Che cosa è il realismo - Terza Parte (3/4)

 Che cosa è il realismo

Terza Parte (3/4) 

I prodromi dell’idealismo: Scoto, Ockham e Suarez

La più antica testimonianza dell’idealismo in Occidente, a parte il più antico, l’idealismo indiano, che qui non prendiamo in considerazione, è quella di Parmenide nel sec.VI a.C.. col suo famoso principio: to autò to noein kai to einai, il pensiero e l’essere sono la stessa cosa. Esso è connesso con l’altro: l’essere è, il non-essere non è.

Si tratta di due princìpi basilari che possono avere un senso valido: il primo può voler dire che la verità è data dalla corrispondenza del pensare con l’essere: quando io sono nel vero, ciò che intendo è quello stesso che esiste. Diversamente, sarei nell’errore. Il secondo è il principio di identità: l’essere non può essere e non-essere ad un tempo e sotto il medesimo aspetto.

Ma gli idealisti hanno inteso il primo come se volesse sostenere l’identità del reale con l’ideale e il secondo come se volesse sostenere che l’essere è unico ed uno solo e quindi l’univocità dell’essere. Così è accaduto che la tendenza a confondere l’essere col pensiero e a intendere l’essere in senso univoco è come un fiume carsico sotterraneo, che ogni tanto emerge nella storia della filosofia.

Due casi eminenti nel Medioevo sono quelli di Sant’Anselmo e San Bonaventura. Come cristiani erano ben convinti dell’esternità delle cose e della realtà, create da Dio, rispetto alle loro idee. E sapevano bene che non esiste un unico ente, che non esiste solo l’essere assoluto, ma esistono molti enti, diversi l’uno dall’altro e che Dio è distinto dal mondo.

Eppure, mentre Anselmo pensò di poter dimostrare l’esistenza di Dio, somma Realtà, non partendo dagli effetti reali creati, ma partendo dalla sua idea di Dio, Bonaventura aveva un’idea dell’essere, che egli chiamava «puro essere»[1], per la quale credeva di poter dimostrare che Dio esiste semplicemente esplicitando fino alle estreme conseguenze il contenuto di questa idea, sicchè alla, fine, senza accorgersene, identifica Dio come Atto puro d’essere, quindi Essere puro in questo senso, con la sua idea del puro essere, che non è altro che un’astrazione somma, che, pur contenendo tutto, prescinde da tutto. Non è altro che il concetto o quadro logico astrattissimo ed universalissimo dell’ente comune, che non c’entra con il concetto realistico di essere come atto d’essere, che è quell’essere per il quale Dio è l’ipsum Esse per se subsistens. Il puro essere logico, non essendo reale, non può essere un ente personale come è Dio.

Ma è possibile che mentre Anselmo non intendeva provare in base alla realtà che Dio esiste, ma semplicemente riflettere sul fatto che se Dio è l’id quo nihil maius cogitari potest, non può non esistere, Bonaventura si sia espresso male e intendesse proprio quello che intendeva Tommaso con l’ipsum Esse.

Ma a parte questi precedenti storici, resta comunque che l’idealismo cartesiano, ben lungi dall’essere, come Cartesio vorrebbe presentarsi, una radicale rifondazione della filosofia su nuove  basi capaci di fornire una certezza fino ad allora cercata invano, è in realtà l’esito finale fallimentare di un precedente processo di decadenza e simultaneamente è tracotante punto di partenza di un cammino filosofico che, condotto fino alla fine, porterà alla catastrofe del pensiero e della civiltà, come hanno dimostrato le due guerre mondiali del secolo scorso e, visto che non ci siamo ancora liberati da questa filosofia deleteria, oggi corriamo il rischio di una terza ed ultima guerra mondiale; non solo ma ci stiamo avviando ad iter catastrofico che può condurre ad una crisi ancora peggiore di quella della quale Cartesio segna il culmine.

Già infatti dal Medioevo registriamo una serie di tesi gnoseologico-metafisiche, che gradualmente si allontanano dal realismo tomista, dando una sempre maggiore importanza all’idea o al concetto, che tende a sostituire il reale, corrispettivamente a una progressiva perdita di vista dell’importanza primaria del reale, che tende ad essere ridotto all’ideale o al concettuale.

Dopo la poderosa sintesi tomista, di senso ed intelletto, di essenza ed essere, di universale e singolare, di astratto e concreto, di uno e molteplice, di possibile ed attuale, di reale ed ideale, non certo i discepoli dell’Aquinate, che si mantengono fedeli fino ai nostri giorni, incoraggiati dal Magistero della Chiesa, ma alcuni filosofi non sono più capaci di comprendere l’elevatezza, l’universalità, il radicalismo e la duttilità del realismo tomista, perdono di vista la sua concezione analogica  dell’ente, la distinzione reale fra essenza ed essere, e separano ciò che Tommaso aveva sapientemente unito: da una parte, con Scoto, si lasciano troppo attrarre dall’importanza dell’operare della mente nel produrre il concetto e dall’altra, con Ockham, restringono l’orizzonte dell’intelletto al sensibile, intendendo la metafisica non come scienza dell’ente universale o comune, ma come intuizione sperimentale di questo singolo ente presente al senso o che appare al senso.

