La questione della teologia negativa - Non si tratta di abdicare all’intelligenza, ma di evitare la presunzione - Prima Parte (1/3)

 La questione della teologia negativa

Non si tratta di abdicare all’intelligenza, ma di evitare la presunzione

Prima Parte (1/3)

Tra la reticenza e lo sproloquio

Oggi siamo invasi da una folla di maestri, che dobbiamo sopportare e dai quali dobbiamo guardarci, i quali con grande prosopopea e dogmatica sicumera, vantando titoli accademici e centinaia di pubblicazioni, ignari del Magistero della Chiesa, sbandierati dai mass-media del potere dominante, ci assicurano con tono cattedratico e senza possibilità di replica, che cosa di Dio dobbiamo affermare e che cosa dobbiamo negare, per sapere qual è il «Dio biblico» e il «Dio di Gesù Cristo» e salvarci dal «Dio astratto della metafisica», dal Dio del «dualismo greco», dal Dio precristiano, corrucciato castigatore dell’Antico Testamento e del paganesimo.

Indubbiamente la parola «Dio» può essere associata a ciò che non è Dio, al proprio io o a un idolo o a una creatura divinizzata. È possibile attribuire a Dio cose che non Gli convengono, farsi un concetto falso di Dio. E tuttavia tutti sanno che Dio esiste, in quanto dotati di ragione, la quale spontaneamente, partendo dalla constatazione delle cose di questo mondo, effetto dell’opera creatrice divina, risalgono alla causa prima, ne scoprono la personalità di legislatore e giudice della loro condotta, al quale devono rispondere per le opere compiute.

Così si verifica che spesso e volentieri questi sapientoni negano di Dio quello che si deve affermare, ossia la sua sussistenza ontologica, la totale assenza di incoerenza o contraddizione all’interno della sua essenza, la sua inconfondibile identità, la sua intellegibilità, la sua conoscibilità, la sua effabilità, la sua immutabilità, la sua impassibilità, la sua alterità rispetto al mondo, la sua trascendenza, la sua assoluta spiritualità, la sua innocenza rispetto all’esistenza del male, la sapientissima legislazione della sua volontà, la sua lealtà e credibilità nei confronti dell’uomo, il suo fornire indubbie prove della sua esistenza, la sua onnipotenza nel togliere la sofferenza, la sua giustizia nel punire i malvagi; la creazione come produzione dal nulla di tutto l’essere dell’ente.

E per converso affermano di Dio ciò che si deve negare: la coincidenza dei contradditori nell’essenza divina, una superiore assurda ed inesistente unità o sintesi dei contradditori, facendo dell’essenza di Dio il fondamento e la giustificazione della doppiezza e della disonestà; l’assoluta inconoscibilità, intellegibilità, incomprensibilità, inconcepibilità ed ineffabilità di Dio, rendendo Dio un qualcosa di insensato e quindi di inesistente; l’affermazione della mutabilità della natura divina minando il fondamento della sua fedeltà ed affidabilità, togliendole la sua infinita rettitudine ed abbassandola al livello di una povera natura volubile ed infida; l’affermazione della passibilità e corruttibilità, assoggettandola alla sofferenza quasi fosse una povera natura composta di materia e forma e quindi alla privazione ed alla dissoluzione; l’affermazione che l’essenza divina è completata dal mondo e quindi diventa mondo, come se il mondo, per dirla con Rahner, fosse il «destino» di Dio; una falsa affermazione della misericordia divina; una visione della natura divina come fondo insondabile dell’io autocosciente preconcettuale.

Dio per gli idealisti

Per alcuni, come gli idealisti, i cartesiani, i panteisti, i buddisti e gli induisti, Dio è l’autocoscienza, è l’io. Per loro Dio non è un tu, una persona esterna a me e davanti a me, un oggetto della mia facoltà di conoscere, di pensare, di amare, di desiderare. No. Dio è la mia soggettività, è il «soggetto», come dicono.

