Kant e S.Tommaso. Un confronto


Kant e S.Tommaso. Un confronto  

                                      Prius est aliquid intelligere quam intelligere se intelligentem
S.Tommaso, De Ver., q.10, a.8

«Io un Ens realissimum lo concepisco
come il fondamento di tutte le realtà.
Dico: Dio è l’Ente che contiene il fondamento
di tutto ciò che, nel mondo, obbliga gli uomini
a supporre un intelletto;
Egli è l’Ente da cui trae origine
l’esistenza di tutti gli enti del mondo,
non dalla necessità della sua natura,
bensì secondo un rapporto che obbliga noi uomini
a supporre una volontà libera».
                                                              Emanuele Kant



Prima parte – il tomismo trascendentale

L’affinità di S.Tommaso con Kant secondo Maréchal
La questione della conoscenza metafisica di Dio e del rapporto dell’uomo con Dio anche oggi è sempre viva. Nell’ambito di questa importante tematica appaiono sempre interessanti i tentativi, compiuti soprattutto nel secolo scorso, ma ancor oggi di attualità, nel clima di dialogo interculturale avviato dal Concilio Vaticano II, di accostare la gnoseologia tomista a quella kantiana, dopo la severa condanna del kantismo fatta dalla Pascendi di S.Pio X, quasi a voler verificare se, nonostante tutto, e riconoscendo gli errori di Kant, non sia possibile un confronto col kantismo[2]
Il nome principale che si può fare al riguardo è quello del teologo gesuita di Lovanio Joseph Maréchal, dal quale a partire dagli anni ’20 del secolo scorso sorse un’intera Scuola, che tra gli altri  registra i nomi di Johannes Lotz e di Karl Rahner.
Maréchal ritenne, dopo aver compiuto accuratissimi studi su S.Tommaso e su Kant, che dalla coscienza apriorica kantiana di pensare l’ente si possa ricavare la conoscenza realistica tomista dell’ente extramentale. Dal kantismo si potrebbe ricavare il realismo come radicalizzazione o inveramento del kantismo[3]. E il tomismo troverebbe vantaggio ed anzi una più profonda interpretazione nell’assumere il trascendentalismo kantiano. Così il kantismo si potrebbe «trasporre» nel tomismo e viceversa[4]
Egli ritiene che, al di là della doverosa critica dell’idealismo kantiano alla luce del realismo tomista, sia possibile un’integrazione reciproca dei due metodi critici: 
«ces deux méthodes critiques, abordant, sous des angles complémentaires, le même objet total, doivent, poussées à fond, livrer finalement des conclusions identiques, car la Critique ancienne pose d’emblée l’Objet ontologique, qui inclut le Sujet trascendental; et la Critique moderne s’attache au Sujet transcendental, qui postule l’Objet ontologique.  S’il est vraie  - c’est nôtre thèse dans ce volume – que la Critique ontologique et la Critique trascendentale, quoique différentes par le point de vue sous lequel elles envisagent d’abord l’objet connu, convergent de droit  vers un même résultat final, une métaphysique dynamiste, la conclusion s’impose, semble-t-il, que d’une critique à l’autre doivent exister des correspondances étroites, permettant de traiter l’une comme une simple transposition de l’autre»[5]
La tesi fondamentale di Maréchal che starebbe a fondamento del collegamento di S.Tommaso con Kant, è che in ogni nostro giudizio si darebbe un’implicita affermazione dell’esistenza di Dio:
«Toute énonciacion, pour être objective (dans sa forme d’énonciacion) doit contenir l’affirmation implicite d’une réalité absolue détérminée, en d’autres termes, que l’absolu nouménal entre dans les présupposés logiques de l’objet comme tel»[6].
«Les répresentations immanentes de notre pensée n’y ont valeur d’objet qu’en vertu d’une affirmation implicite; et non d’une affimation quelconque, mais d’une affirmation métaphysique, c’est-à-dre d’une affirmation rattachant l’objet à l’absolu de l’être»[7].
«Dans tout objet de pensée, quel qu’il soit, nous affirmons implicitement l’Être absolu et explicitement l’être contigent. En de hors de cetre double affirmation simultanée, il n’y a pas, pour nous, de pensée objective possible»[8].
«S’attachant aux actes successives de l’intellignce, la réflexion y découvre, par une véritable expérimentation intérieure, la corrélation d’un dynsmisme fondamental partout en action et d’une fin dernière subjective partout espérée. Or, à moins de nier l’être et d’adopter la contradiction, l’aveu d’un fin dernière subjective, nécessairement voulue, entraîne l’affirmation d’une fin dernière objective nécessairement existante. A ce moment, non seulement nous connaissons implicitement, mais nous lisons clairement et explicitement, dans les conditions à priori de nos primitives aperceptions d’objet, la révélation, d’abord latente, de l’Être absolu comme Fin universelle»[9].
Come nota inoltre Virgilio Melchiorre, esponendo il pensiero del Maréchal,
«il giudizio è un asserto che rescinde il possibile e decide riguardo all’essere, ed è in sè asserto che si riconosce in un limite, una limitazione obbiettiva, una limitazione d’essere, che come tale è intellegibile solo sullo sfondo di un “complemento infinito” o di un’assoluta intellegibilità»[10].
Secondo il Maréchal, inoltre, come vediamo da questi passi, l’affermazione dell’Assoluto implicita in ogni giudizio sarebbe accompagnata e sorretta da uno orientamento  o tendenza dell’intelletto verso Dio come fine ultimo dell’uomo. Secondo lui è possibile riscontrare in Kant nell’atto del giudizio morale un dinamismo dell’intelletto con connessa affermazione implicita di Dio come fine ultimo e sommo Bene dell’intelletto e con ciò stesso dell’uomo; ed è forse ciò che ha indotto il Maréchal a trovare in Kant una fondazione della metafisica basata sull’istanza morale.
Quanto a Maréchal, egli dà esplicitamente della gnoseologia tomista un’interpretazione kantiana. Non fa meraviglia, allora, che egli trovi una convergenza fra S.Tommaso e Kant:
 «selon la pensée authentique de S.Thomas, l’apriorité, c’est-à-dire la préexistance dans le sujet, de certains déterminations de l’objet, ne s’oppose pas comme telle à la connaissance de l’objet selon ces déterminations mêmes»[11]
In realtà l’a priori soggettivo tomista non prevede nessuna predeterminazione dell’oggetto, ma riguarda soltanto il modo di conoscere del soggetto, secondo l’adagio «quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur».  L’intelletto, prima d’iniziare l’opera del conoscere, è assolutamente privo di contenuti e tutti li riceve partendo dall’esperienza dei sensi, compresa la conoscenza del mondo dello spirito e di Dio, realtà, queste, che ovviamente trascendono l’esperienza, ed alle quali l’intelletto si eleva applicando la nozione analogica dell’ente e il principio di causalità, di eminenza e di negazione. Tuttavia l’oggetto conosciuto nell’intelletto assume il modo d’essere e di conoscere dell’intelletto. 
Per Tommaso l’affermazione dell’assoluto divino non è contenuta nel semplice comune giudizio, col quale giudichiamo delle cose quotidiane, ma è autorizzata e valida solo come conclusione del ragionamento, per il quale la ragione dagli effetti creati risale alla Causa prima. Come vedremo più avanti, Tommaso parla bensì di una conoscenza implicita di Dio nell’atto del giudicare; ma essa non è sufficiente per sapere che Dio esiste. A tal fine occorre allargare, come vedremo, la nozione comune dell’essere a quella dell’essere divino, cosa che, per Tommaso, ha fondatezza oggettiva solo come conseguenza della dimostrazione razionale a posteriori dell’esistenza di Dio.
Osserviamo peraltro che se pretendiamo di fondare il sapere rifiutando l’iniziale contatto con la realtà materiale sensibile esterna e ci chiudiamo nell’io penso cartesiano, partendo da lì e volendo raggiungere il reale, non ci è più possibile, perché sarebbe come uno che volesse nutrirsi di pane, ma invece di assumere il pane reale, credesse che bastasse l’idea del pane per ottenere il pane reale. O il reale lo contattiamo all’inizio o non lo recuperiamo più. Solo Dio può far scaturire l’essere dal pensiero. 
Dalla coscienza kantiana dell’ente, secondo Maréchal, si può passare alla conoscenza tomista dell’ente. Maréchal vorrebbe estrarre il realismo integrale, tomista, dall’idealismo kantiano perché Kant ammette la cosa in sé. Senonchè però a Kant non interessa tanto la cosa in sé ma l’io penso, che lo porta ad elaborare la teoria delle forme a priori dell’intelletto come prodotto del pensiero.
Ma sotto questa angolatura allora il realismo è impossibile perchè Kant parte dalla coscienza, pur ammettendo la cosa in sé. Kant dunque può essere utilizzato nel tomismo a patto di liberarlo dal suo soggettivismo delle forme a priori, perché esse non rispecchiano la forma della realtà, ma pretendono di dar forma alla realtà. 
Osserviamo inoltre che la metafisica per Kant ha per oggetto non l’ente come ente, ma la coscienza di pensare l’ente. Per questo, dalla coscienza kantiana dell’ente, ossia dall’io penso me stesso che pensa l’ente si può ottenere solo il pensiero dell’ente, ma non l’ente.
Diciamo inoltre che anche in Tommaso si può trovare un dinamismo dell’intelletto, nel senso che l’intelletto appetisce la verità come suo bene e pertanto nel suo agire, mosso dalla volontà, si protende alla conquista della verità. Tommaso e Kant tuttavia distinguono l’atto e il divenire dell’intelletto da quello della volontà: i primi sono atti intenzionali immanenti al soggetto, per i quali l’oggetto è interiorizzato nella rappresentazione; mentre i secondi comportano un moto reale del soggetto verso l’oggetto esterno. 
