Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 6 (2/2)

 

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 6 (Parte 2/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 15 (A-B)

Bologna, 3 marzo 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

E’ importante anche la questione, tutt’altro che da trascurare, quella appunto, degli accidenti dell’atto umano, ossia delle circostanze. Infatti, vedete, ci sono determinati accidenti dell’essere fisico, che sono proprio incidentali, in sostanza. Se un uomo, non so, è bianco, giallo o nero non tocca la sua umanità. S.Tommaso non era un razzista, come si vede. Insomma, ecco, il colore non tocca affatto l’umanità dell’uomo. Cioè questo è un accidens nel senso proprio che è slegato dall’essenza dell’uomo.

Ci sono invece altri accidenti, che per quanto non costituiscano la natura dell’uomo, però la portano a pieno sviluppo. Già quell’altro accidens, che è l’essere eruditi, in qualche modo è un qualcosa quasi di dovuto alla natura umana. Cioè la natura umana pienamente sviluppata è una natura umana che cura la propria intellettualità, sul piano speculativo, scientifico, eccetera.

In questo senso ci sono determinate circostanze, cioè una certa situazione, per dirla con una parola moderna, in cui si svolge l’atto umano, situazione che è significativa proprio per il bene e il male dell’atto umano. Quindi, c’è un certo dovere di far attenzione non solo a ciò che si fa, ma anche in quale situazione si fa.

Per esempio, è bello divertirsi e scherzare a carnevale. Però se uno lo fa in una chiesa, certamente non fa una cosa piacevole, non fa una cosa moralmente corretta. Perché? Perché la circostanza del luogo evidentemente influisce sull’atto umano. Quindi bisogna badare alle circostanze.

Vedremo poi che ci sono delle circostanze che possono addirittura cambiare la specie dell’atto umano. Soprattutto l’esempio più grande ovviamente è sempre quello del sacrilegio, dove in qualche modo questa circostanza della sacralità violata, con qualsiasi altro tipo di peccato, fa passare quel peccato nella specie del sacrilegio.

Per esempio, il rubare ha già una sua specificità nell’atto umano, ha già la sua malizia morale, ma farlo in chiesa o in cimitero è chiaro che ovviamente cambia specie. Quindi, anche la circostanza apparentemente così epidermica, come quella del luogo, può incidere molto molto profondamente sull’atto umano e sulla sua moralità. Questo rispetto appunto alle circostanze.

Bisogna perciò che l’uomo, con la sua razionalità, non consideri solo ciò che sta per fare, cioè l’essenza dell’atto umano, ma anche in quali situazioni concrete sta per porre l’atto, perché ciò che può essere buono da parte della specie, può risultare cattivo da parte delle circostanze. Facciamo l’esempio della devozione farisaica: essere devoti per apparire tali davanti agli uomini, come dice Gesù “Voi avete già ricevuto la vostra mercede”.

Ebbene, questa è certamente una circostanza, nella quale essi agiscono. Di per sé, per esempio, danno l’elemosina, fanno un atto umano buono nella sua specie. Però, siccome la circostanza è quella di una certa vistosità, queste circostanze rovinano la bontà intrinseca, sostanziale, dell’atto umano o per lo meno la deteriorano in qualche modo. Questo per quanto riguarda appunto le circostanze.

Infine, c’è la bontà dovuta all’atto umano ex parte finis, dalla parte del fine. Ora, notate sempre l’analogia. Come l’oggetto sul piano dell’atto umano corrisponde alla forma specificante l’entità fisica, così le circostanze corrispondono sul piano dell’atto umano a ciò che sono gli accidenti dovuti a una essenza sul piano dell’entità fisica. Similmente ciò che è il fine remoto, il fine per cui si agisce sul piano dell’atto umano corrisponde alla causa, sul piano della sostanza fisica.

Quindi, vedete come la causalità più squisitamente morale è la causalità finale. L’atto umano dipende dal fine remoto, come nel piano fisico il generato dipende dal generante. E’ come se il fine remoto partorisse il fine particolare. C’è una certa causalità. Porre un’azione buona con la sua bontà intrinseca per un bene superiore, è come causare quell’azione in dipendenza da quell’altro bene, che voglio conseguire.

Tanto per fare un piccolo esempio banale, io voglio regalare qualcosa a un amico per fargli un piacere. Quindi il regalino fatto all’amico è già un atto buono per la sua specie. Però, poi voglio procurargli piacere, che è il fine remoto. Ora, la bontà particolare del regalino dipende dalla bontà più remota, che è quella del fare piacere all’amico.

Tanto è vero, tanto per esemplificare, che io, siccome sono guidato dalla causalità finale remota, anche nella scelta del mezzo, cioè del fine particolare che diventa quasi mezzo rispetto al fine remoto, sono guidato sempre dal fine remoto. Per esempio, per fare piacere all’amico, cercherò di conoscere i suoi gusti e sceglierò il regalino secondo i suoi gusti.