Quindi Dio non è al di fuori di me e al di sopra di me, ma è in me, anzi in fondo sono io stesso. In questo senso parlano di «io trascendentale», Kant parla di «ragion pura», Fichte parla di «io puro», Hegel parla di «Assoluto», Schelling parla di «Soggetto», Heidegger parla di «precomprensione» (Vorgriff), Rahner parla di «esperienza trascendentale» o del «mistero assoluto innominabile» e Barzaghi parla di «pensiero puro». È il «fondo dell’anima» di Meister Eckhart. È l’«atto puro» del pensare di Giovanni Gentile. È il Brahman degli induisti e il Nirvana dei buddisti. È l’àghnoson degli gnostici e l’«inconscio» dei modernisti, del quale parla S.Pio X nella Pascendi.

Per costoro l’autocoscienza è il pensare originario ed assoluto naturalmente in possesso dell’uomo solo che lo voglia e ne sia cosciente. A questa autocoscienza assoluta, che costituisce il fondo dello spirito umano, l’uomo può elevarsi da sé perché corrisponde al vertice del suo potere di pensare. Non occorre quindi affatto che la mente umana sia elevata al di sopra di sé da un Dio trascendente, perché la stessa mente umana è potenzialmente Dio.

La mente dell’io empirico, certamente, per gli idealisti, è finita. Ma il finito da sé può elevarsi al livello dell’infinito. La mente non è soltanto capace di conoscere l’Infinito, ma di essere infinita, perché per gli idealisti il conoscere coincide con l’essere e l’essere coincide col conoscere.

Da questa autocoscienza originaria procede, secondo gli idealisti, la conoscenza o sapere concettuale. Solo Hegel identifica l’io o autocoscienza col Concetto e con l’Idea. Il Pensiero è l’Essere. Il concetto nega se stesso, nega la negazione e torna in sé nella circolarità dialettica, che costituisce la Ragione. L’Idea scende e si concretizza nella Natura e nella Storia, la quale si eleva, si autotrascende e sale all’Idea, che è il Sapere assoluto.  L’autocoscienza è la Totalità e l’Assoluto, che è lo Spirito.

L’idealista non concepisce Dio come un altro da sé, una Persona assoluta, davanti alla quale egli si pone per parlarle, per invocarla, per interrogarla, per ascoltarla, per obbedirle, per renderle culto o offrirle sacrifici, per chiederle perdono, per renderle conto del suo operato. Nulla di tutto ciò. Tutti questi atti appartengono solo all’io empirico. Invece Dio per l’idealista non è altro che l’«io trascendentale», l’autocoscienza originaria preconcettuale, condizione di possibilità della esperienza e della concettualizzazione. Il rapporto con Dio è quindi rapporto dell’io empirico con l’io trascendentale.

Tale rapporto si risolve semplicemente nella presa di coscienza che il proprio io non è originariamente l’io empirico, passeggera parvenza destinata a dissolversi con la morte; ma è l’io trascendentale, corrispondente a ciò che la religione e la teologia chiamano «Dio» e che l’idealista preferisce chiamare «Assoluto», come fanno Schelling ed Hegel, perché la parola «Dio» appartiene al linguaggio concettuale-religioso dell’io empirico, mentre qui si tratta di rifarsi a un io più radicale, profondo, autentico ed originario, che è l’autocoscienza dedotta dal cogito cartesiano.

L’io umano passa dal registro del pensiero umano e concettuale al «pensare puro», non concettuale e preconcettuale, come dice Barzaghi. Assume, sempre per citare Barzaghi, lo «sguardo di Dio», per il quale Dio pensa le cose non fuori di Sé, ma solo in Sé identiche alla sua essenza. Per l’idealista l’uomo vede le cose fuori di sé solo come io empirico; ma come io trascendentale le vede in sé ed esistenti in sé, come Dio.

