La falsa metafisica di George Berkeley - Seconda Parte (2/3)

 La falsa metafisica di George Berkeley 

Seconda Parte (2/3)

Il mistero della materia

La metafisica idealista nasce dalla pretesa del proprio io, cosciente della propria essenza spirituale, di essere il fondamento e il principio del mondo materiale esterno per il semplice fatto di possederne il concetto o l’idea. L’idealista dice: quello che a me sembra un mondo materiale che sta davanti a me, fuori di me e mi sembra indipendente da me e al di là di me, in realtà è prodotto del mio pensiero, è la realizzazione delle mie idee. Per questo l’idealista non riconosce che il mondo materiale ha una causa della sua esistenza, ma considera egli stesso come causa dell’esistenza del mondo e di se stesso come corpo.

Ora ciò viene a dire che l’idealista confonde lo spirito con la materia. Riducendo la materia a materia pensata, ossia la materia a pensiero, riduce per converso il pensiero a materia. L’idealista, che a tutta prima sembra così lontano dal materialista, in realtà è un criptomaterialista. Il fariseo nasconde un’anima di sadduceo. Hume non fa che mostrare l’anima sensista dello spiritualismo di Berkeley.

Dubitare dell’esistenza della realtà materiale esterna, come ha fatto Cartesio o trovare contradditorio il divenire, come ha fatto Severino, non sono segni di normalità mentale e tanto meno di esigenza critica. Per questo, quando vogliamo ragionare seriamente mossi da interesse reali, accantoniamo queste questioni insensate, che piacciono a coloro che si piccano di essere filosofi, considerandosi, com’è costume degli idealisti, l’apparizione dell’Io trascendentale. 

Più degno di considerazione è il disagio che Platone sentiva davanti alla seduzione dei sensi ed alle attrattive della carne, che, per esprimerci in linguaggio paolino, obnubilano la vista dello spirito. D’altra parte non c’è dubbio che la certezza che ci dà l’autocoscienza supera quella che di solito viene dai sensi. E tuttavia, la via sicura per arrivare alla scoperta della realtà spirituale, sia l’anima, siano gli angeli, sia Dio, siano i valori della grazia, della santità o della vita eterna, è l’applicazione del principio di causalità per ea quae facta sunt (Rm 1,20).

Diciamo dunque piuttosto che lo spaziotempo è un accidente della sostanza materiale, nella sua attitudine al mutamento e nel suo estendersi delle parti al di fuori delle parti, nella sua incapacità di identificarsi intenzionalmente con l’altro di sé, di agire in modo immanente e vitale, di riflettere su se stessa o di entrare in se stessa o di tornare a se stessa, di essere trasparente a se stessa.

La sostanza materiale, il corpo, non possiede interiorità, è incapace di conoscenza, di coscienza e di autocoscienza, come ne è capace lo spirito. Nel suo agire non è libero come lo spirito, ma è necessitato da leggi fisiche. È esclusivamente proiettato all’esterno nello spazio e nel tempo. Un corpo al suo interno ha sempre lo spazio e il tempo. Non può essere assolutamente, come lo spirito, al di sopra dello spaziotempo, indipendente dallo spaziotempo, e quindi inesteso e immutabile, come lo spirito.

Un corpo può essere comune ad altri corpi, ma non può essere universale come lo spirito, uno in molti immaterialmente e astrattamente dal concreto. Un corpo ha certo un’essenza universale, ma esso stesso, nella sua essenza concreta, è solo lui e non altro. Ogni sostanza spirituale, certo, anche lei, ha una sua identità che la distingue da altre sostanze spirituali e da quelle materiali, ma essa mediante la conoscenza, diventa in qualche modo tutto. Anima est quodammodo omnia.

Uno spirito è certo una sostanza singola, è una persona o quanto meno, come anima, è la forma di una persona; ma essa mediante la conoscenza spazia nell’universalità, nell’invisibile, nel puro intellegibile, nella totalità, nell’assoluto, nell’immutabile, nel necessario, nella libertà,  nell’eternità, nel divino.»

Non è cosa facile sapere che cosa è la materia. Tutti crediamo di saperlo, quando pensiamo al nostro corpo o al corpo altrui o ai corpi innumerevoli e svariatissimi, che cadono sotto i nostri sensi o che possiamo immaginare o costruire con la nostra tecnica, corpi umilissimi o maestosi, che ci stanno attorno nello spazio e nel tempo, dalle particelle della fisica quantistica alle stelle del cielo, corpi in continuo movimento o trasformazione.