Quindi, in qualche modo, il fine remoto per cui si agisce è come la causa dell’atto umano in particolare. Se la causa ovviamente è malvagia, deteriore, cattiva, è evidente che rovina anche l’atto di per sè eventualmente buono, quanto alla sua specie. Quindi, insomma, agire o fare qualcosa di buono, ma con fine cattivo, è altrettanto sbagliato come fare qualche cosa di cattivo con un fine buono.

Questo si riconnette, miei cari, con quell’assioma, che così spesso ripeto ai cari fedeli, anche dal pulpito. Ossia il principio bonum ex causa integra, malum ex quoqumque defectu. Quindi, il bene sorge dalla integrità della realtà, mentre il male sorge, non già dall’integrità del male, perchè questo non è possibile, ma anche da un solo difetto. E’ curioso. Sembra ingiusto.

Come? Ma io ho fatto tutto bene, solo quell’unico punto, mi è andato male, e il Padre Eterno se la prende con me! Ha ragione[1]. Proprio perché la bontà esige pienezza. Per il male basta una sola privazione, perchè l’atto sia cattivo.

Quindi, perchè l’atto umano sia buono integralmente è necessario che sia buono l’oggetto, ciò che si fa. Non è possibile fare del male, perchè ne venga fuori del bene, lo dice anche S.Paolo. Quindi bisogna che l’oggetto sia buono, che sia fatto per un fine buono. Quindi, se do l’elemosina, la do per sollevare il povero e per onorare Dio, non per vantare me stesso. L’esempio dei farisei, eccetera. Quindi, la necessità che sia fatto per un fine buono. E poi nelle circostanze dovute. Cioè per esempio, sempre stando all’elemosina, facendola troppo pesare sul prossimo.

Quindi tutto questo dev’essere in qualche modo ordinato. Prego, caro Fra Daniele. Prego.

… vale …

Vale per

… vale per tutti … anche per chi …

Bravo, caro Fra Daniele. Forse l’avrai letto nella Summa Theologiae, ma S.Tommaso si pone proprio la tua domanda. No, non l’hai letto. Hai visto che hai anticipato il pensiero dell’Amico d’Aquino? Hai capito. Il fatto è che effettivamente S.Tommaso, in questo articolo, procede proprio così. Cioè dice: tra gli esseri, c’è ne uno solo, c’è Dio, che è incausato. Si può dire anche “Quelli” nel senso trinitario.

Insomma, le Persone della Trinità Santissima sono incausate. Sono l’essere incausato, la pienezza dell’essere. E questo non dipende da una causa generante e nemmeno da una causa creatrice, è proprio l’essere increato. Poi ci sono degli esseri limitati, che, in quanto limitati, sono sempre causati.

Quindi praticamente S.Tommaso, nel trattario sulla Creazione, se vi ricordate bene, è molto attento a non confondere la finitezza dell’ente con la sua dipendenza causale. Cioè dice non è che l’ente finito si riduca quanto a tutta la sua entità a dipendere dall’altro. L’ottimista d’Aquino, insiste su questo proprio per dare consistenza alle entità finite. Quindi, l’entità finita ha una sua bontà intrinseca, che certo deriva dall’altro, ma la sua bontà non sta tutta nell’essere derivato dall’altro.

Però, è vero che la finitezza dell’ente, anche se non è costituta dall’essere causato, è però sempre legata a quella proprietà di essere causato, cioè non c’è ente finito, che non sia anche causato. Si potrebbe dire che, riguardo all’ente finito, il suo costitutivo non è l’essere causato, ma quella di essere causato è la sua proprietà; non c’è ente finito che non sia causato.

Quindi, ogni entità finita dipende da una causa. Solo l’entità infinita, divina, non dipende da nessuna causa. Similmente l’agire di Dio non dipende da un fine. Cioè l’indipendenza di Dio nell’ordine causale, non è solo indipendenza dalla causa efficiente, ma ovviamente anche indipendenza della causa finale. Ciò vuol dire che Dio non ordina le sue azioni a un fine, ma le azioni di Dio sono già il fine, l’ultimo fine.

Però, gli effetti dell’azione divina, questi sì, non sono Dio; sono quindi entità finite e perciò finalizzate e causate, causate da Dio e finalizzate ancora a Dio. Quindi, vedi, il discorso di S.Tommaso quando dice. Aspetta che te lo dico in, in latino, nevvero. Non vult hoc propter hoc, sed vult hoc esse propter hoc, cioè non vuole questo per quello, come noialtri, che ordiniamo una cosa, una nostra azione all’altra, a un fine, Dio non ordina il suo agire al fine, ma vuole, nell’agire, che quel determinato creato effetto sia rapportato a quel fine e in ultima analisi a Lui come fine ultimo. Prego. Prego.

… potrebbe …

Quando ci chiediamo che cosa fa sì che un ente finito sia finito, che cosa lo costituisce, non nella finitezza, ma nella entità finita, che cosa lo costituisce tale, cioè ente finito, la risposta, unica risposta attendibile, è la differenza tra la potenza e l’atto, la prima differenza tra la potenza e l’atto, cioè praticamente un’essenza, che non adegua l’ampiezza dell’atto di essere.

