Il mistero dell’essere in Karl Rahner - Mistero dell’essere e mistero di Dio - Seconda Parte (2/4)

 

Il mistero dell’essere in Karl Rahner

Mistero dell’essere e mistero di Dio

 

Seconda Parte (2/4)

La dottrina del mistero in San Paolo

Il significato teoretico del mistero appare chiaramente in San Paolo, quando, tessendo le lodi della sapienza divina, dice, stando alla traduzione della Bibbia della CEI: «Quanto sono imperscrutabili (anexeràuneta) i suoi giudizi e inaccessibili (anexicnìastoi) le sue vie!» (Rm 11,33).

Anexerauneta significa propriamente inesplicabile e anixicnìastoi vuol dire ininvestigabile. San Paolo usa il verbo katalambano, comprendere, quando parla della conoscenza dell’«amore di Cristo, che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3, 19). Quindi, come nota acutamente San Tommaso, San Paolo nel riferirsi alla conoscenza di Dio, distingue katalambano, comprehendo da ghinosko, cognosco. In base a questa distinzione, egli afferma che Dio può essere colto o conosciuto dall’intelletto, ma non compreso[1].

Poco sopra Paolo parla della prospettiva di «annunciare ai Gentili le ininvestigabili ricchezze di Cristo e di far risplendere agli occhi di tutti qual è l’adempimento del mistero nascosto nei secoli nella mente di Dio» (vv.8-9). Il termine usato da Rahner, «incomprensibile», non esiste nella Scrittura in riferimento al mistero di Dio.

Al contrario, stando alla terminologia di San Paolo, si tratta di comprendere il mistero divino. San Paolo infatti auspica agli Efesini di essere in grado di «comprendere (katalambano) con tutti santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e conoscere (ghnonai) l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza (yperballusan tes ghnoseos)» (Ef 3,18).

È vero tuttavia che Paolo limita questo comprendere e viene in qualche modo a negarlo col precisare che il mistero è inesplicabile e ininvestigabile. Ma non dice affatto che sia del tutto incomprensibile, come crede Rahner. Per questo il comprendere paolino ha avuto un seguito nell’espressione «comprehensores» per designare i beati.

San Paolo parla dunque di conoscenza del mistero. Il mistero divino è conoscibile. Anzi può essere oggetto di scienza (gnosi, I Cor 12,8). Riemerge qui la daàt, la scienza veterotestamentaria. Tuttavia la scienza può essere occasione di superbia, mentre è la carità che edifica (I Cor 1,8). Parlando di carità, Paolo si riferisce qui alla sapienza, che è sapere basato sull’umiltà e congiunto alla carità. Essa infatti è la scienza dei «perfetti» (I Cor 2,7), mentre la carità è il «vincolo della perfezione» (Col 3,14). E torna anche qui l’ideale veterotestamentario della hokmàh, la sapienza.

Paolo adotta il termine mysterion collegabile col sod, ossia il segreto veterotestamentario per il fatto di essere anch’esso cosa divina nascosta da comunicare solo agli iniziati. Tuttavia egli prende questo termine dai mysteria pagani, che prevedevano appunto un’iniziazione all’esperienza della vita del dio al quale si veniva iniziati e il dovere di tacere presso i profani, che avrebbero potuto non capirlo.

Egli trova adatto questo termine mysterion, inquantoché anche nel cristianesimo esistevano pratiche simili. Infatti anche il cristianesimo prevede riti di iniziazione alla vita divina come il battesimo e di comunione con Dio, come l’eucaristia. Anche nel cristianesimo esiste il mistagogo, che è il sacerdote. I misteri pagani prevedevano uno sposalizio dell’iniziato con la divinità. Ed ecco Paolo parlare di mistero a proposito del matrimonio.

San Girolamo si accorse che Paolo intendeva il mistero non solo come oggetto di conoscenza segreta nel senso del sod, ma anche come pratica liturgica, per cui, per il fatto che nel diritto romano il sacramentum era un’azione sacra, tradusse il mysterium paolino con sacramentum. Ecco allora che noi latini abbiamo la dottrina dei sette sacramenti, mentre i greci hanno preferito chiamare «mistero» anche quello che noi latini chiamiamo sacramentum. Da qui quell’afflato mistico della liturgia bizantina, che è ignoto alla liturgia romana. 