La decadenza della metafisica dopo il vertice tomista comporta anche la perdita del senso dell’essere (esse), così come Tommaso lo aveva definito: non semplice affermazione di esistenza, predicabile univocamente di tutto ciò che può esistere, ma atto, energia, perfezione e compimento dell’essenza secondo diversi gradi di perfezione, come già Platone aveva intuito con la dottrina della partecipazione, in modo tale che l’essere va soggetto a diversi gradi, dove il massimo è quello divino. Per questo la Bibbia chiama Dio l’«Altissimo»[2].

Una cosa esiste o non esiste. Anche all’essere, certamente, si oppone il non-essere. Tuttavia il male esiste, ma è privazione di essere. Il nulla è non-essere, ma se sappiamo che cosa è, vuol dire che in qualche modo, come idea, esiste. Le idee esistono, ma non hanno l’essere. L’essenza delle cose esiste in Dio, ma di per sé non ha ancora l’essere, se Dio non glie lo dà. Il non-esistere è certo non-essere. Ma non-essere non dice necessariamente non-esistere.

L’idea esiste, ma non ha essere, cioè non è il reale. Se qualcosa è, vuol dire che esiste. Viceversa, qualcosa può esistere, come il possibile, senza avere l’essere nella realtà. Dunque il pieno realismo non si accontenta del semplice possibile, dell’ideale, dell’essenza e dell’esistere, ma punta all’essere, perché è qui il vero reale.

Ecco perché la decadenza della metafisica comporta che il pensare, inteso come semplice produrre idee o formare concetti, tende a separarsi dal reale e a chiudersi in se stesso. Il concettualizzare viene preferito all’intuire il reale. Si preferisce un concetto più perfetto, cioè univoco, a uno più perspicuo, benché imperfetto, qual è quello analogico.

Sembra che l’oggetto del sapere e della metafisica sia non tanto il reale esterno, quanto piuttosto ciò che l’intelletto forma in se stesso del reale conosciuto, quello che Suarez chiamerà conceptus obiectivus, e al quale Cartesio darà tanta importanza da ontologizzarlo, così da considerarlo un effetto nella mente dell’azione in essa delle cose esterne. Per cui Cartesio pensa di poter dimostrare che «non è solo», ma oltre a lui esistono altre cose perché esse causano nella sua mente la «realtà oggettiva delle idee» (cf il conceptus obiectivus), ossia le idee delle cose[3].

La decadenza della gnoseologia e per conseguenza della metafisica comincia con Duns Scoto, il quale non capisce che cosa è il concetto analogo[4], del quale parla San Tommaso e non capisce neppure che bisogno ci sia di aggiungere l’essere all’essenza, quando questa ce l’ha già per conto suo[5].

Questa tesi sarà accolta e fatta propria da Suarez, il quale cercherà di rimettere assieme i due tronconi della metafisica, quello essenzialista e quello esistenzialista, quello razionalista e quello empirista, spezzata in due dal concettualismo di Scoto e dal nominalismo di Ockham, senza però riuscirvi, perché egli, come nota argutamente il Garrigou-Lagrange[6], non riuscendo a recuperare la sintesi tomista, ora sta con Scoto contro Ockham, ora sta con Ockham contro Scoto.

Quanto a Scoto, egli esige dal concetto metafisico una perfezione che esso può avere solo in matematica o in logica o nella fisica. Egli è mosso in metafisica da un bisogno esagerato di precisione, comprensione, semplicità, chiarezza ed univocità. L’ente finito e l’ente infinito non si aggiungono all’ente come le differenze si aggiungono al genere, perché al di fuori dell’ente non c’è niente; non c’è nulla da aggiungere all’ente, perché esso è tutto ed ogni cosa.

È la stessa nozione di ente che analogicamente si può predicare della creatura e del Creatore, data la somiglianza e diversità dell’una dall’Altro. Dio e la creatura non differiscono per qualcosa di esterno all’essere, che si aggiunga all’essere, ma differiscono nello stesso essere.

Come è stato dimostrato dal Gilson, Scoto è influenzato dalla nozione avicenniana dell’essenza come indifferente alla singolarità esistenziale e all’universalità logica e ad esse precedente. Così succede che l’oggetto della metafisica per Scoto è l’ente inteso come essenza indipendentemente dall’esistenza e quindi a prescindere dal suo essere reale.