L’apofatismo idealista, nel momento in cui, facendo uso dei concetti, vuole esaltare Dio come «mistero assoluto» (Rahner)[1] o «pensiero puro» (Barzaghi)[2], affermando che di Dio non ci si può fare un concetto, non si sa nulla e non si può dire assolutamente nulla, quindi Dio non può essere nominato, intanto però ne parla e lo concettualizza, cadendo così in contraddizione e annullando la propria tesi per non dire assolutamente nulla nella totale insignificanza, usando parole a vuoto.

Chi ragiona a questo modo trascura il fatto che per affermare qualcosa di qualcosa, sia pur per dire che di questo qualcosa non si sa nulla, il parlante ha il dovere preliminare di definire ciò di cui sta parlando, deve dire cioè che cosa è ciò di cui sta dicendo che non si sa nulla.

Per dire che di una cosa non si può dire o concepire nulla, il parlante deve chiarire la natura del soggetto del quale sta parlando. Ma allora è chiaro che così facendo smentisce l’affermazione che non se può dir nulla. Ma d’altra parte, se non definisce preliminarmente di che cosa intende parlare, il dire che non se può saper nulla sono parole vuote, sono suoni che si perdono nell’aria, mentre qualche persona sveglia ride sotto i baffi e qualche sciocco resta a bocca aperta ad ammirare la genialità del parlante.

Il problema dell’ateismo 

All’opposto dell’idealista abbiamo l’ateo. Mentre l’idealista si riempie la bocca dell’«idea», dell’«essere», del «sapere assoluto», della «verità», dello «spirito», della «coscienza», dell’«infinito», dell’«eterno», della «totalità», dell’«assoluto», del «pensiero» e di Dio stesso, all’ateo tutte queste cose non interessano, e se ne prende facilmente gioco ironizzando su di esse come su vane chimere o discorsi vuoti, che favoriscono la presunzione e distolgono l’uomo dai suoi doveri terreni e dalle sue reali possibilità. All’ateo interessano l’esperienza, la scienza sperimentale, la storia, i fatti materiali e verificabili, i godimenti di questa terra, il lavoro, l’economia, la cultura, la tecnica, la politica, la società, il dominio della natura e basta.

L’ateo, tuttavia, non è uno che non sa che Dio esiste. La ragione ce l’ha anche lui, per cui, facendola funzionare, s’accorge anche lui, benché controvoglia, che Dio esiste. Tuttavia, per crearsi un alibi, considera Dio o come ipostatizzazione fantastica delle forze della natura o come trauma psichico residuale degli scontri infantili col proprio padre, che blocca la crescita della personalità angustiata da un fantasmatico senso di colpa o come raffigurazione idealizzata della propria personalità alienata sotto il peso dello sfruttamento della classe padronale o come vano immaginario rifugio psichico consolatorio delle pene della vita presente o come un’evasione fra le nuvole del cielo, anziché restare con i piedi per terra  oppure come costruzione fantastica di un Dio buono e onnipotente, apparentemente smentita dall’esistenza del male nel mondo, eppure sempre rinascente nel credente, che, pur davanti alla dura realtà, non si rassegna a rinunciare a questa dolce illusione e continua a sognare.

L’ateo vanta una confutazione scientifica dell’esistenza di Dio, ma in realtà è lui a sragionare con la pretesa di assegnare al mondo bisognoso di un fondamento, il ruolo di fondamento, che esso non ha, sicchè, allorché l’uomo si appoggia su di esso, sprofonda nell’abisso o, come si esprime Kant, nel «baratro della ragione»[3]. Kant infatti crede ingenuamente d’aver confutato la tesi della causa prima chiedendosi chi ha causato la causa prima. Il che dimostra di non aver capito che cosa è la causa prima, perché se fosse causata da una causa precedente, non sarebbe più la causa prima.