Quindi, come dicono i metafisici, la costituzione dell’ente finito consiste ancora nella relazione trascendentale tra l’essenza e l’atto di essere. Ossia, un ente è finito quando la sua essenza è potenziale rispetto all’essere. Ecco perchè l’essere di Dio è infinito, perché l’essenza adegua l’actus ipse essendi.

Quindi, la costituzione della finitezza non sta in una relazione predicamentale, come è quella della dipendenza causale, bensì nella relazione trascendentale, che connette l’essenza con l’essere. Però, un’essenza, che riceve l’essere, non può ricevere l’essere se non dall’altro, quindi tramite la causalità.

Però, non è la causalità che costituisce la finitezza dell’ente, bensì il fatto immediato che l’essenza ha ricevuto l’essere. L’averlo ricevuto dall’altro è un passo successivo. Badate che adesso l’ho riassunto in poche parole, ma lì si cela ben altro. Ma non posso esplicitarlo del tutto, sia perché naturalmente non ci capisco ancora del tutto, ma anche per il fatto che ci porterebbe molto lontano, ma è questo fatto è degno di ogni nota.

… però … possiamo desiderare … Dio vuole fare … allora perchè …

Il fatto è questo. Adesso non voglio diventare calvinista, cioè dire, insomma, che Dio può causare il peccato, senza peccare Lui stesso. E’ evidente che il male di colpa Dio non può causarlo direttamente. Qui, voi sapete, S.Tommaso scomoda la volontà permissiva di Dio. Cioè dice che Dio vuole permettere, vuole che sia permesso il difetto morale. Perciò in qualche modo si potrebbe dire che la deficienza della colpa umana, la nostra libertà, si costituisce veramente causa prima.

Ma questo è comprensibile perchè la deficienza sta tutta in un non-essere, non nell’essere. Comunque è come se Dio creasse attorno all’atto umano una situazione di permissione, cioè di lasciar decadere, senza però spingere alla caduta. Scusate se dico così, è molto difficile descriverlo.

Il discorso cambia molto per quanto riguarda invece i mali fisici. E quindi Dio non si rende colpevole, ovviamente, proprio perchè non c’è nessuna legge morale che obblighi Dio a non permettere o a non volere addirittura il male fisico. Questo possiamo dire, senza parlare di obblighi. Infatti, è brutto parlare di obblighi rispetto a Dio. Però, sia che ci siano o no, qui il linguaggio umano veramente viene meno.

Possiamo però dire che effettivamente di fatto Dio non causa mai il male fisico[2]: sofferenza, malattia, morte e tutti gli strazi che possono capitare, stragi, terremoti. Non causa mai il male fisico, se non per qualche bene a noi sconosciuto, che però risulta per il bene di tutto l’universo, e spesso anche della persona sofferente. Noi sappiamo bene come la sofferenza ha un valore di catarsi, di purificazione.

Però, c’è anche questo, che il Signore è sempre buono e quindi in qualche modo, come si può dire, rapporta il beneficio indiretto della sofferenza anche a chi soffre più immediatamente. Però c’è una connessione che va al di là del singolo uomo o anche di una comunità di uomini, e che è il bene comune dell’universo, che noi effettivamente ignoriamo.

Quindi, con Dio non bisogna fare quello che ci è consentito con i nostri governanti. Qui effettivamente possiamo farlo, anche se pure con loro talvolta siamo un po’ ingiusti. Invece, con il buon Dio non bisogna mai protestare e dire: ma, Signore, perché governi così il mondo?  Come quel tale che mi sbalordisce sempre di più con discorsi empi. Per fortuna non sa quello che dice, che è questo: che il Padre Eterno mi permetta solo per un minuto e faccio io il suo lavoro. Allora io dico: figliolo, non conviene proprio, chissà che disastro combineresti.

Quel tale pretende effettivamente di capirne di più del Padre Eterno. Se volete, è il libro di Giobbe che ci ispira da quel lato, cioè questa fiducia. Giobbe comincia a ubbidire a Dio, non accettando la sofferenza per la sofferenza, ma in qualche modo capisce che la razionalità divina creatrice è al di sopra di quella umana.

Vi ricordate l’epilogo, quando il Signore lo interroga spiega, appunto: dove eri tu forse quando io fondavo la terra, facevo sorgere i monti, attendevo alla volta stellata, eccetera?

Quindi, a questo punto, se volete, effettivamente bisogna sempre dare questa fiducia a Dio. Non bisogna avere spirito critico, nel senso politico della parola, riguardo al Governante di tutta la comunità dell’universo. Bisogna dare questa fiducia a Dio, anche se noi non possiamo capire il perchè di determinati guasti apparenti sul piano fisico della creazione. Ma Dio lo sa e lo inserisce in un contesto più pieno. Questa è la grande speranza.

Quando apriremo gli occhi, nell’al di là, sull’altra sponda, allora capiremo e loderemo il Signore: Signore, io ho brontolato, però adesso capisco perché lo hai fatto.

Prego, caro. Prego.