Ora, siccome l’oggetto del nostro intelletto è l’essenza dell’ente, afferrata nel concetto, si vede subito come in Scoto il concetto dell’ente balza in primo piano, assume in lui un’eccessiva importanza rispetto allo sguardo realista volto all’ente reale. Da ciò viene che l’intelletto si concentra sull’essenza, la quale diventa più importante dell’essere. Il possibile appare più esteso dell’attuale. Vien meno la percezione dell’atto d’essere come perfezione dell’essenza, potenza di essere. Ora, siccome l’atto d’essere è analogico e diversificato, mentre l’essenza è univoca e sempre la stessa, ecco che il concetto dell’ente non è più analogico, ma univoco.

Scoto riconosce bensì l’analogia e la diversità tra gli enti reali, ma, legato com’è all’essenzialismo avicenniano, non vede come si possa avere un concetto analogico dell’ente, perché ciò secondo lui creerebbe equivocità e confusione.  La cosa è comprensibile se ci fissiamo come fa lui solo sull’essenza dell’ente.

Ma se consideriamo che ogni ente reale è diverso dall’altro, per poter concepire questo fatto occorre una nozione analogica, purificata o pluriforme, che ammetta e riconosca implicitamente seppur confusamente questa diversificazione. Occorre una ragione non rigida ma duttile, aperta ed ampia, che sappia navigare nella diversità dell’essere pur mantenendo un’unità concettuale imperfetta. Il termine anà in greco significa proprio questo spostarsi dell’intelletto per poter seguire la pluralità, complessità e scalarità del reale.

Invece una nozione univoca generica lascia fuori le differenze e le diversità col risultato che esse escono dall’essere e diventano un nulla. Qualcosa del genere era presente nella nozione parmenidea dell’essere e non è escluso che Avicenna abbia preso da lì. Egli come musulmano era legato alla nozione dell’unità divina che suppone un concetto dell’essere che escluda ogni pluralità, da cui il rifiuto coranico della Trinità in Dio.

Tommaso distingue un’essenza reale da un essere reale di questa essenza, che è il suo atto d’essere, che Dio le dona se la crea. La prima è l’essenza come potenza di essere fuori di Dio; il secondo è l’atto d’essere dell’essenza. L’essenza è quindi realmente distinta dal suo atto d’essere, perché lo ha, se è creata; non l’ha se non è creata, restando essenza realmente possibile. Senza l’atto d’essere, l’essenza non esiste fuori Dio, ma esiste in Dio identica a Dio.

Mentre Tommaso parla di ente reale come composto di essenza ed essere, Suarez, nella linea di Scoto, parlerà di essenza possibile ed essenza reale. Mentre per Tommaso il reale è il composto di essenza-potenza ed essere-atto, per Suarez il reale è semplicemente l’essenza attuale. Non appare un atto d’essere che la perfezioni e quindi l’essere non sembra colto. Pare che sia colta solo l’essenza a spese dell’essere. L’essenza è colta nel concetto, la realtà viene a prendere le distanze dal concetto. Si prepara il problema cartesiano di come e se è possibile, essendo in possesso dell’idea. raggiungere il reale.

Scoto sembra non rendersi conto che in metafisica ciò che conta è cogliere concettualmente l’ente, non importa se questo concetto è impreciso, confuso, indeterminato, non del tutto uno, complicato. Esso è comunque certo e verace. Di più non possiamo ottenere e perciò ci deve bastare e dobbiamo accontentarcene. Voler semplificare, precisare o unificare non ci avvicina meglio all’ente, ma ce lo fa vedere peggio, sicchè invece di vedere l’ente, vediamo il nostro misero concetto dell’ente. È come se tentiamo ci accendere i fari dell’auto nella nebbia, nella speranza di vederci meglio e invece ci vediamo peggio.

Dobbiamo accettare questa imperfezione del concetto. Altrimenti succede che invece di cogliere il reale, ossia l’ente o la cosa così com’è, lo ospitiamo nella nostra mente sì in un bell’alloggio, ma troppo stretto per le sue dimensioni infinite.

Invece il concetto analogo, mentre da una parte ha una certa unità e coerenza sufficiente ad evitare l’equivoco, grazie alla sua sconfinata potenziale diversificazione e pluriformità interna, è capace di raggiungere, ospitare e rappresentare veracemente benché imperfettamente tutto ed ogni cosa, reale o possibile, sia Dio che la creatura.

Mancando questo concetto, che può succedere? Che non si riesce più a concepire l’ente in quanto ente, nella sua unità proporzionale ed diversificata, ma lo si scambia con l’ente comune.

Si tratta qui di carenze o errori gnoseologici o metafisici, che non suppongono nessuna superbia, ma che anzi riscontriamo in menti elette, anche di santa vita, a significare che l’idealismo è fatto anche di errori o equivoci teoretici involontari e comprensibili in un campo di indagine, qual è l’attività dell’intelletto, che è di assai difficile comprensione.

