Il principio del terzo escluso - Seconda Parte (2/4)

 Il principio del terzo escluso

Seconda Parte (2/4)

L’onestà del linguaggio

 

Maledici l’uomo di doppia lingua (Sir 28,13)

 

I detti del Signore sono puri, argento raffinato nel crogiuolo,  purificati nel fuoco sette volte (Sal 12,7)

 

La Sacra Scrittura, soprattutto nei libri sapienziali, contiene tutta un’etica del linguaggio e del retto pensare, che sono indispensabili per accedere alla fede ed alla comprensione della Parola di Dio. È una lezione costante per noi, che troppo spesso usiamo con leggerezza del linguaggio e ragioniamo con troppa disinvoltura, senza renderci conto di quanto danno possiamo fare a noi stessi e agli altri con un linguaggio imprudente, falso ed impulsivo o con un cattivo uso della ragione.

Forse non pensiamo che può bastare una sola parola ingiusta o diffamatrice a uccidere psicologicamente o moralmente una persona. Per questo, Cristo è così severo quando dice che «chi dice al fratello: “pazzo”, sarà sottoposto al fuoco della geenna» (Mt 5,22). Con la parola falsa si può condurre un’anima persino alla perdizione, ed è giusto che Dio punisca con l’inferno chi spinge gli altri a cadere nell’inferno, con buona pace di Von Balthasar.

Il luteranesimo, dal canto suo, ha purtroppo diffuso, come sappiamo, un’ingiustificata sfiducia nelle forze della ragione in ordine alla conoscenza certa della verità morale e religiosa e nell’uso delle regole della logica, che secondo Lutero sarebbero contraddette dalla Parola di Dio.

Egli pertanto chiama «sofisti» i teologi tomisti, che utilizzano la logica di Aristotele come preambolo e preparazione alla fede e come metodo per interpretare il dogma, mentre non s’accorge di quanto sofista lo è egli stesso confondendo la debolezza della ragione umana conseguente al peccato originale con una supposta ostilità e cecità di principio della ragione umana nei confronti della divina Rivelazione contenuta nella Scrittura.

In Lutero sembra risuonare un’interpretazione della famosa tesi di Nicolò Cusano, secondo il quale in Dio gli opposti non sono opposti, come lo sono per noi, ma coincidono fra di loro («coincidentia oppositorum»); per cui il principio di non-contraddizione varrebbe solo per la ragione umana, ma non per quella divina, nella quale viceversa i contradditori s’identificherebbero; per cui non esisterebbe un «terzo escluso», ma anche quello che a noi pare escluso sarebbe incluso nella superiore Mente divina.

Se proprio così il Cusano intese dire, ne verrebbe che egli fu un precorritore di Hegel, secondo il quale, come è noto, la Rivelazione divina si comprende non servendosi della logica aristotelica dell’identità, ma della sua dialettica della contraddizione[1].

Ora, dobbiamo tener presente che il nostro ragionare e il nostro parlare sono mossi dalla nostra libera volontà. In particolare, lasciando per un momento da parte il ragionare, dobbiamo dire che il linguaggio è di per sé un atto col quale noi esprimiamo dei significati e comunichiamo col prossimo mediante contenuti intellegibili significati da segni gestuali o verbali; questo, a prescindere dal fatto che questi segni e contenuti rispettino o non rispettino le regole della logica o ci aprano o ci chiudano alla verità delle cose.

Ma ad ogni modo, a che cosa serve il linguaggio? Serve, di per sé, secondo il suo fine naturale voluto da Dio, a manifestare e a comunicare al prossimo la verità da noi conosciuta e a guidare gli altri verso la verità. In tal modo, noi rechiamo un prezioso servizio al prossimo in molti modi: o istruendolo o ammonendolo o guidandolo nel bene o allontanandolo dal male o consolandolo e confortandolo nella sofferenza o nel mostragli nuove prospettive di bene o preservandolo dall’errore o ricordandogli i suoi doveri o rimproverandolo nei suoi vizi o comandandogli un’opera buona o consigliandolo nei suoi dubbi o interrogandolo su ciò che non sappiamo o chiedendogli informazioni, aiuto e consiglio.