Un mistero della materia è dato dal fatto che col progressivo perfezionarsi dei mezzi tecnici di indagine nella micro e nella macrofisica veniamo a scoprire particelle sempre più piccole e distanze siderali sempre più grandi. Retrocedendo nel tempo sembra che si sia potuta stabilire la data dell’inizio dell’attività dell’universo in circa 14 miliardi di anni, col famoso «big bang» e si sia potuto accertare che l’energia dell’universo è in calo, così che in un futuro non ben precisato la vita e il moto si spegneranno nell’universo. È comunque bene mettere a confronto queste teorie fisiche con i dati della rivelazione cristiana sull’inizio e la fine dell’universo.

Nel linguaggio della fisica si parla di materia ed energia, si parla di antimateria e cose del genere. Ma si tratta sempre e comunque di cose o fenomeni sensibili o quanto meno misurabili o verificabili, direttamente o indirettamente. Questa materia non fa problema.

Sempre invece ci appare misteriosa quella materia che è stata scoperta da Aristotele, e che egli chiama, «materia prima» (prote yle), e che distingue da una «materia seconda» (deutere yle). Ma Aristotele ne dimostrò l’esistenza con tale rigore logico, che negarne l’esistenza porterebbe alle assurdità. alle quali arrivano appunto il materialismo e l’idealismo. 

Questa materia prima, infatti, è un qualcosa di reale come componente essenziale e proprio di ogni corpo o sostanza fisica o chimica, quella che nella fisica sperimentale si chiama semplicemente «materia», secondo il linguaggio suddetto della fisica sperimentale.

Questa materia prima è detta prima, perché Aristotele ha immaginato l’ente corporeo come costituito da due piani: uno superiore, la forma sostanziale, la quale, con i suoi accidenti, è ciò che può essere colto e compreso dal nostro intelletto; ed un piano inferiore o basilare, che sta sotto alla forma, da cui il termine aristotelico di ypokèimenon, «ciò-che-giace-sotto», tradotto in latino col termine sub-jectum, da cui «soggetto». Così, salendo dal basso all’alto, è il primo piano rispetto al secondo, che è la forma.

Ovviamente fra materia e forma ci dev’essere una corrispondenza. Non da qualunque materia può sorgere qualunque forma, ma una data forma sorge solo dalla materia adatta a riceverla. Da un blocco di marmo non potrà mai venir fuori un albero o un elefante.

Ciò vuol dire che è vero che la forma sostanziale dà forma direttamente alla materia prima, che è sempre quella per tutti i corpi, ma se una forma superiore deve informare un corpo, occorre che la materia di questo corpo sia già formata da una forma in armonia con la forma superiore che deve ricevere. Così, per esempio, l’anima umana viene infusa da Dio soltanto in uno zigote, che è la sostanza vivente immediatamente adatta ad essere informata dall’anima umana

Bisogna inoltre notare che la metafora del basso-alto, usata da Aristotele, da cui la dualità prima-seconda vuol esprimere la maggior importanza ontologica della forma rispetto alla materia. La forma presuppone la materia e si aggiunge alla materia, benchè sia più importante della materia. Infatti l’ente è attuato e determinato dalla forma, che dà all’ente la specie e l’esser-tale, mentre la materia è semplicemente ciò che, certo, è presupposto (è «primo»), ma che però è determinato e attuato dalla forma. La materia è prima nella formazione evolutiva del corpo. Ma la forma è prima della materia nel senso che è ontologicamente più importante.

 L’attributo di «seconda», quindi, dato alla materia formata, non vuol dire materia meno importante, ma al contrario, si riferisce al fatto che la forma che si aggiunge (è «seconda») alla pura materia nella costituzione dell’ente o nella trasformazione sostanziale o accidentale, è più importante della materia, perché   la perfeziona attuandola secondo la generazione o l’accrescimento o la trasformazione.

Ma anche il decremento o la corruzione o la dissoluzione distruggono la materia seconda, ma non annullano la materia prima, non perché sia immortale come lo spirito, ma perché, non essendo composta di parti, ma semplice, non si può disintegrare o scomporsi o dissolversi. D’altra parte, la materia prima, essendo un poter essere e non un ente completo, non può esistere da sola, ma ha sempre bisogno di attuarsi sotto una forma, la quale solo, potendo abbandonare la materia, può causare la corruzione della sostanza.

 Da qui la materia prima intesa da Aristotele come «potenza» (dynamis), ossia come ente in potenza o poter-essere: la materia del marmo, nel corso della fabbricazione della statua, è in potenza ad essere la materia della statua.