Così una interferenza del logico nell’ontologico si nota nel concetto univoco dell’ente del Beato Duns Scoto; una sostituzione del linguaggio all’ente nella metafisica di Ockham; l’idea come primum cognitum e non l’ente sensibile in Cartesio; il conceptus obiectivus, l’oggetto di concetto e non l’ente in Suarez come oggetto del sapere; l’idea dell’essere e non l’ente come oggetto dell’intelletto in Rosmini.

Guglielmo di Ockham percepisce il fatto che l’esistente è l’ente singolo, ma non riesce a passare dal concreto all’astratto. L’ente universale per lui non esiste, ma esiste solo il singolare sperimentale. Quindi per lui la metafisica non ha per oggetto l’ente universale, ma semplicemente la parola ente come termine che sta per (suppositio) l’ente esistente singolo. Quindi per lui questo ente empirico è l’ente. Ockham traduce nel singolo dato empirico l’ecceità di Scoto, mettendo il senso al posto dell’intelletto.

Per Ockham l’intelletto non ha bisogno di alcuna species, di alcun concetto, di alcuna idea, di alcun ente mentale prodotto dall’intelletto per conoscere il reale fuori dell’intelletto, ma basta che intuisca direttamente il singolo ente presente sperimentalmente. Dio certamente non è un ente fisicamente sperimentabile, ma non è neppure solo intellegibile. Deve piuttosto essere oggetto dell’immaginazione per poter avere un aggancio col reale, che è l’ente singolo sensibile.

Per Ockham non esiste l’ente, ma esistono solo gli enti. Il molteplice esiste da sé e di per sé, senza bisogno di essere unificato se non dal nome comune che lo designa e che suppone per esso; ma non esiste un unum in multis, un universale. L’uno non è l’ente uno, ma solo il numero uno. Dio è uno non nel senso che sia l’unico ente ad esistere per essenza, ma solo nel senso che è uno di numero.

Resta tuttavia per lui l’esistenza del linguaggio metafisico, per cui rimane l’esigenza di organizzare e regolare la logica del linguaggio, benché il contenuto non sia il concetto dell’ente, ma la parola ente. In ogni caso deve trattarsi di ente sensibile, perché nulla esiste per lui, che non sia verificabile sperimentalmente. Si preannuncia già il principio di Berkeley: esse est percipi, non esiste nulla che non sia oggetto dei sensi. Berkeley credeva col suo assioma di escludere la materia, invece vi è sommerso fino al collo.

Il concetto per lui è un fingimento mentale relativo a un nome comune che designa un gruppo di enti simili fra di loro. Così la differenza fra l’uomo e l’animale non è una differenza che metta in gioco due nozioni astratte ed universali oggettive: il genere animale e la differenza razionale, ma è un dato empirico contingente e mutevole designato con un nome convenzionale «razionale».

Per Ockham potrebbe esistere un uomo senza ragione – pensiamo agli attuali robot - e un animale parlante.  Egli non avrebbe alcuna difficoltà ad accettare la teoria di Darwin della trasformazione della scimmia nell’uomo. Oppure per lui potrebbe esistere un ente intelligente, ma fisicamente diverso da come conosciamo l’uomo – pensiamo alla teoria degli extraterrestri -.

Egli è altresì il lontano precursore dei cartoni animati di Walt Disney. Così per lui Dio non è un puro spirito, ma è il grandioso, venerabile e temibile «Vegliardo» (lett. «l’anziano o Antico dei giorni») descritto da Daniele (7,9). La Santissima Trinità non è data affatto da tre «relazioni sussistenti», ma significa un trio di persone come noi, unite dall’amore reciproco. Gesù Cristo non è Dio inteso come spirito infinito, ma in quanto è un uomo di straordinaria bontà, quale come lui non ce n’è nessun altro.

Ockham non riesce a cogliere e concepire l’ente puramente intellegibile, oggetto proprio della metafisica e quindi a farsi un’idea dello spirito. Il suo Dio non è l’Essere sussistente, l’Io Sono, ma è un personaggio immaginario, volubile e amante del paradosso, che provvede al mondo a capriccio, senza tenere alcun conto delle certezze umane, che secondo lui sono smentite dalla libertà divina. La morale è una semplice convenzione («patto») voluta da Dio che, se volesse, potrebbe stabilire tutto il contrario. Non esistono quindi obblighi etici assoluti, ma come Dio è libero di mutare volontà, così ognuno è libero di comportarsi come meglio crede. Lutero crederà che questo sia il Dio biblico, con tutte le conseguenze che discendono da una simile concezione di Dio.