Il cristiano, poi, deve acquisire quel «linguaggio spirituale» (I Cor 12,8), dono della sapienza dello Spirito Santo, col quale «esprime cose spirituali in termini spirituali» (I Cor 2,13), come a dire che non deve esprimere le cose sacre in termini profani, perché ne verrebbe una profanazione del sacro, che perderebbe la sua sublimità e il suo fascino soprannaturale per ridursi alla banalità o volgarità del quotidiano per non dir di peggio.

Da qui l’obbligo di astenersi da un linguaggio «carnale» (I Cor 2,14; 3,1), empio, sacrilego, irriverente, ingannevole, illogico, insensato, doppio, demolitore, amaro, ipercritico, dissolvente, sciocco, stolto, scorretto, disonesto, capzioso, offensivo, calunnioso, adulatorio, denigratorio, beffardo, derisorio, pungente, sarcastico, bugiardo, adirato, seduttore, terrorizzante, osceno, scurrile.

Ciò vuol dire che è possibile servirsi del linguaggio non per scopi onesti, ma per altri fini, che possono essere quello di affermare noi stessi sugli altri, di fa girare gli altri attorno a noi, di apparire migliori degli altri, di attirare seguaci delle nostre idee, di giustificare la nostra ignavia, di soddisfare la nostra superbia, di fingere una falsa umiltà per sottrarci ai nostri doveri, di strumentalizzare gli altri a nostri interessi disonesti ed egoistici, di adularli per ottenere favori, di sfuggire alle loro accuse, di stipulare patti disonesti, di mostrarci giusti senza esserlo, di soddisfare il nostro gusto di umiliarli, di vendicarci di chi ci ha offeso, di denigrare il nostro avversario, di dar sfogo alla nostra invidia verso chi è meglio di noi o al nostro orgoglio contro chi ci esorta al pentimento, di nascondere i nostri difetti e i nostri peccati. 

La Chiesa, dal canto suo, maestra di verità, di onestà e di santità, è sempre stata ed è fulgido esempio per l’umanità di purezza, sincerità ed onestà di linguaggio, sull’esempio del suo Sposo e Signore, «sulle cui labbra non si trovò inganno» (cf I Pt 2,22; Is 53,9), quel Signore che è nemico giurato del padre della menzogna e della doppiezza (Gv 8,44).

La Chiesa condanna l’eresia ancor più che sotto la ragione di errore, la condanna come effetto di superbia e di disonestà intellettuale, come alleata della doppiezza del linguaggio. È questa la cosiddetta «eresia formale», che ha ragione di colpa ed è sanzionata dal Diritto canonico.

Coloro infatti che ingenuamente enunciano un’eresia papale papale di solito sono degli sprovveduti caduti in trappola, persone in buona fede, che non si rendono conto esattamente di quello che dicono, per cui non hanno colpa. Invece il vero eretico è un astuto e un infido che colpisce improvvisamente e di nascosto, senza darlo a vedere, come un dolce veleno, un cecchino che non si lascia scoprire facilmente, non si lascia vedere ma solo intravedere, perché in tal modo colpisce meglio e si salva la buona fama, naturalmente finchè dura la mascherata. Per condannare Origene la Chiesa ha atteso due secoli, senza che peraltro che ciò voglia dire che Origene fosse in mala fede. Lo gnosticismo è vecchio di 17 secoli, eppure c’è voluto un Papa Francesco perché fosse formalmente condannato.

Ricordo che un giorno a Roma, negli anni ’80, a casa del Card. Pietro Parente, grande cristologo ed ex-Segretario del Sant’Offizio, parlando di Rahner, il Porporato, da me richiesto di un suo parere su Rahner, ebbe ad esprimere questo giudizio, che in due parole faceva il ritratto della sua doppiezza: «Rahner – disse – apre una porta, ma lui non vi entra».

Senonché però la Chiesa, che ha l’occhio penetrante e non si fa menare per il naso, sa entrare nel mondo tenebroso dell’eretico, scioglie i suoi lacciuoli e lì, quasi al buio, lo scova e lo costringe a venire alla luce. Nel contempo essa è misericordiosa e comprensiva, conosce bene la debolezza dell’intelletto umano, e perciò, prima di dichiarare uno formalmente eretico, va molto adagio e lascia semmai che siano i teologi a farlo, in modo che essi, per quanto possibile, chiariscano la cosa e preparino eventualmente l’intervento della Chiesa.

