Sul concetto rahneriano di Dio - Terza Parte (3/5)

 Sul concetto rahneriano di Dio

Terza Parte (3/5)

Il fondamento della teologia rahneriana

Il quadro di fondo di pensiero nel quale Rahner si colloca e dal quale parte è chiaramente l’autocoscienza o soggettività cartesiana mediata da Hegel. Tale soggettività è espressa da Cartesio in prima persona: io sono, ossia ho coscienza di essere pensante. Cartesio aveva un’intenzione sostanziante realista: col suo sum pensava di aver raggiunto saldamente l’essere.  

Senonchè però il suo metodo si mostra già inquinato dall’idealismo: Cartesio non vuol partire dall’esperienza delle cose, come fa il vero realista, ma dall’idea, ossia dall’autocoscienza, come se l’idea e non l’ente, fosse il primo oggetto dell’intelletto[1]. Succede allora che il cogito può essere interpretato in due sensi, uno realista: se penso vuol dire che esisto, e un altro di tipo idealista: penso-sono.

Fichte è su questa linea e ne esplicita l’orientamento idealista: io pongo  il non-io nel mio io. Invece Hegel passa alla terza persona e recupera il discorso sull’essere: l’essere è autocoscienza e porta a termine la virtualità idealista contenuta nel cogito cartesiano con l’identificazione dell’essere col pensiero.

È interessante come la lingua tedesca abbia due modi di dire io: ha un io con la minuscola (ich), e questa è la prima persona del predicato verbale; ed ha un Io con la maiuscola (Ich) per significare l’io come persona o, come dicono gli idealisti, come soggetto. Si direbbe quasi che questi due livelli dell’io esplicitati da Fichte, io empirico e Io trascendentale o assoluto siano inviscerati nella stessa lingua, ma tali purtroppo da trarre in inganno e da favorire il panteismo.

Comunque, che sia espresso in prima persona o in terza persona il principio idealistico è sempre quello: non è altro che l’enunciato dell’essenza di Dio per il quale l’io o l’essere umano attribuisce a Sé l’Autocoscienza divina, espressa dalla Scrittura appunto con la prima e la terza persona del presente del verbo essere: Io Sono ed Egli è.

Invece bisogna dire che il Primo, l’Inizio e l’Assoluto nella realtà (ossia Dio) non è il semplice essere, ma come insegna San Tommaso sulla base Es.3,14, è l’ipsum Esse, l’Essere sussistente, fatto persona. E quindi non è la coscienza di essere; non è l’autocoscienza.  L’autocoscienza è il ritorno del pensiero su se stesso. Essa quindi è punto di arrivo e non di partenza. Il punto di partenza dello spirito è la semplice apprensione o intellezione dell’essere. È solo dirigendosi su se stesso che lo spirito attua la coscienza di sé come pensato da sé. E ciò, almeno secondo una distinzione concettuale, avviene anche in Dio, benché ovviamente nel suo pensare non ci sia alcun moto come avviene in noi, ma ci sia perfetta semplicità.

Invece nell’idealismo l’essere è identificato con la coscienza di sé sin dall’inizio dell’atto del pensare, cosa che in realtà è propria solo nella mente assolutamente semplice di Dio. Eppure questa è la concezione rahneriana del pensare umano, che pertanto si rivela di stampo panteistico.

Invece bisogna dire che in noi la coscienza di sé viene dopo la conoscenza dell’essere extramentale, perché l’essere per noi non è di per sé pensato da noi, ma solo pensabile. Dobbiamo pertanto renderlo pensato mediante l’atto conoscitivo. Solo a questo punto otteniamo l’autocoscienza, la quale solo in Dio, ideatore e progettatore delle cose l’atto con cui Dio pensa Se stesso pensante le cose, è la condizione di possibilità della conoscenza dell’ente esterno alla coscienza divina (opus ad extra).  In noi invece è l’inverso: è la conoscenza delle cose ad essere la condizione di possibilità del costituirsi della nostra autocoscienza.

È interessante il confronto con Kant, dal quale Rahner prende la distinzione fra trascendentale e categoriale. In Kant resta ancora l’ente esterno (la «cosa in sè»). Ma il trascendentale non è più l’ente insieme alle sue proprietà, ma è uno solo: il cogito cartesiano, quello che Kant chiama «Io penso», mentre il categoriale è il giudizio sintetico a priori, ossia la scienza empirica.