Ockham accentua ed esaspera il volontarismo scotista per il fatto che se almeno Scoto lo modera con la dottrina dell’universale, che fonda l’universalità della legge morale, Ockham, togliendo all’universalità la regola della verità speculativa, abbandona la questione della verità nelle mani di una volontà divina la cui libertà sostituisce la necessità intellegibile, sicchè crolla anche il principio di non-contraddizione e la nozione dell’ente passa dall’estremo dell’univocità scotista all’estremo opposto dell’equivocità.

Così si spiega l’irrazionalismo luterano, per il quale la fede non conferma la ragione, ma la distrugge. Così si spiega l’assurdo di un Dio che salva chi non si pente e manda all’inferno chi si sente innocente. L’equivocità dell’ente è fonte altresì di una conflittualità permanente nel campo del pensiero e dell’agire personale e sociale, come dimostra la stria delle sette protestanti da allora ad oggi e la tragedia immane delle guerre di religione dei secc. XVI-XVII.

Con Lutero appaiono chiaramente in modo tragico le conseguenze nel campo della teologia, della morale e della fede delle idee di Ockham, del quale Lutero si dichiara discepolo. Nello scontro tra Lutero e il tomista Card. Gaetano, due cristiani che pure avrebbero dovuto essere affratellati dalla fede, abbiamo le due figure paradigmatiche, le immagini simboliche del conflitto fra Ockham e San Tommaso e la dimostrazione palmare dell’impossibilità di conciliare tomismo ed occamismo, la metafisica con la stoltezza, il realismo con l’empirismo, la spiritualità col materialismo.

Ma ecco che nel clima di ritrovata unità all’interno della Chiesa grazie all’opera grandiosa della riforma tridentina, dopo la chiassosa uscita dei luterani, assistiamo al dolorosissimo fenomeno delle guerre fra cattolici e protestanti che giungerà fino alla pace di Westfalia del 1648.

Ma almeno all’interno della Chiesa cattolica la filosofia scolastica si ricompatta attorno alla fede comune, si afferma l’autorità di San Tommaso, e nel contempo i Gesuiti nati all’ombra del Concilio e con l’entusiasmo dei cavalieri della fede, lanciano il loro maestro, Francesco Suarez, che si aggiunge a quello dei domenicani San Tommaso e quello dei francescani Duns Scoto. Resta l’influsso di Ockham, che è alle origini della teologia di Lutero.

Suarez si lancia in un’impresa grandiosa e forse troppo ambiziosa; quella di accordare con un lavoro immane, le disiecta membra della filosofia scolastica decaduta, per avviare quella che sarà chiamata la secoda Scolastica Ma ecco che Suarez tenta un accordo fra i tre maestri Tommaso, Scoto ed Ockham.

Suarez oscilla fra Tommaso, Scoto ed Ockham. Attento all’Aquinate, ma incapace, come gli altri tomisti, di essere suo vero e fedele discepolo e forse con una punta di presunzione, tenta di accordare con Tommaso i suoi avversari come Scoto ed Ockham; ma, fallendo nella comprensione dell’esse tomistico, finisce da una parte per declinare verso Scoto col risolvere l’ente nell’essenza dando più importanza all’essenza che all’esistenza; e dal’altra parte propende per Ockham, quando, togliendo realtà all’essenza, punta sull’esistenza singola, sostenendo che l’ente non è che un possibile realizzato.

Così per Suarez come per Ockham l’essenza non è una realtà, una cosa, ma una semplice possibilità, un pensabile, il conceptus obiectivus, non interessa che essa esista o non esista fuori di noi e fuori di Dio o, come dice Suarez, «fuori delle sue cause». Dice egli infatti:

«L’essenza della creatura, cioè la creatura per se stessa e prima di essere prodotta da Dio, non possiede per se stessa nessun essere reale e in tal senso, se prescindiamo dall’essere dell’esistenza (esse existentiae), l’essenza non è nessuna realtà, bensì è assolutamente niente[7]».

Ciò non gli impedisce per altro verso di considerare reale l’essenza prima di essere creata. Ma ecco subito spuntare lo Suarez scotista per cui afferma:

«Si chiama reale questa essenza, persino prima di essere prodotta, non perché possiede in se stessa una vera e propria attualità, bensì perché può diventare reale ricevendo dalla sua Causa divina una vera entità. Questa possibilità esprime soltanto, da parte dell’essenza, la non ripugnanza ad essere prodotta; invece da parte della Causa estrinseca significa la virtù di produrla» (ibid.,2,2).

 Egli in tal modo non distingue essenza ed essere come potenza ed atto, ma solo come possibile ed esistente. Suarez fa largo uso della coppia «possibilità»- «esistenza» con la quale tende a sostituire la distinzione tomista fra essentia ed esse e siccome dà all’esistere il significato della semplice negazione del nulla, ecco che per Suarez il possibile diventa ente più ampio e più ente dell’attuale, che non aggiunge nulla al possibile, ma semmai lo restringe, benché ricnosca che è per la potenza divina che il possibile è creato, ossia passa dalla possiblità all’attualità.