L’interpretazione maréchaliana della morale kantiana è comunque interessante, perché viene a collegare la teoresi di Kant col suo pensiero morale, per il quale il giudizio morale suppone l’ultimo riferimento del volere al «sommo Bene», cioè a Dio e quindi al sommo Ente, che Kant chiama Ens realissimum o Summum Ens[12]. Con ciò verrebbe risolto il notorio dualismo kantiano fra la ragione speculativa e la ragion pratica. 
E da ciò apparirebbe altresì l’inquadramento metafisico della morale kantiana[13], tanto che il Maréchal ritiene di poter trovare in Kant un elemento di somiglianza con la metafisica tomista, consistente appunto nel dinamismo dell’intelletto, per il quale, in ogni giudizio esistenziale, insieme con l’autocoscienza, è presupposta ed implicita una tendenza dell’intelletto a cercare e trovar Dio come fine ultimo dell’attività intellettuale[14]
L’accostamento di S.Tommaso a Kant in Johannes Lotz
Un altro importante tentativo di accostare S.Tommaso a Kant simile a quello di Maréchal, è stato quello del gesuita Johannes Lotz[15], il quale ha creduto di rintracciare sia nella gnoseologia kantiana che in quella tomista un’«esperienza trascendentale dell’essere» preconcettuale ed atematica, ispirandosi all’interpretazione di Kant fatta da Heidegger[16][i], la Vorvertändnis, che in Rahner diventa il Vorgriff. Anche Rahner pretenderebbe accostare Tommaso a Kant. Ma Rahner si spinge anche oltre nell’interpretazione idealistica di Tommaso, giungendo fino ad Hegel con l’identificazione dell’essere col pensiero[17]
Anche Lotz, come spiega Massimo Marassi[18], «assume il metodo trascendentale come condizione della verità oggettiva della conoscenza umana, nell’accettare un a priori o un oggetto formale e il giudizio come posizione d’essere» come essere assoluto. 
Ma lo stesso Lotz spiega la sua differenza da Maréchal, pur ammettendo entrambi l’affermazione di Dio nel giudizio: «Differimus a Maréchal presertim quoad modum, quo nexum inter iudicuum et Esse subsistens inspicimus. Nos enim secundum causalitatem formale externam seu exemplarem, in qua causalitas efficiens includitur; Maréchal vero causalitatem finalem primo loco attendit».[19]
Lotz ritiene infatti che il metodo kantiano di dimostrare l’oggettività della conoscenza, benché contenga un aspetto idealistico che lo rende invalido, sia convergente con quello tomista ed anzi lo integri[20]. In realtà, come ha dimostrato il Maritain[21], se Cartesio e Kant hanno avuto il merito di suscitare l’istanza critica,  non è col loro idealismo, ma è sulla base del realismo tomista che si può costruire una solida ed incontrovertibile critica della conoscenza.
Né in Kant né in S.Tommaso, per la verità, si può rintracciare quell’esperienza trascendentale dell’essere, della quale, per Kant, parla Lotz al seguito di Heidegger. Kant distingue bensì con S.Tommaso il piano trascendentale da quello categoriale della conoscenza, con la differenza che il piano trascendentale in Kant non attiene all’essere extramentale come in Tommaso, ma all’essere di coscienza come quello di Cartesio, essere sperimentato a priori come interno alla coscienza e atto della coscienza, fondato sull’«Io penso» (Ich denke überhaupt)
Questo piano, in quanto fondato sull’io penso, precederebbe secondo Heidegger la categorizzazione, per cui, secondo Heidegger, seguìto in ciò da Lotz, esisterebbe in Kant un’esperienza atematica e preconcettuale dell’essere («ontologica»), che si esprimerebbe nella concettualizzazione dell’essere («ontica»). 
Ora, per quanto riguarda il concetto di esperienza nel campo dello spirito, bisogna dire che possiamo avere esperienza interiore dell’essere pensato o essere di coscienza, ma non dell’essere reale o extramentale, perché qui possiamo sperimentare solo l’ente (ens) sensibile, mentre l’ente spirituale – il nostro io e quello degli altri - lo attingiamo indirettamente o per analogia o per causalità. Quanto all’intellezione dell’essere (esse) noi lo cogliamo solo affermandolo nel giudizio d’esistenza mediante la parola «è», che esprime la terza persona singolare del presente del verbo essere. In tal modo separiamo con la mente l’ente esperito dal suo atto d’essere.
Quanto a un’intuizione dell’essere[22], se prendiamo la parola come sinonimo di «intellezione», come fa Maritain, è ovvio che esiste, giacchè con che cosa cogliamo l’essere se non con l’intelletto? Se invece usiamo la parola come sinonimo di un pensiero o comprensione o esperienza dell’essere, che non sia l’effetto di un giudizio esistenziale, che utilizza la nozione metafisica dell’ente ricavata dall’esperienza, allora bisogna dire che questa intuizione non esiste ed è un’illusione dell’immaginazione.
L’esperienza effettivamente fa a meno del concetto perchè è un contatto diretto con la realtà intellegibile presente al soggetto. Questo contatto diretto può avvenire con l’essere di coscienza, ma non con l’essere extramentale. Kant non parla mai di nessuna esperienza dell’essere. L’autocoscienza kantiana non è un’esperienza dell’essere, ma del mio essere, in quanto pensato da me. Lotz sembra dare un’interpretazione forzata di Heidegger, che qui assimila indebitamente Kant ad Hegel. 
Occorre dire d’altra parte che per Tommaso anche il piano trascendentale è concettuale, come lo è del resto anche per Kant. Non si vede, pertanto, come si possa parlare di un’«esperienza trascendentale atematica preconcettuale dell’essere» sia in Kant che in S.Tommaso. 
Kant distingue con S.Tommaso il piano trascendentale da quello categoriale della conoscenza, con la differenza che il piano trascendentale in Kant non attiene all’essere extramentale come in Tommaso, ma attiene all’essere di coscienza di Cartesio, essere sperimentato a priori come interno alla coscienza e atto della coscienza, fondato sull’«Io penso» (Ich denke überhaupt)
Questo piano, in quanto fondato sull’io penso, precederebbe, secondo Heidegger, la categorizzazione, per cui, secondo Heidegger e Lotz, esisterebbe in Kant un’esperienza atematica e preconcettuale dell’essere («ontologica»), che si esprimerebbe nella concettualizzazione dell’essere («ontica»). 
La conoscenza implicita di Dio in S.Tommaso
Non si può negare che Tommaso ammetta una certa conoscenza implicita di Dio nell’atto di ogni giudizio. Dice egli infatti: «Omnia cognoscentia cognoscunt implicite Deum in omni cognito»[23]. Si tratta di una conoscenza dell’essere divino implicita nella nozione dell’essere, predicato dal giudizio. Ma l’essere non è ancora l’essere divino, benchè la nozione di questo si ricavi dalla nozione di quello. Ciò però non vuol dire ancora sapere che Dio esiste. Per questo occorre pronunciarsi sull’esistenza della causa prima. 
Dice infatti Tommaso: «conoscere Deum in aliquo communi sub quadam confusione, est nobis naturaliter insertum, inquantum scilicet Deus est hominis beatutudo. Homo enim naturaliter desiderat beatitudinem, et quod naturaliter desideratur ab homine, naturaliter cognoscitur ab eodem. Sed hoc non est simpliciter cognoscere Deum esse, sicut conoscere venientem non est cognoscere Petrum, quamvis sit Petrus veniens»[24].
Tommaso precisa ulteriormente che questo «Deum conoscere in omni cognito» non è da intendersi nel senso che noi conosciamo ogni cosa nell’idea di Dio, come in un a priori costituente l’unità suprema sistematica della ragione, secondo quanto sembra indicato da Kant, ma nel senso che Dio influenza l’atto di tutte le nostre conoscenze: «Deus est quidem quo omnia cognoscuntur, non ita quod alia non cognoscuntur nisi Eo cognito, sed quia per eius influentiam omnis cognitio in nobis causatur»[25].
È a questo punto che si forma la conoscenza «implicita» salvifica di Dio, della quale parla il Concilio Vaticano II (LG 16). Esistono dunque due gradi di conoscenza implicita di Dio: il primo, iniziale, è la nozione dell’essere divino implicita nella nozione dell’essere. Il secondo è il giudizio circa l’esistenza di Dio implicito nel giudizio circa l’esistenza di una causa prima. Solo questo secondo grado è salvifico, perché solo questo attinge al reale.
Ma la concezione o intellezione dell’essere non è ancora la nozione dell’essere divino. Percependo l’essere, non sappiamo ancora che Dio esiste. Possiamo sì allargare la nostra nozione dell’essere fino a concepire la nozione di un essere assoluto, infinito ed eterno. Ma con ciò non sappiamo ancora se tale essere esiste.
Inoltre potremmo concepire come assoluto un ente che non è assoluto. Dio certo è l’Assoluto; ma un assoluto non è necessariamente Dio. Per sapere dunque che Dio esiste, non basta avere la nozione di un essere assoluto, ma occorre che, riflettendo sull’esistente contingente, noi ci accorgiamo che esso non potrebbe esistere, se non esistesse un ente necessario ed assoluto che lo ha creato. E di questo  ente  possiamo essere sicuri che è Dio.
Così Tommaso osserva come tutti hanno naturalmente il concetto dell’essere, dal quale effettivamente si può ricavare il concetto dell’essere divino. Ma ciò non vuol dire che tutti spontaneamente sanno che Dio esiste, senza averne scoperto l’esistenza col risalire nelle cause dalla creatura al Creatore, come insegna la Scrittura (Sap 13,5; Rm 1,19-20). 
Dice infatti l’Aquinate: “cognitio existendi Dei dicitur omnibus naturaliter inserta, quia omnibus naturaliter insertum est aliquid», ossia la nozione dell’essere, «unde potest pervenire ad cognoscendum Deum esse»[26]. Infatti, «sicut ens esse in communi est per se notum, non autem est per se notum nobis esse aliquod primum ens, quod sit causa omnis entis»[27], se non applicando il principio di causalità.