Con Fichte il processo verso il panteismo e la deificazione dell’uomo avanza: anche la cosa in sé è immanente alla coscienza. Rahner segue Fichte anche in ciò. Come è noto, la cosa in sè per Fichte non è più una realtà esterna all’io, indipendente dall’io e creata da Dio, ma la voracità insaziabile dell’autocoscienza cartesiana, esplicitata da Fichte fagocita anche la cosa in sé.

L’uomo, come fosse un Dio, vuol essere padrone e signore di tutto e considerare tutto come originato dall’io e finalizzato all’io. Il mondo non è di Dio, ma dell’uomo, perché l’uomo stesso è Dio. L’ateismo marxista non è altro che questo. Del resto, per Rahner anche l’ateo in fondo è un teista. Infatti per Rahner negare o affermare Dio concettualmente non ha importanza, data la relatività del concetto; l’essenziale è l’esperienza trascendentale di Dio, che caratterizza l’essenza dell’uomo, ateo o teista che sia a livello concettuale. E qui siamo già in Hegel, il quale sostiene che Dio è l’unico oggetto del pensiero, con la differenza da Hegel, che mentre questi parla di conoscenza di Dio nel concetto, Rahner parla di esperienza o conoscenza non-concettuale.

Tuttavia sia per Hegel che per Rahner, tutto è nella coscienza e nulla è fuori della coscienza, compreso Dio[2]. La coscienza non deve più adeguarsi a un reale esterno, perché il reale, compreso Dio stesso, è «già da sempre», per usare un’espressione cara a Rahner, nella coscienza «originaria», nel «soggetto», che poi sarebbe l’uomo. Ecco la concezione heideggeriana dell’uomo, che Rahner fa propria: l’uomo è l’Essere-qui, Da-Sein dell’essere come ipsum Esse. Il Vorgriff rahneriano è ripreso dalla Vorverständnis heidggeriana, con la differenza che mentre Heidegger limita all’essere e all’io l’oggetto di questa precomprensione, Rahner vi aggiunge Dio per dare un contentino alla teologia.

E come in Heidegger e in Rahner l’Essere si abbassa e si concretizza nell’umano (l’essere-qui, Da-sein), si storicizza nell’«evento» esistenziale, così l’uomo, l’«essere della trascendenza», si innalza – ecco l’Erhebung hegeliana – o si autotrascende nel divino, nel «mistero assoluto», ma solo perchè questo mistero assoluto, in radice, è l’uomo stesso inteso come autocoscienza cartesiana rafforzata dall’Io assoluto fichtiano, del quale abbiamo un’eco più recente in Husserl.

Questa immanenza del reale alla coscienza è ciò che l’enciclica Pascendi, riprendendo il linguaggio dei modernisti, chiama il «principio d’immanenza»: anche Dio non trascende la coscienza, ma è semplice essere di coscienza, è immanente alla coscienza. La coscienza, il «soggetto» diventa l’Assoluto, quella «radice», quell’«unità originaria», come dice Rahner, dove essere e conoscere sono la stessa cosa. Ma se fino a Kant abbiamo la semplice immanenza (l’essere è nella coscienza), con Hegel avremo l’identità (l’essere è coscienza). E siamo arrivati a Rahner.

 Per questo in fondo già con Cartesio il soggetto non inizia il sapere con la conoscenza diretta per passare alla conoscenza riflessa, ossia alla coscienza, ma avviene l’inverso: inizia con l’autocoscienza e passa alla conoscenza diretta. Il trascendentale, già con Kant, non è più proprietà dell’ente esterno, dell’oggetto, ma diventa proprietà o «forma a priori» del soggetto (l’«io penso»), che pone la «forma» dell’oggetto. E questa sarebbe quella che anche Rahner chiama «oggettivazione», non per accogliere l’oggetto, ma per costruire l’oggetto. Quindi il trascendentale kantiano è la condizione di possibilità per la categorizzazione o concettualizzazione degli oggetti dell’esperienza sensibile. E ciò è assunto da Rahner per costruire la sua esperienza trascendentale.

Senonchè però l’oggettivazione sarebbe quello che solo Dio creatore può fare. Egli infatti è inizialmente e da sempre, ab aeterno, cosciente di Sé non perché ha conosciuto le cose, ma Egli conosce le cose che crea in base alla Coscienza di Sè che le ha progettate. Il cogito cartesiano, esplicitato dall’idealismo tedesco, attribuisce dunque all’uomo l’Autocoscienza divina e per conseguenza il potere creatore divino. Il «porre» (setzen) l’oggetto in Fichte non è altro che il creare l’oggetto, con la differenza che non si tratta di un creare dal nulla, ma di un’autoalienazione o extraposizione dell’io nel non-io, come dirà lo stesso Rahner, riprendendo il linguaggio di Hegel dell’opposizione dialettica del soggetto a se stesso.