… assioma … che non si può volere un bene … desiderando un male … vale soltanto … adesso …

Sì. Sì. Certo. Non c’è dubbio, caro. Questa è una precisazione molto importante per la moralità, anche se questa questione è molto delicata da gestire. Ossia la questione del male minore. Nella morale, strettamente parlando, cioè là dove si tratta di beni onesti, che sono proprio oggetto di moralità, lì non vale per nulla il discorso del male minore. E’ un discorso che sembra un po’ suonare troppo radicalmente. Ma è vero.

Cioè non si può dire: io faccio un piccolo male, per evitare un grande male, sul piano dell’onesto. Lì c’è veramente una certa esigenza di integrità. Il discorso cambia là dove si tratta della cosiddetta etica di valutazione, non di etica di principio. Cioè, diciamo l’etica che riguarda non più i beni onesti, ma la valutazione dell’ordine dei beni utili.

Allora è possibile, nell’ordine dei beni utili, anzi è doveroso, sacrificare il bene minore, sacrificio che è sempre un male, ma un male fisico, sacrificarlo per ricavare un vantaggio più grande o morale o comunque un vantaggio anche fisico, ma più grande di di quel bene che è stato sacrificato. Cosa delicatissima però, ripeto, da gestire.

Ma notate bene questa dualità di aspetto. Il primo discrimine è quello tra l’ordine dei beni morali e dei beni utili. Ciò che vale a livello dei beni utili non può applicarsi a livello dei beni morali. Quindi, il discorso del male minore non vale a livello dei beni morali. Invece, per esempio, non si può dire: ammetto un pochino di aborto, per evitarne molto, come facevano i nostri abortisti durante il referendum, come per dire, per sottrarre le donne[3].

 Io capisco. E’ una piaga. Sono quelle vicende, nelle quali si abbandonavano le donne a queste varie levatrici. Le maieutiche, direbbe Socrate. Levatrici, ma poco esperte, nell’arte di levatrice. Riguardo a queste che agivano illegalmente, per sottrarre le donne a queste situazioni, dicevano: legalizziamo l’aborto. Non è un discorso valido.

E poi, a quanto pare, c’è stato lo scandalo della clinica di Londra, dove le nostre care italiane andavano a farsi ricoverare perché lì si può fare fino al settimo mese, pensate, settimo mese della gravidanza! Ebbene, insomma, poi di fatto i nostri cari Radicali non hanno ottenuto proprio quello che avrebbero voluto. Perché, vedete, qui alla malizia non c’è mai un freno. Se voi permettete i tre mesi, poi dopo quelle vorranno i sei mesi. E via dicendo.

Ad ogni modo, quello che è importante è che lì, sul piano morale, evidentemente il discorso non è valido. Cioè lì è questione di principio. E però, è un’altra questione quella dove si tratta effettivamente di un confronto tra due beni utili. Per esempio, non è mai lecito che lo Stato spinga il cittadino a fare un peccato, neanche per salvare lo Stato. Però, è lecito che lo Stato esiga molto dal cittadino, persino il sacrificio della sua vita, al limite, pur di salvare il bene appunto comune e via dicendo.

Certo, i discorsi diventano non facili da fare, perché poi in concreto, non è di facile applicazione. Prego, caro.

… perché … penso che la non moralità … aborti … riguardo … peccati di giustizia … sentimento … non restituisce … differenza …

Sì. Sì. Sì, certo. Sì. Ditemi meglio questa vostra (?). Sì. Certo. Sì. Sì. Sì. Sì. Su questo non ci sono dubbi. Effettivamente è così. Diciamo che, in tal caso, la moralità particolare dell’atto è effettivamente osservata, perché, questo è vero, è molto giusto quello che ci ha detto, cioè la giustizia ha una particolare connotazione di esteriorità. Cioè, quello che conta nella giustizia è effettivamente l’atto esterno. Questo mettersi alla pari con il prossimo, insomma, osservare il suo diritto.

Tuttavia anche nell’atto della giustizia evidentemente, per avere veramente un atto, diciamo, di virtù della giustizia, bisogna non solo materialmente soddisfare a quella che è l’esigenza della giustizia, che effettivamente è obbiettiva, è materiale, è estrinseca. Questo è l’aspetto infatti giuridico della cosa. E il giurista è contento, se uno ha restituito. Con quale animo l’abbia fatto, non si cimenta[4]. L’importante è che la restituzione sia avvenuta.

Invece, ai fini della virtù della giustizia, è già importante pure sul piano naturale, per lo meno non ci dev’essere un grave disordine sul piano del fine remoto, nel senso che vi ricorderete questa definizione della giustizia, che è una firma et constans voluntas ius suum cuique tribuendi.

Quindi, dal punto di vista giuridico, vale solo l’aspetto obiettivo, ius suum cuique tribuendi, cioè dare a ciascuno il suo. Dal punto di vista morale è molto importante che ci sia la volontà di darglielo. Cioè, non solo darglielo obtorto collo, ma proprio darglielo perché il soggetto avverte che è giusto agire così.