Per riassumere queste considerazioni sulla materia, ritengo utile citare le definizioni del Gredt:

«Materia definiri potest: principium substantiale mere potentiale, ex quo fieri potest quaelibet substantia physica seu corporea, sicut ex ligno fieri potest quodlibet artificiosum simulacrum. Forma substantialis definitur: actus materiae primae»[1].

Per quanto riguarda la distinzione fra materia prima e materia seconda, forma sostanziale e forma accidentale, dice il Gredt:

«Materia secunda est corpus seu substantia corporea completa, in aliqua determinata specie rerum constituta. Materia prima est substantia corporea incompleta, potentialis, indeterminata, omnibus corporibus communis. Forma substantialis est substantia corporea incompleta, actualis, qua determinatur materia prima, ita ut ex ipsa et ex forma constituatur substantia completa  corporea alicuius determinatae speciei.

Forma accidentalis est ea, qua actuatur et determinatur materia secunda. Forma accidentalis est idem quod accidens. Cum forma substantialis tribuat esse primum seu substantiale seu esse simpliciter, forma accidentalis tribuit esse aliquod secundarium, accidentalis, secundum quid»[2].

Ebbene, lo spazio e il tempo, come pensa Kant, non sono affatto  pure entità o forme mentali che dovrebbero dar forma ai fenomeni, la cui materia proviene dall’esperienza e neppure sono immagini mentali senz’alcun riscontro in cose esterne (Berkeley), ma sono proprietà o accidenti fisicamente sperimentabili dei corpi, benché il tempo che pure ha un fondamento oggettivo nella realtà del divenire, abbia altresì, come già osservava Aristotele, una essenziale relazione all’anima, da cui il suo detto: «non ci sarebbe il tempo, se non ci fosse l’anima».

Gli errori di Berkeley

Ci limitiamo qui a due punti fondamentali: le sue concezioni dell’idea e della materia, che stanno alla base di tutti gli altri suoi errori.

L’idea. L’idea per Berkeley non è una rappresentazione o immagine della cosa e non è nemmeno un modello di realtà, alla maniera di Platone. Berkeley non distingue idea e cosa, pensiero ed essere, ma idealisticamente identifica l’idea col reale. Tutto è reale e tutto è ideale. L’idea è la realtà ed è l’oggetto della conoscenza.

Berkeley non distingue il senso dall’intelletto. Pensare e sentire sono la stessa cosa. Immaginare e concepire sono la stessa cosa. Non si dà un ente nell’anima e un ente fuori dell’anima, ma tutto è nell’anima. L’essere è immanente al pensiero. Non c’è l’ente esterno al pensiero; l’ente non è un pensabile che diventa pensato a causa dell’atto del pensante che lo pensa, ma il pensante, come in Cartesio, è pensante in atto di pensare, è res cogitans, pensante se stesso. Si prepara il pensante gentiliano come atto del pensiero pensante se stesso.

Berkeley identifica la conoscenza con la percezione e la sensazione. Idea, quindi, è oggetto del senso, è la cosa sensibile. L’idea è dunque anche sensazione. Noi sentiamo delle sensazioni. L’idea, quindi, sostituisce la sostanza materiale. Noi non sentiamo degli oggetti materiali, ma delle idee.  L’idea è la cosa sensibile percepita, quindi nella mente.

Come non si dà un’idea fuori della mente, così non si dà una cosa fuori della mente. In tal senso la materia non esiste. Non esistono cose non pensanti, ma ogni cosa pensa ed è pensata. Non esiste una materia non pensata o non pensante, una materia che non sia idea, che non sia pensiero, che non sia pensante, che non sia spirito. La materia si risolve nello spirito. Ma a questo punto, se la materia s’identifica con lo spirito, lo spirito si risolve nella materia. Qui Gentile troverebbe soddisfazione, quando dice che tutto è pensiero, oggetto del pensiero ed è il pensiero.

La materia. Berkeley non affronta il problema della trasformazione sostanziale. Non riesce a distinguere la sostanza dagli accidenti. La sostanza, per lui, è solo l’insieme degli accidenti. Non sa cogliere la sostanza come ente intellegibile singolo sussistente per sé. Il suo sensismo lo spinge a vedere solo gli accidenti, mentre la sostanza, che può essere colta solo dall’intelletto, gli sfugge. Quindi il suo spiritualismo è largamente un bluff.

Berkeley, che parla continuamente di spirito, di mente, di anima, di idee confonde tutti questi valori con l’immaginazione, la sensazione, l’emozione, la sensibilità, la percezione. Non sa che cosa è l’intelletto e come funziona. Non sa nulla dell’intuizione intellettuale. Non sa quindi veramente che cosa è il pensiero e la coscienza, che immagina una materia pensante.