D’altra parte di Cristo Paolo mantiene il concetto veterotestamentario di mistero come sod, quando parla dei misteri del Regno di Dio, che devono essere taciuti agli indegni e comunicati a coloro che possono apprezzarli. Quindi lo stile del predicatore evangelico è quello di evitare da una parte un esoterismo elitario e preziosistico e dall’altra una propalazione propagandistica, indiscriminata ed imprudente.

Il giusto contatto col mistero divino per San Paolo è dunque dato dalla sapienza e non dalla scienza. «La scienza gonfia; la carità edifica» (I Cor 8,1), ci avverte l’Apostolo. Ed è la sapienza ad essere legata alla carità, giacchè Paolo ci dice che «tra i perfetti parliamo di sapienza» (I Co r,6) e che d’altra parte «la carità è il vincolo della perfezione» (Col 3,14).

Se infatti si fissa l’attenzione solo sulla scienza senza congiungerla alla sapienza, sorge la tentazione di poter comprendere esaustivamente il mistero, cosa che in realtà è possibile solo alla scienza divina. L’errore dell’idealismo di voler identificare l’essere col pensare o il pensare con l’essere è tutto qui: la pretesa dell’uomo di pareggiare la scienza divina. Il fenomeno dello gnosticismo, di recente condannato da Papa Francesco, non è altro che questo.

Kant disse che Dio è pensabile (denkbarer), ma non apprensibile (apprehensibler)[2]. Non così per la Scrittura, per la quale Dio, certo, è pensabile, ma non come una semplice idea o un possibile, ma è conoscibile come una vera realtà. Dio non è una mia idea, ma è l’ipsum Esse.

Il famoso noùmeno kantiano è Dio stesso in quanto oggetto del pensiero. E di fatti San Paolo (Rm 1, 20) usa lo stesso verbo noeo, penso, per esprimere il fatto che noi possiamo conoscere gli attributi divini partendo dalle creature. Paolo usa il termime kathorao, che significa osservo, vedo, considero, contemplo, riconosco.

Dio, però, secondo la Scrittura, non può essere solo pensato, ma realmente conosciuto. San Paolo infatti, distinguendo la futura visione beatifica dall’attuale conoscenza «come in uno specchio e in enigma» (I Cor 13,12), usa il verbo ghinosko, conosco.

C’è tuttavia da notare che il termine incomprehensibilis è stato usato da San Girolamo per tradurre gli anexarauneta di Rm 11,33 e compare nel Magistero con San Leone Magno (Denz.294) fino al Concilio Vaticano I (Denz.3001). Non sembra tuttavia molto felice, perché dire di qualcosa che è incomprensibile, sembra voler dire che non ci si capisce niente. Invece il mistero divino è comprensibile, tuttavia non perfettamente o non completamente.

È chiaro che se per «comprendere» noi intendiamo comprendere esaustivamente, includere, abbracciare totalmente, capire fino in fondo o totalmente, il mistero divino è incomprensibile. Ma allora a questo livello anche l’essenza del moscerino o della mosca è incomprensibile e qui ha ragione Kant quando dice che noi conosciamo il fenomeno ma non la cosa in sé.

La conoscenza del mistero, come insegna chiaramente San Paolo (I Cor 13, 12), è nella vita presente conoscenza imperfetta o parziale non nel senso che io ne conosco solo una parte e l’altra mi resta sconosciuta, così come conosco una faccia della luna e l’altra mi resta ignota.

 Infatti il mistero divino, che è Dio stesso, è ente uno e semplicissimo non composto di parti: o lo si vede tutto o non si vede niente.  Di questo mistero resta sempre qualcosa da vedere quaggiù, mentre progredisce la conoscenza teologica. Lassù invece il nostro sapere sarà completo e saziante. Non ci sarà più altro da cercare. Vedremo tutto, ma non totalmente; questo spetta a Dio. Vedremo l’Infinito, ma solo finitamente. Ciò non esclude peraltro un progresso indefinito, come riteneva San Gregorio di Nissa, sempre nell’orizzonte della sazietà.

