Come comportarsi nelle calamità collettive


Come comportarsi nelle calamità collettive

Vi castiga per le vostre ingiustizie,
ma avrà misericordia per tutti voi
Tb 13,5

Una natura buona o cattiva?

I cristiani, sin dai primi tempi del cristianesimo, proseguendo una tradizione già praticata dal popolo ebraico con l’aiuto dei profeti, hanno sempre mostrato al mondo e all’umanità smarrita dalla sventura o indignata o inebetita per le disgrazie patite o sviata dal peccato, la luce preziosa e il conforto consolante che viene dalla loro fede, anche se su questi punti tanto delicati della vicenda umana la Parola di Dio dev’essere rettamente interpretata per non scandalizzare e causare effetti controproducenti.

Tra le molte sventure che colpiscono l’umanità in questo mondo, oltre a quelle causate dalla malvagità o dalla fragilità o dall’imperizia o dall’insipienza umana, delle quali possiamo comprendere le ragioni o le cause, che in linea di principio si possono evitare o togliere, alle quali in certo modo possiamo rimediare e dalle quali spesso possiamo difenderci, giacché si tratta di cose in nostro potere,  esiste un altro genere di sventure indipendenti da noi e ben più gravi, distruttive, spaventose, imprevedibili, incontrollabili, invincibili ed irreparabili, nonostante le più raffinate misure e cautele che possiamo adottare per difendercene o per impedirle. E queste sono i danni che ci vengono dalle forze della natura. 

Noi siamo abituati ad ammirare e a cantare le bellezze e le meraviglie della natura, ad essere grati ad essa per il nutrimento e la protezione che ci dà, per l’utilità dei suoi prodotti e dei suoi frutti, per i benefìci del clima e dell’ambiente, per le risorse del sottosuolo, della terra, dei mari, dei monti, dei fiumi e dell’atmosfera, per i materiali che offre per la nostra arte e per la medicina, per le energie che possiamo usare per la nostra tecnologia. 

Ma nessuno può negare che la «madre» natura, insieme a questi benefìci impagabili che ci garantiscono non solo il nostro benessere, ma la nostra stessa esistenza, ci riserva,  poi, a volte, quando meno ce l’aspettiamo, un volto truce e terribile, diremmo crudele, una spaventosa e distruttiva ostilità, una totale indifferenza alla nostra sofferenza, come se a lei noi non interessassimo per niente, cose tutte che ci spingono a formulare alcune angosciate domande: come mai? Perché questo bizzarro alternarsi di bontà e cattiveria? 

La natura è una specie di suocera bisbetica, che cambia umore da un momento all’altro? A che serve cercare di dominare e di utilizzare razionalmente la natura e sforzarci di rispettarla e di andare d’accordo con lei, se poi deve farci delle parti del genere? Qual è la causa prima di tutto ciò? Perché la natura ce l’ha con noi? Cosa abbiamo fatto di male? 

Ma la domanda più terribile è questa: se Dio è il creatore della natura, se è Lui che ne ha costituito le leggi e ne governa il funzionamento, allora questa cattiveria della natura da dove viene in ultima istanza? L’effetto non dipende dalla causa e non è simile alla causa? Se l’effetto è nocivo, vuol dire che la causa è nociva. 

La risposta degli atei

Questo ragionamento, che fanno gli empi e gli atei, sembra logicamente ineccepibile. Da qui la bestemmia, la maledizione e l’invettiva contro Dio, come quella dei peccatori ribelli ed ostinati, sui quali piombano quei flagelli, dei quali parla l’Apocalisse al cap.16. Questi flagelli – racconta l’Apocalisse – che dovrebbero servire al loro ravvedimento, purtroppo non contano nulla ed essi fanno ancora peggio. 