Per Tommaso è chiaro, certo ed evidente che l’intelletto inizia il suo cammino conoscitivo con la percezione della quidditas rei materialis. Kant stesso deride il cartesianismo che si pone problemi del genere. Che esistano le cose esterne per lui è evidente. Tuttavia non riesce a sfuggire allo scetticismo che gli impedisce di riconoscere che l’intelletto spontaneamente s’interroga sull’essenza delle cose, per cui la forma dell’oggetto non è una forma a priori insita nell’intelletto, il quale così darebbe forma all’oggetto, ma l’oggetto, ossia la sostanza materiale sensibile – e in ciò Tommaso è d’accordo – non fornisce all’intelletto mediante l’esperienza soltanto la materia delle sensazioni, ma offre alla comprensione dell’intelletto anche la propria forma, che l’intelletto ha il compito di concettualizzare ed intendere così com’è. L’oggetto reale dell’intelletto, la cosa, è già da sè un ente composto di materia e forma. Non spetta dunque all’intelletto dar forma all’oggetto, perché l’oggetto esiste già, creato da Dio, indipendentemente dal soggetto.
Per questo, interpreta bene la gnoseologia kantiana il Maritain, quando osserva che Kant confonde e materializza il processo conoscitivo con la fabbricazione di un oggetto, per la quale l’artigiano possiede nella sua mente la forma dell’oggetto da produrre e la imprime nella materia dell’opera che intende  creare. Maritain osserva che il conoscere non è un fare, ma un essere intenzionale e spirituale, per il quale il soggetto s’identifica intenzionalmente all’oggetto. Il reale pensato o conosciuto non è un oggetto completato o formato dal soggetto, ma non è altro che lo stesso reale nell’elemento del pensiero. La cosa esterna diventa interiore (in anima),  pur restando esterna (extra animam).  Resta fuori la materia, ma la forma o essenza è concepita e rappresentata dall’intelletto.
Il pericolo dell’ontologismo
Maréchal e Lotz, sotto aspetti diversi, sembrano avere una posizione affine a quella degli ontologisti: il Maréchal per la sua tesi dell’affermazione di Dio implicita in  ogni giudizio e il Lotz per la sua tesi dell’esperienza trascendentale preconcettuale ed atematica dell’essere divino, due tesi che essi ritengono di trovare sia in Tommaso che in Kant. Gli errori degli ontologisti furono condannati dalla Chiesa nel 1863. Per esempio questi: 
«esse illud, quod in omnibus et sine quo nihil intelligimus, est esse divinum»[28]; oppure questo: «congenita Dei tamquam entis simpliciter notitia omnem aliam eminenti modo involvit, ita ut per eam omne ens, sub quocumque  respectu conoscibile est, implicite cognitum habeamus»[29].
L’aggravante che sembra presente in Maréchel e Lotz è data dal fatto che mentre gli ontologisti erano realisti ed erano persuasi di esplicitare la gnoseologia agostiniana dell’illuminazione divina, i due suddetti Gesuiti ammettono il trascendentale kantiano dell’io penso. 
L’ontologismo intende distinguersi dall’idealismo, per il quale oggetto del pensiero è lo stesso pensiero. L’ontologismo risponde: no, oggetto del pensiero è l’essere. E qui ha ragione. Dunque distinzione fra pensiero ed essere. Senonchè però gli ontologisti non ammettono – e qui restano idealisti – un’apprensione dell’essere che derivi dall’esperienza, ma un’intellezione a priori, che precede e condiziona l’esperienza. Da qui la loro tendenza a confondere l’essere finito, che si trova nell’esperienza con l’essere assoluto, ottenuto col semplice allargamento all’infinito dell’idea dell’essere. 
Inoltre essi, come avviene in Bontadini[30], per la loro tendenza ad identificare l’essere con l’essere assoluto, non accettano, come gli idealisti, l’essere extramentale, per cui l’essere per loro è bensì oggetto del pensiero, ma come tutto l’essere – l’«intero», come lo chiamano -, che è  essere pensato. Per cui non resta nulla al di fuori. Essi trascurano il fatto che l’essere, prima di essere pensato, è solo pensabile, fuori del pensiero ed ignoto al pensiero. Oppure, come in Husserl, l’essere è il «correlato del pensiero», per cui non c’è pensiero senza essere, ma non c’è neanche essere senza pensiero.
Gli ontologisti confondono l’ordine evolutivo del conoscere con quello assiologico dell’essere. Per il fatto che nell’essere Dio precede il mondo, essi credono che per conoscere il mondo bisogni partire dalla conoscenza di Dio.  Invece noi giungiamo a sapere che Dio esiste solo partendo dall’esperienza del modo.


Seconda parte – Il confronto fra S.Tommaso e Kant

Le forme a priori
Prendo come avvio a questa mia trattazione la dottrina kantiana dell’a priori, che è il cardine gnoseologico del suo sistema. L’apriori, infatti, per Kant è, nella autocoscienza o «Io penso», la forma razionale intellegibile originaria, fondante, ineludibile, punto di partenza dell’essere e del sapere. È funzione strutturale dell’intelletto, grazie alla quale esso ordina ed organizza il materiale fornito dai sensi. È il certo, l’evidente, l’oggettivo, l’universale e il necessario. 
È il principio della scienza e della verità. Oggetto del sapere sperimentale non è la forma o essenza della cosa, ma ciò che dalla forma a priori è formato, ossia il fenomeno. La fisica è un sapere a posteriori, ricavato dall’esperienza, ma il giudizio, per essere scientifico, secondo Kant, deve essere a priori, ossia l’oggetto dev’essere formato dalle forme a priori. Da qui la sua famosa dottrina del giudizio sintetico a priori.
La forma a priori dell’intelletto è una funzione logica o ideale. Kant la chiama anche legge del pensiero. È una forma intrinseca dell’intelletto, previa (a priori) all’esperienza sensibile (a posteriori), atta a contenere l’oggetto sensibile dell’intelletto, cioè il fenomeno o apparire della cosa in sé, nonché l’oggetto  intellegibile, ossia il noumeno, che è la cosa in sé in quanto pensata e appare all’intelletto.
La forma del fenomeno per Kant non appartiene all’oggetto ma è imposta dal soggetto all’oggetto e con tutto ciò Kant non rinuncia a parlare di oggettività perché la conoscenza rispecchia l’oggetto, ma in quanto formato dal soggetto. Invece la vera oggettività, come fa notare Tommaso,  si dà quando l’intelletto rispecchia una forma che appartiene all’oggetto e non una forma che vi ci ha messo lui.
La scienza kantiana dei fenomeni può essere confrontata con la concezione tomista della filosofia della natura, basata sulla fisica aristotelica. Il concetto di fenomeno si trova anche in Tommaso, che lo riprende da Aristotele, con la differenza che mentre per Tommaso l’intelletto può andar oltre al fenomeno e cogliere l’essenza della realtà fisica, ciò è notoriamente precluso nella visione kantiana, che eccepisce per quanto riguarda l’antropologia e la morale, dove Kant ammette la conoscibilità della natura umana e della legge morale.
Quanto al giudizio concernente il mondo dello spirito, ragione, coscienza, morale, metafisica, e teologia, esso dev’essere puramente a priori. Illusorio, invece, per Kant, è il tentativo di accedere al soprasensibile, ossia al mondo dell’apriori, dello spirito e della metafisica partendo dal semplice giudizio a posteriori. È il rifiuto della metafisica aristotelico-tomista.
Ma le forme a priori, che intendono per Kant riformare la tavola aristotelica delle categorie, sono le categorie fondamentali della realtà e funzionano anche indipendentemente dall’esperienza nelle scienze dello spirito a costruire la critica della ragione e la vera metafisica.  Nell’indagine kantiana dello spirito e della pura ragione esse funzionano al di sopra dell’esperienza, non perché siano ricavate dall’esperienza, come in Aristotele e S.Tommaso, ma appunto perchè sono a priori.
Viceversa, nel campo della fisica esse sono vuote, se non sono riempite dall’apporto dell’esperienza sensibile e vanamente con esse si cercherebbe di elevarsi all’intellezione del sovrasensibile ossia dello spirito. Per ottenere risultati in questo campo, devono, secondo Kant, essere usate sulla base dell’io penso e dell’autocoscienza, secondo il metodo della pura ragione.
Kant inoltre riduce la conoscenza della natura a scienza dei fenomeni, mentre la cosmologia diventa un oggetto puramente ideale, un’«idea della ragione». L’oggetto che maggiormente soffre di questo dualismo è l’antropologia, per cui l’uomo viene a trovarsi diviso tra una corporeità puramente fenomenica e una spiritualità puramente interiore, che oscilla fra la manipolazione e il rifiuto della corporeità. In Kant manca il concetto ontologico della natura come ente sensibile e mobile[31], perché la cosa in sé è inconoscibile, per cui dall’ente sensibile della fisica non si può salire all’ente in quanto ente della metafisica.
Le forme a priori dello spazio-tempo sono il principio della fisica e della storia. La fisica è formata dal presente; la storia dal passato. La forma a priori della quantità è il principio della matematica. Mentre fisica e storia hanno per oggetto il mondo dei fenomeni, la matematica ha per oggetto l’immaginabile.
Anche il principio della morale è una forma a priori: il concetto o ideale del dovere, come imperativo categorico universale ed assoluto, il cui contenuto però non è tratto dall’esperienza. Ciò fa dire a Maritain che nell’etica kantiana manca il contenuto. In realtà non è così. Nelle sue opere di morale[32] Kant dà prova di una fine sensibilità per le varie virtù morali, esprimendo giudiziosi pareri su vari casi di morale. 