Conoscere in parte in San Paolo vuol dire che io di Dio so questo o quello; ma non conosco ciò che in Lui supera la mia capacità di comprendere. La promessa del serpente nel paradiso terrestre – «conoscerete il bene e il male» – era fallace. Questo sapere spetta solo a Dio. Sta a Lui determinare il criterio del bene e del male. A noi obbedire in base al criterio e mettere in pratica. Lo gnosticismo è la pretesa di sapere di più di quanto possiamo sapere.

Conoscenza di fede e visione beatifica

Nella conoscenza del mistero di Dio, si trattasse della stessa visione beatifica, noi siamo beati nel solo capire di questo mistero quello che ci è dato di capire secondo la capacità della nostra mente, fruire di quel grado di conoscenza che abbiamo raggiunto nel corso della vita mortale col lavoro della nostra ragione alla luce della fede.

Non possiamo avere la pretesa di capire tutto come per esempio posso sapere che cosa significa in italiano la parola inglese water. Quando ho capito che water in inglese vuol dire acqua, ho capito tutto e non ho altro da capire. Quando ho capito che 2+2=4, ho capito tutto quello che qui c’era da capire e non devo capire altro. Non così nel mistero di Dio. In esso capisco qualcosa, che basta a rendermi beato. So che c’è infinitamente altro che io, nella mia finitezza, non capisco e non posso capire. Ma ciò non mi disturba affatto. Come chi ha bevuto abbastanza non è turbato dal fatto che la sorgente getta ancora acqua.

Certamente, se io davanti alla presentazione di un mistero di fede fatta dalla Chiesa o da un teologo non capisco niente, questo non è il segno che ho fede, ma che sono mentalmente pigro, il che non va bene, perché è segno di accidia, ossia di fastidio o sordità per le cose spirituali e di falsa umiltà, il che è un pretesto per non mettere in pratica ciò che mi comanda di fare il mistero di fede. Mi dimentico che se voglio salvarmi devo entrare per la porta stretta. Devo sforzarmi per comprendere e col soccorso della preghiera ed una vita austera, capirò e gusterò delizie ben superiori a quelle della carne, anche se forte è la loro attrattiva e lecita è la loro moderata soddisfazione.

Comprendere è come un prendere, un afferrare e tener stretto. Così il capire è un capere, cioè afferrare. Le convinzioni sono salde quando abbiamo capito bene. La fede è salda non quando abbiamo capito il contenuto concettuale di fede e lo abbiamo riconosciuto per vero, e neppure perché lo abbiamo razionalmente dimostrato, ma perché ce lo ha rivelato Dio. Qui la lingua tedesca ha un verbo efficace: begreifen, che implica un afferrare, mentre «concetto» si dice Begriff, che comporta anche qui un afferrare.

Ma per noi, riguardo al mistero divino, basta raggiungerlo e coglierlo nel nostro concetto di fede, il dogma; non possiamo avere la pretesa di inglobarlo o racchiuderlo nella nostra piccola mente. Dobbiamo avere l’atteggiamento dell’emorroissa del Vangelo, la quale dice tra sé e sé: «basta che io gli tocchi il mantello e sarò guarita». Certo, la Maddalena vorrebbe abbracciare Gesù e trattenerlo, ma Gesù la tiene a distanza, anche se le lascia intendere[3] che in paradiso potrà abbracciarlo.

Il termine mysterion viene da myo, che significa taccio, faccio silenzio. Difatti nell’esperienza mistica vengono meno le parole a causa dell’ineffabilità di questa stessa esperienza. Come è noto, nell’antico mondo pagano il mysterion è un rito segreto ed esoterico di iniziazione al culto del Dio col quale si pensava che l’iniziato entrasse in un’intima comunione, così da essere invasato dal Dio, mentre l’ispirazione divina è l’enthysiasmòs, da cui entusiasmo, ossia il fervore dal quale viene preso il miste, ossia l’iniziato al mistero. La mistagogia è l’iniziazione al mistero. Questa terminologia è stata poi assunta dal cristianesimo per esprimere l’iniziazione e l’esperienza mistica del Dio cristiano[4].