L’ateismo come negazione dell’esistenza di Dio comporta due atteggiamenti: uno di tipo intellettuale e un altro che impegna la volontà. Col primo atteggiamento l’ateo cancella Dio dall’orizzonte del suo pensiero, ma non può non sapere che esiste e che a Lui deve render conto. Ma Dio resta sempre il suo creatore e il motore del suo intelletto, benché negatore di Dio. Invece con la volontà l’ateo può effettivamente sostituirsi a Dio peccando, giacchè nel peccato l’uomo si pone nell’ordine della causa prima, la quale qui è la creatura e non può essere Dio.

Così se ateismo vuol dire che l’uomo si oppone a Dio e non lo vuole, si può dare il caso forse paradossale, eppure possibile, di un teologo che condivide la teologia di San Tommaso d’Aquino, eppure – Dio non voglia - pecca mortalmente. Ebbene costui è più ateo di colui che nega l’esistenza di Dio con l’intelletto, ma magari è mosso a compassione per la sofferenza di un innocente.

Non si può escludere il caso di uno che crede di essere ateo, perché respinge una falsa idea di Dio che gli è stata proposta da falsi cattolici o da eretici e che egli crede propria del cristianesimo. Ammettiamo pure che sia misericordioso un Dio che permette un’infinità di sciagure, che milioni di innocenti siano vittime dell’aborto e che non ci ascolta quando lo invochiamo. Ma per non sentirci beffati o perchè i malfattori non credano di potere farla franca, non sarebbe bene spiegare il significato esatto della misericordia contemperandolo con quello della giustizia?

Il fenomeno dell’ateismo ha profondamente segnato di sé la cultura europea nei secc. XVIII-XIX, soprattutto con i materialisti francesi del ‘700, col prometeismo marxista, con lo scientismo positivista comtiano, e col nichilismo russo, raggiungendo un vertice parossistico agli inizi del ‘900 col superomismo di Nietzsche, un impressionante squallore con gli empiristi logici inglesi ed austriaci, ed un brutale esito nell’animalità col pansessualismo freudiano, nonchè col razzismo nazista, culmine finale ed infernale di tutti i veleni scaturiti progressivamente nel corso dei secoli dal cogito cartesiano.

L’ateo considera il credente come un immaturo, un visionario, un individualista, un presuntuoso, uno stolto, un frustrato e un minus habens, schiavo di se stesso. L’ateo considera il credente come uno che non vive nella realtà, ma nell’immaginazione. Crede in un Dio immaginario, in un legislatore immaginario, in un remuneratore immaginario, si pente di colpe immaginarie, si consola di consolazioni immaginarie.

Invece di approfittare della felicità di questa vita, la trascura e spera in una felicità celeste che non esiste, teme un inferno che non esiste. Parla, prega con un Dio che non esiste. Crede di ricevere rivelazioni da un Dio che non esiste. È convinto di aver ricevuto da queste rivelazioni la conoscenza della via che tutta l’umanità deve percorrere per raggiungere dopo la morte un’eterna beatitudine.

Si attende da quel divino personaggio fantastico l’impossibile liberazione da mali inevitabili come la morte, le ingiustizie e le sventure della vita. Pretende di possedere un sapere che oltrepassa ogni ragionevole possibilità circa le origini e la fine del mondo, cose che in fin dei conti non ci interessano affatto, dato che siamo chiamati a vivere nel presente e non nel passato o nel futuro.

Immaginandosi di essere guidato e sorretto dalla grazia soprannaturale di un Dio immaginario, il credente, secondo l’ateo, mette in atto tutte le sue forze umane rifiutandosi di farsi meriti presso gli altri e presso la società con un lavoro assiduo, e si adagia pigramente e comodamente sulle sue fragilità, si collega con i suoi correligionari in una comunità, detta «Chiesa», che è come uno Stato nello Stato, la quale pretende di dire allo Stato, in nome della supposta rivelazione divina, che cosa deve fare per l’attuazione del bene comune.

Marx previde che, una volta superata la crisi di crescita, che ha portato l’umanità a liberarsi dalla religione per riprendersi la sua essenza alienata, secondo lo schema di Feuerbach, gli uomini liberi avrebbero cessato di usare la parola «Dio», come di termine riferito ad un’entità immaginaria prodotta da un’umanità schiava di una classe oppressiva.