Quindi, anche dal punto di vista morale, ci potrebbe essere una certa invalidazione dell’atto di giustizia, proprio per questa mancanza del fine remoto. Certo che è vero, rimane sempre vero che nella giustizia è difficile invalidare la consistenza diciamo così dell’atto, proprio a causa di questa sua doverosità obiettiva, e dipende molto meno dalle intenzioni interiori.

Sì, quindi penso che questo vada differenziato. Diciamo così, che allora l’atto di giustizia presenta questo duplice aspetto: uno giuridico, dove quello che conta è assolutamente solo l’aspetto della esteriorità; e uno morale, dove il fine remoto incide, però incide meno di quanto non incida negli atti delle altre virtù, proprio a causa di questa quasi esteriorità dell’atto della giustizia.

Il che si connette poi con il fine ultimo, in sostanza. Infatti, uno potrebbe dire, a un certo punto: se il fine remoto invalida l’atto morale, se uno agisce con un fine ultimo disordinato, fa sempre dei peccati. Come diceva Lutero: se uno agisce senza la carità, fa sempre un peccato. Non è vero, però, perché è possibile che io sia disordinato abitualmente rispetto alla carità, ma che ponga un atto anche in vista della carità, senza averla.

Ciò non è detto di ogni peccatore. Lutero lo diceva anche dei giusti: ogni giusto pecca in ogni sua opera giusta. Questo è proprio da esagerato. Ma comunque, anche il peccatore, e tanto di più il peccatore, direbbe Lutero, chè poi tutti siamo peccatori secondo lui, anche dopo la giustificazione. Quindi, ogni peccatore, in quanto peccatore, cioè disordinato rispetto al fine ultimo, non può che fare del male. Perché? Perchè almeno il suo fine ultimo sarà sempre malvagio. Distinguo: abitualmente sì, attualmente non è detto.

Vi ricordate il discorso di S.Tommaso, che prende da S.Agostino. Il peccatore può sempre fare qualche bene parziale, può avere dei cari amici, può, non so, piantare delle vigne e fare altre cose piacevoli. E può farlo anche con un fine remoto buono, non è detto che ordini tutti i suoi atti al suo fine abituale malvagio.

C’è una altra precisazione da fare, però riguardo al fine. Infatti, vi ho già accennato a questo; è una distinzione importante, perché il fine appare a tre titoli diversi: primo, appare come fine prossimo dell’opera, ossia come oggetto, coincide con l’oggetto. Poi appare come fine dell’operante, il fine come causa, che incide poi sull’atto umano,

… coincide con …

coincide con il fine causa, la causa per cui finalisticamente qualcosa avviene. Per esempio, io faccio un regalo per far piacere all’amico. E poi appare anche come circostanza, la circostanza cur. E’ il perché uno ha fatto una determinata cosa.

E’ facile distinguere. Io vi presento una mia modesta interpretazione. Notate infatti che S.Tommaso non dirime la questione. Gli altri moralisti nè se la pongono né la dirimono. Al riguardo, io penso che è facile distinguere tra il fine dell’opera e il fine dell’operante. Questo è ovvio. C’è il fine prossimo dell’operazione stessa e c’è il fine remoto a cui io, in un secondo momento, ordino l’azione. Più difficile è evidenziare il fine come circostanza.

Io penso che il fine come circostanza non consista nè esclusivamente nel fine dell’opera nè esclusivamente nel fine dell’operante, ma nella connessione o nella relazione, se volete, tra i due fini nella volontà dell’agente. Cioè l’agente pone l’azione con la volontà di ordinarla a quel determinato fine remoto. Cioè, l’agente pone l’azione in quella situazione particolare, che corrisponde alla volontà di ordinarlo a quel tale fine remoto.

E così il fine appare a questo triplice titolo, però con questa distinzione, che il fine circostanza non è nè l’uno nè l’altro fine, cioè nè quello prossimo nè quello remoto, ma è il fatto che l’agente nella sua intenzione ordini l’uno all’altro e agisca con questa determinata intenzione.

Così S.Tommaso, riassumendo le fonti della moralità, dice che, secondo il genere, la fonte della moralità è la stessa entità dell’azione. Se l’azione ha una pienezza di essere, è azione buona; se le manca qualcosa dell’essere dovuto, è azione cattiva. Questa è la moralità generica.

Poi c’è la moralità specifica, secondo specie, che però spesso S.Tommaso, per adeguarsi al linguaggio consueto tra i moralisti del tempo, chiama anche ex genere, senza però che la parola ex genere qui abbia qui il significato proprio metafisico, come grado metafisico distinto della specie. Cioè, la moralità specifica è dovuta, come abbiamo visto, all’oggetto, che poi coincide con il fine prossimo, il fine dell’opera stessa.

Poi c’è la moralità delle circostanze, la situazione in cui l’uomo agisce. E’ la moralità accidentale, però di quegli accidenti che sono quasi una esigenza dell’essenza; non costituiscono l’essenza, però l’essenza vuole che sia realizzata con tali proprietà. E poi secondo il fine, e cioè che il fine dell’opera sia rapportato anche a un fine dell’operante onesto.