Egli che si dichiara contro la materia, non sa capire quella che è l’immaterialità del conoscere. Non sa capire l’importanza dell’opera astrattiva dell’intelletto, opera squisitamente immateriale di smaterializzazione dell’oggetto del sapere. Nutre disprezzo per le idee astratte, quindi per le idee metafisiche, trascendentali, filosofiche e scientifiche. Segno anche questo di materialismo e non di spiritualità.

La forma per lui non è ciò che determina l’ente, non è un concetto metafisico, ma è la semplice figura o sagoma empirica o immaginaria della sostanza sensibile o del corpo. Per questo non sa distinguere la materia dalla forma sostanziale per interpretare le trasformazioni sostanziali. Non esiste quindi per lui una forma separata sussistente, come l’angelo, l’anima separata, l’angelo e Dio. Ulteriore segno di incapacità di capire veramente che cosa è lo spirito. Per lui la forma è solo forma di una materia.

Per la sua brama di esperienza sensibile e difficoltà nel ragionamento filosofico, non sa accettare l’esistenza della materia prima, estranea alla nostra sensibilità, ma solo dedotta per ragionamento come interpretazione della trasformazione sostanziale ed accidentale. Parimenti gli è estranea la coppia concettuale essere in potenza ed essere in atto, necessaria per comprendere l’essenza del moto e del divenire.

Si intuiscono le conseguenze dell’idealismo berkeleyano nel campo della morale: esso associa l’utilitarismo pseudospitualista farisaico al sensualismo edonista sadduceo, per quanto ciò possa apparire paradossale; eppure, rigorismo e lassismo, proprio perché estremismi opposti, vanno assieme. Logica hegeliana docet. Il marxismo è nato dall’hegelismo, la timidezza si associa alla violenza e, come già osservava Aristotele, la dittatura deriva dall’anarchia e così similmente in tanti altri casi.

Pertanto si tratta di un processo logico ed inevitabile, espresso nel detto popolare «gli estremi si toccano». In psicologia si parla del principio di azione e reazione e in fisica delle opposizioni polari. In politica abbiamo l’inimicizia-amicizia fra destra e sinistra; tra di loro si odiano, eppure l’uno ha bisogno dell’altro perchè altrimenti non saprebbero con chi sfogarsi. Nell’una e nell’altra fazione troviamo pertanto la stessa esclusione e demonizzazione dell’avversario, ma anche gli stessi metodi, la stessa mentalità faziosa, la stessa prepotenza, lo stesso accanirsi contro l’avversario.

Così in morale: quando in una coppia di valori opposti, ma che siano fatti per richiamarsi e completarsi a vicenda ma nella distinzione, come per esempio pensiero ed essere, conoscenza ed azione, ideale e reale, anima e corpo, progresso e conservazione, individuo e società, spirito e sesso, vengono isolati ed estremizzati, se ne riduce l’uno all’altro, li si confonde tra di loro.

Ciò provoca necessariamente da ambo gli estremi un moto contrario e speculare, per il quale l’altro viene risolto nell’uno o l’uno è assorbito nell’altro. Il materialismo e il sensualismo sono precisamente l’effetto e l’esito di uno spiritualismo astratto, finto e disincarnato. La riduzione berkeleyana della materia alla materia pensata, corrisponde esattamente alla sua dichiarata riduzione del pensiero alla sensazione e dell’idea alla cosa sensibile.

La critica di Kant a Berkeley

Berkeley fa un balzo verso l’idealismo assoluto oltre Kant e raggiunge Hegel, per la sua identificazione dell’essere col pensato, se non fosse che, in quanto cristiano, interpreta in chiave idealistica la dottrina del cristianesimo, cosa che per la verità fa anche Hegel, ma sulla base della sua dialettica della contraddizione.

Ma è interessante che Kant, benchè si mantenga come tutti gli idealisti sulla linea del cogito, non accetta quell’idealismo che, come quello di Berkeley, nega l’esistenza di cose materiali esterne, perché per Kant la loro esistenza è immediatamente evidente all’esperienza sensibile, anche se – e qui è il suo idealismo - lo spazio e il tempo non sono proprietà delle cose ma forme della sensibilità secondo le quali le cose appaiono come fenomeni.

Caratteristica della gnoseologia idealistica kantiana è quella di confondere la potenza conoscitiva con ciò che questa potenza conosce. Osserviamo che è chiaro che la potenza conoscitiva deve precedere l’atto del conoscere col quale la potenza coglie un certo contenuto, supponiamo la forma spaziale o temporale di una casa che sta davanti al soggetto ad una certa distanza e per la durata di un dato tempo.