Tuttavia per Suarez «l’ente in atto e l’ente in potenza si distinguono come l’ente e il non ente in senso assoluto» (ibid, 3,1), perché l’essenza non ha realtà, è solo un possibile. Reale è quella che egli chiama «essenza reale», ossia attuata da Dio. fuori di Lui. Ma c’è da chiedersi quanto anche l’esistenza per Suarez abbia realtà, se è vero, come egli afferma, che essa, nell’atto di essere creata, non aggiunge nuova realtà all’essenza, ma è la semplice attuazione dell’essenza cime possibilità. Per questo per Suarez la distinzione fra essenza ed esistenza non è reale, ma solo di ragione, perché «non si tratta di due realtà, ma di una sola, la quale è considerata e comparata dall’intelletto come se fossero due» (ibid.).

L’essere per Suarez non aggiunge nulla di reale, nessuna perfezione o compimento reale alla realtà dell’essenza, come in Tommaso, ma è solo l’essenza realizzata «fuori delle sue cause», ossia in quanto creatura esistente fuori di Dio. Qui del realismo tomista dell’essenza e dell’essere non c’è nulla, ma fanno la loro comparsa Ockham insieme con Scoto, giacchè abbiamo da una parte l’essenza scotistica senza l’atto d’essere; e dall’altra il mero individuo possibile figmentum mentis secondo il modo di vedere di Ockham.

Il realismo dunque si illanguidisce e appare davanti agli occhi della mente un conceptus obiectivus, un oggetto interiore, prodotto dalla mente, l’essenza univoca, chiara e distinta, che tende ad attirare a sé tutta l’attenzione a scapito della realtà esterna, che è la vera realtà effetto della potenza creatrice divina.

È vero, per Suarez il conceptus obiectivus è ancora la rappresentazione della cosa, della realtà esterna. Ma soppresso l’interesse per l’actus essendi, per l’esse come atto del poter-essere-tale, atto dell’essenza, quanto potrà restare la certezza della realtà esterna? O forse che tutto l’oggetto del conoscere diventerà il conceptus obiectivus eretto ai fastigi dell’Idea assoluta o del Concetto hegeliano?

Da quali princìpi nasce l’idealismo

L’idealismo che si oppone al realismo non è quello di Platone, ma quello di Cartesio. L’idea platonica è sì nella mente, ma è visione sublime e certissima di somma, universale, eterna e perfetta realtà, sorgente e criterio di verità e di valutazione, luce e sommo bene dell’intelletto e stimolo entusiasmante all’amore pratico e contemplativo.

Le idee invece delle quali parla Cartesio, nel suo interrogarsi sulla questione del fondamento del sapere e della certezza, sono le sue idee, le idee che ha in mente, prodotte da lui. Egli parte dalla convinzione di per sé falsa, che non le cose sensibili, ma queste idee siano l’oggetto immediato del suo intelletto.

Oltre a ciò esprime la convinzione assolutamente immotivata che sia un «inganno» il credere che «vi siano delle cose fuori di me, donde procedono quelle idee e alle quali esse sono del tutto simili»[8]. Nasce così il falso problema se esistono veramente e come dimostrare che esistono quelle cose, che le idee sembrano rappresentare, se esse le rappresentano veramente e come fare per sapere ciò se queste supposte cose stanno al di fuori e io non posso raggiungerle se non per mezzo di queste idee.

Come fidarsi di queste idee? Come fare per raggiungere queste cose e per verificare se le idee vi corrispondono? Come raggiungere la realtà? Questo pasticcio nel quale Cartesio si caccia e che vorrebbe far passare per acume critico, ci fa capire chiaramente che egli non sa per nulla, nonostante gli studi filosofici compiuti[9],  come mai e perchè nella nostra mente abbiamo delle idee.

Egli evidentemente non sapeva che noi affermiamo l’esistenza delle idee non per chiederci come e se per esse possiamo raggiungere cose esterne. Il problema vero della conoscenza è completamente diverso: siccome ci accorgiamo di conoscere le cose e di averle in mente mediante le idee, per spiegare questo fatto, ammettiamo la produzione da parte del nostro intelletto, di rappresentazioni mentali delle cose, che chiamiamo idee o concetti.

Lo studio delle idee, la gnoseologia, quindi, non serve per sapere come e se possiamo raggiungere le cose, ma serve solo alla logica, allo scopo di ordinare concetti e giudizi, ossia queste idee, al fine di ragionare correttamente e veracemente nelle nostre affermazioni e dimostrazioni del sapere razionale. 