E qui c’è effettivamente l’esigenza che tutte queste dimensioni dell’atto umano siano soddisfatte, perchè l’atto sia buono simpliciter. Deve avere questa pienezza di essere. Soprattutto è molto importante il confronto tra l’atto interiore, che come vedremo sarà specificato dal fine dell’operante, e l’atto esterno, che è specificato dal fine prossimo, dal fine ultimo.

… moralità …

Moralità causale, quella che deriva dal fine.

Sì. Cioè la moralità dalla parte del fine, che è quasi come il fine, che è come la causa dell’atto umano. Quella che è in qualche modo la causa sul piano fisico, è il fine sul piano morale. Quindi c’è la moralità generica, la moralità specifica, la moralità delle circostanze, che è la moralità accidentale, e poi c’è la moralità causale, che è la moralità derivante dal fine.

Notate sempre questo. Lo raccomando molto, questo ordine, anzitutto tra l’atto interiore e esterno, cioè che, sia lo specificante dell’atto interiore, che è il fine remoto, sia lo specificante dell’atto esterno, che è il fine prossimo, che entrambi siano in armonia, che entrambi siano onesti.

Quindi, ripeto, come non è lecito fare del male, perchè ne venga fuori del bene, così non è lecito fare del bene, perchè ne venga fuori del male. Tanto meno ovviamente è lecito fare del male, perché ne venga fuori del male. Quindi, l’unica situazione lecita è quella di fare il bene, perchè ne venga fuori del bene. Questo anche secondo i Sacri Testi, oltre che secondo la ragione umana.

L’articolo cinque è estremamente importante. Qui S.Tommaso riprende questo tema della razionalità, dell’esse secundum rationem. Solleva la domanda, se la differenza del bene e del male è una differenza specifica rispetto all’atto umano. Cioè se gli atti umani, che sono quasi un genere, sono specificamente divisi in buoni e cattivi. Ora, dice S.Tommaso, la differenza è specifica dalla parte di un atto, che procede da una facoltà, se l’oggetto dell’atto è rapportato per se e non accidentalmente alla facoltà. E’ molto importante questo principio.

Cioè, l’atto è differenziato secondo la specie dal suo oggetto, se l’oggetto a sua volta si rapporta alla facoltà per se e non accidentalmente. Esempio molto concreto e molto convincente, che l’Aquinate fa, è quello della differenza tra i sensibili e gli intelligibili. Ciò che è per se, ciò che è una differenza per se, sul piano del senso, è una differenza per accidens, sul piano dell’intelletto.

Per esempio, vedere dei colori e udire dei suoni è una differenza per se rispetto ai sensi. Quindi, il colore e il suono sono degli oggetti, che si rapportano ai sensi per se, proprio specificando, e quindi distinguono due facoltà sensitive diverse. Invece, per l’intelletto farsi il concetto di un colore o farsi il concetto di un suono, è uguale. Sempre concetto è. L’astrazione annulla questa differenza. Quindi, quella differenza che è specifica e per se rispetto al senso, diventa accidentale, non più per se, non più specificante, rispetto all’intelletto.

Quindi, bisogna vedere se la differenza del bene e del male è per se rispetto all’uomo. E qui S.Tommaso non ha dubbi. Dice evidentemente di sì, perchè abbiamo detto che il bene e il male è la conformità o meno alle esigenze di una natura, che è razionale. Ora, l’uomo è razionale per se, non per accidens.

Quindi, il bene e il male si rapportano alla razionalità pratica dell’uomo per se e non per accidens. Vedete come riprende il discorso della razionalità e soggettiva e obiettiva. Cioè la razionalità soggettiva deve sottostare al fatto obiettivo che l’uomo è razionale, che tutte le sue facoltà hanno da obbedire a quel bene supremo, che è il bonum rationis.

E quindi la differenza tra il bene e il male, che è la differenza tra la conformità o meno alla ragione obiettiva, è una differenza per se rispetto alla ragione soggettiva. L’essere razionale o meno non è indifferente rispetto alla razionalità soggettiva.

Quindi, comportarsi da razionali o da non razionali, è una differenza per se rispetto alla razionalità soggettiva stessa. Perciò ovviamente la differenza tra il bene e il male, nell’ambito razionale pratico, cioè nell’ambito delle azioni umane, è una differenza per se. Ma notate bene questa fondazione nella razionalità dell’uomo e cioè il fatto che la legge morale è una conformità alla natura razionale dell’uomo, e questa conformità non è indifferente rispetto alla valutazione razionale soggettiva.

S.Tommaso spiega nell’ad secundum, che ovviamente l’atto umano non può essere mai in qualche modo privo dell’oggetto specificante, cioè avrà sempre una sua consistenza morale specifica. Proprio perchè il male morale non può esistere in assoluto, anche il male morale si verifica sempre in un bene, in un atto che ha sempre una determinata specie. Solo che è una specie fisicamente buona, ma moralmente informe.