Ed è esattamente quello che sta avvenendo oggi ormai dall’ultima campagna ateistica organizzata dal regime staliniano degli anni ’50 del secolo scorso. Nessuno oggi, nel mondo dell’ateismo, porta avanti la polemica contro la religione e a sostegno delle ragioni dell’ateismo.

La cosa paradossale è data dal fatto che se oggi esiste una produzione pseudoteologica che in vari modi offende e falsifica la dignità della maestà divina e i suoi attributi, questa critica, fuorviante, corrosiva e mistificante proviene – horribile dictu – proprio da teologi modernisti, i quali diffondono sfacciatamente false idee su Dio e sui suoi attributi, che fanno comodo all’ateismo, come per esempio una certa teologia negativa o apofatica o spacciata per mistica, che non è altro che una forma subdola più o meno mascherata di ateismo.

Impressionante è dal secolo scorso il moltiplicarsi di giovani che perdono la fede e passano all’ateismo ed all’irreligione, e permangono in questa infausta condotta spesso per tutta la vita, senza incertezze, ripensamenti o pentimenti.  Per converso, tanti giovani che si assumono impegni sacri davanti a Dio nel matrimonio, nel sacerdozio o nella vita religiosa, dopo un certo tempo tralignano e defezionano.

Questo fenomeno stupisce per il fatto che mentre il teismo è fondato su solidissime basi di ragione e di fede, l’ateismo è il frutto dell’orgoglio umano che si appoggia sulla sabbia. Eppure capita che la buona volontà debole e volubile di certi giovani, benché illuminata dalla verità e sostenuta dalla grazia, a un certo punto crolli, mentre persevera caparbiamente e spavaldamente la cattiva volontà dei fedifraghi sostenuti dal demonio.

L’apofatismo buddista 

La teologia negativa nega di Dio ciò che non gli conviene sulla base di un’iniziale conoscenza di Dio come causa prima, primo ente e fine ultimo. Nega tutto il finito per affermare l’infinito. Nega il materiale per affermare lo spirituale. Nega il relativo per affermare l’assoluto. Nega il composto per affermare il semplice. Nega l’imperfetto per affermare il perfetto. Nega la necessità per affermare la libertà. Nega il divenire per affermare l’essere. Nega il mutevole per affermare l’immutabile. Nega il passibile per affermare l’impassibile. Nega la dualità per affermare l’uno e l’identico.

Ora esiste un apofatismo, ossia una teologia negativa, la quale, per la sua esagerazione, rischia l’ateismo. Ed è il buddismo col suo concetto fondamentale del Nirvana. Il buddismo è un’estremizzazione dell’apofatismo brahmanico indiano, nel quale avviene già un processo radicale di negazione per i bramini, ma resta l’affermazione per il comune fedele.

Che cosa succede infatti nel brahmanesimo? Che il sapiente (yogi) distingue due predicazioni di Brahman: c’è il Brahman saguna e il Brahman nirguna. Guna vuol dire «attributo». Brahman sa-guna vuol dire Brahman con attributi; Brahman nir-guna vuol dire Brahman senza attributi. Il che vuol dire che il saggio induista non attribuisce a Brahman assolutamente niente, ma nega qualunque cosa, anche l’essere (sat radice sanscrita di esse), benché l’essere sia fondamentale nella teologia affermativa, tanto che Brahman è definito come Sat-Citta-Ananda: Essere-Intelletto-Amore (felicità).

Nel buddismo Nir è la negazione di vana, che significa «foresta», simbolo della molteplicità. Dunque: negazione ed estinzione della molteplicità dei vani desideri della terra, per aprirsi alla Luce infinita. Il Buddha è l’Illuminato. Non dice forse la Scrittura che «Dio è luce»? E la luce non è il simbolo della verità? (I Gv 1,5). Il Buddha iniziò la sua missione dopo aver fatto l’esperienza della Luce beatificante, che è il Nirvana[4]. Ha tutto ciò qualcosa a che fare con l’ateismo?