D’ora in avanti a partire da Hegel e da Schelling nell’idealismo tedesco questo principio primo della realtà e del pensiero, che non è altro che l’uomo, sarà espresso col termine «soggetto». Resta l’opposizione soggetto-oggetto, ma essa viene invertita rispetto al significato che essa possiede nella gnoseologia realistica: non è il soggetto che si adegua all’oggetto preesistente e indipendente dal soggetto (adaequatio intellectus et rei), ma è il soggetto che, all’interno della sua coscienza, pone l’oggetto, che poi è se stesso. Questo porre l’oggetto verrà chiamato «oggettivazione»[3].

Quanto a questa esperienza di Dio, che Rahner chiama preconcettuale, originaria, atematica e trascendentale, è la condizione di possibilità della concettualizzazione degli io empirici e delle cose del mondo. Questa attività Rahner la chiama «categorizzazione» od «oggettivazione», attività aposteriorica perché basata sull’esperienza sensibile.

Nell’esporre la concezione modernistica di Dio la Pascendi nota come per i modernisti Dio è l’Inconoscibile – ecco il mistero assoluto di Rahner -, non concettualizzabile, oggetto del «sentimento», Rahner direbbe di «esperienza preconcettuale», Inconoscibile nascosto nel subconscio e del quale inizialmente non abbiamo coscienza tematica, e di cui successivamente prendiamo coscienza nel concetto di Dio e nel dogma.

È interessante come Rahner, avvertendo la possibilità di essere accusato di modernismo, cerca di prenderne le distanze, ma non ci riesce ed anzi lo esplicita e lo aggrava, tanto da meritare benissimo l’accusa di modernismo.

Egli infatti accetta il principio modernistico per il quale «il concetto e la riflessione sono qualcosa di successivo e secondario rispetto all’autopossesso originario dell’esistenza nell’autocoscienza e nella libertà»[4]. Accusa però il modernismo di sottovalutare il concetto separandolo dall’autocoscienza originaria, ciò che i modernisti chiamavano il «sentimento del divino» emergente dal subconscio. Rahner allora precisa che

«non esiste solo l’”in-sé” puramente oggettivo di una realtà, da un lato, e il concetto “chiaro e distinto” di tale realtà, dall’altro, bensì esiste anche un’unità più originaria fatta di realtà e dell’”essere-presso-se-stessa” di questa realtà, unità che è più intensa e originaria di quella che esiste tra tale realtà e il suo concetto oggettivante»[5].

Con queste parole Rahner, anziché separarsi dal modernismo, mostra di accoglierlo nella sua radice più profonda, che neppure la Pascendi aveva messo in luce. Infatti, la Pascendi si limita a denunciare la falsa gnoseologia modernista, la quale faceva derivare il concetto dal sentimento dell’Inconoscibile subconscio senza spiegare il perchè di tale legame, perché la polemica della Pascendi è sostanzialmente contro Kant, il quale ammette ancora una realtà distinta dal concetto, secondo il principio dell’adaequatio intellectus et rei, benché al posto della res fosse rimasto solo il fenomeno.

San Pio X si limita ad accusare i modernisti di immanentismo, dottrina che ammette ancora la trascendenza di Dio, ma incastra Dio nella coscienza umana. Il Papa non giunge all’accusa di panteismo, ma avverte che l’immanentismo fenomenista ed agnostico kantiano conduce al panteismo, il che è come dire che Kant attraverso Fichte porta ad Hegel. Dice la Pascendi:

«Di fatto l’immanenza dei modernisti vuole ed ammette che ogni fenomeno di coscienza nasca dall’uomo in quanto uomo. Dunque di legittima conseguenza deduciamo che Dio e l’uomo sono la stessa cosa: e perciò il panteismo» (n.80).

E in un numero successivo, l’81, il santo Pontefice traccia sinteticamente con piglio di grande maestro, i passi che conducono il pensiero moderno alla perdizione, Egli infatti afferma che il modernismo

«conduce all’ateismo e alla distruzione di ogni religione. L’errore dei protestanti diede il primo passo in questo sentiero; il secondo è il modernismo; a breve distanza dovrà seguire l’ateismo».

