta alle sue lamentele e proteste, Dio non gli ricordi che le
pene di questa vita sono una conseguenza del peccato originale, ma si limita a
rimproverare Giobbe di voler giudicare il suo operato e lo esorta ad aver
fiducia nelle sue decisioni, benché apparentemente ingiuste.
Davanti
all’atto di sottomissione e di fiducia di Giobbe e di pentimento per la sua
impertinenza, Dio lo loda e gli restituisce in maggior abbondanza tutto quello
che aveva perso. All’inizio della sua disavventura Giobbe pronuncia le famose sagge
parole: «il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del
Signore!» (Gb 1,21) e: «se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo
accettare il male?».
Come a dire:
se Dio manda una sventura, dobbiamo anche in essa vedere la sua bontà, anche se
non sappiamo il come. Ma non appare chiaro che la sventura sia il castigo del
peccato. Giobbe non si sente peccatore, ma innocente. Tuttavia accetta
volentieri che Dio faccia soffrire un innocente, anche se non sa perchè. Non c’è
il tema isaiano del servo sofferente (cc.53-54). Tuttavia Giobbe è stato visto come
una figura di Cristo, che ha sofferto da innocente sopportando e restando nella
pace e nella fiducia in Dio. Ad ogni modo, non una parola sul castigo del
peccato originale, né in Giobbe, né in Dio.
Quanto al
Libro della Sapienza, dice già tutto
in una sentenza lapidaria: «la morte è entrata nel mondo per invidia del
diavolo» (Sap 2,24). Non si può fare a meno di collegare questa sentenza col ricordo
del serpente genesiaco. Un chiaro riferimento alla sentenza del Libro della Sapienza sul diavolo come origine prima
del male si trova nell’appellativo dato da Cristo al diavolo come «omicida fin
da principio» (Gv 8,44) e «padre della menzogna» (v.45).
Molti passi
poi dell’Antico Testamento affermano chiaramente l’universalità della tendenza
di tutti gli uomini a peccare e
addirittura della stessa loro malvagità. Come mai? Da dove viene? L’iniziatore
è il demonio. Ma come sono andate esattamente le cose? Ci voleva poco ricordare
il racconto del Genesi. Eppure niente. Leggiamoli:
«Nel peccato
mi ha concepito mia madre» (Sal 51,7): l’uomo nasce nel peccato, nasce
peccatore. Più volte la Scrittura
insiste sul fatto che siamo tutti peccatori: «chi può dire: sono mondo dal mio
peccato?» (Pr 20,9); «tutti hanno traviato, sono tutti corrotti; più nessuno fa
il bene, neppure uno» (Sal 14,3; 53,4); «non c’è nessuno che non pecchi» (I Re
8,46); «ogni uomo è inganno» (Sal 116,11); «nessun vivente davanti a te è
giusto» (Sal 143,2); «siamo divenuti tutti come una cosa impura» (Is 64,5); «se
diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi» (I Gv 1,8).
Questa
presenza e diffusione del peccato in tutti gli uomini non può che esser segno
della diffusione per generazione di un’unica colpa, che è appunto il peccato
originale. Diversamente, non si spiegherebbe tale universalità, dato che ogni
uomo possiede il libero arbitrio, col quale può fare anche il bene. Dev’esserci
una colpa che si trasmette indipendentemente dal libero arbitrio. E questa
colpa è la colpa originale.
La
diffusione universale della colpa originale non ha niente a che vedere con
un’infezione che tocca la natura umana come tale, ma è una semplice universalità
di fatto e accidentale, che in linea di principio può scontrarsi con individui
umani sui quali non riesce a far presa, quasi che abbiano, per così dire, delle
difese immunitarie.
Per dirla
con San Tommaso, è un peccatum naturae,
nel senso già visto che è come se ad agire fosse la specie e non l’individuo;
ma non è necessariamente una infectio
naturae, come se necessariamente tutti gli individui dovessero essere
contaminati. E difatti c’è l’eccezione di Gesù Cristo e della Madonna: Gesù, in
forza dell’unione ipostatica della sua natura umana con la Persona del Verbo,
mentre Maria SS.ma, come è noto, fu preservata dalla colpa originale in
previsione dei meriti del Figlio.
E così pure
il Vangelo non parla mai esplicitamente del peccato originale, anche in quei
passi dai quali Gesù poteva benissimo prendere spunto per fare un accenno al
castigo del peccato originale, come nell’episodio del cieco nato (Gv 9) e in
quello della torre di Siloe (Lc 13, 1-5), dato che il tema era il castigo del
peccato. Tuttavia il riferimento a persone che soffrono da innocenti – il cieco
nato - o senza gravi peccati – i 18 che muoiono per il crollo della torre -,
che può significare se non che persone perfettamente innocenti non esistono,
appunto perchè soffrono e la sofferenza è una conseguenza del peccato
originale?
Anche se la
dottrina del peccato originale, dopo il racconto del Genesi, appare per lo meno
accantonata e quasi dimenticata, è chiaro tuttavia che essa è un tacito
presupposto, che dà senso e giustifica tutto
l’insegnamento, la condotta e l’opera di Cristo, fondamentalmente tesa alla
denuncia e alla condanna del peccato e dell’umana inclinazione al male, alla
lotta e vittoria contro il peccato, contro i vizi e contro Satana, il suo primo
ideatore ed autore, alla liberazione dell’uomo dal peccato, al sacrificio di Sé
per la remissione dei peccati.
E come quasi
tutta la Scrittura, dopo la notizia genesiaca del peccato originale sembra lasciarlo
poi sempre in ombra o in sordina, destando in noi un certo stupore per tale
trattamento riservato a un tema così importante, tema che è il perchè stesso
della Bibbia, tema sul quale solo la Bibbia dà una risposta decisiva per tutta
l’umanità, altrettanto ci stupisce l’esplosione di questa dottrina simile a una
bomba, nel pensiero di S.Paolo, sicché abbiamo la netta impressione che nella
Bibbia su questo tema ci sia come un balzo di secoli e millenni dal Genesi a S.Paolo.
P. Giovanni
Cavalcoli
Fontanellato,
26 maggio 2020
[1] M.-J.Nicolas, Evoluzione e cristianesimo. Da Teilhard de Chardin a San Tommaso
d’Aquino, Editrice Massimo, Milano 1978. Karl Rahner sposa le tesi di
Teilhard de Chardin: Il problema dell’ominizzazione,
Morcelliana, Brescia 1969.
[2] C.Journet-J.Maritain-Philippe de la Trinité,
Le péché de l’ange. Peccabilitè, nature
et surnature, Beauchesne, Paris 1961.
[3] La
religione entro i limiti della sola ragione, Editori Laterza, Bari 1985, pp.41-42.
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