Resta però il fatto che, mancando un serio supporto empirico, la morale kantiana può far sorgere il timore che  il soggetto possa limitarsi a considerare la forma universalizzabile del precetto morale, senza verificare l’onestà oggettiva del contenuto, col rischio di obbedire a precetti delittuosi solo perchè sono presentati, magari dal potere politico, come doveri assoluti.
Forma a priori dell’intelletto congiunto alla volontà è per Kant la facoltà del giudizio sul  bello, ossia il giudizio estetico, per il quale il soggetto  prova  piacere nel constatare le finalità della natura. Questo giudizio, che Kant chiama anche giudizio di gusto, media fra il giudizio teoretico che fissa le leggi della natura e il giudizio morale, che propone un fine alla volontà. L’opera d’arte appartiene al mondo dei fenomeni formati dalla forma a priori della qualità.
Occorre segnalare inoltre che Kant nella Critica della ragion pura confonde l’indagine sui limiti della ragione o su ciò che ragione può conoscere, che riguarda la gnoseologia, con l’indagine sul valore veritativo della ragione, che riguarda la criteriologia, con il metodo razionale per l’acquisto della verità, che riguarda la logica. 
Egli infatti restringe la logica alla sola logica formale, che è la logica della coerenza e della correttezza del ragionamento. Invece occupa con la sua critica della ragione il campo che dovrebbe essere riservato alla logica materiale, ossia la logica che tratta della verità del ragionamento. 
In tal modo succede che quelle che dovrebbero essere categorie del reale, come per esempio la sostanza o la causa o il divenire, diventano categorie logiche senza presa sul reale o sulla cosa in sè, ma solo enti di ragione o forme a priori dell’intelletto. Dalla sostituzione dell’essere col pensiero verrà fuori la Scienza della Logica[33] di Hegel, mentre Husserl concepirà l’«intuizione dell’essenza» (wesenschau) come «logica trascendentale»[34].
Kant inoltre confonde la forma a priori dell’intelletto ossia l’essenza dell’intelletto come potenza o facoltà, con supposte forme a priori nell’intelletto, le «categorie», che sono per lui ad un tempo modi del conoscere e oggetti interiori o concetti dell’intelletto, facenti capo alla realtà extramentale. Sarebbero appunto le già accennate categorie, predicati generalissimi degli oggetti della conoscenza. 
Le forme a priori, però, nell’intento di Kant, non sono forme dell’intelletto individuale, diverse da individuo a individuo, mutevoli e variabili nella storia e nelle diverse culture, ma sono forme dell’intelletto umano in quanto tale, quindi proprie di ogni intelletto ragionevole, oggettive, universali e necessarie.
I concetti puri dell’intelletto, ossia le categorie, le forme a priori sono assolutamente universali ed immutabili, perché costituenti l’essenza dell’intelletto come tale. Invece per Tommaso rispecchiano la realtà extramentale. Se Kant tuttavia fosse stato cattolico, non avrebbe avuto alcuna difficoltà ad accettare l’immutabilità dei concetti dogmatici e comunque per lui è fuor di dubbio che altrettanto immutabili ed a priori sono le nozioni fondamentali della morale[35] e della religione naturale[36]. In ciò Kant concorda con Tommaso.

La ragione
Per Kant la ragione è certamente una facoltà dell’uomo con sue specifiche funzioni, princìpi, leggi, finalità, metodi ed oggetto proprio. Ma questa facoltà non è intesa da Kant come accidente o proprietà essenziale dell’anima, come in S.Tommaso, ma come la intende Cartesio, ossia come soggetto sussistente o pensiero in atto autocosciente (cogito). 
Da qui l’assenza, nella gnoseologia kantiana, della trattazione dello svolgimento evolutivo dell’attività razionale dalla potenza all’atto, per limitarsi alla sola analisi della ragione in atto, mentre il procedimento o metodo della ragione è riservato da Kant alla sola logica formale. 
Manca pertanto in Kant, per non aver tenuto conto abbastanza del rapporto della ragione con i sensi, l’analisi dell’aspetto storico-evolutivo della razionalità. Viceversa, la gnoseologia tomista, che pone meglio la ragione a contatto con la realtà esterna, meglio spiega, interpreta e promuove il progresso e l’accrescimento della conoscenza razionale, filosofica e scientifica.
Kant distingue le forme a priori dell’intelletto dalle idee della ragione. Le prime danno forma ai fenomeni e a ciò che non supera il mondo dell’esperienza; le seconde sono princìpi conoscitivi che trascendono l’esperienza ed elevano la ragione al mondo della coscienza, dello spirito e della teologia, ma senza che se ne possa affermare la realtà; servono solo come regolazione suprema per l’unità sistematica delle conoscenze della ragione. Sono princìpi puramente  ideali.
La ragione, come espressione del cogito cartesiano, è l’a priori fondamentale, originario, assoluto, insuperabile. Nulla per Kant è al di sopra della ragione, benché la cosa in sé sia esterna alla ragione.  Si vede allora come la concezione kantiana della ragione, che pur si preoccupa di stabilire i «limiti» della ragione, da una parte limita anche troppo la ragione nel campo della conoscenza della natura, ma dall’altra nel campo dell’autocoscienza, non ammette che la ragione umana sia oltrepassata o istruita da una ragione trascendente, come quella divina nella concezione biblica. 
Da qui la negazione della possibilità che la ragione umana possa ricevere una rivelazione divina. Il Dio di Kant non parla all’uomo, perché l’uomo conosce già da sè con la sua ragione tutto quello di cui ha bisogno per la sua felicità. La religione, dice Kant, pensa Dio come un Signore che impone doveri morali, ma questo è un antropomorfismo per rappresentare la coscienza morale del dovere. 
La cosa in sé, dal canto suo, non è oggetto in se stessa di un sapere razionale, che invece riguarda solo il fenomeno e la ragion pura. La ragione è la facoltà dell’«incondizionato», che però non è la causa prima, ma rappresenta il carattere assoluto della ragione, che «chiude la serie delle condizioni», non intese come enti contingenti, ma come concetti o giudizi della ragione.
Kant pone la ragione al di sopra dell’intelletto, perché mentre questo, con le sue forme a priori, riguarda il mondo dell’esperienza, la ragione con le sue idee, trascende questo mondo e accede al regno dello spirito. Tuttavia, sia la ragione che l’intelletto sono relativi alla «suprema unità sintetica dell’appercezione»[37], che è l’«io penso», quello che con Kant si comincerà a chiamare, nella filosofia idealistica, il «soggetto», in opposizione alla concezione cristiana e tomista della persona o dell’io come sostanza.
La ragione, in Kant, come quella cartesiana, contiene in sé aprioricamente l’idea di Dio, che è al servizio del buon funzionamento della ragione speculativa e rimanda all’esistenza di Dio come postulato della ragion pratica. Quindi la ragione non è soggetta a Dio né nell’ordine speculativo né nell’ordine pratico. Non è la ragione ad essere relativa a Dio, ma è Dio ad essere relativo alla ragione. Dio non è il creatore della ragione, perché la ragione non è un ente, ma è un dato di coscienza, è un’idea. Dio è il sommo e primo principio logico dell’organizzazione sintetica interna della ragione.
Infatti, basta la ragione a produrre le idee. Quindi la ragione esiste da sé e si regola da sè, senza bisogno di ente trascendente, di un creatore e di un legislatore divino, benché Kant non disdegni l’immagine del creatore e del remuneratore dei meriti, ma solo come idea regolatrice dell’attività della ragione. Così la religione rappresenta come persona trascendente e divina l’ideale morale supremo della ragion pratica[38].
Kant accusa di presunzione il progetto della metafisica di elevare la ragione al di là del mondo dell’esperienza per raggiungere il sovrasensibile e il mondo dello spirito, e non s’accorge di quanto è più presuntuoso lui con il concepire la ragione come cosciente da sé a priori del mondo dello spirito e del divino, come regola della morale, come intrascendibile e chiusa all’accoglienza di una rivelazione che possa provenire da Dio.
Il problema della cosa in sè
Kant è assolutamente certo dell’esistenza della cosa in sé. Tuttavia la sua essenza è ignota all’intelletto, il cui oggetto non è la cosa in sé, ma il fenomeno, che è una modificazione dell’intelletto risultante dalla sintesi della forma a priori con il materiale empirico proveniente dalla cosa. Oggetto a priori invece della ragione è la ragione stessa, ossia l’autocoscienza con le sue idee. 
Gli «oggetti» per Kant sono i fenomeni; ma sono anche le «cose», benchè queste siano distinte dai fenomeni, come abbiamo visto. Ciò vuol dire che la cosa in sé, che è causa delle sensazioni, non può che essere una cosa è materiale. Ma Kant considera tuttavia inconoscibile l’essenza della cosa, mentre invece per S.Tommaso l’oggetto immediato dell’intelletto umano è proprio la quidditas rei materialis.
Per Kant la cosa in sé è l’«oggetto trascendentale», ignoto all’intelletto ma fonte delle sensazioni che provengono dal contatto empirico con la cosa. Non si domanda perchè la cosa esiste e chi l’ha creata. Essa per Kant costituisce una polarità assoluta, un «oggetto sensibile» opposto al soggetto, che non è una cosa in sé perché è autocoscienza, ossia è spirito. Ma anche l’«io penso» è originario ed assoluto.  Abbiamo quindi due assoluti: il soggetto e l’oggetto. Di nessuno dei due infatti Kant si domanda perché esistono e chi li ha creati. Esistono e basta. Ciò crea nel sistema kantiano un irresolubile dualismo di fondo. 
Ne viene che è impossibile congiungere o unificare soggetto e cosa in sé, sotto la comune ragione di ente o di realtà, perché in Kant manca la nozione dell’ente in quanto ente. La «cosa» kantiana non è la res tomistica, ossia l’ente trascendentale in quanto reale, ma è l’oggetto sensibile. 