 Difatti è proprio quello che sta succedendo oggi. In questi ultimi cinque secoli  siamo passati da Lutero a Cartesio, da Cartesio a Kant, da Kant ad Hegel e da Hegel a Marx. È esattamente ciò che si può constatare dallo studio dei suddetti Autori, cosa che sto facendo da cinquant’anni. È una successione maledetta di falsi maestri che, passo per passo, ci conducono all’inferno.

E come se tutto ciò non bastasse, ecco arrivare la ciliegina sulla torta: il buon Rahner, che ci insegna il valore profetico del Concilio Vaticano II e come ottenere in collaborazione con la massoneria e il comunismo cinese e l’appoggio esterno dell’Islam, una svolta epocale alla luce di un nuovo paradigma, che faccia nascere una nuova Pentecoste.

Rahner infatti si separa dai modernisti della Pascendi non perché sono immanentisti, ma perché non sono andati fino in fondo nel loro immanentismo abbracciando esplicitamente il panteismo, come ha fatto lui al seguito di Hegel basandosi sul principio di origine cartesiana dell’identità dell’essere col pensiero e con l’autocoscienza.

Notiamo fra l’altro, per dare a ciascuno il suo, che a Kant non viene assolutamente in mente l’idea di una identificazione dell’uomo con Dio, un’empietà davanti alla  quale invece Hegel non saprà retrocedere con orrore, ma anzi accoglierà con entusiasmo, proprio esplicitando la pretesa sovrumana della ragione kantiana. Ed è questo il modernismo rahneriano: un modernismo hegeliano.

In sostanza, quindi, la critica che fa Rahner al modernismo non è quella di avere abbandonato il realismo per l’idealismo, la trascendenza divina per l’immanenza, ma di non avere accolto l’idealismo nella sua pienezza hegeliana, come invece fa lui. Rahner non si oppone al modernismo nel senso di correggerlo o confutarlo, in base a un criterio realista, ma nel senso di superarlo nel suo idealismo kantiano andando fino in fondo nella sua stessa linea ed arrivando fino ad Hegel. Dice infatti:

«Dobbiamo dire che appunto tale conoscenza originaria», che egli pur rintraccia nei modernisti, «include anche un momento fatto di riflessione e quindi universale e spiritualmente comunicabile», il concetto, «anche se esso non esaurisce tale unità» di essere e di pensiero «e non la traduce in maniera adeguata nella concettualità oggettivante. Tuttavia nell’uomo l’unità originaria tra realtà e conoscenza ch’essa ha in sé esiste solo e sempre con, nel e attraverso ciò che noi possiamo denominare linguaggio e quindi anche riflessione e ancora una volta comunicabilità»[6].

Non ci tragga in inganno questa occasionale professione di oggettività ed universalità del concetto, che non è sincera, ma è una semplice captatio benevolentiae per i realisti, nella speranza che essi digeriscano l’«esperienza trascendentale»[7]. Tale apparente realismo concettuale non corrisponde per nulla al contesto delle opere rahneriane, perché Rahner, al contrario, tutte le volte che parla del concetto o del dogma, ne sostiene la sua relatività, soggettività e mutabilità.

Certamente Rahner nelle migliaia di pagine dei suoi scritti crede evidentemente nella comunicabilità del concetto e i risultati si vedono dall’esercito dei rahneriani, anche se egli usa il concetto proprio per spiegarci la relatività, equivocità e labilità del concetto e che la verità non è raggiunta dal concetto, ma è contenuta solo dall’ineffabile esperienza trascendentale.

A questo punto possiamo chiederci che valore oggettivo ha la definizione concettuale che Rahner dà dell’esperienza trascendentale, se questa esperienza non può essere descritta nel concetto. Come faccio a sapere che è un’esperienza universale o non piuttosto una sua irripetibile esperienza personale?  Io leggo quello che dice Rahner e sono disposto a verificare in me stesso se sperimento effettivamente quello che egli dice. Ma se il  suo concetto non esprime questa esperienza, come faccio ad esser certo che quello che dice Rahner corrisponde a quello che provo io? Se io non posso esprimere in concetti la mia esperienza e tu non puoi esprimere la tua, come facciamo a sapere di avere avuto un’esperienza trascendentale nella sua supposta essenza universale e che la possiamo chiamare con lo stesso nome?