Questo succede a chi non sa fare una lettura saggia, ossia di fede, del senso delle sventure che ci capitano. Ed anche oggi rischiamo le cose vadano per noi allo stesso modo. Ma oggi non ci sono solo quelli che bestemmiano e danno la colpa a Dio, ma anche quelli che vedono negli sconvolgimenti e nell’ostilità della natura verso di noi la semplice applicazione delle sue leggi necessarie, che in se stesse sono un bene assoluto, perché l’Assoluto è la stessa Natura, come si dà nel panteismo naturalista di Spinoza o nel relativismo scientista assoluto di Auguste Comte o nell’evoluzionismo di Teilhard de Chardin o di Bergson. 

Nell’ateismo marxista, invece, l’ostilità della natura è solo il polo dell’alienazione dialettica dell’uomo nella natura, dialettica che si risolve nell’«umanizzazione della natura» e nella «naturalizzazione dell’uomo», compito che sarà della futura umanità comunista della conciliazione dell’uomo con la natura. Qui non è Dio che concilia l’uomo con la natura per aver riconciliato in Cristo l’uomo con Sé. 

Ma al posto di Dio è l’uomo stesso, «Dio per l’uomo», che riconcilia la natura con sé stesso, superando l’opposizione dialettica uomo-natura. Quindi in Marx l’opposizione della natura all’uomo non è conseguenza di un peccato commesso dall’uomo contro Dio, ma non è altro che un momento del processo dialettico necessario che si conclude con la sintesi uomo-natura operata dall’azione rivoluzionaria politico-sociale di riscatto dell’uomo dal potere della natura e simultaneamente di riappropriazione dell’uomo del suo essere liberato dall’alienazione della sua essenza nella natura. 

Parallelamente e corrispettivamente a questo processo di riscatto dell’uomo dal potere della natura avviene per Marx il riscatto sociale delle classi oppresse dal potere capitalistico-borghese legalizzato nella religione, per la quale l’oppressione capitalistica è rappresentata dal Dio punitore del peccato, che chiede espiazione nella pia accettazione della calamità naturale. 

Tale riscatto sociale non comporta invece per Marx nessuna espiazione nei confronti di un Dio che non esiste, ma richiede la lotta rivoluzionaria contro l’oppressione della natura, della religione e del capitalismo, per la quale è l’uomo prometeico stesso che, nella classe oppressa, libera se stesso dall’alienazione religiosa, economica e naturalistica per riappropriarsi della propria essenza umana sociale e naturale, chiudendo così il circolo dialettico della autoaffermazione assoluta dell’uomo come natura e della natura come uomo. 

La risposta della fede

Elenchiamo alcuni punti. Primo. Dio manda o permette la sofferenza non perché ci provi gusto, ma quasi contro voglia, e tuttavia con un santo proposito: per esercitare la sua misericordia, mettendo alla prova il giusto, affinché si rafforzi nella virtù e per esercitare la sua giustizia correggendo con paterno castigo il peccatore, affinché si ravveda e faccia penitenza. Non chiede a nessuno di più di quanto possa sopportare ed ha pietà di quanti non ce la fanno o crollano sotto il peso del dolore.

Secondo. Il primo impulso all’arrivo della sofferenza di prendersela con la natura, come se fosse un soggetto personale malvagio, al quale dare delle colpe, manca evidentemente di qualunque motivazione razionale, poiché la natura non è altro che un insieme di enti materiali viventi e non viventi infraumani e quindi totalmente privi della facoltà di rispondere delle loro azioni, ma mossi ad agire in modo deterministico per legge di natura. Essa dunque, anche ammesso e non concesso che il suo agire fosse equiparabile a quello di un unico soggetto, nel farci del male non avrebbe nessuna colpa, perché l’azione non scaturirebbe da un libero arbitrio, ma da necessità di natura regolata da leggi fisiche.

Terzo. Non c’è dubbio che le leggi della natura sono stabilite da Dio. Anche un terremoto, un’epidemia, un’alluvione, uno tsunami, una frana, una siccità, un uragano, un’eruzione vulcanica, le sostanze velenose viventi o non viventi, le bestie feroci, la caduta di un meteorite, o quant’altro avvengono nella piena obbedienza alla volontà di Dio creatore, ordinatore e governatore della natura e per finalità correttive, penitenziali, espiative, purificatrici o salvifiche.