È stolto, pertanto, e pretestuoso il discorso di alcuni che vorrebbero che il teologo si astenesse dal notare di eresia un altro teologo, se la Chiesa non si é pronunciata. È lo stesso discorso di chi dicesse che non ci si deve dar da fare per spegnere un incendio se i pompieri non ne hanno riconosciuto l’esistenza e non son presenti a spegnere il fuoco.

Occorre d’altra pare far presente a questi troppo zelanti difensori della competenza della CDF, dimentichi della responsabilità del teologo, che quello che, con la dovuta preparazione e modestia, ma anche con coraggio ed acume  critico, nota un collega di eresia, esibendo prove plausibili, non pretende affatto di sostituirsi al giudizio della Chiesa, ma semplicemente è come il cittadino che avverte i vigili del fuoco del divampare di un incendio, senza pretendere assolutamente di sostituirsi ai vigili.

Dobbiamo altresì ricordare che la Chiesa fonda tradizionalmente e manifestamente il suo linguaggio, la sua dottrina e la sua stessa dogmatica sul rispetto assoluto e sempre coerente dell’opposizione assoluta fra vero e falso, ossia quello che i logici chiamano «principio del terzo escluso». Che vuol dire? È la formulazione razionale del principio enunciato da Cristo stesso: «il vostro parlare sia: sì, sì; no, no. Il resto appartiene al diavolo» (Mt 5,37). Ossia: dobbiamo dire sì a ciò che è sì, e dire no a ciò che è no. Oppure: dobbiamo dire essere ciò che è e non essere a ciò che non è.

È il principio di non-contraddizione, enunciato per la prima volta da Parmenide: «l’essere è; il non-essere non è» (estin to einai. Me estin me einai). E Parmenide precisa: «non si può uscire da questo principio»; come a dire: chi esce, si smarrisce. Si smarrisce, direbbe Gesù, nelle mani del diavolo, il quale è il «menzognero e il padre della menzogna» (Gv 8,44), che consiste appunto nel dire essere ciò che non è e viceversa.

L’onestà e la limpidezza del linguaggio impongono altresì di evitare l’uso di termini ambigui o equivoci, ma solo termini o univoci o analogici. Il linguaggio non può essere sempre chiaro, perché la cosa espressa può essere oscura. Pretendere qui la chiarezza è stato lo sbaglio di Cartesio, che confondeva la metafisica con la matematica. Occorre sì distinguere; ma non è detto che i distinti siano chiari. Si deve certo distinguere con chiarezza Dio dal mondo, ma il mondo è un mistero come e ancor più Dio è un mistero. Tuttavia occorre curare al massimo, per quanto è possibile, la chiarezza del linguaggio.

Il linguaggio doppio è un linguaggio ingannevole, che nasce dal servizio a due padroni o dall’accoppiamento del sì e del no. È un dovere morale di giustizia ed onestà curare il più possibile la proprietà del linguaggio. Dobbiamo esprimerci in modo tale da adattarci alla capacità di comprensione di chi ci ascolta e da sapere in anticipo, almeno con probabilità, come dobbiamo esprimerci con quel dato ascoltatore in modo che capisca che cosa intendiamo dire.

Le parole del Vangelo certo vanno bene per tutti, ma Cristo ha voluto gli apostoli che le interpretassero e le spiegassero a seconda della capacità d’intendere propria di ciascuno. Dobbiamo essere sempre pronti a chiarire che cosa intendevamo dire, se ci accorgiamo di aver generato equivoci o fraintendimenti o di essere stati mal interpretati. Nell’interpretare il detto di un altro, è sempre bene supporre che abbia un senso accettabile, a meno che non appaia chiaramente che sbaglia.

La persona doppia parla intenzionalmente in modo da poter essere fraintesa, tende un tranello, cosicché, se viene scoperta, trova una scappatoia nel doppio senso di quello che ha detto, per potersi giustificare, senza per questo rinunciare o pentirsi del danno che ha fatto con la sua parola serpentina ed ambigua.

Errore, menzogna, opinione, dubbio, assurdità

Occorre distinguere l’errore dalla menzogna, dall’opinione, dal dubbio e dal discorso assurdo. Tutti questi giudizi hanno relazione con la duplicità di un giudizio di base tacitamente presupposto, che in diversi modi e gradi, direttamente o indirettamente contrasta col principio di non-contraddizione.