Per esempio, il fare un esercizio fisico, è una cosa buona, ma fare questo esercizio fisico, rapinando un furgoncino delle poste, è naturalmente una cosa malvagia. Vedete, miei cari. Quindi, in sostanza, dal punto di vista fisico, non so, i brigatisti rossi, al limite, fanno del bene alla loro salute, con questi esercizi impegnativi. Ma compiono moralmente del male.

Quindi, S.Tommaso precisa che non è che ci sia una non entità dell’atto. No, è un atto con una specie concreta, un fine dell’opera, solo che quel fine dell’opera è moralmente perverso. Quindi, questa specie morale è sempre in qualche modo innestata in un atto, a sua volta fisicamente specificato.

Adesso c’è una duplice questione che riguarda il confronto tra la moralità derivante dal fine e la moralità derivante dall’oggetto. Anzitutto la stessa moralità derivante dal fine determina la specie; notate, determina anch’essa, ancora di più, come vedremo, la specie dell’atto umano. Quindi, non solo la moralità derivante dall’oggetto, ma anche, e più ancora, la moralità derivante dal fine, determina la specie dell’atto umano.

In questa questione S.Tommaso anticipa appunto ciò che dirà più avanti sulla differenza tra l’atto interiore e quello esterno. Fa una analogia. Dice che l’atto esterno riceve la specie da ciò che si fa. Se io ammazzo un uomo, la mia azione prende specie dal fatto di togliere la vita a un innocente. Quindi, l’atto esterno prende specie dall’oggetto, dal fine prossimo, insomma dall’operazione, da ciò che si fa, da ciò attorno a cui si svolge essenzialmente l’operazione.

Similmente l’atto interno prende specie dal fine per cui si fa. Se io ammazzo il prossimo per ambizione politica, più che un assassino sono un ambizioso ad oltranza, un assetato del potere, come qualifica morale interiore. Quindi, esteriormente il mio atto immorale è qualificato come assassinio, interiormente l’assassinio è dovuto alla mia ambizione politica sconfinata.

Quindi, c’è una moralità, che deriva dal fine dell’opera all’atto esterno, e c’è una moralità, che deriva all’atto interno. Da che cosa? Dal fine che ci si propone.

… è il movente …

Il movente. Brava. Brava, cara. Vede. Questa è una parola giusta in giurisprudenza. Il movente per cui si compie una, una azione.

… motivo …

Motivo, sì, c’è anche movente, eccetera. Quindi, in sostanza S.Tommaso dice che, sia il fine che l’oggetto incidono sull’atto umano, ma a un duplice titolo: il fine incide sull’atto interiore; l’oggetto sull’atto esterno. E come l’atto esterno dipende da quello interiore, così l’oggetto dipende dal fine, causalmente. E’ ben quello che abbiamo visto. Vedete come in fondo ci tornano i conti?

Come causalmente l’atto esterno dipende dall’atto interiore, così lo specificante esterno, cioè l’oggetto, dipende nella causalità finale dal fine remoto, che è lo specificante dell’atto interiore. E siccome è un solo atto, un unico atto moralmente parlando, il suo essere morale sarà determinato a questo duplice livello e dal fine e dall’oggetto. Solo che la difficoltà è qual è questa reciproca relazione tra la moralità derivante dal fine e la moralità derivante appunto dall’oggetto.

Leggete poi tutto l’articolo. Non ha tanta importanza. Però S.Tommaso cerca di dirimere la questione fino a che punto la moralità derivante dal fine sottostà a quella derivante dall’oggetto o, viceversa, quella derivante dall’oggetto sottostà a quella derivante dal fine. Insomma, in morale, per distinguere, si usa la distinzione tra genere e specie, che si chiede qual è la moralità generica, cioè più universale, e qual è la moralità più determinata e più specifica.

La soluzione poi è che la moralità specifica deriva più dall’oggetto che dal fine. Cioè, la moralità dal fine è più universale della moralità derivante dall’oggetto. Ma, c’è da distinguere. La distinzione importante è questa, che talvolta può succedere che un oggetto sia per se ordinato al fine dell’operante, e cioè che l’oggetto dell’atto, di ciò che si fa, sia per se, per natura sua, ordinato al fine dell’operante.

Per esempio, il combattere bene. E’ curioso. Il nostro amico d’Aquino, per quanto pacifista in sé, e dedito a un mestiere pacifico, tuttavia ogni tanto usa degli, degli esempi alquanto militareschi.  Dice dunque che combattere bene è per se connesso con la vittoria. Non si può dire: io combatto bene, tanto per fare un esercizio fisico. No. Insomma, con il mio combattere bene in acie, nella schiera dei combattenti, io contribuisco poi alla vittoria di tutto l’esercito.

Facciamo un esempio più sportivo. Insomma, se io gioco bene a calcio, contribuisco alla vittoria della mia squadra. Non posso dire, insomma: gioco tanto per divertirmi. No. Di fatto contribuisco, anche alla vittoria degli altri.

Quindi, in sostanza, può succedere che ciò che si fa, cioè l’oggetto, sia per se ordinato al fine. In tal caso, c’è una coordinazione delle due moralità. Cioè succede che effettivamente il fine determina la moralità più universale, la vittoria globale della squadra, a cui è subordinata l’azione più particolare, più esteriore, che è il fatto di darsi da fare per giocare bene individualmente.