Quarto. L’ordinamento attuale della natura è strutturato da Dio in modo da costituire un insieme di forze che non rispecchiano più il piano originario edenico, in perfetta armonia con le esigenze dell’uomo, ma le conseguenze del peccato di Adamo, per cui l’uomo peccatore non si trova più in armonia con la natura e questa, guastata dal peccato, non è più in armonia con l’uomo. 

Esse servono a dare corso alla giustizia divina: «Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita: spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Col sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!» (Gen 3,17-19).

Quinto. Le conseguenze del peccato originale colpiscono tutti, buoni e cattivi. Persino Cristo e la Madonna, pur esenti dalla colpa originale, ne hanno assunte alcune, come per esempio la sofferenza e l’ignoranza. Il che comporta che se tali conseguenze appaiono ben collocate nei peccatori, difficilmente se ne vede la giustizia nei buoni e negli innocenti. 

Ma bisogna tener conto del fatto che le conseguenze del peccato originale, essendo conseguenze di un disordine, sono a loro volta disordinate: capitano poche sofferenze a un gran peccatore; invece ne capitano molte ad un innocente. Ma la provvidenza interviene a far ordine nell’al di là: il peccatore si inorgoglisce delle poche sofferenze a va all’inferno, mentre il giusto fa tesoro della sofferenza, ne approfitta per espiare per sé e per gli altri, la trasforma in croce e va in paradiso. 

Sesto. Così nella religione cristiana ha una grande importanza salvifica la sofferenza dell’innocente, ad imitazione della Croce di Cristo, Agnello innocente, che col suo sacrificio ottiene il perdono dei peccati. All’arrivo della sofferenza, dunque, il santo ha certamente un moto naturale di ripugnanza, si adopera per allontanarla o quanto meno alleviarla in sé e negli altri. Ma se essa non può essere evitata, ne fa un’offerta al Padre in Cristo per la salvezza propria e altrui. 

Settimo. La sofferenza, quando arriva, se si può togliere e rischia di diventare insopportabile, in linea di principio va tolta o quanto meno alleviata. Anche senza queste condizioni, però, può essere accettata per amore di Cristo e delle anime, come occasione di penitenza e di espiazione per sé o per altri.

Ottavo. Non tutta la condotta di Dio verso l’uomo si caratterizza con la misericordia, ma esiste un’altra virtù, che consiste nel far giustizia ossia nel castigare, come è detto nel libro di Tobia: «Dio castiga e usa misericordia» (3,2). Si tratta di due virtù opposte, che quindi Dio non esercita simultaneamente, ma in successione, alternativamente, ora l’una, ora l’altra, perché il castigo infligge la pena, mentre la misericordia la toglie. Il castigo abbassa il superbo; la misericordia innalza l’umile. 

Ora effettivamente Dio offre a tutti la sua misericordia, ossia la sua grazia, il che è come dire la salvezza. Ma nel destino dell’uomo giocano un ruolo determinante, anche le scelte del libero arbitrio, per cui la misericordia è per coloro che accolgono la grazia; il castigo per coloro che la rifiutano.

La questione del castigo

Non bisogna credere che il castigare sia atto distruttivo o di crudeltà. Si tratta certo di un atto che affligge il castigato e che gli toglie qualcosa, per esempio la libertà o il benessere o l’integrità fisica. Tuttavia, occorre fare molta attenzione a ciò che la Bibbia intende per «castigo divino». Come molti altri termini, la parola e il corrispondente concetto sono tratti dalla condotta umana ed applicati al rapporto dell’uomo con Dio. 