Spieghiamoci. L’errore ha a che fare in radice col contradditorio. Infatti, l’errore come tale è la semplice discordanza del pensiero dalla realtà. Ma questa discordanza conduce al contradditorio, perché suppone che l’oggetto del giudizio sia e non sia. È, in quanto è l’oggetto materiale o reale, ossia ciò a cui il giudizio non corrisponde in quanto falso. Non è, in quanto predicato ovvero oggetto formale del giudizio, il quale afferma un non-essere.

Per esempio, se io dico l’uomo è uno spirito, sbaglio. Ma in questo sbagliare c’è una presupposizione contradditoria: da una parte il giudicante suppone il concetto di «spirito», ma dall’altra, affermando che l’uomo sia uno spirito, nega l’esistenza dello spirito, perché in realtà l’uomo è un corpo, benché animato certamente da uno spirito. E qui c’è la contraddizione: l’uomo è uno spirito (predicato del giudizio) e non è uno spirito (nella realtà).

Ma se questa discordanza è cosciente e voluta, si ha la menzogna. Esiste infatti un dovere del pensiero di obbedire al reale; c’è il dovere, come dice San Tommaso, di un’adaequatio dell’intelletto al reale. Se questa non c’è per una svista o un difetto involontario dell’intelletto nel giudicare o nel ragionare in un soggetto benintenzionato e sinceramente amante della verità, allora abbiamo l’errore in buona fede o la cosiddetta «ignoranza invincibile», che non costituisce colpa.

Ma se il disaccordo del pensiero col reale è intenzionale e motivato da fini disonesti, si dà un’ignoranza voluta o affettata o intenzionale, quindi «vincibile», che è segno che il soggetto non ama la verità, ma ama la propria autoaffermazione o agisce per fini peccaminosi, per cui, per soddisfare simili malsane intenzioni, ricorre alla menzogna, che poi a lungo o breve termine non fa altro che, al prezzo di un miserabile vantaggio personale, recar danno al prossimo e a lui stesso, che così si pone contro Dio, attirandosi il castigo divino e, se viene scoperta dagli uomini, attirandosi altresì la riprovazione degli onesti e la sanzione della giustizia umana.

Benché infatti l’intelletto sia spontaneamente inclinato alla conoscenza della verità, siccome l’assenso al giudizio vero è volontario, all’uomo è possibile odiare la verità, ossia rifiutarsi di aderire al vero e preferire il falso. Perché questo?

Lo spiega Cristo stesso a Nicodemo: «chiunque fa il male, odia la luce e non viene alla luce, perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3, 20-21). La volontà, cioè, del peccatore impedisce all’intelletto di cogliere il vero, perché, col negare il principio di non-contraddizione – ecco la doppiezza - , essa pone all’intelletto un oggetto che contraddice se stesso.

Ora invece il vero è un oggetto determinato con una sua precisa identità; non può essere un questo-non-questo, perché così l’oggetto si distrugge da sé e l’intelletto resta al buio. Che fà allora il peccatore? Dà comunque all’intelletto un oggetto, che però, benché in sé sia intellegibile, altrimenti la cattiva volontà non potrebbe avere un oggetto, è un oggetto, che, sebbene indirettamente, implica il contradditorio,  ossia  è un bene che non è bene, un bene non vero ma apparente, per cui la volontà di per sé fatta per il bene, cade in un intimo conflitto con se stessa, cade a sua svolta in contraddizione con se stessa, perché, pur essendo fatta per il bene, di fatto vuole un falso bene che in realtà è un male, cioè appunto il peccato.

La menzogna dunque contraddice al vero, non però nel senso che sia un giudizio contradditorio, anzi essa ha una parvenza di coerenza e plausibilità, che la rende atta ad ingannare. Tuttavia essa di fatto comporta una disobbedienza intellettuale e una contraddizione al vero, mascherata da un’apparente verità.

Quindi il giudizio menzognero non è inintellegibile come il giudizio assurdo, non ripugna al pensiero, ma può essere concepito, intellegibile e formulato. Esso contrasta col principio di non-contraddizione in quanto è connesso con un atto peccaminoso per il fatto che il mentire solitamente non nasce dal semplice gusto di ingannare il prossimo, ma serve a coprire interessi o fini peccaminosi. Ora il peccato si scontra indirettamente col principio di non-contraddizione per il fatto che il peccato si basa su di un’intenzione la cui ragione ultima contravviene a quel principio.