Occorre però tener presente che il vertice della sapienza (vidya) per l’induismo è la presa di coscienza, al termine di un cammino di purificazione, liberazione, illuminazione sotto la guida dello yogi, che alla radice o all’origine del proprio io empirico (atmàn) e della propria individualità materiale (jivan), c’è la propria autocoscienza assoluta (il Sé), che è Brahman e che corrisponde all’autocoscienza cartesiana, il cogito. Infatti, tanto il cogito quanto l’autocoscienza brahmanica non è l’autocoscienza, alla quale io giungo partendo dalla conoscenza del mondo, ma è autocoscienza che precede la mia conoscenza del mondo, esattamente a come è l’autocoscienza divina. Quindi tanto Cartesio che il brahmanesimo mettono l’io umano (o sé umano) al posto dell’io divino (o Sé divino).

Tuttavia la cosa non è così sicura. L’esito panteista sia del brahmnesimo in Shamkara nel sec. VIII-IX che del cartesianismo con l’idealismo tedesco è una possibile interpretazione, ma tanto per il brahmanesimo con Ramanuja nel sec. XIII che per il cartesianismo come fu per il Card.de Bérulle o il Malebranche o il Beato Antonio Rosmini, è possibile un’interpretazione che si accordi col teismo e col realismo gnoseologico.

Occorre in ogni caso ricordare contro l’idealismo che Dio conosce il mondo esterno a Lui sulla base della sua autocoscienza ideatrice, la quale pur vede il mondo nell’intimo di se stessa, mentre l’uomo giunge alla sua autocoscienza o coscienza di sé solo sul presupposto della precedente conoscenza del mondo esterno.

Quanto al buddismo, esso va oltre l’induismo abolendo del tutto anche il Brahman saguna, sicchè alla fine di questo processo demolitore ci si potrebbe chiedere che cosa resti, tanto che può nascere il sospetto di ateismo. Inoltre il Nirvana, che da una parte ignora l’oggettività concettuale, mentre dall’altra si presenta come beatitudine soggettiva assoluta ed ineffabile, fa nascere il sospetto che il Budda non sia riuscito a liberarsi dell’autocoscienza brahmanica, anche se ovviamente dobbiamo pensare che anche il buddista, in quanto uomo ragionevole, sa almeno implicitamente, che Dio esiste ed implicitamente Gli rende omaggio con la sua austera millenaria vita monastica dotata di una viva compassione per le umane sofferenze e vivamente impegnata nella pratica  della fraternità umana e  della liberazione spirituale.

Il buddista, circa il parlare di Dio preferisce il silenzio, ma se proprio deve parlare, usa parole senza senso, astenendosi ovviamente dal turpiloquio, dalle oscenità e dalla bestemmia. Per esempio può esprimere una frase così: «gli uccelli saltano secondo il quadrato dell’ipotenusa». E questo perché? Con quale diritto? Ricordiamoci che per il buddista una parola ha senso se riferita all’esprimibile in parole. Se invece pretende di esprimere l’inesprimibile, perde senso. Diventano senza senso. Ora, dato che l’essenza di Dio non è esprimibile in parole, ma una parola vale l’altra, tanto vale raggruppare parole a caso e siamo certi di dire chi è Dio meglio che se usassimo parole elaborate dalla nostra ragione.

Non c’è nessun dubbio che il buddismo imposta il rapporto con Dio sul piano dell’esperienza mistica, naturalmente rettamente intesa non come autocoscienza originaria atematica preconcettuale, che non esiste ed è una fantasia panteistica, ma come illuminazione intellettuale interiore affettiva, nella quale il concetto teologico, che il buddista sa formare benissimo come ogni uomo ragionevole, resta la mediazione intenzionale di detta esperienza, ma il mistico rinuncia ad usare le parole che significano quel concetto. Quindi non è che il concetto manchi, se no dall’intellettualità si scadrebbe nello psichismo animale, solo che il mistico preferisce fruire nel silenzio della luce e della pace del nirvana, piuttosto che parlare di ciò che è la ragione concettuale del nirvana.