Il reale per Kant sta dalla parte della cosa sensibile, mentre il soggetto è autocoscienza o «io penso» ed è dalla parte dell’idea e dello spirito.  Il fenomeno costituisce una sintesi fra soggetto ed oggetto, tra materia e spirito, fra ideale e reale. E in parte la cosa riesce, perché il fenomeno effettivamente sintetizza il modo soggettivo del conoscere con il contento oggettivo del medesimo conoscere.
E qui è possibile un accostamento con S.Tommaso: quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur.  Ma l’operazione non riesce del tutto, perché la cosa in sé è ignota, resta fuori del pensiero e non può darsi, nell’atto conoscitivo, l’identificazione intenzionale, ammessa da S.Tommaso,  fra soggetto ed oggetto.
Quindi Kant per un verso confonde oggetto (obiectum) e cosa, parlando indifferentemente di «cosa» e di «oggetto»[39], ma dall’altra, come notano giustamente il Maritain[40] e Antonio Livi[41], separa oggetto e cosa, cosicchè l’«oggetto» sostituisce la cosa che resta ignota. Kant cade quindi in una tautologia, per  la quale l’oggetto dell’intelletto non è la cosa, ma è l’oggetto. 
È vero che Kant chiama «oggetto» il fenomeno; ma esso non è un vero ob-iectum, non è una cosa «posta-davanti» alla potenza conoscitiva, totalmente indipendente dal soggetto, ma ne è un parziale prodotto. Il che inficia la piena oggettività della conoscenza con un’interferenza o intervento abusivo del soggetto, il quale mette nell’oggetto ciò che l’oggetto non ha di suo. Per cui il soggetto non rispecchia solo l’oggetto, ma anche se stesso. Il che non sarebbe falso se si trattasse solo del modo del conoscere – questo lo riconosce anche S.Tommaso -; il guaio è che in Kant il soggetto pretende di completare il contenuto dell’oggetto.  
Maritain e Livi peraltro notano che in Kant manca la distinzione tomista fra obiectum formale e obiectum materiale, dove l’oggetto materiale è la cosa reale esistente, materiale o spirituale che sia; mentre l’oggetto formale è ciò che l’intelletto intende o concepisce della cosa, ossia è id quod dicitur de re. La cosa, invece, è  la res de quo dicitur. In Kant l’oggetto materiale è ignoto; resta l’oggetto formale, che però non è ciò che l’intelletto concepisce della cosa, ma ciò che concepisce del fenomeno della cosa.
L’oggetto materiale, ossia la cosa per Tommaso, esiste in sé indipendentemente dal soggetto, come in Kant. Invece per Tommaso l’oggetto formale non è l’oggetto kantiano; non è, cioè, un aspetto intellegibile della cosa, ma è l’apparire fenomenico della cosa al soggetto.
La cosa può essere una sola, ma può essere considerata sotto vari aspetti od oggetti formali. Così per esempio, una persona umana è una sola cosa o sostanza, la quale può offrire diversi oggetti formali, ossia può essere considerata o sotto l’aspetto della curabilità e allora abbiamo la scienza medica o sotto l’aspetto della sua apertura sociale e allora abbiamo il cittadino, ecc. 
Kant proibisce irragionevolmente e contradditoriamente all’intelletto di interrogarsi sull’essenza o quiddità della cosa, materiale o spirituale che sia. Frustra così in radice il bisogno dell’intelletto di sapere di una cosa che cosa è, il quid est. Della cosa, secondo lui, è possibile conoscere solo il «fenomeno», che però non è ciò che la cosa è in se stessa, ma solo la cosa così come appare ai nostri sensi, un apparire che, peraltro, per lui, dovrebbe essere oggettivo e veritiero, Erscheinung, e non semplice apparenza o parvenza, Schein.
 
Ma non si sa come faccia ad essere oggettivo e veritiero un «sapere» che non conosce ciò che è ma ciò che appare. Così Kant, con la sua conclamata «rivoluzione copernicana» non si accorge di precipitare miseramente nell’antica fritta e rifritta sofistica greca.
Kant non spiega peraltro che cosa intende col concetto di «cosa». Prende la parola dal più grossolano senso popolare senza curarsi di farne un’analisi trascendentale, come invece fa S.Tommaso. Ma è evidente che intende le cose materiali. Per lui la cosa è esterna al soggetto solo nello spazio; ma, a causa dell’influsso del cogito cartesiano, non pare concepire un vero  e proprio essere, quindi anche spirituale, fuori dal pensiero e indipendente dal pensiero. E questo è già idealismo. È quel primato dell’idea sulla realtà condannato da Papa Francesco, il quale vi contrappone la concezione realistica biblico-tomista dell’adeguazione dell’idea al reale[42].
Occorre però notare altresì che se Kant è scettico nella conoscenza delle cose sensibili, è del tutto certo per quanto riguarda il mondo dello spirito, del quale infatti qui non nega affatto la conoscibilità, ma sostiene tuttavia la intracoscienzialità di tal mondo, delle anime, degli intelletti, delle coscienze, degli spiriti, delle idee, di Dio. Non è un mondo reale, ma un mondo interiore, ideale. È il mondo del pensiero. Altrimenti non avrebbe scritto la Critica della ragion pura, che è appunto un’indagine accurata  di quel mondo.
Occorre inoltre ricordare che a Kant va il merito di aver formalizzato la fisico-matematica, assumendo il metodo galileiano, sicchè questa nuova scienza dei fenomeni, come nota giustamente il Maritain[43], viene ad aggiungersi alla scienza ontologica della natura, già nota a S.Tommaso.
Con tutto ciò è  chiaro che la Ding-an-sich di Kant non è la res di  S.Tommaso, proprietà trascendentale dell’ente come tale, ente o sostanza reale, che può essere materiale e spirituale, essenza attuata dall’essere. Resta solo l’ammissione realistica che la cosa esiste in sè indipendentemente dal pensiero. Ma tutt’al più non è altro che la sostanza materiale. 
Per Tommaso la res non è altro che l’ente in quanto reale, che si distingue dall’ente ideale (ens rationis). Si distingue in res in anima e res extra animam, in «rerum natura». Si distingue inoltre in res materialis e res spiritualis. Non è affatto inconoscibile,  non  è  irraggiungibile, ma  ha  un’essenza che  è  oggetto dell’intelletto, anche se esso deve perfezionare continuamente questa conoscenza, perché l’essenza delle cose presenta sempre nuovi aspetti prima sconosciuti. La res è sostanza ed è accidente. È il pane quotidiano dell’intelligenza. Nasconde il mistero ma illumina l’intelletto. 
Per Kant la cosa materiale, quindi la sostanza, la realtà, l’ente materiale esistono fuori del soggetto. Qui Kant coincide con S.Tommaso, che riconosce la res extra animam. L’extramentalità della realtà, però, per S.Tommaso, non riguarda solo le cose materiali nello spazio, non è solo un esser fuori nello spazio, ma riguarda anche gli altri soggetti spirituali diversi dall’io, compreso Dio. Anch’essi sono esterni all’io nel senso che ne sono ontologicamente distinti ed esistono in sé  indipendentemente dall’io. 
Per Tommaso l’altro da me, sia esso materiale o spirituale, esiste in sé fuori di me ed indipendentemente da me. Se esso è in me, lo è spiritualmente e idealmente, e ciò avviene mediante la rappresentazione sensibile, immaginaria o concettuale. L’oggetto ha una forma per conto proprio, indipendentemente da me. 
Io posso cogliere con l’intelletto la forma dell’oggetto non perché la posseggo già anticipatamente a priori prima di sperimentare l’oggetto, ma perché la colgo per astrazione partendo dall’esperienza dell’oggetto. Kant concorda con Tommaso nel riconoscere che la conoscenza parte dall’esperienza delle cose esterne, esistenti in sé indipendentemente dall’io. 
Però Kant, invece di trovare la forma o essenza della cosa nella cosa stessa, dichiara inconoscibile la cosa come è in se stessa, sostenendo che della cosa noi conosciamo solo il fenomeno, la cui forma non è quella della cosa, ma è imposta al fenomeno dalle nostre forme a priori: spazio e tempo per gli oggetti sensibili e categorie per il mondo della fisica e dello spirito. 
Per Kant, quindi, tra intelletto e realtà materiale esterna – la «cosa in sè» - non c’è possibile corrispondenza, proporzione o accordo, così che l’essenza o forma della cosa possa essere assimilata o intenzionata o rappresentata dall’intelletto, ma il reale che è al di fuori della coscienza appare a Kant come un «mare tempestoso» e ostile, mentre il tentativo di superare, in questo mare, il mondo dell’esperienza con le categorie o, come le chiama, i «concetti puri dell’intelletto», ossia le forme a priori, è per lui illusorio perché non hanno un contenuto reale, ma sono solo forme a priori dei fenomeni. 
Ciò non impedisce a Kant di usare le categorie nella sua indagine sul mondo dello spirito, della logica, della ragione e dell’intelletto, solo perchè qui non sono ricavate dall’esperienza ma sono solo a priori e non hanno per oggetto la tempestosa realtà esterna, ma solo il mondo della coscienza.
L’ente extramentale è la cosa in sé. È l’ente sensibile, naturale, ma la sua essenza ci è ignota. Appare solo come fenomeno o legge naturale. È la sorgente delle sensazioni. È solo un pensato (noumeno). La cosa in sè è il fondamento del fenomeno. È indipendente dall’intelletto.  
È il residuo di realismo che rimane in Kant. Ma è un realismo irriconoscibile, che Fichte giudicherà assurdo e che eliminerà per realizzare l’idealismo assoluto. Kant si sente spinto dall’idealismo, ma non ha l’animo di andare fino in fondo, forse per un scrupolo di coscienza. Ci penserà Fichte. 