Per esempio, il giudicare lecito un atto di lussuria è un errore e, se volontariamente insegnato ad altri, è una menzogna, in quanto il motivo dell’atto lussurioso è la ricerca assoluta del piacere sessuale al posto della ricerca di Dio. Ora, atteso che l’agire umano non può non orientarsi ad un assoluto, che per essere vero assoluto, non può che essere unico, ne viene che è contradditorio considerare il piacere sessuale, che è soltanto un piacere relativo, come fosse assoluto. Tuttavia questo errore non implica di per sé che il peccato di lussuria sia irrealizzabile, altrimenti i peccati di lussuria non esisterebbero. Tuttavia. il suo contenuto intellegibile discende da un principio che implica contraddizione.

L’esistenza della menzogna o della doppiezza testimonia del fatto che non tutti amano la verità. Il nostro intelletto è creato con un’inclinazione naturale ed irresistibile verso la verità, ma di fatto l’appetito della verità è un appetito libero, frutto di una scelta. Io quindi non progredisco nel sapere in modo deterministico e necessitato.

Solo i primi princìpi della ragione non possono non essere conosciuti da tutti per la loro assoluta evidenza. Ma non possiamo da essi trarre alcuna conclusione, e aumentare il sapere, se non la vogliamo trarre, cioè se non amiamo e desideriamo raggiungere la verità ovvero ulteriori verità. Anzi è possibile odiare la verità, se questa non ci piace. È a questo punto che l’uomo costruisce la menzogna: sostituisce al vero, che rifiuta, un oggetto mentale da lui costruito, che gli piace.

Per esempio, l’uomo egocentrico, che vuol far girare il mondo attorno al suo io, inizia bensì spontaneamente come tutti il cammino verso la verità; ma appena si accorge che conduce a Dio, ferma il cammino e si volge su se stesso, in modo tale che quell’essere assoluto che avrebbe dovuto attribuire a Dio, lo attribuisce a se stesso.

L’opinione assomiglia alla doppiezza, ma ha un carattere di onestà, perché è un’affermazione incerta col timore del contrario in uno che desidera la verità. Non è un sì o un no netto, come nella scienza, ma è un sì con possibilità di essere no e no con possibilità di essere sì. L’opinante può legittimante passare dal no al sì perché scopre che il vero è il sì, mentre il no era solo apparente.

Il dubbio è uno stato del pensare che sembrerebbe offendere il principio di non-contraddizione. Nel dubbio la ragione non si decide né per il sì né per il no, ma oscilla tra due possibilità contrarie. Ecco la classica domanda del ragazzo innamorato: mi ama o non mi ama?

Bisogna però distinguere due specie di dubbio. Si tratta di due atti morali, dei quali uno è onesto, motivato e ragionevole, e non compromette il principio di non-contraddizione, mentre l’altro è irragionevole, pretestuoso e insincero. E suppone il contradditorio. Il primo è un onesto e semplice dubitare del dubitabile.

Può essere un dubbio ipotetico o un dubbio esercitato. Il dubbio ipotetico è quello che dà il via alla metafisica e che San Tommaso chiama «universalis dubitatio de veritate». Dice l’Aquinate:

 

«le altre scienze considerano la verità in orizzonti particolari, per cui ad esse spetta il dubitare circa le singole questioni di loro competenza. Ma la metafisica, dato che considera la verità nella sua più ampia universalità, ha il compito di un dubbio universale circa la verità, e quindi non dubita secondo un’area limitata, ma affronta il dubbio universale»[2].

 

La metafisica si pone il dubbio sulla verità più radicale ed universale che possa esistere. Infatti il suo oggetto è l’essere, che abbraccia ogni cosa, il mondo e Dio. La domanda allora è: esiste l’essere?  Come si risolve il dubbio? Considerando il fatto che sì io posso ipotizzare concettualmente che l’essere non esista; ma non posso dubitare sul serio. Ossia il mio sarà un dubbio significato, ma non può essere un dubbio esercitato, come nelle altre scienze.

Io infatti posso chiedermi se un data neoplasia è benigna o maligna o se l’imputato è innocente o colpevole. Qui l’esercizio del dubbio prepara la scoperta della verità. Ma come faccio a dubitare se esiste l’essere, dato che esso è lo stesso oggetto del mio intelletto? Il dubbio, quindi qui, si scontra con un’impossibilità, dal che deduco che il dubbio è impossibile e che sono in possesso dell’assoluta certezza che l’essere esiste. 