Il buddismo può avere una somiglianza esteriore con l’ateismo per il fatto che non ha una teologia, ma solo una morale. Ma in realtà, sia dalla sua morale che dalla spiritualità che lo anima, è evidente che esso sottende una profonda sete di Dio ed aspirazione a Dio, nonché un’esperienza mistica della sua presenza, che si manifesta nelle due nozioni fondamentali della buddhi e del nirvana.

La prima richiama l’idea dell’intelletto, della conoscenza, dell’illuminazione e della verità; la seconda rappresenta la pace e la beatitudine ineffabile conseguente all’intuizione della verità. Inoltre le conseguenze e le premesse morali, per la loro rettitudine ed austerità dimostrano chiaramente che il buddista attinge nel nirvana la sorgente della rettitudine morale e le forze per la pratica del bene. Quindi dal suo operare e dalla sua condotta morale si capisce che il buddista entra in contatto con Dio, anche se su ciò egli tace e manca quindi di una predicazione teologica o ha una teologia puramente negativa.

Al contrario del buddismo, l’ateismo produce di per sé effetti deleteri in campo morale per il fatto che il suo apofatismo non suppone affatto il sentirsi indegno di parlare di Dio come il buddista, ma è un vero e proprio disprezzo per la maestà divina e per conseguenza disprezzo per le sue leggi, quando l’ateo non esce in veri e propri spropositi, insulti e bestemmie contro Dio, cosa del tutto assente nel buddismo.

E se l’ateo mostra rispetto per il prossimo ed operosità per il bene degli altri, ciò non è assolutamente conseguenza logica, ma felice incoerenza col suo ateismo, che di per sé dovrebbe condurlo all’odio verso il prossimo e verso se stesso e verso l’intero universo, in quanto creati da Dio. Oppure vuol dire che non si tratta di un vero ateo, ma di un soggetto, come il buddista, incapace di parlare di Dio.

Né l’ateo né il buddista parlano di Dio. Eppure fra loro c’è un abisso: il buddista fa capire di credere nel Dio ineffabile con una retta condotta morale. L’ateo fa capire di non credere in Dio – anche se a parole si professa credente - con una vita dissoluta ed immorale.

Fine Prima Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 5 giugno 2021

Invito a consultare:

3-4 Giugno 2021, Roma - Conferenza sulla teologia negativa per il XXI secolo

http://www.theologia.va/content/cultura/it/collegamenti/accademie-pontificie/teologia/archivioeventi.html



Tale rapporto si risolve semplicemente nella presa di coscienza che il proprio io non è originariamente l’io empirico, passeggera parvenza destinata a dissolversi con la morte; ma è l’io trascendentale, corrispondente a ciò che la religione e la teologia chiamano «Dio» e che l’idealista preferisce chiamare «Assoluto», come fanno Schelling ed Hegel, perché la parola «Dio» appartiene al linguaggio concettuale-religioso dell’io empirico, mentre qui si tratta di rifarsi a un io più radicale, profondo, autentico ed originario, che è l’autocoscienza dedotta dal cogito cartesiano.

L’ateo vanta una confutazione scientifica dell’esistenza di Dio, ma in realtà è lui a sragionare con la pretesa di assegnare al mondo bisognoso di un fondamento, il ruolo di fondamento, che esso non ha, sicchè, allorché l’uomo si appoggia su di esso, sprofonda nell’abisso o, come si esprime Kant, nel «baratro della ragione». Kant infatti crede ingenuamente d’aver confutato la tesi della causa prima chiedendosi chi ha causato la causa prima. Il che dimostra di non aver capito che cosa è la causa prima, perché se fosse causata da una causa precedente, non sarebbe più la causa prima.