Ma siccome esiste un’enorme differenza fra questi due comportamenti, c’è sempre il rischio che il concetto, applicato a Dio, conservi qualcosa di umano che a Dio non conviene. Da questo errore nasce una concezione inadeguata del castigo divino, che fa apparire Dio sotto le sembianze di un giudice umano, che infligge una pena, cosa che, propriamente parlando, a Dio non conviene assolutamente, perché nel caso della condotta verso Dio è il peccatore col suo peccato che infligge una pena a se stesso, appunto perché caratteristica del peccato è quella di nuocere al peccatore stesso. Questo è il castigo del peccato. 

Per la verità la Bibbia si esprime quasi sempre nel suddetto imperfetto modo umano; ma per capire veramente che cosa essa intende dire, bisogna andare ad alcuni passi fondamentali: al profeta Osea, che ci spiega esattamente e propriamente che cosa avviene nel caso di Dio: «la tua perdizione è colpa tua, o Israele; invece io sono il tuo aiuto» (13,9, vulg). E similmente dice il profeta Geremia: «ognuno morirà per la sua propria iniquità» (31,30). Ed Ezechiele: «se il giusto si allontana dalla giustizia per commettere l’iniquità e a causa di questa muore, egli muore appunto a causa dell’iniquità che ha commesso» (18,26). E S.Paolo: «il salario del peccato è la morte» (Rm 6,23). Non è Dio che infligge una pena all’uomo, ma è l’uomo stesso che col suo peccato infligge una pena a se stesso appunto perché il peccato è principio di morte.

È utile, riguardo al concetto generale del castigo, vedere la differenza fra il castigo umano, ossia  la sanzione penale[1] e quello divino. In generale il castigo è la giusta pena dovuta all’infrazione volontaria della legge. Il castigo divino è la pena, che può essere anche eterna, dell’infrazione della legge divina o della legge naturale, infrazione chiamata «peccato». Il castigo umano, invece, è la pena, che deve conseguire alla disobbedienza alla legge umana o positiva e costituisce il «delitto».

La differenza fra i due tipi di castigo, come si è detto, sta nel fatto che mentre il peccatore è castigato dagli effetti dannosi del suo stesso peccato, che è fattore di morte interiore, ossia causa la perdita della grazia divina o sta con l’assenza della grazia, perdita o assenza che lo candida per l’inferno, il delinquente, a norma di diritto, è castigato da una pena temporale, detta «sanzione penale», che non è conseguenza necessaria del delitto, ma è fissata per convenzione dall’ordinamento giudiziario civile o ecclesiastico, e il delinquente, per un difetto della giustizia umana, le può anche sfuggire. Vuol dire, allora, in questo caso, che se il delitto ha una connotazione morale di infrazione alla legge divina o naturale, la giustizia divina sopperisce al momento giusto al difetto della giustizia umana.

Quanto al castigo divino, invece, esso può farsi attendere, ma, se il peccatore non si pente e non ripara, prima o poi giunge inesorabile, perché, come si è detto, il castigo qui non è altro che un frutto necessario del peccato. Le pena umana, invece, colpisce il delinquente dal di fuori del delitto, in modo coercitivo, con lo scopo e l’effetto di riportare il delinquente all’interno dell’ordine giuridico, che egli ha violato o «tras-gredito», oltre il quale, cioè, egli è andato illegittimamente e violentemente col suo delitto. Così l’ordine viene ricostituito per mezzo della pena, in quanto, come il delinquente è «andato oltre» con la forza, così viene con la forza riportato all’interno.

Nel caso di alcuni vizi morali è abbastanza evidente come il peccato si ritorce contro lo stesso peccatore, come per esempio la gola, che provoca malattie o la superbia, l’ira e la lussuria, che accecano la ragione del peccatore. In altri peccati, riconosciuti anche civilmente come delitti, come per esempio il furto, l’omicidio o la diffamazione, il ritorcersi del peccato sul peccatore è meno evidente, ed appare maggiormente il danno fatto ad altri. 