Anche il dubbio ragionevole ed onesto comporta una duplicità, ma si differenzia dalla doppiezza, perché mentre questa nasconde un no sotto al sì, il dubitante oscilla involontariamente tra il sì e il no perché non sa se la verità è il sì o il no. 

Tra due proposizioni opposte l’opposizione può essere netta, ma anche sfumata, come per esempio tra il bianco e il nero c’è il grigio. Qui non si tratta di scegliere tra il sì e il no senza possibilità di un terzo, perché qui tra gli opposti esiste una mediazione.

Per quanto poi riguarda l’opposizione al principio fondamentale della dimostrazione come è il principio di non-contraddizione, essa suppone un’impugnazione della verità evidentemente provata o conosciuta. Qui San Tommaso, al seguito di Aristotele, fa notare che l’errore in buona fede è impossibile, tanta è l’evidenza prima, immediata ed assoluta del principio[3]. La buona fede infatti scusa dall’errore, quando si tratta di conclusioni da princìpi o di parvenze soggettive o di opinioni indimostrate, ma non per ciò che riguarda i primi princìpi della ragione, spontaneamente noti a tutti, pena l’autocontraddizione, e base per ogni forma e grado del sapere dimostrativo.

Il contradditorio o assurdo è impensabile, perché è pensabile o intellegibile solo l’ente con una sua identità. Però può essere oggetto di un giudizio vero: è vero che il circolo quadrato non esiste. Nelle asserzioni assurde il contradditorio è un sì e no simultanei, in modo tale che i predicati si elidono vicenda, ma la cosa non è sempre immediatamente evidente e dev’essere messa in luce da un occhio critico.

Tale asserzione assurda comporta la cosiddetta «contradictio in terminis», che riguarda il significato delle parole. Per esempio l’espressione «Dio mortale», considerando che la parola «Dio» significa «realtà immortale». Oppure è il concetto ad essere contradditorio, come se per esempio definissi l’uomo come soggetto pensante, confondendo il poter pensare con l’atto del pensare. Ma un ente non può essere simultaneamente in potenza e in atto. Da qui la contradditorietà del concetto: l’uomo è un ente pensante in atto e in potenza.

Da notare che un concetto falso non è necessariamente contradditorio, mentre un concetto contradditorio è certamente falso. Il giudizio assurdo è la pretesa di pensare l’impensabile, tenendo conto del fatto che l’impensabile è l’impossibile. Tuttavia l’impossibile può essere in qualche modo pensato nel senso che è vero il giudizio che lo pensa. Per esempio io posso dire: è vero che una montagna senza valli non esiste.

Fine Seconda Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 12 aprile 2021  

 

Può essere un dubbio ipotetico o un dubbio esercitato. Il dubbio ipotetico è quello che dà il via alla metafisica e che San Tommaso chiama «universalis dubitatio de veritate». Dice l’Aquinate, commentando Aristotele:


 «le altre scienze considerano la verità in orizzonti particolari, per cui ad esse spetta il dubitare circa le singole questioni di loro competenza. Ma la metafisica, dato che considera la verità nella sua più ampia universalità, ha il compito di un dubbio universale circa la verità, e quindi non dubita secondo un’area limitata, ma affronta il dubbio universale».

 Per quanto poi riguarda l’opposizione al principio fondamentale della dimostrazione come è il principio di non-contraddizione, essa suppone un’impugnazione della verità evidentemente provata o conosciuta. 

Qui San Tommaso, al seguito di Aristotele, fa notare che l’errore in buona fede è impossibile, tanta è l’evidenza prima, immediata ed assoluta del principio

 

 

Immagini da internet: Morte di San Tommaso d’Aquino. Bassorilievo. Abbazia di Fossanova - Luca della Robbia (1400-1482), Platone (a destra) e Aristotele in La Dialettica (1437-39)


[1] Una buona esposizione critica della dialettica hegeliana si trova in C.Fabro, La prima riforma della dialettica hegeliana, Editrice del Verbo Incarnato, Segni (RM), 2004; cf anche il mio articolo LA DIALETTICA NELLA CRISTOLOGIA DI HEGEL, Sacra Doctrina, 6,1997, pp.87-140.