 

Né l’ateo né il buddista parlano di Dio. Eppure fra loro c’è un abisso: il buddista fa capire di credere nel Dio ineffabile con una retta condotta morale. L’ateo fa capire di non credere in Dio – anche se a parole si professa credente - con una vita dissoluta ed immorale.

 
Immagini da internet
- F. Schelling
- E. Kant
- Budda 
  

[1] Rahner propone un concetto di Dio come «misyero assoluto» nel quale non c’è  nulla da concepire: Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, Roma 1978, p.41-42; 71-90; Esercizi spirituali per il sacerdote. Iniziazione all’esistenza sacerdotale, Queriniana, Brescia 1974, pp.9-15.

[2] Ugualmente Giuseppe Barzaghi afferma che «esiste il concetto di ciò che è senza concetto». Ma se l’oggetto è senza concetto, Barzaghi cade in contraddizione perché ad un tempo concepisce per poter definire, ma nel contempo non concepisce perché l’oggetto non è concepibile.  Cf Oltre Dio ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la deità, Giorgio Barghigiani Editore, Bologna 2000, p.66.  

[3] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.491.

[4] Come è riferito da Radhakrishnan, La filosofia indiana, Edizioni Ashram Vidya, Roma 1993, pp.345-346.

3 commenti:


  1. Con la modernità si è quindi diffusa, ed è tuttora in voga, tra famosi pensatori la concezione dell’Assoluto/Dio come diveniente, non trascendente il mondo e conseguentemente il ritenere falsa la concezione di un Dio indiveniente che pone liberamente il mondo, pensiero umano compreso. E’ possibile sapere quali sono le comuni, basilari e determinanti argomentazioni che seguono questi filosofi e dove si può individuare l’errore radicale (che deve essere difficile a evitare se così tanti filosofi nel corso dei secoli ci cascano) in questa sequenza argomentativa tale da rendere falsa la concezione di un Assoluto diveniente e non trascendente il mondo. E come tali filosofi si difenderebbero? E ovviamente, per concludere dovrebbe anche gentilmente mostrare come tale difesa sia vana. Di nuovo grazie, Padre Cavalcoli per l’attenzione. Distintamente. Francesco Orsi

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  2. ...quindi se ho ben capito l’errore radicale in cui cade il pensiero moderno sulla natura dell’Assoluto/Dio è, come ricavo da ciò che lei scrive: l’Assoluto/Dio deve essere immutabile per spiegare l’evidente divenire del mondo. Grazie

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    1. Caro Francesco,
      lei ha colto molto bene il mio pensiero. Già Aristotele si accorse che il divenire e il moto non spiegano se stessi, ma per spiegarli occorre un principio immoto o immobile, ovvero immutabile.
      Perché, questo? Perché altrimenti il moto non avrebbe un punto di riferimento. Possiamo fare un esempio semplicissimo. Prendiamo un’automobile in viaggio. È evidente che essa deve avere un punto di partenza e un punto di arrivo, che stiano fermi. Solo in questo caso il moto ha un senso e ha un termine.
      Infatti, il moto fine a se stesso non ha senso e non è neanche concepibile. Un’automobile non viaggia tanto per viaggiare. Similmente il mondo e le cose non si muovono tanto per muoversi. È vero che il mondo è in un continuo divenire. Ma qui il discorso è lo stesso che potremmo fare per l’automobile in viaggio. Quindi torniamo all’automobile.
      Se il punto di arrivo o di partenza dovessero spostarsi, l’automobile non partirebbe mai a causa della retrocessione continua del punto di partenza e non arriverebbe mai a causa dell’allontanamento continuo del punto di arrivo. Per questo Aristotele conclude con una formula icastica: se tutto si muovesse, nulla si muoverebbe.
      Quindi i progressisti, che disprezzano l’immutabilità di Dio, si danno la zappa sotto i piedi e sono uguali agli immobilisti, che rifiutano ogni possibile progresso.
      In Platone c’è l’idea di un moto dello spirito, ma è semplicemente un modo di dire per esprimere il principio dell’autocoscienza.

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