Qui pertanto il castigo è la sanzione penale, mancando la quale provvede Dio stesso eventualmente con la pena dell’inferno o altre pene temporali. In ogni caso è fondamentale quanto abbiamo già visto nei profeti, e cioè il peccato ha già in se stesso la propria punizione, come dice Isaia: «Non c’è pace per il malvagio» (48,22), anche se il castigo divino viene procrastinato o il malvagio sfugge alla giustizia umana.

Bisogna dire allora che la visione buonista di un Dio sempre e comunque misericordioso e che non punisce mai suppone l’idea che il peccato non meriti il castigo, che non vada colpevolizzato, ma che vada sempre e solo scusato o compassionato, come se tutti i peccati fossero involontari ed effetti di semplici debolezze o fragilità e tutti gli uomini in fondo fossero buoni. 

Ma in realtà non è giusto che un peccato colpevole resti impunito. E se si toglie da Dio la giustizia, allora vuol dire che si ammette in Dio l’ingiustizia. Dio, paradossalmente, diventa misericordioso e ingiusto. Ma questo è il vero Dio? Questa è vera misericordia?

Ma da qui c’è solo un passo a credere che in fondo il peccato non sia un gran male. Al massimo è, come crede Teilhard de Chardin, un incidente di percorso, un prodotto di scarto. Ma da qui un altro passo, l’ultimo: che anche Dio, allora, può volere il peccato, come disse Lutero: «Dio ha voluto tanto la conversione di S.Paolo quanto il peccato di Davide»; oppure Dio viene a far passare per misericordia l’irrompere della sciagura e della disgrazia. Ora, che il fedele, nella sventura o nella sofferenza sappia trovare una grazia, è vero. Ma questo non toglie che la pena in sè resti castigo della colpa, anche se il buon fedele assume in sé, per amore, come Cristo, la pena di una colpa che non ha commesso.

Ora, invece, le calamità naturali fanno parte, come abbiamo visto dalla Scrittura, dei castighi divini del peccato originale. Non si sfugge. Per questo, coloro che sostengono, come i rahneriani, che Dio fa a tutti misericordia, salva tutti e non castiga nessuno, per quanto a tutta prima sembrino lanciare un messaggio confortante, in realtà sono degli impostori e spacciatori di droga, le cui idee sono chiaramente contrarie all’insegnamento della divina Rivelazione e perciò vengono a trovarsi in un vicolo cieco, dal quale non possono uscire, generando nei fedeli avveduti incredulità, sdegno e amarezza, e provocando quelli più fragili e meno maturi alla bestemmia ed alla disperazione.

Infatti, i casi sono due: o questi sapientoni sono costretti a negare l’esistenza delle calamità naturali, così come di ogni altro genere di sofferenza, giacché Dio è solo buono e misericordioso, oppure, se riconoscono l’esistenza della sofferenza, devono dire che essa è l’effetto della bontà e della misericordia divina, che rende tutti felici e contenti. Lasciamo al Lettore i commenti. 

Indicazioni pratiche e consigli

In queste situazioni collettive difficili, come per esempio nel corso della presente epidemia, facilmente si generano delle psicosi collettive, ben più preoccupanti e pericolose per il bene e la tranquillità sociali che non gli stessi dati oggettivi materiali dell’epidemia, tutto sommato insignificanti rispetto ai miliardi di persone coinvolte in questa pandemia.

Succede, infatti, di solito, soprattutto in una società come la nostra, basata sull’emozione e non sulla ragione, dove gli stessi credenti sono dei fideisti, che a partire dai soggetti meno razionali, più impressionabili ed emotivi, e magari socialmente o politicamente influenti, si diffonde a macchia d’olio un’atmosfera generalizzata di panico, che è un cattivo consigliere, perché si tende ad adottare precauzioni irrazionali ed esagerate, suggestionandosi gli uni gli altri sulla base di pregiudizi  inconsistenti.