[2] Commento alla Metafisica di Aristotele, libro III, lect.I, c.1, n.343, Edizione Marietti, Torino-Roma 1964, p.97.

[3] Cf il Commento alla Metafisica di Aristotele, op.cit., libro IV, lect.VI, pp.167-168.


3 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    trovo ottimo quello che hai scritto sotto il sottotitolo "Errore, menzogna, opinione, dubbio, assurdità".
    Soprattutto, ho concentrato la mia attenzione su ciò che è scritto sulla menzogna. E le sue argomentazioni sono comprensibili e convincenti.
    Tuttavia, c'è un aspetto della menzogna in cui sono stato "affamato" di ulteriori spiegazioni da parte sua.
    Ed è per questo che oso chiedere, alla sua generosità sempre testimoniata, una spiegazione maggiore.
    Mi riferisco alle limitazioni o restrizioni che si possono porre alla consueta affermazione di alcuni della menzogna come "intrinsecamente cattiva".
    Dal suo presente articolo, almeno nel citato sottotitolo, è molto chiara la "malizia" della menzogna.
    Tuttavia, in altri articoli che hai pubblicato su questo blog, hai chiarito che possono esserci casi in cui "in giustizia" non è appropriato dire la verità, e che in tali casi mentire non è un peccato, non anche veniale.
    Credo che questo tema, delle restrizioni sul carattere di "peccato" della menzogna, sia insinuato nelle frasi che ha scritto in questo articolo: "Ma se questa discordanza [di pensiero con la realtà] è cosciente e voluta, si ha la menzogna. [...] Ma se il disaccordo del pensiero col reale è intenzionale e motivato da fini disonesti...".
    Comprendo quindi che si intende che in quella "disonestà" (ingiustizia) delle ragioni per dire una menzogna, è implicita la loro malizia; ma quella malizia non esisterebbe, se non esistesse quella disonestà nelle ragioni della menzogna.
    È così che si deve intendere che la menzogna NON È "intrinsecamente malvagia", e che quindi ci sono casi in cui la menzogna non è nemmeno venialmente peccaminosa, ma addirittura virtuosa?
    Potresti per favore spiegarmi di più su questo?

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    1. Caro Ross,
      in campo morale esistono dei doveri assoluti, che si riassumono nel principio fondamentale di fare il bene ed evitare il male.
      Il problema della menzogna riguarda il dovere che abbiamo di dire la verità e il diritto che l’altro ha di conoscerla. A questo punto però dobbiamo tenere presente che la verità è finalizzata al bene. Se così stanno le cose e una certa verità non procura il bene, proprio in nome della verità e del vero bene siamo autorizzati a non dire la verità a colui che si serve della conoscenza della verità per fare il male.
      Nello stesso tempo questo nascondergli la verità procura il suo vero bene, in quanto gli impediamo di commettere il male e quindi alla fine, sembra un paradosso, noi col nostro stesso non dirgli la verità lo poniamo nella condizione di conoscere la verità. Quale verità? Quel vero bene, per cui lo mettiamo nelle condizioni di compiere il bene, impedendogli di fare il male.
      La Sacra Scrittura al riguardo porta l’esempio di Raab, una prostituta, la quale per proteggere due emissari di Israele inseguiti da militari del luogo, invece di dir loro che li aveva nascosti in casa, li indirizza da un’altra parte. Essa viene esplicitamente lodata in Eb 11,31 e Gc 2,25.
      Oppure, facciamo un altro esempio. Se un assassino mi chiede una pistola per ammazzare un innocente, io posso dire benissimo che quella pistola non ce l’ho e invece ce l’ho.
      Un altro esempio è quello del confessore, che deve custodire il segreto della confessione, per cui, anche a costo della vita, se viene interrogato su ciò che gli ha detto un penitente può dire che non lo sa.
      Il ricorso a questo espediente si può collegare col principio della legittima difesa. Si tratta di una questione simile all’omicidio. Ognuno di noi ha diritto alla vita fisica, così come alla conoscenza della verità. Ma se noi ci serviamo della vita o della verità per fare il male perdiamo il diritto di vivere e di conoscere la verità.
      In conclusione, possiamo dire che la menzogna è un intrinsece malum a patto che la intendiamo come rifiuto di dire la verità a chi ha diritto di saperla. Se invece si tratta di dire la verità a chi non ha questo diritto, allora non la si deve dire, appunto perché non ha il diritto di conoscerla.

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