Mistero è ciò di cui si tace non solo perché mancano le parole per esprimere ciò che il mistico prova nell’esperienza del mistero, ma anche perché il mistero nel Vangelo è il contenuto del messaggio di Cristo, è la verità sul Padre che Egli ha ricevuto dal Padre e che Gesù comunica ai suoi amici gli apostoli in modo riservato, benché poi di per sé sia destinata da Cristo ad essere comunicata a tutto il mondo. Ma comunque si tratta di segreti salvifici che per essere comunicati suppongono legami di amicizia e reciproca confidenza, come dice il Signore: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15).

Dio infatti ci rivela delle verità attinenti alla sua intima essenza o al suo misterioso agire nei nostri confronti o nella storia, verità talmente profonde o elevate, dal contenuto talmente ricco, che la nostra ragione, anche illuminata dalla fede o dal lume della gloria celeste,  può certamente conoscere, ma così che la sua comprensione è limitata dalla capacità finita della stessa nostra ragione e quindi la ragione sa che al di là di quanto essa comprende c’è un oltre per lei assolutamente incomprensibile e semplicemente adorabile.

Il mistero divino, quindi, non è unico, come crede Rahner, ma molteplice. Esistono cioè molti misteri rivelati, oggetto di fede. Questi misteri sono realtà o proposizioni intellegibili, ma il cui contenuto o significato ci sfugge perché è al di là e al di sopra di quanto possiamo capire, anche illuminati dal lume della gloria celeste.

La loro molteplicità dipende dal fatto che la nostra mente è un ente complesso, in quanto creato, per cui la nostra mente apprende il vero solo mediante una composizione di concetti, che è quella del giudizio, nonchè nella molteplicità dei sillogismi. Per questo noi possiamo apprendere il mistero di Dio e di ciò che lo riguarda solo per mezzo di questa molteplicità, dalla quale si ricavano gli articoli del Credo e i dogmi della fede.

Esistono due gradi di conoscenza del mistero divino rivelato: la fede e la visione. La conoscenza di fede è un sapere provvisorio, proprio della vita presente, per il quale il credente accoglie la verità divina nascosta sotto le proposizioni di fede formulate dalla Chiesa, i dogmi e gli articoli del Credo, e velata da immagini e simboli proposti da Dio stesso rivelante. Si tratta di un sapere che può e deve sempre progredire con un continuo approfondimento del contenuto della fede, ma che resta sempre mediato dalla concettualità, per quanto arricchita dal dato rivelato e dalla dottrina della Chiesa.

Ma la prospettiva ultima della conoscenza del mistero è quella di contemplare la verità svelatamente in cielo senza la mediazione di immagini e concetti. Qui l’intelletto non accoglie il vero sull’autorità di Dio rivelante per la mediazione della Chiesa, della Scrittura e dell’umanità di Cristo, ma perché lo vede immediatamente ed intuitivamente in se stesso nella sua infinita totalità, benché sempre in modo limitato, dovuto alla sua finita capacità di comprensione, benché elevata dal lume della gloria.

Nella vita presente la teologia dà una definizione dell’essenza o natura di Dio mediante la nozione analogica dell’essere e le nozioni trascendentali utilizzando quel sapere che possiamo acquistare in base alla ragione (teologia naturale) o, ancor meglio, in base a quanto Dio stesso ci rivela di se stesso (teologia cristiana). Tuttavia un conto è definire la sua essenza e un conto è vederla o intuirla.

Adesso, come dice il Cardinale Gaetano, possiamo sì conoscere l’essenza, ma non a modo di essenza; cioè sappiamo che ha un’essenza, anzi che la sua essenza è il suo stesso essere; ma non nel modo col quale si conosce un’essenza, ossia nella sua propria ragion d’essere ed essenzialità personale, individuale, singolare ed inconfondibile. Questo ci sarà possibile solo in paradiso. Ma anche in paradiso Dio resterà un mistero. In ciò Rahner ha ragione.

Tuttavia, resterà mistero non nel senso che non vedremo nulla. Qui Rahner ha torto. Dio resterà per noi mistero incomprensibile per tutto ciò che della sua essenza trascende la finitezza del nostro intelletto, ma ci sarà noto e conosciuto per tutto ciò che di Lui possiamo comprendere illuminati dal lume della visione beatifica. Come dice l’Apocalisse:

«Vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte», ossia «non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole», cioè dei concetti di fede, «perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli del secoli» (22, 4-5).