Noi siamo coscienti e certi di conoscere le cose fuori di noi. Il problema non è se esistono cose fuori di noi. Questo è del tutto evidente per una persona sana e lucida di mente. Non c’è da avere alcun dubbio e tanto meno c’è motivo per sostenere che ci sbagliamo.

Il problema critico del valore del sapere è semmai sapere come ciò avvenga. Ed allora che si elabora la dottrina delle idee. Ma che cosa c’è alla base di tutto il distorto discorso di Cartesio? Troviamo un sincero desiderio di verità? C’è un attenersi all’evidenza? O si vuol dubitare per forza di ciò che è indubitabile? E perché questo? A che pro? A qual fine? Con quali risultati?

Come a Cartesio è venuta in mente un’idea così aberrante?

L’idealismo cartesiano non nasce da un sincero desiderio di verità, ma, come ha notato Padre Fabro, da una decisione della volontà. Il cogito, dice Fabro, è un volo.  Non si tratta in Cartesio di un atto necessitato dalla realtà, ma di un volere che il reale sia così come si vuole che sia. La realtà non è ciò che mi sta davanti, l’ob-jectum, ma è ciò che io voglio che sia.

L’idealismo è così legato al volontarismo. L’intelletto da solo non è sufficiente a stabilire la verità. Occorre l’apporto della volontà. La volontà completa l’opera dell’intelletto. Senza il contributo della volontà, l’intelletto non saprebbe cogliere il vero. Ora qui bisogna che c’intendiamo. Se con ciò s’intende dire che non possiamo cogliere la verità se non perché spinti dalla volontà, ciò è certamente vero.

Ma se intendiamo dire che l’atto stesso del conoscere o del cogliere il vero è, almeno parzialmente, atto del volere, questo è falso. Infatti la volontà vuole ciò che l’intelletto ha apprese con le sue proprie ed insostituibili forze, ha accolto come vero. D’altra parte, la volontà non si muove se non verso un fine precedentemente conosciuto. Nessuna conoscenza, nessuna volontà. Non può quindi essa da sé, indipendentemente dall’intelletto, determinare il fine voluto.

Il volontarismo è invece è il principio dell’idealismo cartesiano, che condurrà all’idealismo tedesco. Di ciò esiste già un inizio nel modo col quale Duns Scoto concepisce la volontà divina[10]. Nell’idealismo platonico, viceversa, io mi adeguo all’idea che mi trascende come realtà e non pongo come fa Cartesio la mia idea, prodotta da me, come principio di realtà. C’è qui sempre in gioco l’idea come pensiero, solo che nel caso di Platone, questo pensiero è divino e sussistente, regola del reale e del nostro pensiero, mentre nell’idealismo che sorgerà da Cartesio è la mia idea che vuol essere principio dell’essere e del reale.

Il volontarismo di Nietzsche si può considerare come un’espansione moderna del volontarismo cartesiano. Come fa notare Heidegger[11], esso si esprime nella metafisica propria di Nietzsche, per la quale l’essere  è la «volontà di potenza».

L’atteggiamento di Cartesio nasce da un fattore spirituale che non fà capo all’intelligenza, ma alla volontà, anche se in seguito indubbiamente in molti casi di idealisti ciò che avrebbe giocato sarebbe stato un grave difetto d’intelligenza, causato da fattori inconsci o involontari, dettati da limiti mentali o da influsso dell’immaginazione. Non è del tutto da escludersi l’influsso del demonio, così come ci mette in guardia San Paolo (I Tm 4,1).

Da che cosa nasce infatti il dubitare dell’evidenza? O il giudicare errore ciò che si mostra evidente? Da cosa può nascere se non da un’inimicizia nei confronti della verità? Di che si tratta, allora, se non di impugnazione della verità conosciuta? E quale verità è meglio conosciuta della verità evidente?

È scusato chi non conosce una verità e la scambia per un’altra, ma non chi la vede in faccia e la respinge. Ciò non nasce dall’umiltà, non nasce da un intelletto che fallisce involontariamente allo scopo; non nasce da un malinteso o da un fraintendimento involontario, ma da una precisa intenzione della volontà che non vuole assoggettarsi al reale; nasce dalla superbia. Nasce dal rifiuto di sottomettere il proprio intelletto alla realtà creata da Dio. Non accetta nessuna realtà esterna, indipendente dall’io, ma tutto il reale dev’essere dedotto dall’io, fondato sull’io e proveniente dall’io, a favore dell’io, il famoso cogito cartesiano.

Io vorrei chiedere a Cartesio: come sai che erriamo nel prendere le idee come rappresentazioni della realtà, se non fai riferimento a quella realtà che sola ti può dire che sbagli? Allora, come fai a dubitare o addirittura a ignorare quella realtà alla quale necessariamente devi fare riferimento per dire che sbagliamo nel credere di conoscere la realtà così com’è? Cartesio con la sua tesi assurda nega il principio, ossia quella realtà che presuppone per dar valore a quanto afferma.