Il fenomeno
Già Aristotele ha il concetto del fenomeno, fainòmenon, simile a quello di Kant e ripreso da S.Tommaso. Aristotele ne parla quando tratta del sistema tolemaico, che ha il compito di «salvare i fenomeni»,  ossia ciò che appare ai sensi, in quanto dà una spiegazione che si accorda con le apparenze sensibili. Tuttavia – osserva Aristotele – quelle apparenze potrebbero essere salvate o giustificarsi anche con una teoria diversa. Resta però che mentre per Aristotele il fenomeno può essere trasceso per cogliere la cosa in sé, per Kant questo non è possibile.
Per Kant il mondo della fisica è il mondo del fenomeno, fondato sulla realtà esterna sensibile o sostanza o cosa materiale. Ciò vale anche per Tommaso. Per Kant il mondo della ragion pura, della morale, della metafisica e della teologia è il noumeno, immanente alla coscienza. Su ciò invece Tommaso non concorda, perché ritiene che, benché l’anima possa conoscere se stessa, tuttavia la sua esistenza è dimostrabile a posteriori partendo dalle sue manifestazioni sensibili.
La forma della conoscenza, che è forma dell’oggetto, per Kant è immanente allo spirito e alla coscienza, è a priori nell’intelletto, mentre la materia o contenuto della conoscenza, ossia l’oggetto, è ricavata dall’esperienza, e data dal di fuori. Invece per Tommaso la forma o modo del conoscere è distinta dalla materia od oggetto del conoscere. Il conoscente assimila la forma dell’oggetto secondo il conoscere proprio del conoscente.
La forma del fenomeno per Kant è la forma a priori dell’intelletto, che dà forma intellegibile, noumenica alla materia del fenomeno offerta dai sensi, che attingono alla realtà esterna, alla cosa in sè. Oggetto della conoscenza sperimentale non è la cosa in sé, la cui essenza è ignota, ma è il fenomeno, che è la cosa in me, per me, come appare a me, all’io penso, io trascendentale. Il fenomeno è l’apparire della cosa alla coscienza. Solo del fenomeno si può avere scienza, la scienza sperimentale, ma proprio perchè il fenomeno non è la cosa in sé, ma solo la cosa come appare a noi, regolata  dalle nostre forme a priori.
Nella gnoseologia tomista l’intelletto si trova spontaneamente a contatto con la realtà materiale esterna, che gli sta davanti (ob-iectum). Ciò non vuol dire che non occorra risolvere i dubbi che possono venire e sono affrontati dalla critica della conoscenza, circa l’esistenza e l’essenza della verità o circa i limiti e le possibilità della ragione o del pensiero o circa il fondamento primo della certezza o circa l’esistenza di una realtà esterna o circa l’oggettività della conoscenza o la veracità dei sensi o dell’intelletto o se l’oggetto della nostra conoscenza siano le cose o le nostre  idee o se sia possibile, partendo dai dati di coscienza, superare il  divario che separa l’ideale dal reale e raggiungere le cose esterne o se il pensiero coincida con l’essere. 
Il dubbio circa il valore della conoscenza sensibile ed intellettuale (universalis dubitatio de veritate), viene solo ipotizzato da S.Tommaso e non esercitato come fa Cartesio, ipotizzato prendendo coscienza che è assurdo. Per questo non viene risolto con improbabili rivelazioni divine, ma semplicemente rifiutandolo come stolto.
Il funzionamento della conoscenza
La teoria kantiana delle forme a priori dei sensi e dell’intelletto intende porre in luce i princìpi, l’oggetto, il metodo e i limiti della conoscenza razionale, dimostrare come essa funziona e come e per quale via l’intelletto coglie la verità. In sostanza vuol essere una riflessione critica sulla validità del conoscere e come deve essere e funzionare il soggetto per poter conoscere.
Il modo del conoscere per Kant produce l’oggetto del conoscere, perchè tale modo consiste nel fatto che l’intelletto dà forma all’oggetto. Le forme a priori servono sia per la conoscenza dei corpi (fenomeni) che per quella dello spirito (noumeno). Nel primo caso la conoscenza è a posteriori e le forme danno forma alla materia sentita dai sensi. Conoscenza dei fenomeni, della natura e dell’uomo. Nel secondo è a priori e le forme sono pure. Conoscenza dello spirito, dell’anima, del cogito, della coscienza, della ragione, della logica, del’intelletto, della volontà, dell’ente di ragione e di Dio.
Nel conoscere, anche per Tommaso, c’è indubbiamente un aspetto produttivo interiore, ente di ragione: la produzione del concetto e del giudizio, per mezzo del quale l’intelletto si adegua al reale cogliendone la verità. Ma qui non si tratta del contenuto o dell’oggetto, bensì del modo del conoscere. 
Osserviamo però che se si parte dalla realtà, come fa S.Tommaso,  e ci si misura con la realtà, è possibile entrare nella coscienza e da lì uscire e tornare e alla realtà. Ma se si parte dalla coscienza e ci si chiude in essa, è impossibile uscire dalla coscienza per raggiungere la realtà.
È vero che il mondo dello spirito, della coscienza,  della ragione e della morale è per Kant un mondo assoluto, inviolabile, verace ed oggettivo. E questo è certamente un nobile sentimento. Tuttavia è lecito chiedersi quanta consistenza ontologica e fondatezza può avere un mondo costruito per semplice autoanalisi e a priori senza essere, come dovrebbe, il culmine induttivo e sommo analogato dell’ascesa della mente, che parte dalla conoscenza delle realtà materiali. Però un’autocoscienza che si pone a punto di partenza e di arrivo di tutto il sapere, quali garanzie vere ci può dare di oggettività e di rifiuto del soggettivismo?
Kant non si adagia e non si rassegna alla molteplicità delle opinioni, dei pareri e dei «mi sembra», della verità-per-me o della verità-per-te, ma vuol fondare la scienza, sia essa fisica, matematica o metafisica. Il medesimo intento si trova nell’Aquinate. Nulla, quindi, di più opposto in Kant e Tommaso alla gnoseologia modernista denunciata dalla Pascendi, derivata dallo storicismo hegeliano, negatrice dell’immutabilità della verità e dei concetti filosofici e teologici. Kant è invece su questo punto piuttosto nella linea di Platone e di S.Agostino e dello stesso Cartesio.
Con la sua famosa «rivoluzione copernicana» Kant credette di aver scoperto il vero metodo della conoscenza, quando invece non si trattò in fondo che di un ritorno di platonismo contro il realismo aristotelico-tomista. Gli «oggetti» che si regolano sul soggetto non vanno intesi come se il pensiero si assumesse la responsabilità di determinare l’essere, come avverrà poi con Fichte ed Hegel, ma è una ripresa della gnoseologia platonica, alla quale Tommaso non è estraneo, per la quale la forma a priori, ossia l’idea, è modello regolatore degli oggetti dell’esperienza, immagini, partecipazioni o imitazioni dell’Idea.
L’ideale del sapere per Kant è la conoscenza a priori, superiore a quella assicurata dall’esperienza. Essa è fondata sulle forme a priori, per cui «stabilisce qualcosa relativamente agli oggetti, prima che ci siano dati»[44], mentre ritiene che la conoscenza a posteriori, che parte cioè dall’esperienza, non possa avere la certezza, oggettività, universalità e necessità, per cui non è in grado di fondare una solida e indiscutibile vera metafisica. Per Tommaso invece l’ideale del sapere razionale, la metafisica, si raggiunge partendo  dall’esperienza sensibile. 
Secondo Kant invece la conoscenza a posteriori, propria del giudizio sintetico a priori può condurre alla fisica ed alla matematica, ma non alla metafisica, perché non crede alla possibilità, ammessa da Tommaso, che l’intelletto, partendo dall’esperienza, si elevi per astrazione alla concezione del puro intellegibile e del mondo dello spirito. 
Per Kant o questo mondo è conosciuto a priori all’interno della coscienza prima dell’esperienza o è impossibile raggiungerlo. Contrariamente a quanto pensa Tommaso, è impossibile ricavare la metafisica dalla conoscenza dei fenomeni e del mondo materiale esterno delle cose sensibili. Kant non nega la metafisica tout court, ma una metafisica a posteriori. Per lui l’unica metafisica possibile è a priori[45].
L’oggettività della conoscenza, pertanto, per Kant, non si basa sul fatto che, come in Tommaso, il soggetto si regola sull’oggetto, ma sul fatto che è il soggetto a stabilire mediante le forme a priori le regole dell’oggettività e quindi della verità. Nella fisica l’a priori manifesta il fenomeno; nella metafisica l’a priori manifesta il dato della coscienza o dell’«io penso».
Il «fenomenismo» condannato dalla Pascendi, per il quale si dichiara inconoscibile ciò che è al di là ed oltre il fenomeno sensibile, quindi la realtà dello spirito, non colpisce Kant se non in parte, ma piuttosto le gnoseologie sensiste, empiriste o materialiste, tipo quella di Hume, Comte o Marx. Infatti Kant ammette come Tommaso la piena conoscibilità del mondo dello spirito, altrimenti non avrebbe scritto la Critica della ragion pura, che è appunto un’indagine nel mondo dello spirito.
La differenza di Kant da Platone è data dal fatto che il conoscere kantiano non è un vedere, come in Platone e in Tommaso, ma un fare. Platone distingue l’uomo dal Demiurgo: l’uomo contempla le Idee nelle cose sensibili o in se stesse. L’intelletto in Kant è come un demiurgo che possiede le forme a priori ed in base ad esse plasma i fenomeni. Tuttavia Kant mantiene come Platone e Tommaso la visione del mondo ideale e spirituale della ragione, della logica, della morale e di Dio. 
Kant ammette come Tommaso l’esistenza della realtà esterna, la cosa in sé. Tuttavia nega, contro Tommaso, che se ne possa conoscere l’essenza.  Conosciamo della cosa non ciò che essa è, ma ciò che appare a noi come fenomeno. Ora è evidente che col termine «cosa» Kant intende la cosa o sostanza o ente materiale, giacchè il fenomeno suppone l’esperienza sensibile. 