Ma il contenuto del conoscere appare nella potenza conoscitiva solo dopo l’atto del conoscere: prima di vedere quella data casa in quella data forma spaziotemporale, posso certamente possedere già il concetto dello spazio e del tempo. ma potrò aver conoscenza della spaziotemporalità di quella casa solo dopo aver avuto esperienza di quella casa.

Dobbiamo notare inoltre contro Kant che il conoscere non è un fare, ma un intenzionare, è un divenire immaterialmente l’altro in quanto altro[3]. Non è un dar forma, ma un ricevere forma, un essere informati. Non sta a noi dire alla realtà come dev’essere, ma siamo noi che dobbiamo farci dire dalla realtà ciò che  essa è. È vero che l’oggetto nell’atto del conoscere, entra immaterialmente nella nostra mente; ma ciò non vuol dire che non rimanga in se stesso nella sua materialità fuori della nostra mente.

È vero che nel conoscere produciamo il concetto, ma esso, benché possa diventare oggetto di scienza nella morale e nella logica, è solo un mezzo mentale per farci cogliere il reale così com’è, sempre ovviamente col rischio di sbagliarci. Ma sbagliarsi vuol dire non cogliere il reale così com’è. Se ciò non è possibile, ma noi cogliamo sempre e solo un’apparenza, la conoscenza diventa sbagliata per essenza, il che è come dire che è annullata. Se questa dev’essere la conclusione della Critica della ragion pura, per dire che noi conosciamo solo le nostre idee e non le cose in sé, ci chiediamo se valeva veramente la pena per Kant scrivere un libro di 700 pagine per sostenere una tesi del genere.

Kant confonde il conoscere col riconoscere, l’invenzione con la valutazione. Riconosco quello che sapevo già. Conosco o apprendo quello che prima non sapevo. Riconosco le cose spaziotemporali in base al concetto che già posseggo dello spaziotempo. Mi formo il concetto dello spaziotempo in base all’esperienza di una cosa spaziotemporale. Valuto qualcosa in base ad un criterio di giudizio  - lo spaziotempo - che già posseggo. Trovo, senza conoscerlo in precedenza, quel criterio di giudizio – lo spaziotempo - che mi servirà per valutare in base a quel criterio le cose spaziotemporali.

Ed inoltre Kant non tiene conto del fatto che io posso dall’esperienza di quella data spaziotemporalità formarmi di nuovo, per astrazione dell’universale dal particolare, il concetto dello spazio e del tempo, così come me lo sono formato la prima volta allorchè ho visto qualcosa di collocato nello spazio e nel tempo.

Il fenomeno spaziale e temporale può essere benissimo l’apparire sensibile di qualcosa del quale non posseggo una conoscenza ontologica, ma ciò non toglie che la forma spaziotemporale del fenomeno appartenga al fenomeno e non la dò io al fenomeno. Questo non spetta me, ma a Dio, creatore del fenomeno.

Io posso produrre il concetto del fenomeno, ma il fenomeno, come apparire della cosa, materia e forma, lo crea Dio. Altrimenti pretenderei empiamente di sostituirmi a Dio nel suo atto creatore. Kant si limita a sostenere che il nostro intelletto impone al fenomeno dello spaziotempo la forma e presuppone la materia, appartenente alla cosa extramentale.

Quanto a Berkeley, precorrendo in ciò Fichte, pretende di ridurre anche la materia da materia extramentale reale a materia pensata, come prodotto della mente ed esistente solo nella mente, dimenticando che solo a Dio spetta possedere l’idea di quella materia che Egli crea in rerum natura.

Berkeley dice: io non nego l’esistenza delle cose, dei minerali, degli uomini, degli animali, delle piante, delle città, dei fiumi, del mare, delle montagne, delle valli, del sole, della luna e delle stelle. Dico solo che tutto ciò esiste solo nella nostra mente, in quanto è percepito da noi. E allora, se noi non esistessimo, tutto ciò non esisterebbe? Il mondo e noi stessi li abbiamo creati noi o li ha creati Dio? Il pio e spirituale vescovo Berkeley si rende conto di quello che dice?

L’idealismo trascendentale di Kant

È noto che Kant qualifica la sua filosofia come idealismo. Per idealismo, in generale, Kant intende, come comunemente tutti intendiamo, una filosofia che dia il primato dell’idea sulla realtà sensibile[4]. Ma ci tiene a precisare la differenza fra il suo idealismo, quello platonico, quello cartesiano e quello berkeleyano. Egli chiama infatti «trascendentale» o «formale»[5] il suo idealismo, che non è l’idealismo «mistico»[6] di Platone, dove l’idea è oggetto di contemplazione; non è è l’idealismo «problematico»[7] di Cartesio, che dubita circa l’esistenza del reale sensibile; non è l’idealismo «dogmatico» o «materiale»[8] di Berkeley, che «considera lo spazio, con tutte le cose a cui esso aderisce quale condizione inseparabile, come qualcosa in se stesso impossibile e dichiara perciò anche le cose nello spazio semplici immaginazioni».