Fine Terza Parte (3/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 5 dicembre 2022

La decadenza della metafisica comporta che il pensare, inteso come semplice produrre idee o formare concetti, tende a separarsi dal reale e a chiudersi in se stesso. Il concettualizzare viene preferito all’intuire il reale. Si preferisce un concetto più perfetto, cioè univoco, a uno più perspicuo, benché imperfetto, qual è quello analogico.

In metafisica ciò che conta è cogliere concettualmente l’ente, non importa se questo concetto è impreciso, confuso, indeterminato, non del tutto uno, complicato. Esso è comunque certo e verace. Di più non possiamo ottenere e perciò ci deve bastare e dobbiamo accontentarcene. Voler semplificare, precisare o unificare non ci avvicina meglio all’ente, ma ce lo fa vedere peggio, sicchè invece di vedere l’ente, vediamo il nostro misero concetto dell’ente. È come quando tentiamo ci accendere i fari dell’auto nella nebbia, nella speranza di vederci meglio, e invece ci vediamo peggio.

Dobbiamo accettare questa imperfezione del concetto. Altrimenti succede che invece di cogliere il reale, ossia l’ente o la cosa così com’è, lo ospitiamo nella nostra mente sì in un bell’alloggio, ma troppo stretto per le sue dimensioni infinite.

 

Invece il concetto analogo, mentre da una parte ha una certa unità e coerenza sufficiente ad evitare l’equivoco, grazie alla sua sconfinata potenziale diversificazione e pluriformità interna, è capace di raggiungere, ospitare e rappresentare veracemente benché imperfettamente tutto ed ogni cosa, reale o possibile, sia Dio che la creatura.

Mancando questo concetto, che può succedere? Che non si riesce più a concepire l’ente in quanto ente, nella sua unità proporzionale ed diversificata, ma lo si scambia con l’ente comune.

Si tratta qui di carenze o errori gnoseologici o metafisici, che non suppongono nessuna superbia, ma che anzi riscontriamo in menti elette, anche di santa vita, a significare che l’idealismo è fatto anche di errori o equivoci teoretici involontari e comprensibili in un campo di indagine, qual è l’attività dell’intelletto, che è di assai difficile comprensione.

Immagini da Internet


[1] Itinerario della mente a Dio, Edizioni Patron, Bologna 1969, c. V.

[2] Cf l’opera magistrale di Cornelio Fabro La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino, SEI, Torino 1950.

[3] Meditazioni metafisiche, III med., Edizioni Laterza, Bari, pp.100-104.

[4] Benchè la Scrittura dica chiaramente che Dio può essere conosciuto solo per analogia con le creature (Sap 13,5), mentre il Genesi insegna che l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, per cui l’essere umano è diverso, è solo analogo e non identico o uguale all’essere divino.

[5] «Non capio quod aliquid sit extra causam quin habeat esse proprium» (Opus oxon., IV, 43, 1,7). Si deve rispondere che l’essenza creata, distinta dalla causa divina che la crea certamente ha un proprio essere, quanto meno possibile, altrimenti sarebbe nulla.  Ma il punto è che in quanto creata, dovrà ben ricevere l’essere da Dio, se deve esistere fuori di Dio. Il che vuol dire che se avesse l’essere da sé, sarebbe Dio, perché solo Dio è il suo essere. L’essenza finita in Dio è Dio stesso, ma per esistere fuori di Dio, Dio le aggiunge l’essere, se no, non esisterebbe. Dunque l’essenza creata o creabile non dice affatto di per sé possesso dell’essere reale. E quindi l’essere è realmente distinto dall’essenza, non però come cosa da cosa, ma come atto d’essere (esse ut actus) dal poter-essere, che non è la differenza fra possibile e attuale (esse in actu), perché qui è la cosa stessa, è la realtà essenziale in Dio identica a Dio, ideata da Dio, che passa dalla possibilità-creabilità all’esser creata-attualità, ossia acquista l’atto d’essere fuori di Dio e diventa ente reale composto di essenza ed essere.

[6]Dieu. Son existence et sa nature, Beauchesne, Paris 1950, p. 584.

[7] Disp. Met., 31,2, 1.

[8] Meditazioni metafisiche, Edizioni Laterza, Bari 1968, p.95.

[9] C’è da chiedersi che cosa aveva imparato Cartesio in uno dei più importanti collegi filosofici d’Europa tenuto dai Gesuiti, se dimostra di porsi domande così stolte. Tuttavia, l’ipotesi di Gilson che egli avesse mal digerito la concezione suareziana del conoscere è assai probabile.

[10] Cf Battista Mondin, Ontologia metafisica, Edizioni ESD, Bologna 1999, p.44.

[11] Nietzsche, Edizioni Adelphi, Milano 2013.

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