Il problema della metafisica
Per Tommaso la metafisica è suprema scienza dell’esistente. Per Kant, invece,  l’essere o l’esistere non è un predicato «reale», intendendo dire che l’esistere non aggiunge nulla di essenziale al concetto o all’essenza della cosa. E su ciò Tommaso è d’accordo. Kant fa il famoso paragone dei 100 talleri: il loro numero non aumenta per il fatto di esistere nelle mie tasche, precisando però che non è la stessa cosa che esistano realmente o che siano semplicemente possibili. Il che lascia intendere che egli in realtà ha un concetto esatto dell’esistenza, anche se la chiama solo «posizione» della cosa.
Per Kant la cosa è intellegibile e pensabile (noumeno), ma solo come fenomeno. Ignoriamo l’essenza delle cose materiali. Per questo la ragione speculativa non può salire alle cose spirituali o metafisiche partendo da quelle che sono oggetto del senso. In questo senso la metafisica è impossibile. Per Kant la ragione speculativa è limitata alle cose materiali, si risolve nella fisica.
Questo non vuol dire che Kant sia un materialista, tutt’altro, è uno spiritualista, anzi è sostanzialmente è un platonico. Per lui è evidente l’esistenza dello spirito[46], che egli risolve nell’autocoscienza o «io penso», che si esprime nell’attività dell’intelletto, della ragione e della volontà. Maréchal fa bene a interpretare Kant in senso spiritualistico. Kant non nega la metafisica in assoluto, ma quella tomista, che si ottiene partendo dai sensi. È sulla linea della metafisica cartesiano-platonica.
Quello che Kant nega, a differenza da Tommaso, è che si possa dimostrare l’esistenza dello spirito, dell’anima o della ragione utilizzando la ragione speculativa, partendo dai dati del senso, ossia a posteriori, perché secondo lui ciò che l’uomo può sapere partendo  dai dati del senso non può superare ciò che è oggetto del senso. Lo spirito o anima esiste come autocoscienza o «io penso» e possiede intelletto, ragione, coscienza, volontà. Nella coscienza o nello spirito ci sono a priori le idee della ragione: il dovere, anima, Dio, il mondo.
L’esistenza dello spirito e dell’io pensante per Kant è nota a priori, mediante l’autocoscienza, che egli chiama «appercezione»[47], e che per lui non fa seguito alla conoscenza delle cose esterne o dei fenomeni, come in Tommaso, e da essa non proviene, ma la precede, la condiziona e la fonda. E mentre è impossibile la conoscenza l’essenza delle cose se non come fenomeni, la conoscenza dell’essenza della ragione, del suo oggetto delle sue funzioni è oggettiva e certissima. Lo stesso è per Tommaso.
Per Kant è evidente che l’essere o l’esistente in senso forte, non è la cosa in sé, non è il reale, non è l’ente materiale, non è il fenomeno, ma è l’ideale, è il noumeno, benché consideri l’ente di ragione inferiore all’ente reale. Dio, la coscienza, la ragione, il pensiero, lo spirito, la morale, la religione appartengono alla sfera dell’Ideale. Invece per Tommaso appartengono al reale extramentale.
Per Kant l’oggetto della metafisica non riguarda, come per Tommaso, la realtà esterna, ma solo il mondo del soggetto, l’orizzonte dell’autocoscienza, e in particolare l’essenza e le funzioni della ragione speculativa e della ragion pratica. Le nozioni della metafisica, ente, essenza, essere, esistenza, materia, forma, cosa, realtà, unità, verità, bontà, qualcosa, sostanza, persona, relazione, causa, fine, ecc. non servono, secondo lui a conoscere la realtà esterna dei corpi e della natura, ma solo il mondo delle idee, dello spirito, del soggetto, della logica, della matematica, della ragione della coscienza, della morale e della religione. Esse non corrispondono a realtà, ma a contenuti o predicati a priori dell’intelletto, da lui detti «concetti puri dell’intelletto» o «forme a priori» dell’intelletto, come modi di conoscere la realtà materiale e spirituale. 
Kant passa per essere l’affossatore della metafisica; e ciò è vero, intendendo per «metafisica» quella aristotelico-tomista, ricavata dall’esperienza sensibile, che del resto è la vera metafisica. Egli però ritenne che fino ai suoi tempi la metafisica non era riuscita a costituirsi come scienza, sicchè si sentì in dovere di farlo lui appunto con la sua Critica della ragion pura. Così si può parlare di metafisica kantiana, solo che essa è di origine cartesiana. Non è una metafisica dell’ente oggettivo extramentale, ma dell’idea dell’ente, una metafisica dell’ente pensato, soggettivo, intracoscienziale.  
Così Kant concepisce bensì un Dio come «sommo Ente», ma data l’assenza del concetto oggettivo dell’essere, manca in Kant il concetto tomista di Dio come Essere sussistente. È da notare pertanto che non si tratta dell’ente extramentale, ma dell’ente pensato, dell’ente ideale, come ente di ragione, immaginato come fosse ente sussistente, ossia sostanziale. 
Così similmente in Kant l’idea supera ciò che può esser dato dall’esperienza nelle forme a priori dell’intelletto. Ciò però non impedisce l’uso delle categorie anche in metafisica e in teologia, ma solo in senso analogico, o come dice Kant, «simbolico»[48]. Non si tratta tuttavia di un’analogia dell’ente, come in S.Tommaso, ma di un uso analogico di certi concetti categoriali che vengono applicati a Dio non nella supposizione che Dio esista realmente, ma ragionando come se esistesse. 
Il trascendentale kantiano, contrariamente a quello tomista, non è proprietà dell’ente, ma corrisponde al nostro modo di conoscere l’ente. È la conoscenza a priori dell’ente. L’interesse si sposta dall’ente all’ente pensato dal soggetto o al soggetto che pensa l’ente. Dal contatto con l’ente extramentale alla presenza dell’ente nella coscienza. 
Per Kant la fisica non conduce alla metafisica e questa, abbandonando il reale, si appoggia sulle sole idee. La materia non conduce allo spirito e lo spirito nega consistenza ontologica alla materia riducendo la materia al semplice fenomeno. È, in fondo, lo stesso difetto del dualismo platonico. Il mondo non conduce a Dio e Dio è sì uno splendido ideale, ma solo un ideale. Dio si chiude nell’io e non raggiunge il mondo della «cosa in sè», che se ne sta per conto proprio, manipolata dall’uomo, ma indipendente da Dio.
Per Kant non si può arrivare alla metafisica superando l’esperienza, perché non esiste un concetto analogico dell’essere che abbracci materia e spirito, sì da potersi elevare dalla materia  allo spirito. La materia è apparenza; lo spirito è verità. Cf Platone: doxa=aisthetòn, episteme=noetòn.  Oggetto della metafisica è solo lo spirito, cosa che si coglie a priori nella coscienza.
Il Dio di Kant
Come è noto, per Kant non la ragione speculativa, ma la ragion pratica può affermare l’esistenza di Dio: 
«mediante la legge pratica, la quale comanda l’esistenza del sommo bene possibile in un mondo, viene postulata la possibilità di quegli oggetti della pura ragione speculativa» - le tre idee  -, «la realtà oggettiva che questa non poteva loro assicurare. Perciò la conoscenza teoretica della ragion pura riceve senza dubbio un incremento, il quale però consiste semplicemente in ciò che quei concetti, per essa d’altronde problematici (semplicemente pensabili), adesso sono conosciuti in modo assertorio come tali a cui realmente convengono oggetti, perché la ragion pratica abbisogna inevitabilmente dell’esistenza di essi per la possibilità del suo oggetto, il sommo bene, che praticamente è assolutamente necessario; e quella teoretica perciò è giustificata a supporli»[49].
Kant concepisce Dio come Ens summum[50], Ens realissimum[51], Ens originarium[52], Ens entium[53], Ente supremo[54], Ente ultimo[55], Causa suprema[56], sublime[57], necessario[58], creatore[59], ma nel contempo lo intende come Idea della ragione[60] e come Ens rationis[61]. In Dio il reale coincide con l’ideale; ma non giunge a concepirne l’essenza identica all’essere, come in Tommaso, sicchè manca una giustificazione dell’attività creatrice di Dio.

«Le tre idee della ragione speculativa non sono ancora in sé conoscenze, tuttavia sono pensieri (trascendenti), in cui non è contenuto niente d’impossibile. Ora, mediante una legge pratica apodittica, esse ricevono, come condizioni necessarie della possibilità di ciò che questa legge comanda di prendere per oggetto, la realtà oggettiva»[62].
«Quindi la legge morale, mediante il concetto del sommo bene come oggetto di una ragion pura pratica, determina il concetto dell’Ente originario come Ente supremo; il che il processo fisico (e andando più in alto il processo metafisico) e quindi l’intero processo speculativo della ragione, non potè effettuare. Dunque, il concetto di Dio è un concetto originale, che non appartiene alla fisica e cioè non alla ragione speculativa ma alla morale»[63].
Kant concepisce l’esistenza di Dio in questi termini: 
«Questo Ente che comanda non è fuori dell’uomo come sostanza distinta dall’uomo, il contrapposto del mondo come complesso di tutti gli enti sensibili (loro totalità), rappresentato come contrapposto nello spazio e nel tempo»[64]. «Non si può dimostrare un tale oggetto del pensiero come sostanza fuori del soggetto, bensì pensiero»[65].
«Vi è un Ente in me che, distinto da me, sta su di me (agit, facit, operatur) nel rapporto causale d’efficacia (nexus effectivus); il quale, libero esso stesso, cioè senza dipendere dalla legge naturale nello spazio e nel tempo, mi guida internamente (giustifica o condanna); ed io, l’uomo, io stesso sono questo Ente; non è, poniamo, una sostanza fuori di me; e, ciò che è più sorprendente, la sua causalità è tuttavia una determinazione ad agire liberamente (non come necessità naturale)»[66].