La prospettiva di vedere immediatamente l’essenza divina in cielo senza la mediazione di alcun concetto non deve però farci credere, come pensa Dionigi l’Areopagita, che

«nella misura in cui solleviamo lo sguardo verso la vetta, i discorsi si rarefanno nelle visioni d’insieme degli intellegibili. E ora addentrandoci nella densa nube che è al di sopra dell’intelletto troveremo non la brachilogia, ma la totale assenza di discorso e inintellegibilità. … Ascendendo ulteriormente asseriamo che della causa di tutte le realtà …  non vi è né parola né nome né conoscenza; che non è né oscurità né luce, né errore né verità; che di essa universalmente non si dà né affermazione né negazione, perché la causa totale e unica di tutte le cose è anche al di sopra di ogni affermazione e l’eminenza di ciò che è semplicemente svincolato da  tutte le realtà è al di sopra della loro totalità,  è anche al di sopra di ogni negazione»[5].

Ora io vorrei domandare a Dionigi: se le cose stanno così, perché Dio a Mosè ha detto «Io sono»? Perché Cristo ha detto di se stesso «Io sono la verità»? Perché San Giovanni ha detto: «Dio è luce»? Perché San Paolo dice che «in Cristo c’è stato il sì» (II Cor 1,19)? Perché Cristo ci ha detto «il vostro parlare sia sì, sì, no, no; il resto appartiene al diavolo»? Pensi di saperne più di Cristo e di San Paolo?

Fine Seconda Parte (2/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 5 aprile 2023

Il mistero divino, non è unico, come crede Rahner, ma molteplice. Esistono cioè molti misteri rivelati, oggetto di fede. Questi misteri sono realtà o proposizioni intellegibili, ma il cui contenuto o significato ci sfugge perché è al di là e al di sopra di quanto possiamo capire, anche illuminati dal lume della gloria celeste.

La loro molteplicità dipende dal fatto che la nostra mente è un ente complesso, in quanto creato, per cui la nostra mente apprende il vero solo mediante una composizione di concetti, che è quella del giudizio, nonchè nella molteplicità dei sillogismi. Per questo noi possiamo apprendere il mistero di Dio e di ciò che lo riguarda solo per mezzo di questa molteplicità, dalla quale si ricavano gli articoli del Credo e i dogmi della fede.

Esistono due gradi di conoscenza del mistero divino rivelato: la fede e la visione. La conoscenza di fede è un sapere provvisorio, proprio della vita presente, per il quale il credente accoglie la verità divina nascosta sotto le proposizioni di fede formulate dalla Chiesa, i dogmi e gli articoli del Credo, e velata da immagini e simboli proposti da Dio stesso rivelante. Si tratta di un sapere che può e deve sempre progredire con un continuo approfondimento del contenuto della fede, ma che resta sempre mediato dalla concettualità, per quanto arricchita dal dato rivelato e dalla dottrina della Chiesa.

Ma anche in paradiso Dio resterà un mistero. In ciò Rahner ha ragione. Tuttavia, resterà mistero non nel senso che non vedremo nulla. Qui Rahner ha torto.

Immagini da Internet: Cena in Emmaus e Cristo Pantocratore, mosaici, Duomo Monreale
 


[1] Cf Nel suo commento a Fil 3,12 Tommaso intende il comprendere paolino nel senso del comprendere intellettuale, mentre in realtà Paolo lì intende il verbo nel senso di «conquistare». Ma al fine di quanto voglio dire, non importa che qui Tommaso si sia sbagliato, tanto più che non conosceva il greco e aveva a disposizione solo la Vulgata. Quello che qui a noi interessa è che Tommaso ha capito benissimo la distinzione paolina fra il katalambano e il ghinosko, cosa che non ha capito Rahner.

[2] Cit. da Italo Mancini, Kant e la teologia, Cittadella Editrice, Assisi, 1975, p.21.

[3] «Non sono ancora tornato al Padre»; come a dire: quando sarò tornato e tu sarai con me, mi potrai abbracciare.

[4] Cf Hugo Rahner, Mysterion. Il mistero cristiano e i misteri pagani, Morcelliana 1952.

[5] Mistica teologia, Edizioni ESC-ESD, Bologna 2011, pp.261-263.

 

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