Se uno mi fa sperimentare il sapore di un frutto che mi fa vedere, sono sicuro di provare io assaggiandolo quello che prova chi me lo offre, perché abbiamo sotto gli occhi lo stesso frutto. Ma se tu stesso mi dici di non saper esprimere in concetti che cosa è quell’esperienza atematica, che tu fai, come faccio a sapere che la provo anch’io? Come faccio a capire a che cosa ti riferisci?

In base a che cosa Rahner definisce l’uomo come strutturato dall’esperienza trascendentale se poi egli stesso ci dice che essa è anonima, inesprimibile, non concettualizzabile ed innominabile? Quindi tutta la notorietà che Rahner è riuscito a procurarsi in cinquant’anni di pubblicità alla sua esperienza trascendentale su che cosa si basa? Sulla ripetizione di una espressione della quale nessuno è certo di conoscere il significato a cominciare da Rahner, il quale se lo afferrasse, saprebbe spiegarcelo adeguatamente in concetti e parole.

Ma purtroppo il fatto è che, come si accorse San Pio X, dietro a questa espressione, si parli di esperienza o di sentimento, di agnosticismo o di non-concettualità, di Inconoscibile o di Mistero assoluto, di preconscio o di subconscio, di immanenza o di trascendentale, c’è di che solleticare quella empia superbia dalla quale è preso il panteista. È questa l’accusa morale che San Pio X fa ai modernisti.

In sostanza in Rahner, come in Hegel e nei modernisti, la conoscenza di Dio è conseguenza dell’essere soggetto come autocoscienza. L’originalità di Rahner è stata quella di chiamare «esperienza originaria trascendentale preconcettuale di Dio», nient’altro che l’identificazione hegeliana dell’essere col pensiero, con l’autocoscienza e col divenire. Confonde la coscienza che Dio ha di Sé con la coscienza che l’uomo ha di sé. In tal modo non c’è spazio nell’uomo per una scelta libera di Dio, perchè sarebbe come ipotizzare che Dio scegliesse di essere cosciente di Sé. Viceversa, Dio è per essenza autocosciente. Ebbene, Rahner, con la sua esperienza trascendentale, pareggia l’autocoscienza umana all’autocoscienza divina.

Fine Terza Parte (3/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 17 gennaio 2022

 

 

Invece nell’idealismo l’essere è identificato con la coscienza di sé sin dall’inizio dell’atto del pensare, cosa che in realtà è propria solo nella mente assolutamente semplice di Dio.

Eppure questa è la concezione rahneriana del pensare umano, che pertanto si rivela di stampo panteistico.

 



Invece bisogna dire che in noi la coscienza di sé viene dopo la conoscenza dell’essere extramentale, perché l’essere per noi non è di per sé pensato da noi, ma solo pensabile. 

Dobbiamo pertanto renderlo pensato mediante l’atto conoscitivo.

Solo a questo punto otteniamo l’autocoscienza, la quale solo in Dio, ideatore e progettatore delle cose l’atto con cui Dio pensa Se stesso pensante le cose, è la condizione di possibilità della conoscenza dell’ente esterno alla coscienza divina (opus ad extra).  In noi invece è l’inverso: è la conoscenza delle cose ad essere la condizione di possibilità del costituirsi della nostra autocoscienza.

Immagini da internet: Auguste Rodin: Uomo che pensa e La mano di Dio


[1] Maritain mette in piena luce questo fatto.

[2] Questa concezione riappare un Husserl.

[3] In S.Tommaso esiste la distinzione fra obiectum formale e obiectum materiale. L’intelletto nel conoscere, forma effettivamente un oggetto interiore, l’oggetto formale, che è il contenuto del concetto, ossia ciò che l’intelletto intende della cosa, la quale è l’oggetto materiale, ma materiale qui non significa «sensibile», ma significa semplicemente il termine oggettivo dell’atto conoscitivo, che può essere quindi anche una sostanza spirituale e Dio stesso. L’intelletto nel e con l’oggetto formale – il contento del concetto - coglie un aspetto formale della cosa od oggetto materiale.

[4] Corso, op.cit., p. 34

[5] Ibid.

[6] Corso, op.cit., p.35.

[7] Alcuni tomisti sono caduti in questa trappola, per esempio Maréchal, Rousselot e Lonergan e così è sorto il cosiddetto «tomismo trascendentale», figlio di un cavallo tomista e di un asina kantiana.

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