Diverso invece è il caso dove una moralità non ha nulla a che fare con una altra. Per esempio, il rubare per dare l’elemosina. Il rubare non è necessariamente ordinato a dare l’elemosina. I ladri non è che facciano delle elemosine. Cioè succede che, anzi generalmente, quello che hanno malamente sottratto al prossimo, lo usano non per elargirlo all’altro prossimo, tranne Robin Hood, e una certa poesia romantica medievale. Ma comunque, non succede che uno tolga a uno per dare poi a dei poveretti, ma generalmente lo devolve ad altri usi più personali, più utilitaristici.

S.Tommaso, dice che in tal caso non si può dire che uno è ladro in vista di fare l’elemosina. Va bene? Perchè le due moralità non sono per se connesse. Quindi sono due specie disparate, non sono coordinate l’una all’altra. Prego.

Come dice? Ah. Giusto. Ecco un altro esempio di Robin Hood. Sì. Proprio così. Sì. Brava. Sì, effettivamente. E’ così. Allora. Vedete. Questo come esempio, per dirvi che effettivamente, insomma non sempre queste due moralità sono coordinate l’una all’altra. In tal caso ci sono due specie morali. Nell’altro caso invece c’è una specie e un genere. Genere determinato dal fine, specie determinata dall’oggetto dell’atto esterno.

Cari, vi ringrazio della vostra paziente attenzione. E ci vediamo martedì prossimo.

Nel nome del Padre …

Amen.

Ti rendiamo grazie …

Amen.

Nel nome del Padre …

Amen.

Grazie, carissimi.

Padre Tomas Tyn, OP

 Registrazione di Amelia Monesi
Trascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 10 marzo 2014
Testo rivisto con note da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 22 agosto 2015.
 

S.Tommaso, nel trattario sulla Creazione, è molto attento a non confondere la finitezza dell’ente con la sua dipendenza causale. Cioè dice: non è che l’ente finito si riduca quanto a tutta la sua entità a dipendere dall’altro. L’ottimista d’Aquino, insiste su questo proprio per dare consistenza alle entità finite. Quindi, l’entità finita ha una sua bontà intrinseca, che certo deriva dall’altro, ma la sua bontà non sta tutta nell’essere derivato dall’altro.

Però, è vero che la finitezza dell’ente, anche se non è costituta dall’essere causato, è però sempre legata a quella proprietà di essere causato, cioè non c’è ente finito, che non sia anche causato. Si potrebbe dire che, riguardo all’ente finito, il suo costitutivo non è l’essere causato, ma quella di essere causato è la sua proprietà; non c’è ente finito che non sia causato.

Quindi, ogni entità finita dipende da una causa. Solo l’entità infinita, divina, non dipende da nessuna causa. Similmente l’agire di Dio non dipende da un fine. Cioè l’indipendenza di Dio nell’ordine causale, non è solo indipendenza dalla causa efficiente, ma ovviamente anche indipendenza della causa finale. Ciò vuol dire che Dio non ordina le sue azioni a un fine, ma le azioni di Dio sono già il fine, l’ultimo fine.

Però, gli effetti dell’azione divina, questi sì, non sono Dio; sono quindi entità finite e perciò finalizzate e causate, causate da Dio e finalizzate ancora a Dio. Dio non ordina il suo agire al fine, ma vuole, nell’agire, che quel determinato creato effetto sia rapportato a quel fine e in ultima analisi a Lui come fine ultimo.

Quando ci chiediamo che cosa fa sì che un ente finito sia finito, che cosa lo costituisce, non nella finitezza, ma nella entità finita, che cosa lo costituisce tale, cioè ente finito, la risposta, unica risposta attendibile, è la differenza tra la potenza e l’atto, la prima differenza tra la potenza e l’atto, cioè praticamente un’essenza, che non adegua l’ampiezza dell’atto di essere.

Quindi, come dicono i metafisici, la costituzione dell’ente finito consiste ancora nella relazione trascendentale tra l’essenza e l’atto di essere. Ossia, un ente è finito quando la sua essenza è potenziale rispetto all’essere. Ecco perchè l’essere di Dio è infinito, perché l’essenza adegua l’actus ipse essendi.

Quindi, la costituzione della finitezza non sta in una relazione predicamentale, come è quella della dipendenza causale, bensì nella relazione trascendentale, che connette l’essenza con l’essere. Però, un’essenza, che riceve l’essere, non può ricevere l’essere se non dall’altro, quindi tramite la causalità.

Però, non è la causalità che costituisce la finitezza dell’ente, bensì il fatto immediato che l’essenza ha ricevuto l’essere. L’averlo ricevuto dall’altro è un passo successivo.

Immagini: Padre Tomas Tyn, OP

[1] Si riferisce.

[2] Padre Tomas si riferisce al fatto che il male fisico è conseguenza del peccato originale, benchè la Scrittura parli di castigo divino.

[3] Alle levatrici poco esperte.

[4] Pronuncia.

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