Ricordiamoci per esempio della famosa figura dell’«untore» della peste del 1630, di manzoniana memoria. Così succede che si diffondono pratiche e credenze inconsulte, che colpiscono innocenti, e non fanno che creare tensioni ed aggravare la situazione. La paura incontrollata fa perdere la necessaria oggettività e lucidità mentale, che occorrono più che mai per fare una analisi e una diagnosi quanto più esatte possibile della situazione e per prendere le più sagge misure precauzionali, difensive, profilattiche e sanitarie.
 
I danni che sta facendo l’attuale influenza sono certamente superiori a quelli delle solite influenze per l'alto tasso di mortalità e per la sorprendente rapidità ed imprevedibilità del suo estendersi pandemico. Tuttavia, benchè non disponiamo ancora del vaccino, conosciamo in linea di massima  il modo della sua diffusione e quindi non si devono adottare arbitrariamente o privatamente misure o accorgimenti estranei a quelli ordinati o prescritti dalle autorità sanitarie, competenti in materia.

Una circostanza di questo genere, tante volte verificatasi e in forme anche ben più gravi nella storia della Chiesa, dà modo ai sacri pastori di dar prova e di esplicare in pienezza, con efficacia e frutto, la loro operosità nella prudenza, nella giustizia e nella carità, traendo spunto ed istruzione da quegli episodi del passato, ispirandosi agli insegnamenti della Sacra Scrittura, della Tradizione e dei Santi, suscitando nel popolo di Dio, anche col loro esempio, un rinnovato spirito di penitenza, di fervore di preghiera, santi propositi di ravvedimento e miglioramento spirituale, una rinnovata fiducia nella provvidenza, nella bontà e misericordia divine. nell’accettazione serena di quanto Dio vorrà disporre.

Dio è come un buon medico che può appesantire o alleggerire la cura a seconda delle necessità del malato o come un buon educatore, che può usare ora la severità, ora l’indulgenza a seconda di quanto giova all’educazione del giovane. Il malato vorrebbe sempre guarire subito con una cura dolce e piacevole e il giovane vorrebbe che l’educatore lo lasciasse sempre fare e lo trattasse sempre con dolcezza. Ma in tal modo i malati non possono guarire e i giovani non possono essere ben formati.

Infine è bene che il buon pastore ricordi ai fedeli le prerogative della divina provvidenza. L’agire della natura, anche quando manda terremoti, sconvolgimenti o epidemie, non è indipendente dalla volontà divina, che presiede a tutti i movimenti e gli atti della natura. Dio certo non si compiace delle sventure dell’uomo; tuttavia è giusto che la giustizia divina, che ha punito il peccato originale e punisce i peccati degli uomini, faccia il suo corso.

Dio, tuttavia, nella sua bontà, ha sempre il potere di mitigare o addirittura annullare certe pene davanti all’uomo che si pente e chiede perdono. A suo insindacabile e giustissimo giudizio egli può protrarre o accorciare l’attuazione della sua giustizia o della sua misericordia. Può lasciare che la natura faccia il suo corso, anche se doloroso, ma può anche, quando e come crede, cambiare il corso degli eventi, e compiere miracoli: ridare la grazia al peccatore pentito, sospendere le leggi della natura o potenziarle per far cessare sciagure, per liberare da angosce senza nome o da pericoli mortali o per far risorgere dalla stessa morte.

Non è quindi proibito, anzi la Chiesa e tanti buoni fedeli lo hanno sempre fatto, di chiedere umilmente a Dio la cessazione di calamità collettive, sempre però rimettendosi con fiducia alle sue decisioni, come fece Cristo, prima di salir sulla croce: «Padre, se è possibile, passi da me questo calice; tuttavia, non la mia, ma la tua volontà sia fatta» (Mt 26,42). Il Padre non lo ha allontanato dal suo Figlio, perché era necessario alla nostra salvezza. Ma in certe circostanze ce lo può risparmiare, perché la nostra ora non è ancora arrivata.

P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 25 febbraio 2020


[1] Cf J.Maritain, Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale, Vita e Pensiero, Milano 1979, c.IX.

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