Kant chiama trascendentale il suo idealismo in riferimento alla sua famosa «rivoluzione copernicana», per la quale egli ritiene che possiamo risolvere «i problemi della metafisica facendo l’ipotesi», che poi egli ritiene confermata, «che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza»[9], concependo una «conoscenza a priori, che stabilisca qualcosa relativamente agli oggetti prima che essi ci siano dati»[10].

Ora Kant ha ragione nel dire che la potenza conoscitiva deve precedere l’atto del conoscere. Ma egli confonde il modo del conoscere con l’oggetto del conoscere, perché vorrebbe affermare un oggetto del conoscere, come per esempio lo spaziotempo, come fosse un a priori, quando invece la produzione dell’atto del conoscere, cioè del concetto che rappresenta l’oggetto, ossia il dato reale extramentale, segue all’atto del conoscere.

Come mai questa inversione dell’ordine conoscitivo? Perché Kant, come è noto, muta il significato della parola «trascendentale». Per lui, chiuso nel cogito cartesiano, il trascendentale non è l’ente con le sue proprietà, uno, cosa, qualcosa, vero, buono e bello, ma è il cogito cartesiano, l’«io penso», col quale l’autocoscienza precede la conoscenza delle cose esterne.

Così si spiega come mai Kant, invece di considerare la spaziotemporalità come proprietà delle cose o corpi materiali esterni, la considera come conoscenza a priori della sensibilità, prima dell’esperienza delle stesse cose sensibili esterne.

Per questo egli afferma che

«tutti gli oggetti di un’esperienza per noi possibile non sono altro che fenomeni, cioè semplici rappresentazioni, le quali, così come sono rappresentate in quanto enti estesi o serie di cambiamenti, non hanno fuori del nostro pensiero nessuna esistenza che sia fondata in sé. Questa dottrina io chiamo idealismo trascendentale»[11].

Qui Kant si accosta a Berkeley. Ma perché allora dichiara di scostarsi da lui e parla di «idealismo trascendentale»? Perché Kant intende il trascendentale bensì come «io penso», ossia come cogito cartesiano, ma senza escludere la cosa in sé materiale fuori del pensiero.

Quindi in realtà nell’idealismo kantiano la res come trascendentale resta, come residuo di realismo, accanto, benché contradditoriamente, al cogito cartesiano, che di per sé sarebbe fatto per assorbire in sé anche la cosa in sé, come farà poi Schelling[12], il quale darà all’idealismo trascendentale il senso di una totale immanenza dell’oggetto nel soggetto, in concomitanza con Fichte, il quale, come è noto, eliminerà la cosa in sé kantiana considerandola come un’offesa all’Io, in quale da sé è sufficiente per fondare nel suo orizzonte quel reale, quella cosa in sé, che Kant porrebbe ancora con i realisti, fuori del pensiero.

Kant sostiene che «l’idealismo dogmatico è inevitabile, quando si consideri lo spazio come una proprietà che debba spettare alle cose in se stesse; giacchè in tal caso esso con tutto ciò a cui serve di condizione, è un non-essere. Ma nell’Estetica trascendentale noi abbiamo distrutto il fondamento di questo idealismo»[13]. Ora qui Kant non nega affatto l’esistenza delle cose nello spazio al di fuori del nostro spirito. Egli afferma pertanto la «realtà, cioè la validità oggettiva dello spazio, rispetto a tutto ciò che può venirci innanzi nel mondo esterno come oggetto»[14].

Tuttavia egli nel contempo sostiene l’«idealità dello spazio»[15] , perché secondo lui «lo spazio non rappresenta punto una proprietà di qualche cosa in sé o le cose nel loro mutuo rapporto»[16] , ma «lo spazio non è altro se non la forma di tutti i fenomeni dei sensi esterni, cioè la condizione soggettiva della sensibilità a cui soltanto ci è possibile un’intuizione esterna»[17].

Cioè, secondo Kant, non è che noi, partendo dall’esperienza sensibile delle cose esterne, ci accorgiamo che esse occupano uno spazio e si trovano in un luogo. Ma la nostra sensibilità, ancor prima di ogni esperienza delle cose o dei corpi o delle sostanze materiali spaziotemporali, conosce di per sé (a priori) la forma spaziotemporale dei fenomeni del senso esterno, cioè delle cose materiali esterne, che Kant, contro Berkeley, ammette, ma che in se stesse ci restano sconosciute perchè giustamente Kant sa che conoscere una cosa vuol dire conoscerne la forma.