Kant dichiara non dimostrabile l’esistenza di Dio per mezzo della ragione speculativa perché non ammette che la ragione, partendo dall’esperienza, possa travalicarlo e accedere al soprasensibile, ossia al mondo dello spirito. Egli crede che il concetto di sostanza e l’uso del principio di causalità induttiva valgano solo per il mondo dei fenomeni e quindi non possano essere intesi in senso analogico, sì da poter essere applicati per concepire Dio e dimostrarne l’esistenza. 
Egli è troppo preoccupato di evitare l’antropomorfismo e un concetto materialistico di Dio per sottolinearne la spiritualità. Ma così finisce per depotenziare la consistenza dell’essere divino e per farlo svaporare nel mondo astratto dell’idea umana. La sua convinzione, pur giusta, che Dio è presente nella coscienza morale dell’uomo nell’elemento del pensiero, lo porta al rischio del panteismo col dire «io sono questo Ente». La preoccupazione di negare che Dio sia un’altra sostanza nello spazio fuori dall’io, mostra che egli non aveva un sufficiente consapevolezza del fatto che  l’essere divino è esterno e al di sopra del pensiero umano, benché questo possa farne oggetto di conoscenza. 
La teologia kantiana oscilla fra l’agnosticismo e lo gnosticismo: agnosticismo, perché la ragione speculativa è impotente a dimostrare l’esistenza di Dio; gnosticismo, perché Dio è ridotto a una semplice idea della ragione umana. Resta il postulato dell’esistenza di Dio per spiegare l’assolutezza dell’imperativo categorico. Par di notare un’eco secolarizzata di Lutero: la percezione della misericordia di Dio sopperisce ad una ragione corrotta dal peccato o, come lo chiama Kant, dal «male radicale».
Conclusione
Il confronto di Tommaso con Kant è cosa utile e costruttiva. Occorre però evitare di trovare in Tommaso l’idealismo kantiano, così come è impossibile ricavare il realismo dal kantismo. Invece bisogna mantenere la confutazione tomista della gnoseologia kantiana. Tomismo e kantismo non sono due linguaggi diversi, così che tomismo e kantismo possano essere «trasposti l’uno nell’altro». No. Non è questione di linguaggio, ma di dottrina. Una gnoseologia del tutto esente da errori la si trova in Tommaso e non in Kant. 
D’altra parte non si può negare che Kant integra la gnoseologia tomista instaurando al seguito di Cartesio l’istanza critica, così che i tomisti del ‘900, come per esempio il Maritain, il Gilson, il de Tonquédec, il Simon, il Roland-Gosselin, il Gredt, il Toccafondi, la Vanni Rovighi, il Tyn hanno elaborato una criteriologia tomista. 
Non bisogna credere che Cartesio e Kant siano punti di non ritorno. Non è vero. Al contrario, essi hanno fatto deviare dalla verità il cammino della filosofia. E non è  vero che costituiscano una novità assoluta nella storia della filosofia, perché sono un ritorno all’antica sofistica greca e all’antico scetticismo.
Non è vero che abbiano fondato la certezza della verità e la metafisica come scienza. A parte che la metafisica è indistruttibilmente fondata sulle certezze prime ed universali della ragione naturale, quel lascito invece ci viene già da Platone ed Aristotele ed è confermato dalla storia della filosofia cristiana, a cominciare dagli Apologisti e dai Padri Greci e Latini.
Aveva ragione Papa Leone XIII, quando con la sua enciclica Aeterni Patris esortava i filosofi a riprendere le fila da S.Tommaso; lì, infatti, e non in Cartesio e Kant troviamo giustificate le basi del sapere e le certezze prime della ragione, sulle quali costruire, senza ignorare gli apporti positivi non tomisti elaborati nei secoli seguenti fino ad oggi. 
Dobbiamo renderci conto una buona volta che ciò che è stato costruito su Cartesio e su Kant ha portato alle più orrende aberrazioni teoretiche e morali, per rimediare alle quali occorre risalire a prima di loro, a S.Tommaso, occorre ritrovare la sorgente d’acqua pura, altrimenti il girone infernale ricomincia daccapo.
La vera filosofia moderna, con la quale il Concilio Vaticano II ci ordina di entrare in dialogo, non si esaurisce affatto con l’eredità cartesiano-kantiana. E se la modernità è un valore, allora bisogna dire che quella filosofia non è affatto moderna, ma è rimasta ferma ai grossolani antichi errori dei primi e maldestri conati della mente umana, ancora immersa nella nebbia visionaria e dell’immaginazione e della sensibilità.
P.Giovanni Cavalcoli 
    
Fontanellato, 6 settembre 2019


[1] Cit.da I.Mancini, Kant e la teologia, Cittadella Editrice, Assisi 1975, pp.207-208.
[2] Occorre sempre e comunque guardarsi dal kantismo. In questo senso è ancora attuale, benchè troppo severo, il libro del Gesuita Guido Mattiussi, autore delle XXIV Tesi tomistiche, Il veleno kantiano, Roma 1914.
[3] Le point de départ de la Métaphysique, Cahier V, Louvain 1926, p.391.
[4] Ibid., p.1.
[5] Ibid., pp.30, 31.
[6] Ibid., p.262.
[7] Ibid., p.345.
[8] Ibid., p.425.
[9] Ibid., p.347.
[10] Maréchal critico di Kant, in AA.VV., Studi di filosofia trascendentale, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1993, p.14.
[11] Ibid., p.108.
[12] I.,Mancini, op.cit., pp.49, 82, 99,199, 204,207.
[13] Kant arriva a parlare di una «Metafisica dei costumi», che è appunto un trattato di morale (Laterza, Bari 1973).
[14] Le point de départ de la Métaphysique, op.cit., pp.419, 421, 424, 425, 427.
[15] Esperienza trascendentale, Edizioni Vita e pensiero, Milano 1993.
[16] Kant et le problème de la Métaphysique, Gallimard, Paris 1953.
[17] Vedi Uditori della parola, Edizioni Borla, Torino 1977 e l’acuta critica fatta da Cornelio Fabro ne La svolta antropologica di Karl Rahner, Editore Rusconi Milano 1974.
[18] Introduzione a J.Lotz, Esperienza trascendentale, op.cit., p.XXVI.
[19] Cit. da Marassi, ibid.
[20] Cf Metaphysica operationis humanae methodo transcendentali explicata, Libreria Editrice dell’Università Gregoriana, Roma 1972, pp.7-10.
[21] Vedi Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer 1959.
[22] Cf B.-M.Simon, Esiste un’intuizione dell’essere? Edizioni ESD, Bologna 1995.
[23] De Ver., q.22, a.2, 1m.
[24] Sum.Theol., I, q.2, a.1, 1m.
[25] Contra Gentes, libro I, c.11.
[26] De Ver., q.10, a.,12, ad 1m.
[27] Ibid., ad 3m.
[28] Denz.2862.
[29] Denz.2864.
[30] Cf Conversazioni di metafisica, Edizioni Vita e Pensiero, Milano, 1995, II voll.; Studi sull’idealismo, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1995.
[31] Cf J.Maritain, La filosofia della natura, Morcelliana, Brescia 1974.
[32] Per es. Lezioni di etica, Editori Laterza, Bari 1971.
[33] Scienza della logica, Editori Laterza,Bari 1984.
[34] Logica formale e logica trascendentale, Editori Laterza, Bari 1966.
[35] Critica della ragion pratica, Editori Laterza, Bari 1979; Lezioni di Etica, Editori Laterza, Bari 1971.
[36] La religione entro i limiti della sola ragione, op.cit., Bari 1985.
[37] Critica della ragion pura, Editori Laterza, Bari 1965, pp.137-141.
[38] La religione entro i limiti della sola ragione, Editori Laterza, Bari 1985.
[39] Critica della ragion pura, op.cit., pp.43, 441, 670.
[40] Les degrés du savoir, op.ct., pp.176-195.
[41] Presenza surrettizia delle nozioni metafisiche proprie del senso comune nel discorso di Kant sulla verità, in La critica kantiana della «ragione pura e la metafisica, a cura di C.Baronessa, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2018, p.98.
[42] Cf il mio articolo La dipendenza dell’idea dalla realtà nell’Evangelii gaudium di papa Francesco, in PATH 2014/2, pp.287-316.
[43] La filosofia della natura, Morcelliana, Brescia 1974.
[44] Critica della ragion pura, op.cit., p.21.
[45] Prolegomeni ad ogni futura metafisica, Editori Laterza 1982.
[46] Nella Critica della ragion pura, op.cit., Kant fa moltissmi riferimenti allo spirito umano, dandolo come cosa scontata e senza preoccuparsi di indagarlo per se stesso: pp.58, 65, 66,71, 72,79, 90,91, 95,96,116,130,132,212,130,132,228, 284, 314,327,516,541,662,677-681.
[47] Ibid., pp.90,137,141, 154, 197, 234, 674-676.
[48] Italo Mancini, op.cit., pp.66, 79, 82, 85, 86, 87.
[49] Critica della ragion pratica, op. cit., pp.162-163.
[50] Ibid., p.468.
[51] Ibid., pp.466. 467, 471, 486, 487, 488, 496.
[52] Ibid., pp.468, 469, 469, 495, 497, 503, 507.
[53] Ibid., p.468.
[54] Ibid., pp.473,475,485,507,509,510.
[55] Ibid., p.498.
[56] Ibid, pp.475,495,498,505.
[57] Ibid., p.500.
[58] Ibid., pp.472,473,474,477-480,487,489, 490, 494, 497,502.
[59] Ibid., pp.499,501,502,504,549.
[60] Cit. da Mancini, op.cit., pp.42,72,83,149,150,156,163,183,184,192,194,195,197,209.
[61] Cit. da Mancini, op, cit., pp.29-219.
[62] Ibid., p.163.
[63] Ibid., p.169.
[64] Cit. da Mancini, op. cit., p.203.
[65] Ibid., p.201.
[66] Ibid., pp.204-205.



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