Ora, come è noto, per lui siamo noi che imponiamo al fenomeno la sua forma, per cui essa non è la forma della cosa. Dal che noi comprendiamo come il realismo kantiano sia un realismo dimezzato, perché il vero realismo ci dà, a seguito dell’esperienza del corpo o della sostanza materiale esterna, la rappresentazione non solo della materia, ma anche della forma del fenomeno, ossia dell’apparire della cosa.

Kant vorrebbe prendere le distanze dall’idealismo di Berkeley:

«Ci si farebbe torto - dice[18] - se ci si volesse attribuire quel già da tanto tempo screditato idealismo, il quale, ammettendo la realtà propria dello spazio, nega l’esistenza dell’ente esteso in esso o almeno la mette in dubbio e, tra sogno e verità, in questo punto non riconosce differenza sufficientemente dimostrabile». Abbiamo qui una chiara professione di realismo.

« … Il nostro idealismo trascendentale, al contrario,  ammette che siano altrettanto reali gli oggetti dell’intuizione esterna, così come sono intuìti nello spazio, quanto nel tempo tutti i cambiamenti rappresentati dal senso interno. Infatti, siccome lo spazio è già una forma di quella intuizione che noi diciamo esterna, e senza oggetti in esso non vi sarebbe di certo nessuna rappresentazione empirica, noi possiamo e dobbiamo ammettere in esso, come reali,  enti estesi; e lo stesso è del tempo.

Quello spazio stesso, bensì, insieme con questo tempo, e in una con entrambi, le rispettive specie di fenomeni non sono tuttavia in se stessi cose, ma soltanto rappresentazioni e non possono esistere fuori dell’animo nostro» (aggancio a Berkeley), «e la stessa intuizione interna e sensibile del nostro animo (come oggetto della coscienza), la cui determinazione vien rappresentata mediante la successione di stati differenti nel tempo, non è neanche il sé vero e proprio come esiste in sé o il soggetto trascendentale» (il cogito di Cartesio), «ma solamente un fenomeno dato alla sensibilità, di questo ente a noi ignoto.

L’esistenza di questo fenomeno interno come cosa così esistente in sé non può essere ammessa, perché è sua condizione il tempo» (non si dà un ente diveniente nel tempo fuori dalla mente: ancora un aggancio a Berkeley), «che non può essere determinazione di qualsiasi cosa in sé. Ma nello spazio e nel tempo la verità empirica dei fenomeni è abbastanza assicurata e sufficientemente staccata da ogni parentela col sogno» (preoccupazione realistica), «se l’uno e l’altro si unificano esattamente e completamente in una esperienza secondo leggi empiriche.

Gli oggetti pertanto dell’esperienza non sono mai in sé, ma soltanto dati nell’esperienza e non esistono punto fuori di essa» (aggancio con Berkeley). … Reale è tutto quello che sta in un contesto con una percezione secondo leggi del progresso empirico. Essi» (= i dati dell’esperienza) «dunque allora sono reali, quando stanno in una connessione empirica con la mia coscienza reale, quantunque non siano perciò reali in sé, cioè fuori del progresso dell’esperienza»[19]. …

«Possiamo tuttavia chiamare la causa meramente intellegibile dei fenomeni in generale “oggetto trascendentale”, unicamente per aver qualcosa che corrisponda alla sensibilità in quanto recettività. A questo oggetto trascendentale possiamo ascrivere tutto l’ambito e la connessione delle nostre percezioni possibili e dire che esso è dato in sé prima di ogni esperienza»[20].

Ecco l’elemento realistico kantiano contro Berkeley: l’oggetto trascendentale non è altro che il «noùmeno», la cosa in sé esterna al pensiero pensabile, ma non pensata prima di essere pensata in forza dell’esperienza, che fornisce il materiale del fenomeno.

È interessante come Kant da una parte ci tiene ad affermare l’essere reale, ed in ciò rivela una chiara preoccupazione realistica: la materia è extramentale; ma d’altra parte l’essenza della cosa in sé gli è ignota e conosciamo solo il fenomeno costruito dall’intelletto. E qui abbiamo il fattore idealistico. La materia, in quanto materia del fenomeno, è intramentale, come in Berkeley. Infatti, che cosa è mai è la cosa se non la res? E che cosa è la res se non la realtà?

Kant sa inoltre che nella conoscenza ci sono due esistenze dell’oggetto: quella mentale e quella reale, fuori della mente. Fin qui egli è realista. Ma dove sta la sostituzione del realismo con l’idealismo? Nel fatto che per Kant, come Berkeley, la spaziotemporalità della cosa si trova solo nella mente sotto forma di fenomeno e non nella cosa stessa, che ci appare solo come fenomeno.

Ma Berkeley, precorrendo di due secoli Fichte, aveva già tagliato totalmente i ponti col realismo e non era rimasto a metà strada come Kant, per cui, con maggior coerenza, aveva capito che se la materia è solo materia pensata o percepita (ecco il principio idealista), non aveva senso ammettere, come farà Kant, una materia del reale esterna alla mente.

Per questo la cosa in sé kantiana era già stata eliminata da Berkeley prima di Fichte, benché non in quel modo ridicolo di negarne sic et simpliciter l’esistenza.  Fichte, pertanto, ben più scaltro di Berkeley, riprenderà daccapo il problema della materia, ed eviterà l’ingenuità di Berkeley di negare l’esistenza della materia. No, dice Fichte, per essere idealisti seri non c’è bisogno di simile ridicolo espediente. La materia esiste e va conservata in tutta la sua massa, impenetrabilità, oscurità, estensione, concretezza, corposità e carnalità, solo che essa non è altro che spirito fatto materia, cioè, nel linguaggio di Fichte, è il non-io posto dall’Io. In che modo? Attraverso la dialettica famosa io-non-io.

La materia, nota dunque Fichte, esiste, eccome! Ci mancherebbe! Non è un semplice percepito o pensato. Essa non è altro che la necessaria negazione dell’io spirito (ancora il cogito cartesiano), affinchè l’io sia io, perché per Fichte l’io non può essere io se non negando il non-io. Infatti l’opposizione dialettica io-non-io, come riconoscerà lo stesso Hegel, c’è già in Fichte prima di Hegel. Hegel non farà che estendere all’essere l’opposizione io-non-io che Fichte pone sul piano della prassi e della morale.

Fine Seconda Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 gennaio 2023

 

 

Non c’è dubbio che la certezza che ci dà l’autocoscienza supera quella che di solito viene dai sensi. E tuttavia, la via sicura per arrivare alla scoperta della realtà spirituale, sia l’anima, siano gli angeli, sia Dio, siano i valori della grazia, della santità o della vita eterna, è l’applicazione del principio di causalità per ea quae facta sunt (Rm 1,20).

 

Diciamo dunque che lo spaziotempo è un accidente della sostanza materiale, nella sua attitudine al mutamento e nel suo estendersi delle parti al di fuori delle parti, nella sua incapacità di identificarsi intenzionalmente con l’altro di sé, di agire in modo immanente e vitale, di riflettere su se stessa o di entrare in se stessa o di tornare a se stessa, di essere trasparente a se stessa.

La sostanza materiale, il corpo, non possiede interiorità, è incapace di conoscenza, di coscienza e di autocoscienza, come ne è capace lo spirito. Nel suo agire non è libero come lo spirito, ma è necessitato da leggi fisiche. È esclusivamente proiettato all’esterno nello spazio e nel tempo. Un corpo al suo interno ha sempre lo spazio e il tempo. Non può essere assolutamente, come lo spirito, al di sopra dello spaziotempo, indipendente dallo spaziotempo, e quindi inesteso e immutabile, come lo spirito.

Immagini da Internet:
- Angelo, Basilica San Francesco, Assisi
- Giovane con canestro di frutta (particolare), Caravaggio


[1] Elementa philosophiae aristotelico-thomisticae, Edizioni Herder, Friburgo in Brisgovia, 1937.vol.I, p.210.

[2] Ibid.

[3] J.Maritain, Riflessioni sull’intelligenza, c.II, Edizioni Massimo, Milano 1987.

[4] Se invece per idealismo intendiamo il primato dell’idea sulla realtà tout court, allora esso è stato giustamente condannato dalla Chiesa in nome del realismo, che dà invece il primato del reale sull’ideale.

[5] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.234.

[6] Ibid., p.306.

[7] Ibid. p.234.

[8] Ibid.

[9] Ibid., p.20.

[10] Ibid., p.21.

[11] Ibid., p.409.

[12] Sistema dell’idealismo trascendentale, Edizioni Laterza, Bari 1990

[13] Critica della ragion pura, op.cit., pp.234-235.

[14] Ibid., p.73.

[15] Ibid.

[16] Ibid., p.72.

[17] Ibid.

[18]Ibid., p.409.

[19] Ibid., pp.409-411.

[20]Ibid., p.412.

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